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SANT’AGOSTINO – PREGHIERE DA « LE CONFESSIONI », PARTE PRIMA: IL GRIDO DELL’ANIMA

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_conf_index.htm

- sono 5 parti, metto le prime due, l’indirizzo webe per tutte è:

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SANT’AGOSTINO, PREGHIERE DA « LE CONFESSIONI »

PARTE PRIMA

IL GRIDO DELL’ANIMA

Come invocare Dio?
Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come chiedere, se prima nessuno dà l’annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).

Perché invocare Dio?
Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C’è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch’io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora negli inferi sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all’inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque ti invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: « Cielo e terra io colmo? » (1, 2, 2).

Cosa sei, Dio mio?
Cosa sei dunque, Dio mio? Cos’altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all’infuori del Signore, chi Dio all’infuori del nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla.
Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri ( 1, 4, 4)

Tu sei la mia salvezza!
Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l’assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l’oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo ( 1, 5, 5)

La mia anima è la tua casa
Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: « purificami, Signore dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri »? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s’inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà? (1, 5, 6).

Signore, che io ti ami fortissimamente
Ascolta, Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).

Grazie, Signore, per i tuoi doni!
Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell’universo, a te Dio nostro grazie anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere, immagine della misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l’istinto interiore sulla preservazione dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, mi intenerivo all’amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l’ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).

O mia gioia tardiva!
Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza (2, 2, 2).

Tu sei sempre vicino
Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te (2, 2, 3).

Signore, che dài per maestro il dolore
Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l’avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te (2, 2, 4).

Ti amerò, Signore!
Come rimunerare il Signore del fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne è turbata? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò il tuo nome, poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati: e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso (2, 7, 15).

Voglio te
Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un’insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entro nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria (2, 10, 18).

Dio mio, sconfinata misericordia mia!
Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell’abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti. E tu frattanto non cessavi di flagellarmi. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali? Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso (3, 3, 5).

O Verità, Verità!
O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz’altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l’anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell’anima mia (3, 6, 10).

Cosa sono io senza di te?
Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l’uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te (4, 1, 1).

Ascolta il mio pianto
Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l’orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall’amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te; ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell’amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite? (4, 5, 10).

Dio, speranza mia
Eccolo il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza mia, tu che mi purifichi dall’impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei piedi (4, 6 ,11).

Dio delle virtù, volgiti a me
Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L’animo dell’uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono… Ti lodi per quelle cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall’amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).

Ascolta, anima mia…
Non essere vana, anima mia, non assordare l’orecchio del cuore nel tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l’amore non conosce abbandoni, se lui per primo non abbandona. Qui invece lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l’universo inferiore nella sua interezza. « Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte? ». Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d’inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole (4, 11, 16).

Amiamolo, amiamolo!
Se ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch’esse, ma in lui si Fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di’ loro: « Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov’è? Dove si assapora la verità? E’ nell’intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è 11, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita? (4, 12, 18).

Fino a quando questo peso nel cuore?
Discese nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l’uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l’ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. « Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell’ascendere contro Dio ». Di’ loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t’ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità (4, 12, 19).

O dolce verità!
Pure tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell’atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla voce dello Sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate (4, 15, 27).

Tu, ci proteggi e ci sorreggi
O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell’avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).

PREGHIERE DALLE CONFESSIONI – PARTE SECONDA: VERSO L’APPRODO

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SANT’AGOSTINO: PREGHIERE DALLE CONFESSIONI

PARTE SECONDA

VERSO L’APPRODO

Il canto della lode

Accetta l’olocausto delle mie confessioni dalla mano della mia lingua, formata e sollecitata da te alla confessione del tuo nome. Risana tutte le mie ossa, e ti dicano: « Signore, chi simile a te? ». Chi a te si confessa non ti rende nota la sua intima storia, poiché un cuore chiuso non esclude da sé il tuo occhio, né la durezza degli uomini respinge la tua mano, bensì tu la stemperi a tuo piacere, con la pietà o la punizione; e nessuno si sottrae al tuo calore. La mia anima ti lodi per amarti, ti confessi gli atti della tua commiserazione per lodarti. L’intero tuo creato non interrompa mai il canto delle tue lodi: né gli spiriti tutti attraverso la bocca rivolta verso di te, né gli esseri animati e gli esseri materiali, attraverso la bocca di chi li contempla. Così la nostra anima, sollevandosi dalla sua debolezza e appoggiandosi alle tue creature, trapassa fino a te, loro mirabile creatore. E 11 ha ristoro e vigore vero (5, 1, 1).

Ovunque sei presente

Vadano, fuggano pure lontano da te gli inquieti e gli iniqui. Tu li vedi, ne distingui le ombre fra le cose. Così l’insieme risulta bello anche con la loro presenza, con la loro deformità. Che male poterono farti? dove poterono deturpare il tuo regno, se è giusto e intatto dall’alto dei cieli fino ai lembi estremi della terra? Dove fuggirono fuggendo dal tuo volto? in quale luogo non li puoi trovare? Fuggirono per non vedere la tua vista posata su di loro e urtare, accecati, contro di te, che non abbandoni nulla di ciò che hai creato: per non urtare contro di te, e ricevere l’equo castigo della loro iniquità. Si sottrassero alla tua mitezza per urtare nella tua giustizia e cadere nella tua severità. Evidentemente ignorano che tu sei dovunque e nessun luogo ti racchiude, che tu solo sei vicino anche a chi si pone lontano da te. Dunque si volgano indietro a cercarti: tu non abbandoni le tue creature come esse abbandonano il loro creatore. Se si volgono indietro da sé a cercarti, eccoti già lì, nel loro cuore, nel cuore di chiunque ti riconosce e si getta ai tuoi piedi, piangendo sulle tue ginocchia dopo il suo aspro cammino. Tu prontamente ne tergi le lacrime, e più singhiozzano allora e si confortano al pianto perché sei tu, Signore, e non un uomo qualunque, carne e sangue, ma tu, Signore, il loro creatore, che le rincuori e le consoli. Anch’io dov’ero quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te (5, 2, 2).

Dio degli umili!

Tu sei grande, Signore, e volgi lo sguardo sugli umili, mentre gli eccelsi li vuoi conoscere da lontano e solo ai cuori contriti ti avvicini; non ti riveli ai superbi neppure se con la loro curiosa destrezza sappiano calcolare le stelle e l’arena, misurare gli spazi siderei ed esplorare le piste degli astri (5, 3, 3).

Felice chi conosce Dio

Signore, Dio di verità, basta la conoscenza di queste cose per piacerti? Infelice davvero chi conosce tutte quelle e ignora te; felice chi conosce te, anche se ignora quelle. Chi poi sa e di te e di quelle, non per quelle è più felice, ma per te solo felice, se, oltre a conoscerti, ti glorifica per ciò che sei e ti ringrazia, anziché disperdersi nei suoi vani pensieri. Chi sa di possedere un albero e ti è grato di goderlo, sebbene ignori i cubiti della sua altezza o la sua estensione in larghezza, è migliore di chi lo misura e ne conteggia tutti i rami, però non lo possiede né riconosce il suo creatore né lo ama. Così all’uomo di fede il mondo intero con i suoi tesori appartiene; forse non ha quasi nulla, eppure tutto possiede perché unito a te, padrone di tutto. Non importa se nemmeno conosce i giri delle Orse: solo uno stolto dubiterebbe che non sia in ogni caso migliore di chi sa misurare il cielo, enumerare le stelle, pesare gli elementi, però fa nessun conto di te, che ogni cosa hai disposto nella sua misura e numero e peso (5, 4, 7).

Tu guidi i miei passi

Le tue mani, Dio mio, nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano invero la mia anima; d’altra parte dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime. Agisti verso di me in modi mirabili. Fu azione tua, Dio mio, perché dal Signore sono diretti i passi dell’uomo, e gli imporrà la via. Come ottenere la salvezza, se la tua mano non ricrea la tua creazione? (5,7,13).

Dove eri, o Dio?

O speranza mia fin dalla mia gioventù, dov’eri per me, dove ti eri ritratto? Non eri stato tu a crearmi, a farmi diverso dai quadrupedi e più sapiente dei volatili del cielo? Ma io camminavo fra le tenebre e su terreno sdrucciolevole; ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore. Ormai avevo raggiunto il fondo del mare: come non perdere fiducia, non disperare di scoprire più il vero? (6, 1, 1).

Guarda il mio cuore, Signore!

Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi. Per colpa di queste passioni soffrivo disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che tu non eri. Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti. Si unisca ora a te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera! E tu stuzzicavi il bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te, che sei sopra tutto e senza di cui tutto sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita. Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato per farmi sentire la mia miseria! (6, 6, 9).

Il mio riposo

Lode a te, gloria a te, fonte di misericordia. Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino. Ormai, ormai era accostata la tua mano, che mi avrebbe tolto e lavato dal fango, e io lo ignoravo. Solo, a trattenermi dallo sprofondare ulteriormente nel gorgo dei piaceri carnali, stava il timore della morte e del tuo giudizio futuro, mai dileguato dal mio cuore pur nel variare delle mie opinioni. Guai all’anima temeraria, che sperò di trovare di meglio allontanandosi da te. Vòltati e rivòltati sulla schiena, sui fianchi, sul ventre, ma tutto è duro, e tu solo il riposo. Ed eccoti, sei qui, a liberi dai nostri errori miserabili e ci metti sulla strada e consoli e dia: « Correte, io vi reggerò, io vi condurrò al traguardo e là ancora vi reggerò » (6,16, 26).

Signore, giudice giusto

In realtà tu, Signore, regolatore giustissimo dell’universo, all’insaputa dei consultori e dei consultati, con un’ispirazione misteriosa fai sempre udire a chi si consulta, dall’abisso di giustizia del tuo giudizio, la risposta vantaggiosa per lui secondo gli occulti meriti delle anime. Nessun uomo ti domandi: « Che è ciò », « A che ciò? ». Non lo domandi, non lo domandi, perché è un uomo (7, 6, 10).

Il mio pungolo

Ma tu, Signore, permani in eterno, e non ti adiri in eterno verso di noi. Hai sentito pietà di questa terra e cenere, piacque ai tuoi occhi di racconciare le mie sconcezze. Mi agitavi con pungoli interni per rendermi insoddisfatto, finché al mio sguardo interiore tu fossi certezza. Il mio tumore scemava sotto la cura della tua mano nascosta, la vista intorbidata e ottenebrata della mia mente guariva di giorno in giorno sotto l’azione del collirio pungente di salutari dolori (7, 8, 12).

O eterna verità e vera carità e cara eternità

Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Neppure sovrastava la mia intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce. O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere: respingesti il mio sguardo malfermo col tuo raggio folgorante e io tutto tremai d’amore e terrore. Mi scoprii lontano da te in una regione dissimile, ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: « Io sono il nutrimento degli adulti. Cresa, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me ». Riconobbi che hai ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e imputridito come ragnatela l’anima mia. Chiesi: « La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito sia infinito? »; e tu gridasti da lontano: « Anzi, io sono colui che sono ». Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che dell’esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato (7, 10, 16).

Mi risvegliai in te e ti vidi…

Non c’è sanità di giudizio in coloro che non gradiscono qualche cosa del tuo creato, come non ce n’era in me quando non gradivo molte delle cose da te create. E poiché la mia anima non osava non gradire il mio Dio, si rifiutava di riconoscere come opera tua tutto ciò che non gradiva. Di qui era giunta alla concezione delle due sostanze, senza trovarsi soddisfatta e usando un linguaggio non suo; poi aveva abbandonato quell’idea per costruirsi un dio esteso dovunque negli spazi infiniti, che aveva immaginato fossi tu e aveva collocato nel proprio cuore, ricostituendosi tempio del proprio idolo, abominevole ai tuoi occhi. Quando però a mia insaputa prendesti il mio capo fra le tue braccia e chiudesti i miei occhi per togliere loro la vista delle cose vane, mi ritrassi un poco da me, la mia follia si assopì. Mi risvegliai in te e ti vidi, infinito ma diversamente, visione non prodotta dalla carne (7, 14, 20).

Verso il monte di Dio

Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece. Ma non ero stabile nel godimento del mio Dio. Attratto a te dalla tua bellezza, ne ero distratto subito dopo dal mio peso, che mi precipitava gemebondo sulla terra. Era, questo peso, la mia consuetudine con la carne; ma portavo con me il tuo ricordo (7, 17, 23).

L’IMMAGINE TEOLOGICA DI MARIA IN SANT’ANTONIO DI PADOVA

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L’IMMAGINE TEOLOGICA DI MARIA IN SANT’ANTONIO DI PADOVA

Inserito da latheotokos Martedi 24 Maggio 2011,

dal libro di Faustino Osanna – Claudio Bellinati, Maria nel pensiero di sant’Antonio e nell’arte della Basilica antoniana, Edizioni Messaggero, Padova 1995, pp. 57-64

Non possiamo parlare di mariologia vera e propria: Antonio non fa teologia speculativa e neppure biblica, ma usa la sua intelligenza e la sua cultura nella fedeltà a ciò che Francesco voleva: che insegnasse teologia ai frati a condizione che né in lui né negli alunni «si spegnesse lo spirito della santa orazione e devozione». Il lettore non troverà quindi nelle sue lezioni né lo stile delle Sentenze di Pietro Lombardo, né la sistematicità di una Summa. La mariologia di Antonio «è una mariologia luminosa, piena di letizia, di colore, di vita [...] pia e affettiva»1. Ma non per questo meno ricca. Né mi sembra giusto giudicare il corpus mariano di Antonio di Padova ponendolo a confronto con il nostro pensiero contemporaneo e rilevare solo il fatto che ciò che egli dice di Maria rientra nella comune tradizione della sua epoca. Allo stesso modo non sono d’accordo nel voler per forza vedere nelle sue affermazioni cose che egli certamente non aveva intenzione di dire.
La svolta della Scolastica che ha trasferito il complesso di verità dal monastero alle scuole, dalle chiese alle aule dell’università, dalle celle alle biblioteche, ha messo un po’ da parte l’insegnamento di Antonio che aveva affidato il suo pensiero ai Sermones e non alle Summae o ai trattati teologici; per questo ci sono voluti secoli per ripresentare tra i maestri del pensiero cristiano questo dottore della chiesa, questo «dottore evangelico» proclamato santo undici mesi dopo la morte e dottore solo nel 1946.
È utile, oggi, riprendere in mano tutto il complesso di verità che dentro o fuori dei sermoni mariani il Santo propone parlando di Maria, perché leggendo le sue parole emerge chiaramente chi e che cosa realmente ella sia per Antonio. Quello che abbiamo colto del suo pensiero, è solo una piccola parte, ma anche i sermoni stessi nella loro interezza non riescono a dare un’idea completa di come Antonio veda Maria. Perché Maria per Antonio è soprattutto una presenza2; praticamente in tutti i sermoni egli parla di Maria, si riferisce a lei, su di lei pone il confronto della dottrina e della prassi. Ne parla ogni sabato, ne parla nel ciclo liturgico della redenzione e del Natale, insiste nell’esortare a meditare giornalmente sul saluto dell’angelo a Maria; di fatto, quindi, Antonio insegna a onorare la madre del Signore con un culto quotidiano, settimanale, annuale.
oer avvicinarsi il più possibile a questa presenza, per comprendere chi e che cosa sia realmente Maria per Sant’Antonio, la strada migliore ci sembra sia quella di esaminare come egli la chiami, quali titoli le dia, con quali immagini la rappresenti. Antonio, infatti, non è soltanto un profondo conoscitore del testo sacro e uno specialista nello studio dei vocaboli; non è soltanto un religioso istruito alla scuola dei monasteri: è un’anima capace di leggere attraverso le opere di Dio, di cogliere ciò che egli ci dice attraverso la sua creazione: Coeli narrant gloriam Dei et opera manuum eius adnuntiat firmamentum (Sal 18). Antonio, figlio spirituale di Francesco d’Assisi, ha occhi per vedere e voce per cantare le lodi del Signore.
Esaminiamo quindi la gioiosa litania teologica e poetica con cui Antonio di Padova unisce teologia e fantasia d’artista, fede e pietà, amore ed eloquenza, per esprimere non solo il suo amore e la sua fede in Maria, ma anche la sua convinzione che ella è attiva in cielo per noi e che quindi a lei possiamo rivolgerci.
Possiamo distinguere tre gruppi, ciascuno dei quali è suscettibile di ulteriori suddivisioni. Il primo è Maria e Dio. Il secondo è Maria e noi. Il terzo è Maria vista in se stessa.

MARIA E DIO
La grandezza di Maria, donna fra le donne, è opera di Dio. Figlia del Padre3, accetta di collaborare al piano di salvezza proclamandosi serva del Signore, serva umilissima. Il Padre le affida la missione di divenire madre di suo figlio, madre del Figlio di Dio; lo Spirito Santo la santifica, compie in lei l’incarnazione del Verbo facendo di quell’umile fanciulla, di quella vergine poverella il suo sacrario, la sua abitazione, il triclinio della Trinità. Maria, con il suo sì diviene insieme madre e figlia del principe Gesù Cristo, eletta madre e figlia e Madre di Dio. Il Signore trova in lei il luogo ove porre i suoi piedi, il Figlio di Dio trova in lei il talamo, il tempio, il trono, il luogo della santificazione. Antonio la chiama con gioia Madre di Dio, alma Madre di Dio, Gerusalemme celeste in cui Dio abita, figlia che portò il Padre, ma è soprattutto in rapporto con Cristo che ha le espressioni più pregnanti: il mistero dell’incarnazione è stato molto approfondito nella riflessione teologica di Antonio, che spesso mentre esalta la grandezza della missione materna di Maria si richiama alla chenosi del Verbo fatto carne nel suo seno. Antonio vede Maria donna fra le donne nella sua umanità di donna vera del suo tempo e della sua terra, piena di grazia, ma che passa silenziosa e umile fra gli uomini suoi fratelli. Dio ha fatto in lei cose grandi, ma ella è sempre una di noi, sorella nostra; ed ecco Antonio chiamarla sorella di Cristo. E per esprimere il più possibile l’unione tra la divinità e l’umanità che si è compiuta in lei, Antonio va ancora più oltre e la chiama moglie di Cristo.
Antonio non finisce mai di stupirsi di questo rapporto tra Cristo e Maria ed esprime il suo ammirato stupore con espressioni di vivida efficacia, al limite del paradosso: «Oggi egli fece nascere te, per poter nascere da te»; «il Signore la fece santa più di tutti i santi per farsi in lei lui stesso»; «Colui che ella allattava le donava la vita». È una relazione profonda tra Maria, umile donna ma santa e immacolata, e il Verbo incarnato fatto uomo in lei, nato da lei, legato a sua madre nella vita e nella missione. La grandezza del figlio si riversa sulla madre e il legame fra i due avrà il suo culmine nell’assunzione di Maria, quando la vergine madre riceverà dal figlio la corona divenendo la regina del cielo e della terra.

MARIA E NOI
Una caratteristica del pensiero di Antonio è il vedere Maria non solo per se stessa, non solo nei suoi titoli, ma vederla per noi, in rapporto a noi. Tutto ciò che ella ha ed è, è donato a noi. Maria è madre di Dio, ma anche madre nostra, anzi, sottolinea Antonio, madre mia, e in questo aggettivo si sente tutta la fiducia che egli ha in lei fin da quando era bambino, si sente tutta la certezza di poter trovare sempre in Maria aiuto e conforto. Questo essere madre «nostra» Antonio lo riferisce a tre categorie di uomini: la prima, la più comune, è quella dei peccatori. Antonio ricorda la promessa fatta da Dio al Maligno: ipsa conteret caput tuum, assicura che Maria ha in mano la vittoria sul male ed è sempre pronta ad accogliere chi a lei si rivolge. Antonio nelle sue preghiere si rivolge con fiducia a Maria, unica speranza, nostra speranza, colei che indica la strada della conversione, colei che parla a Dio di noi come nostra mediatrice. Antonio dà a questo titolo il suo significato più concreto, non apre discussioni teologiche, ma vuol ricordare a chi si sente gravato dalla colpa che c’è lei, Maria, pronta a intercedere per noi. Un’espressione molto frequente è infatti madre di misericordia: è un titolo comune nella pietà medievale, e Antonio vede Maria come colei che dona «la vita al martiri, il perdono al disperati, la grazia ai penitenti, la gloria ai giusti»4.
Un’altra categoria di persone con cui Maria è in rapporto è la grande massa dei fedeli, laici o prelati, ma tutti sempre in pericolo di cadere. Antonio esorta a rivolgersi a lei, alla Signora nostra, colei che per noi è sempre un castello sicuro, una città di rifugio, una torre di fortezza, un’arca in cui, come in quella di Noè, l’umanità può essere salvata: «Va’ da lei», esorta Antonio a tutti e a ciascuno. Siamo tutti in mezzo al mare tempestoso della vita: Antonio vede Maria sorella nostra anche in mezzo a questo mare, e la chiama mare amaro; ma sa che ella è accanto ai suoi figli per condurli alla salvezza come la stella del mare che indica la strada ai naviganti. E sa che nella fame che dilania il mondo, fame di cibo e di verità, gli uomini possono rivolgersi a lei, casa del pane oltre che casa di Dio. Casa del pane che è Cristo, per cui Antonio eleva il suo ringraziamento: «Ti ringrazio, Vergine gloriosa, perché per mezzo tuo Dio e con noi»5.
Ma nella chiesa ci sono anche i giusti, i santi. Guardando a Maria trovano il modello della santità, vedono colei che è la nostra luce, la tutta bella, la sposa del Cantico. Attraverso di lei, porta del cielo, porta del paradiso, gli uomini possono raggiungere la felicità. Maria, dice Antonio, è la nostra Ester che entra coraggiosamente dal re e salva il suo popolo; è la nostra Giuditta, che taglia la testa al male e fa esultare di gioia; è la nostra Rachele, la vergine che diviene madre del popolo; ed è la nuova Eva che dona la vita ai figli della salvezza. Antonio non si stanca di chiamare Maria con il suo nome amabile, non ha timore di rivolgersi a lei benché sia la regina nostra, la principessa nostra, perché ella e anche la nostra terra da cui abbiamo ricevuto la vita, la verga fiorita, il pollone d’Israele germogliato per l’eternità. Se il paradiso terrestre che Dio aveva donato agli uomini ci fu tolto, ci è stata poi data Maria, nuovo paradiso, paradiso di letizia.

MARIA IN SE STESSA
Pensando a Maria nella sua realtà, Antonio comincia a riflettere sul nome di lei, nome cui dà molti significati. Gli è dolce scriverlo e ancora di più invocarlo: lo scrive da solo 82 volte, lo unisce 90 volte all’aggettivo beata o santa, 25 volte lo unisce all’appellativo vergine o sempre vergine. Antonio ha il culto della verginità, non tanto per la sua realtà fisica, quanto per ciò che significa: e un dono offerto a Dio, comporta l’amore totale a Cristo, è una dimensione della persona che assomma in se una serie di virtù. L’umanità di Maria, espressa nell’essere donna6, è posta di fronte alla divinità, esprime quasi l’umiltà del Verbo che si pone in grembo a lei, vista come il cesto di vimini che salvò Mosé dalle acque; e quest’umanità di Maria Antonio la vede espressa soprattutto nelle tre virtù che richiama continuamente: l’umiltà, la povertà, la verginità.
Antonio cerca di approfondire ulteriormente questa realtà umana di Maria, e nel suo amore sceglie un terzo gruppo di appellativi, che sono una caratteristica del suo modo di esprimere la sua fede e il suo amore verso di lei. Profondo studioso delle Scritture, formato in un monastero, egli vive però con gli occhi e il cuore spalancati verso tutto ciò che Dio ha donato agli uomini. E in ogni creatura coglie un riflesso di Maria.
Prende dalla natura una lunga serie di immagini: un primo gruppo ruota intorno al concetto di luce. Maria è luminosa, come Mosè che scende dall’incontro con Dio sul Sinai, irradia una luce misteriosa che colma Giuseppe di profondo rispetto verso la sua vergine sposa. Ma è anche una luce espressa in immagini concrete, e se vogliamo comprendere bene la loro pregnanza dobbiamo ricordare quanto buia e paurosa fosse la terra all’epoca di Antonio quando il sole era calato. Solo qualche fuoco nelle case, e intorno il buio che, però, si dissolveva quando la luna illuminava le strade donando sicurezza. Maria, quindi, è la luna, anzi, la luna piena. Ma nelle notti in cui essa non c’è, un po’ di chiarore viene anche dalle stelle, prima che il sorgere della stella del mattino, la stella più bella, rassicuri gli uomini annunciando il giorno nuovo che sta per venire. E il sole sorge, il sole fulgente in cui Francesco, maestro di Antonio, vedeva il segno di Dio; quel sole la cui luce, quando attraversa le nubi gonfie di pioggia, si scinde in un arcobaleno che con la gioia dei suoi colori sembra collegare il cielo alla terra ricordando la promessa di pace e di alleanza fra Dio e l’uomo, quell’alleanza che proprio in Maria si è compiuta con l’incarnazione.
Leggendo i sermoni di Antonio, si resta stupiti per l’insistenza di alcuni concetti con cui esprime ciò che egli pensa di Maria. Uno di questi è appunto il concetto di colore collegato al concetto di bellezza. Tutto è bellezza in lei: bellezza delle virtù che rallegrano Dio e costituiscono l’incanto e l’ammirazione degli angeli e dei santi. Antonio non si limita a vedere la pienezza di grazia di lei, ma con occhi estatici va in cerca di tutte le immagini che possono rappresentare questa bellezza totale, assoluta. Sono immagini di cose evidenti, come il cipresso svettante o la palma, ma sono immagini anche di piccole cose che Antonio sa vedere con amore e delle quali ringrazia Dio. Maria, dice, è come un fiore sul greto di un fiume, una piccola cosa ma che egli sa cogliere nel suo immenso significato e nella quale vede il riflesso di Maria, così come vede Maria nell’immensità infinita del deserto intatto. Il deserto, per chi lo vede la prima volta, toglie il respiro per la sensazione d’infinito che riesce a dare; e Antonio, missionario in Marocco, lo ha visto e non lo ha dimenticato. E nel deserto il vento scolpisce fiori di pietra, altrettanto belli di una rosa o di un giglio profumato. Antonio ha molti ricordi della sua permanenza in Africa: e nel suo stupore ammirato li collega a Maria: per esempio, ricorda il candore dell’avorio e pensando a Maria candida e immacolata la chiama con stupore quasi infantile elefante, ricordando la pazienza nel servizio di questo strano animale e la sua avversione al male che Antonio vede rappresentato nel topo7.
Per lodarla, Antonio trae continuamente immagini nuove da qualsiasi cosa abbia intorno: uomo di chiesa, sente il fascino che il luogo sacro ha per chi ne venga in contatto, ed ecco che chiama Maria porta del santuario, tempio consacrato, tabernacolo; e ancora: incenso profumato, incenso ardente, vaso ammirabile fatto dall’Eccelso. Ma anche la realtà profana gli dà spunti e immagini: Maria che nel suo ventre e nel suo cuore accoglie il Verbo è per lui un vaso d’oro, un vaso di pietre preziose, una conca, prezioso recipiente per raccogliere l’acqua che serve alla vita.
Ha fantasia di poeta, Antonio: e volendo insegnare ai suoi uditori che Maria è l’immenso dono di Dio per tutti noi, raccoglie un gruppo di immagini intorno al concetto di dono. Maria è l’albero della vita, è la terra fecondata dalla rugiada da cui traggono l’esistenza la vite feconda che dona agli uomini il vino, l’olivo che ci dona l’olio, il grano che ci dà il pane. Maria, infatti, è per Antonio un mucchio di grano. L’aveva già chiamata casa del pane, ma torna di nuovo a sottolineare questo concetto fondamentale per l’uomo. Maria dona il cibo che è Cristo, pane degli uomini, dona a lui e agli uomini il suo latte materno, così come una cerva che allatta il suo piccolo dopo averlo partorito come lei sulla paglia, come un’ape buona che dona la dolcezza del miele.

* * *
Ciò che Antonio dice di Maria nei suoi Sermones non ha nulla di particolarmente nuovo: è il frutto della teologia medievale insegnata nei monasteri e nelle università, arricchita dalla sua profonda conoscenza delle Scritture, ma resa vivida ed efficace proprio dall’impeto appassionato che vibra in lui quando parla di Maria. E a Maria lega le immagini più belle del linguaggio, lega le immagini che la natura offre agli occhi e al cuore di chi sa vedere e capire. Antonio non tiene per se la gioia che scopre attorno a se: vuole condividerla, invita tutti a «godere e congodere», vuole che tutta la chiesa proclami l’amen e l’alleluia per il dono grande che Dio ha fatto agli uomini con Maria.
E la prega, la prega con fiducia perché sa che ella è in ascolto dei figli ancora sbattuti nel mare spesso tempestoso della vita. Antonio è un uomo del medioevo, figlio di una cultura penitenziale che vedeva la vita non tanto come un’infinita serie di doni che Dio ha fatto agli uomini, ma come un campo di battaglia dove ad ogni momento l’uomo poteva essere ghermito dal Maligno. Accentua, quindi, il senso profondo della conversione e della penitenza purificatrice, ma anche nelle sue pagine più severe pone innanzi all’uomo schiacciato dalla colpa la stella del mattino, la madre di ogni misericordia, l’unica speranza: Maria, la vergine poverella, l’umillima virgo divenuta la gloriosa Domina che per tutta la vita ha sentito accanto a sé e che invoca cantando mentre sta per entrare nella gloria accanto a lei. «Maria, la madre, è lì, davanti al Figlio, per te», dice Antonio a ciascuno di noi, quasi ripetendo le parole di Cristo morente al discepolo prediletto: «Ecco tua madre».
E non termina le sue lezioni su Maria se prima non ha unito la sua fede e il suo amore al nostro. Ci invita a pregare. L’espressione rogamus ergo, così frequente nella conclusione dei sermoni di Antonio, è ripetuta cinque volte in quelli mariani. Quell’ergo vuole indicare la conclusione della lunga serie di riflessioni esposte: è come una discesa dal pulpito, un deporre la penna per un colloquio nuovo con Dio attraverso la preghiera; è trasformare la lezione in invocazione a Dio. L’invito del rogamus non è solo il classico oremus, ma un accorato appello a chiedere di poter trasformare le parole udite in parole di vita: devote exoremus8.
All’invito alla preghiera segue immediatamente una solenne affermazione di fede, uno sguardo rivolto alla gloriosa Domina che è sempre in ascolto e che viene presentata e quindi invocata con il titolo più confacente alla festa o al contenuto del sermone. Il contenuto delle preghiere, adattato al mistero che si celebra, ha sempre lo stesso schema quasi liturgico: si chiede a Maria di donare ciò di cui gli uomini hanno bisogno, di sciogliere i lacci della colpa per poter raggiungere la felicità eterna dove Maria attende; e si conclude rivolgendosi a Cristo, unica fonte di grazia. Egli che ha fatto nascere Maria per nascere da lei, che l’ha resa madre a Natale, che l’ha coronata in cielo, non può non esaudire la preghiera che gli uomini rivolgono alla madre sua. In queste preghiere rivolte a Maria Antonio esprime la sua fiducia, la sua fede, la sua devozione, per suscitare nel popolo in ascolto gli stessi sentimenti.
Antonio chiude i suoi Sermones con una preghiera, e chiudiamo anche noi, ripetendo con il dottore evangelico: «A te, o beata Vergine, lode e gloria, perché oggi nella bontà della tua casa, cioè nel tuo seno, siamo stati colmati. Noi, prima vuoti, ci siamo riempiti, prima malati ora sani, prima maledetti ora benedetti. Grazie a te, o Vergine gloriosa, perché per mezzo tuo Dio è con noi, primogenito tra i morti, venuto tra molti fratelli»9.

NOTE
1 L. DI FONZO, La mariologia di Sant’Antonio, in AA.VV., Sant’Antonio dottore della chiesa, Città del Vaticano 1947, p. 169.
2 Cf. R. LAURENTIN, La Vierge Marie chez saint Antoine de Padue in AA. VV., Le fonti e la teologia dei sermoni antoniani, Padova 1982, p. 515.
3 Trascriviamo in corsivo i titoli che Antonio dà a Maria, eliminando però i riferimenti al testo originale per non appesantire la lettura, anche perché in massima parte sono stati già dati nella stesura dei precedenti capitoli.
4 I, 120.
5 III, 5.
6 II, 417 e 420.
7 I, 232 e 495; II, 78 e 111.
8 II, 443.
9 III, 5.

Publié dans:Maria Vergine, Santi, santi scritti |on 12 juin, 2013 |Pas de commentaires »

CRISTO SCONFIGGE LA MORTE – DAI « DISCORSI » DI SANT`EFREM, DIACONO

http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/cristo_sconfigge_la_morte.htm

CRISTO SCONFIGGE LA MORTE

DAI « DISCORSI » DI SANT`EFREM, DIACONO. (DISC. SUL SIGNORE, 3-4. 9; OPERA, ED. LAMY, 1, 152-158. 166-168)

Il nostro Signore fu schiacciato dalla morte, ma a sua volta egli la calpestò come una strada battuta. Si sottomise spontaneamente alla morte, accettò volontariamente la morte, per distruggere quella morte, che non voleva morire. Nostro Signore infatti uscì reggendo la croce perché così volle la morte. Ma sulla croce col suo grido trasse i morti fuori dagli inferi, nonostante che la morte cercasse di opporsi. La morte lo ha ucciso nel corpo, che egli aveva assunto. Ma con le stesse armi egli trionfò sulla morte. La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale. Siccome la morte non poteva inghiottire il Verbo senza il corpo, né gli inferi accoglierlo senza la carne, egli nacque dalla Vergine, per poter scendere mediante il corpo al regno dei morti. Ma una volta giunto colà col corpo che aveva assunto, distrusse e disperse tutte le ricchezze e tutti i tesori infernali. Cristo venne da Eva, genitrice di tutti i viventi. Ella è la vigna, la cui siepe fu aperta proprio dalla morte per le mani di quella stessa Eva che doveva, per questo, gustare i frutti della morte. Eva, madre di tutti i viventi, divenne anche causa di morte per tutti i viventi. Fiorì poi Maria, nuova vite rispetto all’antica Eva, ed in lei prese dimora la nuova vita, Cristo. Avvenne allora che la morte si avvicinasse a lui per divorarlo con la sua abituale e ineluttabile sicurezza. Non si accorse, però, che nel frutto mortale, che mangiava, era nascosta la Vita. Fu questa che causò la fine della inconsapevole e incauta divoratrice. La morte lo inghiottì senza alcun timore ed egli liberò la vita e con essa la moltitudine degli uomini. Fu ben potente il figlio del falegname, che portò la sua croce sopra gli inferi che ingoiavano tutto e trasferì il genere umano nella casa della vita. Siccome poi a causa del legno il genere umano era sprofondato in questi luoghi sotterranei, sopra un legno entrò nell’abitazione della vita, in quel legno in cui era stato innestato il ramoscello dolce, perché riconosciamo colui al quale nessuna creatura è in grado di resistere. Gloria a te che della tua croce hai fatto un ponte sulla morte. Attraverso questo ponte le anime si possono trasferire dalla regione della morte a quella della vita. Gloria a te che ti sei rivestito del corpo dell’uomo mortale e lo hai trasformato in sorgente di vita per tutti i mortali. Tu ora certo vivi. Coloro che ti hanno ucciso hanno agito verso la tua vita come gli agricoltori. La seminarono come frumento nel solco profondo. Ma di là rifiorì e fece risorgere con sé tutti. Venite, offriamo il nostro amore come sacrificio grande e universale, eleviamo cantici solenni e rivolgiamo preghiere a colui che offrì la sua croce in sacrificio a Dio, per rendere ricchi tutti noi del suo inestimabile tesoro.

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Publié dans:meditazioni, Santi, santi scritti |on 10 avril, 2013 |Pas de commentaires »

San Giovanni della Croce: Orazione dell’anima innamorata

http://www.ilcarmelo.it/s.-giovanni-della-croce/orazione-dellanima-innamorata.html

SAN GIOVANNI DELLA CROCE

Orazione dell’anima innamorata

Mio Signore, mio amato, se non compi quello che io ti chiedo perché ancora ti ricordi dei miei peccati, fai pure, o Dio mio, riguardo ad essi la tua volontà, che è quanto io cerco di più; usa la tua bontà e misericordia e sarai conosciuto in essi. E se tu attendi le mie opere per concedermi ciò di cui ti prego, concedimele e compile tu e vengano pure le pene che tu desideri accettare da me, ma se tu non aspetti le mie opere, che cosa aspetti, o clementissimo mio Signore? Perché tardi? Se infine deve essere grazia e misericordia quella che ti chiedo nel tuo Figlio, accetta il mio piccolo contributo perché lo vuoi e concedimi questo bene, poiché vuoi anche questo.

Chi potrà mai liberarsi dal suo modo di agire e dalla sua condizione imperfetta, se tu, o Dio mio, non lo sollevi a te in purezza di amore?

Come si innalzerà a te l’uomo generato e cresciuto in bassezza, se tu o Signore, non lo sollevi con la mano con cui lo creasti?

Non mi toglierai, Dio mio, quanto una volta mi hai dato nel tuo unico Figlio Gesù Cristo, nel quale mi hai concesso tutto ciò che io desidero; perciò io mi rallegrerò pensando che tu non tarderai, se io attendo.

Perché indugi a lungo, potendo tu subito amare Dio dentro il tuo cuore?

Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie. Lo stesso Dio è mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto per me.

Che cosa chiedi dunque e che cosa cerchi, anima mia? Tutto ciò è tuo e tutto per te.

Non ti fermare in cose meno importanti e non contentarti delle briciole che cadono dalla mensa del Padre tuo.

Esci fuori e vai superba della tua gloria. Nasconditi in essa e gustala e otterrai quanto chiede il tuo cuore.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 13 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

7 dicembre: Sant’Ambrogio, vescovo di Milano (340-397) – Cristo per noi è tutto

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/11-Dicembre/Sant_Ambrogio_di_Milano.html

7 dicembre: Sant’Ambrogio, vescovo di Milano (340-397)

CRISTO PER NOI E’ TUTTO

Milano 374. In una delle chiese della città, gremita fino all’inverosimile, presbiteri e laici, vecchi e giovani, cattolici e ariani stavano discutendo animatamente sul nome del successore del vescovo Assenzio (ariano) morto di recente. Era un po’ di tempo ormai che le due fazioni si affrontavano animatamente anche per le strade, con qualche pericolo per l’ordine pubblico. Non si poteva far finta di niente.
E infatti Ambrogio, il governatore (della Lombardia, Liguria ed Emilia, con sede appunto a Milano) si recò in quella chiesa per calmare gli animi e per incoraggiare il popolo a fare la scelta del nuovo vescovo in un clima di dialogo, di pace e di rispetto reciproco. Il popolo accolse le sue esortazioni, anche perché era un governatore imparziale, stimato e ben voluto dalla popolazione essendosi dedicato sempre al bene di tutti. La sua missione di funzionario pubblico sembrava compiuta e con successo, quando accadde l’imprevisto che gli cambierà completamente la vita.
Qualcuno dalla folla, sembra un bambino, gridò forte: “Ambrogio vescovo” e l’intera assemblea, cattolici e ariani, vecchi e giovani, presbiteri e laici, quasi folgorati da quel grido (era un’ispirazione dall’alto?) ripeterono a loro volta “Ambrogio vescovo”. Non si diceva già allora “Vox populi, vox Dei”?.
A furor di popolo, ecco trovata la soluzione allo spinoso problema. Tutti d’accordo sul nuovo vescovo: il loro governatore, anche se era un semplice catecumeno e per giunta senza ambizioni ecclesiastiche. E l’interessato? Per la verità non era proprio entusiasta. Proprio lui ancora semplice catecumeno e per di più a completo digiuno di teologia (quindi senza un’adeguata preparazione ad essere vescovo)? Sembrava tutto assurdo.
Si appellò a Valentiniano protestando la propria inadeguatezza all’incarico “datogli” dal popolo. Non trovò una sponda favorevole nell’imperatore: anzi questi gli disse che si sentiva lui stesso lusingato per aver scelto un governatore “politico” (Ambrogio) che era stato ritenuto degno persino di svolgere l’ufficio episcopale (anche perché allora il vescovo di Milano aveva una specie di giurisdizione su quasi tutto il Nord Italia, quindi era un incarico molto prestigioso).
Ed Ambrogio accettò. Fu così che nel giro di una settimana venne battezzato e poi consacrato vescovo, il 7 dicembre del 374. Cominciava così per lui una seconda vita.
Un vescovo tutto per Dio e tutto per il popolo
Ambrogio era nato a Treviri, in Germania, da una nobile famiglia romana della Gens Aurelia. Suo padre era governatore delle Gallie, quindi un importante funzionario imperiale. Quando questi improvvisamente morì, Ambrogio con la sorella Marcellina (Santa) e la madre ritornarono a Roma. Qui continuò gli studi, imparò il greco e divenne un buon poeta e un oratore. Proseguì poi gli studi per la carriera legale ottenendo molti successi in questo campo come avvocato, finché l’imperatore Valentiniano lo nominò nel 370 governatore, con residenza a Milano. Una carriera impressionante.
Ambrogio fece il governatore solo quattro anni, ma la sua opera fu molto incisiva.
Era un uomo al di sopra delle parti e dei partiti, aveva costantemente l’occhio rivolto al bene di tutta la popolazione, non escludendo nessuno specialmente i poveri. Questo atteggiamento gli guadagnò non solo la stima ma addirittura l’affetto sincero di tutta la popolazione, senza distinzione. Possiamo dire che fece così bene il governatore che il Popolo di Dio (con l’imperatore e il Vescovo di Roma Papa Damaso) lo ritennero degno di fare il vescovo. E la “promozione” non era da poco.
Fatto vescovo, decise di rompere ogni legame con la vita precedente: donò infatti le sue ricchezze ai poveri, le sue terre e altre proprietà alla Chiesa, tenendo per sé solo una piccola parte per provvedere alla sorella Marcellina, che anni prima si era consacrata Vergine nella Basilica di San Pietro durante una solenne liturgia di Natale, presente il Papa Liberio. Ambrogio ebbe sempre una grande stima per la madre, per la sorella e per la decisione presa da lei.
Consapevole della sua impreparazione culturale in campo teologico, si diede allo studio della Scrittura e alle opere dei Padri della Chiesa, in particolare Origene, Atanasio e Basilio. La sua vita era frugale e semplice, le sue giornate dense di incontri con la gente, di studio e di preghiera. Ambrogio studiava e poi faceva sostanza della sua preghiera ciò che aveva studiato, quindi, dopo aver pregato, scriveva e quindi predicava. Questo era il suo modo di porgere la Parola di Dio al popolo. Lo stesso Agostino d’Ippona ne rimase affascinato tanto da sceglierlo come maestro nella fede, proprio perché con il suo modo di fare e di predicare aveva contribuito alla sua conversione (insieme alla madre Monica, e naturalmente allo Spirito Santo).
Ogni giorno diceva la Messa per i suoi fedeli dedicandosi poi al loro servizio per ascoltarli, per consigliarli e per difenderli contro i soprusi dei ricchi. Tutti potevano parlargli in qualsiasi momento. Ed è anche per questo che il popolo non solo lo ammirava ma lo amava sinceramente.
È rimasto famoso il suo comportamento quando alcuni soldati nordici avevano sequestrato, in una delle loro razzie, uomini donne e bambini. Ambrogio non esitò a fondere i vasi sacri della chiesa per pagare il loro riscatto. E a coloro (gli ariani) che ebbero il coraggio di criticarlo per l’operato rispose:
“Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”.

“Dove c’è Pietro, c’è la Chiesa”
La Chiesa del tempo di Ambrogio attraversava una grave turbolenza dottrinale: la presenza cioè dell’eresia ariana, originata e predicata da Ario. Questi negava la divinità di Cristo e la sua consustanzialità col Padre, affermando che anche lui era una semplice creatura, scelta da Dio come strumento di salvezza. Come si vede un’eresia dirompente e devastante per la cristianità, che minacciava il centro stesso del Cristianesimo: Gesù Cristo, e questi Figlio di Dio.
Purtroppo ebbe molti seguaci anche nei ranghi alti delle autorità e cioè imperatori e imperatrici, governatori, ufficiali dell’esercito romano che la sostennero con il loro peso politico e militare. Ambrogio conosceva il problema già da governatore, ma dovette affrontarlo specialmente da vescovo di Milano scontrandosi addirittura con la più alta autorità: quella imperiale.
Nel 386 fu approvata una legge che autorizzava le assemblee religiose degli ariani e il possesso delle chiese, ma in realtà bandiva quelle dei cristiani cattolici. Pena di morte a chi non obbediva.
Ambrogio incurante della legge e delle conseguenze personali, si rifiutò di consegnare agli ariani anche una sola chiesa. Arrivarono le minacce contro di lui. Allora il popolo, temendo per il proprio vescovo, si barricò nella basilica insieme con lui. Le truppe imperiali circondarono e assediarono la chiesa, decisi a farli morire di fame. Ambrogio, per occupare il tempo, insegnò ai suoi fedeli salmi e cantici composti da lui stesso e raccontò al popolo tutto ciò che era accaduto tra lui e l’imperatore Valentiniano, riassumendo il tutto con la famosa frase: “L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa”.
Nel frattempo Teodosio il Grande, imperatore d’Oriente, dopo aver sconfitto e giustiziato l’usurpatore Massimo che aveva invaso l’Italia, reintegrò Valentiniano (facendogli abbandonare l’arianesimo) e si fermò per un po’ di tempo a Milano.
La riconoscenza di Ambrogio all’imperatore tuttavia non gli impedì di affrontarlo in ben due occasioni, quando ritenne che il suo comportamento era riprovevole e condannabile pubblicamente. Fu specialmente dopo l’infame massacro di Tessalonica del 390, in cui morirono più di settemila persone, tra cui molte donne e bambini, in rivolta per la morte del governatore. Furono uccisi tutti senza distinzione di innocenti e colpevoli.
Ambrogio, inorridito per l’accaduto, insieme ai suoi collaboratori ritenne responsabile pubblicamente Teodosio stesso, invitandolo a pentirsi. Alla fine l’imperatore cedette e piegò la testa. Questo spiega la grande autorità morale di cui godeva il vescovo. Teodosio morì tre anni dopo e lui stesso ne fece un sincero elogio lodandone l’umiltà e il coraggio di ammettere le proprie colpe, additandone l’esempio anche agli inferiori.
Ambrogio non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana, ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di unità per tutti i cristiani.
È a lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno.
Nella Lettera apostolica Operosam Diem (1996) per il centenario della morte di Ambrogio, Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha messo in risalto due importanti aspetti del suo insegnamento: il convinto cristo-centrismo e la sua originale Mariologia.
Ambrogio viene considerato l’iniziatore della Mariologia latina. Giovanni Paolo II (in Operosam diem, n. 31):
“Di Maria Ambrogio è stato il teologo raffinato e il cantore inesausto. Egli ne offre un ritratto attento, affettuoso, particolareggiato, tratteggiandone le virtù morali, la vita interiore, l’assiduità al lavoro e alla preghiera.
Pur nella sobrietà dello stile, traspare la sua calda devozione alla Vergine, Madre di Cristo, immagine della Chiesa e modello di vita per i cristiani. Contemplandola nel giubilo del Magnificat, il santo vescovo di Milano esclama: “Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio”.
Del suo cristo-centrismo così ha scritto Giovanni Paolo II:
“Al centro della sua vita, sta Cristo, ricercato e amato con intenso trasporto. A Lui, tornava continuamente nel suo insegnamento. Su Cristo si modellava pure la carità che proponeva ai fedeli e che testimoniava di persona… Del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, Ambrogio parla con l’ardore di chi è stato letteralmente afferrato da Cristo e tutto vede nella sua luce”.
Questo suo pensiero centrale può essere sintetizzato nella famosa frase del De Virginitate “Cristo per noi è tutto”.
Ambrogio visse e operò totalmente e incessantemente tutto per Cristo e tutto per la Sua Chiesa. Il suo amore a Cristo era inscindibile dal suo amore alla Chiesa. Operare per far crescere l’amore a Cristo significava per lui lavorare, soffrire, studiare, predicare, piangere, rischiare la vita davanti ai potenti del tempo per la Chiesa, popolo di Dio, perché Ambrogio era profondamente convinto che “Fulget Ecclesia non suo, sed Christi lumine” (La Chiesa risplende non di luce propria ma di quella di Cristo), senza dimenticare mai che “Corpus Christi Ecclesia est”, (Il Corpo di Cristo è la sua Chiesa), quindi i fedeli possono benissimo dire tutti: “Nos unum corpus Christi sumus”.
E per questi fedeli, che sono la Chiesa, che è il corpo di Cristo, e per amore di Cristo presente nella Sua Chiesa, Ambrogio vescovo lavorò, studiò, rischiò la vita, pianse, pregò, predicò, viaggiò e scrisse libri fino alla fine. Questa arrivò, per la verità non inaspettata, il 4 aprile, all’alba del Sabato Santo quando correva l’anno 397.
                                                                                                                   MARIO SCUDU sdb ***

Cristo per noi è tutto
Se vuoi curare le ferite, Egli è il medico.
Se sei riarso dalla febbre,
Egli è la fontana.
Se sei oppresso dal peccato,
Egli è la santità.
Se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza.
Se temi la morte, Egli è la vita.
Se desideri il cielo, Egli è la via.
Se fuggi le tenebre, Egli è la luce.
Se cerchi il cibo, Egli è l’alimento.
Noi ti seguiamo, Signore Gesù,
ma tu chiamaci perché ti seguiamo.
Senza di te nessuno potrà salire.
Tu sei la via, la verità, la vita, il premio.
Accogli i tuoi, sei la via.
Confermali, sei la verità.
Vivificali, sei la vita.
                             De Virginitate 16,99

COMMENTO AD EDITH STEIN: SPIRITUALITA’ DELLA CROCE…

http://centrostudiedithstein.myblog.it/frammenti-di-spiritualita-carmelitana/

26/03/2010

COMMENTO AD EDITH STEIN: SPIRITUALITA’ DELLA CROCE…

Essere figli di Dio significa procedere mano nella mano con Dio, fare la volontà del Padre, non la propria, riporre nelle mani di Dio tutti gli affanni e tutte le speranze, non preoccuparsi più di sé e del proprio futuro. Ecco su che riposano la libertà e la letizia dei figli di Dio. Quanti pochi sono, anche tra gli uomini di autentica pietà, anche tra quelli che si sanno sacrificare eroicamente, coloro che le possiedono! Vanno sempre come piegati sotto il peso opprimente dei loro affanni, dei loro doveri. Conosciamo tutti la metafora degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando si incontra un uomo che non ha un patrimonio, né pensione, né assicurazione, e che tuttavia vive senza preoccuparsi del suo futuro, allora si scuote il capo come su qualcosa di anormale. Certo chi si attendesse dal Padre celeste che gli dia sempre a suo tempo quel reddito e quel sostentamento che lui ritiene auspicabili, avrebbe potuto far male i propri conti. Non a queste condizioni si stipula un patto con Dio. Vivere nell’inconcussa fiducia nel Signore si può solo quando questa comprenda la disponibilità ad accettare dalla mano del Signore qualsiasi cosa. Egli solo sa, cosa ci giovi. E se venisse il tempo in cui il bisogno e la privazione fossero più convenienti di una condizione agiata e sicura, o l’insuccesso e l’umiliazione fossero migliori dell’onore e della considerazione, allora si dovrà essere pronti anche per quello. Se si procede così, allora si può vivere, sgravati dal futuro, dal presente. Il “Fiat volutas tua!” nella sua piena dimensione deve essere la norma di una vita cristiana. Deve regolare il corso della giornata da mane a sera, e il dipanarsi dell’anno, e la vita tutta. Diviene allora anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre le si è gettate sul Signore, ed egli le ha prese su di sé…Chi appartiene a Cristo deve vivere fino in fondo tutta la vita di Cristo. Deve crescere sino alla maturità di Cristo, deve intraprendere la Via Crucis, deve passare per il Getsemani e il Golgota.
(Edith Stein, Il mistero del Natale)

Ci piace accostare questo splendido passo d Edith Stein con una serie di variazioni sul tema, al di là di ogni sforzo esegetico, ma con fedeltà allo spirito di un testo da cui traspare un’esperienza vissuta, una fede che rompe con la prosaicità delle convenzioni sociali, di cui si alimenta il mito del buon cittadino, dell’uomo onesto, ligio ai propri doveri. Una fede dunque che non decade a strumento per “vivere tranquilli e attraversare felicemente il mondo” (Kierkegaard). Si gioca al cristianesimo: esercizio ludico particolarmente frequente in occasione di alcune festività. Gioco che viene messo da parte quando entrano in scena i presunti problemi reali della vita: assicurarsi un futuro agiato, economicamente garantito, ricco di successi e riconoscimenti. Affidarsi a Dio, senza preoccupazioni per un domani che non ci appartiene, nella consapevolezza che i progetti umani non coincidono, anzi quasi sempre confliggono, con il progetto di Dio. Sia fatta la volontà del Signore: metro di valutazione e criterio ispiratore di ogni azione quotidiana, orizzonte unico di riferimento del proprio essere nel mondo. Gesù Cristo, centro unico dell’esistenza. “In obsequio  Jesu Christi vivere”: una sequela che comporta necessariamente sofferenza, che si fa più acuta laddove il nostro sogno di un mondo intriso di amore e misericordia si infrange sugli scogli del dolore delle vittime e degli innocenti, del trionfo della malvagità. Deus absconditus. Notte oscura, dove ci assale l’angoscia, la tentazione della disperazione, della ribellione. Notte che ci libera dai nostri pregiudizi, dall’immagine di un Dio garante dell’ordine borghese e delle piccole aspirazioni umane. La strada del Calvario continua a marcare il corso della storia: oppressione, miseria, ingiustizia, fame, sofferenza. Ed il cristiano è chiamato a battere questa strada dolorosa con lo sguardo rivolto al Cristo crocifisso. Amico “della passione di Cristo”, crocifisso “interiormente ed esteriormente con Cristo” (S. Giovanni della Croce).
“Gesù crocifisso sia il vostro specchio e la croce il vostro riposo” (s. Maria Maddalena de’ Pazzi). “Un impegno dentro le vicende terrene proiettato verso ‘cieli nuovi e terra nuova’, dentro il qui ed ora della storia, con tutti i suoi conflitti tarlati dal peccato” (D. Buggert).
Un impegno nutrito di preghiera, di contemplazione. Di infinita fiducia in un Dio che non abbandona l’uomo, nonostante le sue infedeltà, i suoi tradimenti, i suoi peccati. Di consegna all’amore di Dio. Di partecipazione alla passione di Cristo: avvenimento cruciale nella storia della salvezza, a partire da cui dare un senso alla sofferenza e alla morte.
“Non c’è vita umana senza sofferenza, non c’è vita umana senza morte. La scelta per noi non è tra una vita in cui c’è sofferenza e una vita senza sofferenza; la scelta è tra una vita in cui cerchiamo di portare e di combattere da soli la sofferenza – e così ci schiaccia -, o una vita in cui la sofferenza nostra è affidata alla Croce di Cristo, vissuta in unione con Lui, sofferenza, questa, reale, ma vittoriosa e feconda. Dio è tanto buono e tanto potente da usare anche la lacerazione e la stortura del male per realizzare qualcosa di più bello, di più perfetto ancora”.(M. Paolinelli)
Camminare ora sulle orme di Cristo, abbracciando la sua croce. “Oggi dietro le sue orme, dobbiamo fare nostra la solidarietà nell’amore con i poveri. Nella partecipazione ai processi storici di liberazione dei poveri-crocifissi della terra è presente la croce di Gesù Cristo” (J. Lois).
Ove manchi questa partecipazione la spiritualità della croce rischia di trasformarsi “in stoicismo, masochismo o, peggio ancora, in alibi per non ripercorrere la via della croce, illudendosi di trovarsi già in essa” (J. Sobrino). La follia della croce che ci apre allo stupore al di là della fredda logica della ragione e “noi, cristiani, abbiamo cessato forse di stupirci: una lunga tradizione degenerata in routine, ha ammantato e addomesticato il mistero che abita pacificamente le nostre strade e le nostre case. Questo segno, sul ciglio della strada, troppo spesso non ci inquieta. Fa parte dei nostri oggetti familiari. Bisognerebbe che ridiventasse il ‘tremendum’ e il ‘fascinosum’ della nostra fede” (S. Breton).
Ed è qui – nella croce di Cristo- che si colloca la rivoluzione di cui ha tanto bisogno un’umanità pietrificata dall’odio e devastata dalla violenza.

Amedeo Guerriere ocds
(Il Castello dell’anima, 31.03.04)

Publié dans:santi martiri, santi scritti |on 14 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

DALLA RnB (1221): DELLA ESORTAZIONE E DELLA LODE CHE POSSONO FARE TUTTI I FRATI

http://www.webalice.it/paolorodelli/Francescochiara/rnb004.htm#cap23

Regola non bollata (1221)

Capitolo XXI 

DELLA ESORTAZIONE E DELLA LODE CHE POSSONO FARE TUTTI I FRATI

55 1 E questa o simile esortazione e lode tutti i miei frati, quando a loro piacerà, possono annunciare ad ogni categoria di uomini, con la benedizione di Dio: 2 Temete e onorate,
lodate e benedite,
ringraziate (Cfr. 1Ts 5,18) e adorate
il Signore Dio onnipotente
nella Trinità e nell’Unità,
Padre e Figlio e Spirito Santo,
creatore di tutte le cose.
3 Fate penitenza (Cfr. Mt 3,2),
fate frutti degni di penitenza (Cfr. Lc 3,8),
perché presto moriremo.
4 Date e vi sarà dato (Lc 6,38),
5 Perdonate (Cfr. Lc 6,37) e vi sarà perdonato;
6 E se non perdonerete agli uomini le loro offese (Mt 6,14),
il Signore non vi perdonerà i vostri peccati (Mc 11,26).
Confessate tutti i vostri peccati (Gc 5,16).
7 Beati coloro che muoiono nella penitenza,
poiché saranno nel regno dei cieli.
8 Guai a quelli che non muoiono nella penitenza,
poiché saranno figli del diavolo (1Gv 3,10)
di cui compiono le opere (Cfr. Gv 8,41),
e andranno nel fuoco eterno (Mt 18,8; 25,41),
9 Guardatevi e astenetevi da ogni male
e perseverate nel bene fino alla fine.

11 agosto: Santa Chiara d’Assisi: Prima Lettera alla Beata Agnese di Praga

http://www.fraticappuccini.it/santachiara/scritti_di_chiaracompl.htm

11 agosto: Santa Chiara d’Assisi

Prima Lettera alla Beata Agnese di Praga

(Prima dell’11 giugno 1234)
(1) Alla venerabile e santissima vergine, donna Agnese, figlia dell’eccellentissimo e illustrissimo re di Boemia, (2) Chiara, serva indegna di Gesù Cristo e inutile ancella delle donne incluse del monastero di San Damiano, sua suddita in tutto e ancella , ogni raccomandazione di sé, con riverenza speciale, per ottenere la gloria dell’eterna felicità.
(3) Udendo l’onestissima fama della vostra santa conversazione e della vostra santa vita, che non solo fino a me è giunta, ma è stata splendidamente divulgata in quasi tutta la terra, godo molto nel Signore ed esulto; (4) di questo, non solo io personalmente, posso esultare, ma tutti coloro che fanno e desiderano di fare il servizio di Gesù Cristo.
(5) Di qui viene che, mentre avreste potuto godere, più degli altri, delle pompe, degli onori e della dignità del secolo, potendo con gloria eccellente sposare legittimamente l’illustre imperatore, come sarebbe stato conveniente alla vostre e alla sua eccellenza, (6) rigettando tutto ciò, avete scelto, con tutta l’anima e con tutto lo slancio del cuore, piuttosto la santissima povertà e la penuria del corpo, (7) prendendo uno sposo di più nobile origine, il Signore Gesù Cristo, che custodirà la vostra verginità sempre immacolata e intatta.
(8) Amandolo, siete casta, toccandolo, diventerete più monda, accogliendolo in voi, siete vergine; (9) la sua potenza è più forte, la generosità più elevata, il suo aspetto più bello, l’amore più soave e ogni grazia più fine.
(10) Già siete stretta dagli amplessi di lui, che il vostro petto ha ornato di pietre preziose e alle vostre orecchie ha messo perle inestimabili, (11) e vi ha tutta avvolta di primaverili e corrusche gemme e vi ha incoronata con una corona d’oro espressa con il segno della santità.
(12) Quindi, sorella carissima, o piuttosto signora straordinariamente degna di ogni venerazione, perché siete sposa e madre e sorella del mio Signore Gesù Cristo, (13) splendidissimamente insignita del vessillo dell’inviolabile verginità e della santissima povertà, siate corroborata nel santo servizio, incominciato con ardente desiderio, del povero Crocifisso, (14) che per noi tutti sopportò la passione della croce, strappandoci al potere del principe delle tenebre, nel quale per la trasgressione del primo parente eravamo tenuti legati, e riconciliandoci con Dio Padre Onnipotente.
(15) O beata povertà, a quelle che l’amano e l’abbracciano le ricchezze eterne!
(16) O santa povertà, a loro che l’hanno e la desiderano è promesso da Dio il regno dei cieli e l’eterna gloria e la vita beata senza alcun dubbio è concessa!
(17) O pia povertà, che il Signore Gesù Cristo, il quale reggeva e regge il cielo e la terra, e disse anche e le cose furono fatte, si è degnato al di sopra di tutto abbracciare!
(18) Le volpi infatti hanno tane, ha detto, e gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell’uomo, cioè Cristo, non ha dove posare il capo, ma piegato il capo rese lo spirito.
(19) Se dunque un tanto e tale Signore venendo in un utero verginale, volle apparire nel mondo disprezzato, indigente e povero, (20) affinché gli uomini, che erano poverissimi e indigenti, soffrendo l’estrema indigenza di nutrimento celeste, in lui diventassero ricchi possedendo i regni celesti, (21) esultate molto e rallegratevi, ripiena d’immensa gioia e di letizia spirituale, (22) poiché, essendovi piaciuto di più il disprezzo del mondo che gli onori, la povertà più che le ricchezze temporali e nascondere tesori piuttosto in cielo che in terra, (23) là dove né la ruggine li consuma né la tignola li distrugge e i ladri né saccheggiano né rubano, la vostra ricompensa è copiosissima nei cieli, (24) e quasi degnamente avete meritato di essere chiamata sorella, sposa e madre del Figlio del Padre Altissimo e della gloriosa Vergine.
(25) Credo infatti fermamente che abbiate appreso che il regno dei cieli non è promesso e donato dal Signore che ai poveri, perché, quando si ama una cosa temporale, si perde il frutto della carità; (26) ché non si può servire a Dio e a mammona, perché o si ama l’uno o si odia l’altro e o si serve l’uno e si disprezza l’altro; (27) e uno vestito non può lottare con uno nudo, perché chi ha donde essere tenuto cade a terra più presto; (28) e rimanere glorioso nel secolo e regnarvi con Cristo, giacché un cammello potrà passare per la cruna di un ago, prima che un ricco ascenda ai regni celesti. (29) Perciò gettaste le vesti, cioè le ricchezze temporali, per essere in grado assolutamente di non soccombere di fronte al lottatore, per poter entrare per la via stretta e la porta angusta nei regni celesti.
(30) Quale grande e lodevole scambio: abbandonare le cose temporali per le eterne, meritare i beni celesti per i terrestri, ricevere il centuplo per uno e possedere la vita beata.
(31) Perciò ho pensato che bisognava supplicare la eccellenza e la santità vostra con umili preghiere, nelle viscere di Cristo, per quanto posso, in modo tale che vi lasciate fortificare nel suo santo servizio, (32) crescendo di bene in meglio, di virtù in virtù, affinché colui che servite con tutto il desiderio del vostro spirito, si degni di elargire i premi desiderati.
(33) Vi scongiuro anche nel Signore, come posso, di volere, nelle vostre sante preghiere, raccomandare me, vostra serva, anche se inutile, e le altre sorelle a voi devote, dimoranti con me in monastero. Con l’aiuto di esse e (preghiere), possiamo meritare la misericordia di Gesù Cristo, affinché meritiamo di godere insieme con voi l’eterna visione.
(34) State bene nel Signore e pregate per me.

Introduzione storica
Quando Chiara le scrisse questa lettera, Agnese era nel momento di svolta radicale della sua vita: erano falliti i diversi progetti matrimoniali, per le alterne vicende della politica europea, ed era morto il padre nel 1230.
In questi anni Agnese non era rimasta strumento passivo nelle mani del padre e del fratello Venceslao, ma aveva mostrato doti e determinazione non comuni, al punto da riuscire a realizzare il suo ideale di vita religiosa, sull’esempio di S. Chiara.
Di tutti gli episodi, che portarono Agnese a iniziare la sua vita in monastero, ci sono ampi riferimenti in questa prima lettera, che deve essere stata scritta o nel 1234, appena saputo della sua vestizione, o nel 1235, quando già era stata eletta abbadessa.
È un primo contatto: Chiara, infatti, usa il « voi », mentre nelle lettere successive userà un più familiare « tu ». É una lettera molto rispettosa, come si conviene a una missiva indirizzata ad una donna, che, seppur più giovane, appartiene a un rango sociale tanto elevato, ma è anche molto esplicita nel presentare l’ideale di povertà, proprio delle comunità di Damianite.
Chiara, tra l’altro, mette in mostra una buona sensibilità letteraria: probabilmente dettava, perciò uno o due copisti parteciparono alla redazione definitiva, ma i contenuti sono tipicamente clariani. Sono pagine di una scrittrice mistica, che con semplicità, profondità e partecipazione, comunica la sua stupenda esperienza dell’amore divino e del più elevato amore umano.
I tre livelli di comprensione della fede, con i quali si può dividere la lettera (sponsale, cristologico, escatologico), lo dimostrano.

Contenuto
L’attrattiva di una vita povera per il credente
La lettura più superficiale della 1LAg mette ben in chiaro che il tema della povertà struttura lo scritto. Rendiamoci conto che la 1LAg viene scritta nel 1235, un anno dopo che Agnese e le sue giovani amiche avevano deciso di tuffarsi nell’avventura evangelica. E’, dunque, uno scritto che si rivolge di primo impeto alla vertiginosa attrattiva del Vangelo intuito in tutta la sua forza. Vuole essere il coraggio che non si nasconde dietro le difficoltà, di fronte alla bella offerta dell’orizzonte cristiano.
Andando più a fondo, scopriamo nella 1LAg tre interessanti livelli di comprensione della fede dal punto di vista della povertà:
a) Livello sponsale (3-15: 2860-2863): La vita povera rende possibile l’amare-toccare-stare unita a Gesù in una forma di fruizione di enorme bellezza: Gesù è il pretendente che cattura totalmente nella spirale dell’amore, è colui che adorna la persona con l’ornamento che porta dritto all’amore pieno. Un modo d’intendere la povertà partendo dal calore dell’affetto. Vedersi amata è per Chiara la ragione che sostiene la sua opzione di povera.
b) Livello cristologico (15-24: 2864-2866): Tutto quello che si è detto sarebbe una pericolosa effusione di falso misticismo se non si comprendesse che la ragione della vita povera si radica nella realtà stessa di Gesù. Se egli non fosse entrato in questo cammino della povertà, l’avventura di questa vita sarebbe un rischio suicida. Al contrario, rendendosi conto del contenuto cristologico della povertà cristiana, le si dà la più fedele e sicura delle garanzie.
c) Livello escatologico (25-30: 2867-2878): Il cammino di una vita sempre più aderente al modo di vivere povero di Gesù svela i valori di un altro modo di vivere in pienezza che è quello dell’orizzonte della fede. Precisamente l’inserire l’opzione nel cuore di Gesù e in un modo di vita estremo ma gioioso, fanno sì che il desiderio di pienezza non sia un sogno falso. ma un impulso per la vita, un desiderio che nasce dalla più concreta e dura esperienza dell’oggi. Crediamo che la mistica di una opzione di vita povera che qui si studia sia lontana dalle false alienazioni o dalle distorsioni della realtà. È entrando in queste profondità che una opzione di vita evangelica nell’alveo della povertà può giungere a dare senso assoluto all’opzione cristiana.
Tutte le lettere di Chiara si risolvono, in ultima analisi, in questo guardare a fondo la realtà di Gesù. Per questo, quando Chiara ha compreso che nella povertà si assume lo stesso destino del Crocifisso, si è tuffata a fondo in essa, non come se volesse fare della vita povera un duro campo di battaglia ascetico o istituzionale, ma come il maggior dono e la maggiore possibilità che le si offriva nella sua vita. Non c’è da meravigliarsi che Chiara abbia avvolto tutto ciò in un evidente tono di affetto, poiché comprende l’opzione di vita nella linea della povertà come il segno affettuoso e caldo di Colui che le si offre in totale apertura e amore. Misteri delicati e intensi della vita di fronte al Regno.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 10 août, 2012 |Pas de commentaires »

4 agosto: Santo Curato d’Ars (scritti scelti, stralcio)

http://www.unavox.it/Strumenti/Meditazioni/meditaz008.htm

Santo Curato d’Ars

(San Giovanni Maria Vianney, scritti scelti)

Dio contempla con amore un’anima pura, le concede tutto quello che essa chiede. E come potrebbe resistere ad un’anima che vive soltanto per Lui, per mezzo di Lui e in Lui? Essa lo cerca e Dio si mostra a lei; Lo chiama e Dio viene; è tutt’uno con Lui. Essa incatena la sua volontà.
Non si può capire il potere che un’anima pura ha sul buon Dio. Non è lei che fa la volontà di Dio, è Dio che fa la sua.
Un’anima pura ? come una bella perla. Finché è nascosta in una conchiglia in fondo al mare, nessuno pensa ad ammirarla, ma se la mostrate al sole, essa risplende e attira gli sguardi: cosí è dell’anima pura, nascosta adesso agli occhi del mondo, risplenderà un giorno dinanzi agli angeli, nel sole dell’eternità.

Quanto piú i giusti sono nell’innocenza, tanto piú riconoscono la loro povera miseria e praticano l’umiltà senza la quale non si può andare in cielo.
L’umiltà è come la catena del rosario; se la catena si rompe, i granelli se ne vanno; se cessa l’umiltà, tutte le virtú spariscono.
L’umiltà è come una bilancia: quanto piú ci si abbassa da un lato, tanto piú si è innalzati dall’altro.
Fu chiesto ad un santo qual era la prima virtú: «È l’umiltà», rispose – E la seconda? – «L’umiltà» – E la terza? – «L’umiltà».
L’umiltà disarma la giustizia di Dio.

Un’anima pura súscita l’ammirazione delle tre Persone della Santissima Trinità. Il Padre contempla la sua opera: «Ecco dunque la mia creatura…». Il Figlio, il prezzo del suo Sangue: si conosce la bellezza di un oggetto dal prezzo che è costato … Lo Spirito Santo vi abita come in un tempio.
Quanto piú ci si rende poveri per l’amore di Dio, tanto piú si è ricchi in realtà!

Non tutti coloro che si avvicinano [ai Sacramenti] sono santi, però i santi saranno sempre scelti tra coloro che li ricevono spesso.
I santi sono come tanti piccoli specchi nei quali Gesú Cristo si contempla.
Nei suoi apostoli [Gesú] contempla il suo zelo e il suo amore per la salvezza delle anime; nei martiri, contempla la sua pazienza, le sue sofferenze e la sua morte dolorosa; nei solitari, egli vede la sua vita oscura e nascosta; nelle vergini, ammira la sua purezza senza macchia, e in tutti i santi, la sua carità senza limiti, di modo che, ammirando le virtú dei santi, non facciamo altro che ammirare le virtú di Gesú Cristo.
Sí, con una preghiera fatta bene, possiamo comandare al cielo e alla terra; tutto ci obbedirà.
Se siete nell’impossibilità di pregare, nascondetevi dietro al vostro angelo, e incaricatelo di pregare al posto vostro.
Non dovremmo perdere la presenza di Dio, piú di quanto non perdiamo la respirazione.
La preghiera è per la nostra anima ciò che la pioggia è per la terra. Concimate una terra quanto volete, se manca la pioggia, tutto quello che farete non servirà a nulla.
Non c’è bisogno di pregare tanto per pregare bene. Si sa che il buon Dio è lí, nel santo Tabernacolo; gli si apre il cuore, ci si compiace della sua presenza. Questa è la migliore preghiera.
Quando prego, mi figuro Gesú mentre prega il Padre suo.
Il buon Dio ama essere importunato.
Bisogna pregare molto semplicemente e dire: Mio Dio, ecco un’anima ben povera che non ha niente, che non può nulla, fammi la grazia di amarti, di servirti e di conoscere che non so nulla.
Il buon Dio non ha bisogno di noi: se ci comanda di pregare, è perché Egli vuole la nostra felicità, e perché la nostra felicità può trovarsi soltanto là.
Quando siamo dinanzi al Santo Sacramento, invece di guardare attorno a noi, chiudiamo i nostri occhi e la nostra bocca, apriamo il nostro cuore, il buon Dio aprirà il suo, andremo a Lui, Egli verrà a noi, l’uno per chiedere e l’altro per ricevere; sarà come un soffio dall’uno all’altro.

Venite alla comunione, venite a Gesú, venite a vivere di Lui, al fine di vivere per Lui.
Tutti gli esseri della creazione hanno bisogno di nutrirsi per vivere; per questo il buon Dio ha fatto crescere gli alberi e le piante; è una bella tavola ben servita dove tutti gli animali vengono a prendere ognuno il cibo che gli conviene. Ma anche l’anima deve nutrirsi… Quando Dio volle dare un nutrimento alla nostra anima, per sostenerla nel pellegrinaggio della vita, Egli pose il suo sguardo sulla creazione e non trovò nulla che fosse degna di lei. Allora si ripiegò su sé stesso e decise di dare sé stesso… O anima mia, quanto sei grande, dal momento che soltanto Dio può appagarti.
«Tutto quello che chiederete al Padre nel nome mio, Egli ve lo concederà». Mai avremmo pensato di chiedere a Dio il suo proprio Figlio. Ma ciò che l’uomo non può dire o concepire, e che non avrebbe mai osato desiderare, Dio, nel suo amore, l’ha detto, l’ha concepito e l’ha adempiuto.

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