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LA FILOTEA DI SAN FRANCESCO DI SALES – CAPITOLO XXIX – LA MALDICENZA

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LA FILOTEA DI SAN FRANCESCO DI SALES

CAPITOLO XXIX – LA MALDICENZA

Il giudizio temerario causa preoccupazione, disprezzo del prossimo, orgoglio e compiacimento in se stessi e cento altri effetti negativi, tra i quali il primo posto spetta alla maldicenza, vera peste delle conversazioni. Vorrei avere un carbone ardente del santo altare per passarlo sulle labbra degli uomini, per togliere loro la perversità e mondarli dal loro peccato, proprio come il Serafino fece sulla bocca di Isaia.
Se si riuscisse a togliere la maldicenza dal mondo, sparirebbero gran parte dei peccati e la cattiveria. A chi strappa ingiustamente il buon nome al prossimo, oltre al peccato di cui si grava, rimane l’obbligo di riparare in modo adeguato secondo il genere della maldicenza commessa. Nessuno può entrare in Cielo portando i beni degli altri; ora, tra tutti i beni esteriori, il più prezioso è il buon nome. La maldicenza è un vero omicidio, perché tre sono le nostre vite: la vita spirituale, con sede nella grazia di Dio; la vita corporale, con sede nell’anima; la vita civile che consiste nel buon nome. Il peccato ci sottrae la prima, la morte ci toglie la seconda, la maldicenza ci priva della terza. Il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie tre delitti.- uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta e toglie la vita civile a colui del quale sparla. Dice S. Bernardo che sia colui che sparla come colui che ascolta il maldicente, hanno il diavolo addosso, uno sulla lingua e l’altro nell’orecchio. Davide, riferendosi ai maldicenti dice: Hanno affilato le loro lingue come quelle dei serpenti.
Il serpente ha la lingua biforcuta, a due punte, come dice Aristotele; tale e quale è quella del maldicente, che con un sol morso ferisce e avvelena l’orecchio di chi ascolta e il buon nome di colui di cui parla male.
Per questo ti scongiuro, carissima Filotea, di non sparlare mai di alcuno, né direttamente, né indirettamente. Sta attenta a non attribuire delitti e peccati inesistenti al prossimo, a non svelare quelli rimasti segreti, a non gonfiare quelli conosciuti, a non interpretare in senso negativo il bene fatto, a non negare il bene che sai esistere in qualcuno, a non fingere di ignorarlo, tanto meno poi devi sminuirlo a parole; agendo in questo modo offenderesti seriamente Dio, soprattutto se dovessi accusare falsamente il prossimo o negassi la verità a lui favorevole; mentire e contemporaneamente nuocere al prossimo è doppio peccato.
Coloro che per seminare maldicenza fanno introduzioni onorifiche, e che la condiscono di piccole frasi gentili, o peggio di scherno, sono i maldicenti più sottili e più velenosi.
Protesto, dicono, che gli voglio bene e che per il resto è un galantuomo, ma, continuano, la verità va detta: ha avuto torto nel commettere quella perfidia; quella è una ragazza virtuosissima, ma si è lasciata sorprendere…, e simili piccole cornici!
Non capisci dov’è l’arte? Chi vuol scoccare una freccia, la tira più che può a sé, ma è soltanto per scagliarla con maggior forza: si può anche avere l’impressione che costoro tirino a sé la maldicenza, ma è soltanto per scoccarla con maggior sicurezza, per farla penetrare più a fondo nel cuore di coloro che ascoltano.
La maldicenza portata sotto forma di scherno è la più cattiva di tutte; fa pensare alla cicuta che, di per sé, non è un veleno molto forte, anzi ha un’azione lenta e facilmente vi si può porre rimedio, ma se viene ’1 vino, è senza scampo; lo stesso è di una presa con maldicenza che, di natura sua, secondo il detto, entrerebbe da un orecchio e uscirebbe dall’altro e che invece penetra fortemente nella mente degli ascoltatori quando è presentata in un contesto di parole sottili e gioviali.
Dice Davide: Hanno il veleno dell’aspide sotto le loro labbra. La puntura dell’aspide è quasi impercettibile, e il suo veleno dà sulle prime un prurito gradevole, che allarga così il cuore e le viscere e favorisce così l’assorbimento del veleno, contro il quale non ci sarà più nulla da fare.
Non dire mai: Il tale è un ubriacone, anche se l’hai visto ubriaco davvero; quello è un adultero, perché l’hai visto in adulterio; è incestuoso perché l’hai sorpreso in quella disgrazia; una sola azione non ti autorizza a classificare la gente. Il sole si fermò una volta per favorire la vittoria di Giosuè e si oscurò un’altra volta per la vittoria del Salvatore; a nessuno viene in mente per questo di dire che il sole è immobile e oscuro.
Noè si ubriacò una volta; e così anche Lot e questi, in più, commise anche un grave incesto: non per questo erano ubriaconi, e non si può dire che quest’ultimo fosse incestuoso. E non si può dire che S. Pietro fosse un sanguinario perché una volta ha versato sangue, né che fosse bestemmiatore perché ha bestemmiato una volta.
Per classificare uno vizioso o virtuoso bisogna che abbia fatto progressi e preso abitudini; è dunque una menzogna affermare che un uomo è collerico o ladro, perché l’abbiamo visto adirato o rubare una volta soltanto.
Anche se un uomo è stato vizioso per lungo tempo, sì rischia di mentire chiamandolo vizioso.
Simone il lebbroso chiamò Maddalena peccatrice, perché lo era stata prima; mentì, perché non lo era più, anzi era una santa penitente; e Nostro Signore la difese. Quell’altro Fariseo vanesio considerava grande peccatore il pubblicano, ingiusto, adultero, ladro; ma si ingannava, perché proprio in quel momento era giustificato.
Poiché la bontà di Dio è così grande che basta un momento per chiedere e ottenere la sua grazia, come facciamo a sapere che uno, che era peccatore ieri, lo sia anche oggi? Il giorno precedente non ci autorizza a giudicare quello presente, e il presente non ci autorizza a giudicare il passato. Solo l’ultimo li classificherà tutti.
Non potremo mai dire che un uomo è cattivo senza pericolo di mentire. In caso che sia necessario parlare possiamo dire che ha commesso tale o tal’altra azione cattiva, che ha condotto una vita disordinata in tale periodo, che agisce male al presente; ma non è lecito da ieri tirare delle conclusioni per oggi, né da oggi per ieri, e ancor meno da oggi per domani.
Se è vero che bisogna essere molto attenti a non parlare mai male del prossimo, però bisogna anche guardarsi dall’estremo opposto, in cui cadono alcuni, i quali, per paura di fare della maldicenza, lodano e dicono bene del vizio.
Se ti imbatti in un maldicente senza pudore, per scusarlo, non dire che è una persona libera e franca; di una persona apertamente vanesia, non dire che è generosa e senza complessi; le libertà pericolose non chiamarle semplicità e ingenuità; non camuffare la disobbedienza con il nome di zelo, l’arroganza con il nome di franchezza, la sensualità con il nome di amicizia.
Cara Filotea, per fuggire il vizio della maldicenza, non devi favorire, accarezzare, e nutrire gli altri vizi; ma con semplicità e franchezza, devi dire male del male e biasimare le cose da biasimare; solo se agiamo in questo modo diamo gloria a Dio.
Fa però attenzione ed attienti a quello che ora ti dirò.
Si possono lodevolmente biasimare i vizi degli altri, anzi è necessario e richiesto, quando lo esige il bene di colui di cui si parla o di chi ascolta.
Facciamo degli esempi: supponi che in presenza di ragazze vengano raccontate delle licenziosità commesse da Tizio e da Caia: è una cosa senz’altro pericolosa; oppure supponi che si parli della dissolutezza verbale di un tale o di una tale, sempre esemplificando; o ancora di una condotta oscena: se io non biasimo chiaramente quel male, o, peggio, tento di scusarlo, quelle tenere anime che ascoltano, avranno la scusa per lasciarsi andare a qualche cosa di simile; il loro bene esige che, con molta franchezza, biasimi all’istante quelle sconcezze. Potrei riservarmi di farlo in un altro momento soltanto se sapessi di ricavarne sicuramente un miglior risultato togliendo allo stesso tempo importanza ai colpevoli.
P, necessaria anche un’altra cosa: per parlare del soggetto devo averne l’autorità, o perché sono uno di quelli più in evidenza nel gruppo; nel qual caso se non parlo, avrò l’aria di approvare il vizio: se invece nel gruppo non godo di molta considerazione, devo guardarmi bene dal fare censure.
Più di tutto Poi è necessario che io sia ponderato ed esatto nelle parole, per non dirne una sola di troppo: per esempio. se devo riprendere le eccessive libertà di quel giovanotto e di quella ragazza, perché chiaramente esagerate e pericolose, devo saper conservare la misura per non gonfiare la cosa nemmeno di un soffio.
Se c’è soltanto qualche sospetto, dirò soltanto quello; se si tratta di sola imprudenza, non dirò di più; se non c’è né imprudenza, né sospetto di male, ma soltanto materia perché qualche spirito malizioso faccia della maldicenza, non dirò niente del tutto o dirò soltanto quello che è,
Quando parlo del prossimo, la mia bocca nel servirsi della lingua è da paragonarsi al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra nervi e tendini: il colpo che vibro deve essere esattissimo nel non esprimere né di più né di meno della verità.
Un’ultima cosa: pur riprendendo il vizio, devi fare attenzione a non coinvolgere la persona che lo porta. Ti concedo di parlare liberamente soltanto dei peccatori infami, pubblici e conosciuti da tutti, ma anche in questo caso lo devi fare con spirito di carità e di compassione, non con arroganza e presunzione; tanto meno per godere del male altrui. farlo per quest’ultimo motivo è prova di un cuore vile e spregevole.
Faccio eccezione per i nemici dichiarati di Dio e della Chiesa; quelli vanno screditati il più possibile: ad esempio, le sette eretiche e scismatiche con i loro capi. E’ carità gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove.
Tutti si prendono la libertà di giudicate e censurare i governanti e parlar male di intere reazioni, lasciandosi guidare dalla simpatia: Filotea, non commettere quest’errore. Tu, oltre all’offesa a Dio, corri il rischio di scatenare mille rimostranze.
Quando senti parlare male, se puoi farlo con fondatezza, metti in dubbio l’accusa; se non è possibile, dimostra compassione per il colpevole, cambia discorso, ricorda e richiama alla mente dei presenti che coloro i quali non sbagliano lo devono soltanto a Dio. Riporta in se stesso il maldicente con buone maniere; se sai qualche cosa di bene della persona attaccata, dilla.

 

Publié dans:meditazioni, santi scritti |on 22 février, 2017 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO – LA PAZIENZA

http://www.augustinus.it/italiano/pazienza/index2.htm

SANT’AGOSTINO – LA PAZIENZA

La pazienza di Dio.
1. 1. La virtù dell’anima che chiamiamo pazienza è un dono di Dio così grande che noi parliamo di pazienza anche riferendoci a colui che a noi la dona; e vi intendiamo la tolleranza con cui egli aspetta che i cattivi si ravvedano. È vero infatti che il nome « pazienza » deriva da patire, ma pur essendo vero che Dio non può in alcun modo patire, tuttavia noi per fede crediamo, e confessiamo per ottenere la salvezza, che Dio è paziente. Ma questa pazienza di Dio, come essa sia e quanto sia grande, chi potrà descriverlo a parole? Noi possiamo affermare che egli non può patire nulla, eppure non lo diciamo impaziente ma pazientissimo. La sua pazienza è dunque ineffabile, come è ineffabile la sua gelosia, la sua ira e gli altri moti somiglianti, che se noi pensassimo essere uguali ai nostri, dovremmo escluderli tutti. Noi infatti non ne proviamo alcuno che non sia congiunto a turbamento, mentre è assurdo pensare che la natura divina, che è impassibile, provi turbamento. Dio infatti è geloso senza invidia, si adira senza alterarsi, ha compassione senza addolorarsi, si pente senza doversi ravvedere d’un qualsiasi errore. Così è paziente senza patire. Ora dunque, per quanto il Signore me lo concederà e per quanto lo permette la brevità del presente discorso, parlerò sulla natura della pazienza umana, che noi possiamo acquisire e dobbiamo avere.

La vera pazienza.
2. 2. È risaputo che la pazienza retta, degna di lode e del nome di virtù, è quella per la quale con animo equo tolleriamo i mali, per non abbandonare con animo iniquo quei beni, per mezzo dei quali possiamo raggiungere beni migliori. Pertanto chi non ha la pazienza, mentre si rifiuta di sopportare i mali, non ottiene d’essere esentato dal male ma finisce col soffrire mali maggiori. I pazienti preferiscono sopportare il male per non commetterlo piuttosto che commetterlo per non sopportarlo; così facendo rendono più leggeri i mali che soffrono con pazienza ed evitano mali peggiori in cui cadrebbero con l’impazienza. Ma soprattutto non perdono i beni eterni e grandi, quando non cedono ai mali temporanei e di breve durata poiché, come dice l’Apostolo, i patimenti del tempo presente non meritano d’essere paragonati con la gloria futura che si rivelerà in noi 1. Egli dice ancora: La nostra sofferenza, temporanea e leggera, produce per noi in maniera inimmaginabile una ricchezza eterna di gloria 2.

La grande pazienza dei cattivi.
3. 3. Volgiamo ora lo sguardo, o carissimi, alle fatiche, ai dolori e alle asperità che gli uomini sopportano per ciò che amano spinti dai loro vizi, per tutte quelle cose che quanto più si pensa abbiano ad arrecare felicità tanto più si diventa infelici nel desiderarle. Quanti rischi e molestie affrontano con la più grande pazienza per le false ricchezze, i vani onori e le frivole soddisfazioni. Li vediamo avidi di denaro, di gloria e di piaceri lascivi, che per ottenere le cose desiderate e non perderle quando le hanno ottenute, sopportano il calore, la pioggia, il freddo, i flutti e le burrasche più tempestose, le durezze e incertezze delle guerre, i colpi di piaghe crudeli e orribili ferite. E tutto questo sopportano non per una inevitabile necessità, ma per un atto colpevole della loro volontà.

La forza del desiderio rende tollerabili le fatiche e i dolori.
4. 4. In realtà la gente ritiene che l’avarizia, l’ambizione, la dissolutezza, le attrattive per i vari divertimenti rientrano nell’ambito d’una condotta irreprensibile, almeno finché per soddisfarle non si commettono azioni riprovevoli o delitti condannati dalle leggi umane. Ci sono infatti persone che si sottopongono a grandi fatiche e dolori per acquistare o aumentare il proprio capitale, per conseguire o conservare posti onorifici, per partecipare a gare agonistiche o venatorie, per ottenere plauso allestendo spettacoli teatrali. Se questo riescono a fare senza ledere i diritti altrui, è poco dire che dalla vacuità del popolo essi non vengono disapprovati e così se ne astengono. Al contrario vengono esaltati ed inneggiati; proprio come dice la Scrittura: Il peccatore è lodato nei desideri del suo cuore 3. In effetti è la forza dei desideri a farci tollerare fatiche e dolori e nessuno accetta spontaneamente di sopportare ciò che fa soffrire, se non per quello che diletta. Ma, come ho detto, le passioni ora nominate son considerate legittime, autorizzate dalla legge, e quanti ardono dal desiderio di appagarle sopportano con estrema pazienza molti disagi e asperità.

La straordinaria resistenza di Catilina.
5. 4. E che dire di quelle persone che sopportano molti e gravissimi disagi per crimini conclamati, e non per punirli ma per commetterli? Non parlano forse gli storici pagani di quel tale, famigerato assassino della patria, dicendo che era capace di sopportare la fame, la sete, il freddo; il suo corpo era in grado di tollerare digiuni, freddi e veglie oltre ogni immaginazione 4? E che dire dei briganti? Per tendere insidie ai passanti trascorrono notti insonni, e per sequestrare viandanti incolpevoli irrigidiscono sotto ogni genere di intemperie il loro animo e il loro corpo, dediti al male. Si racconta pure che alcuni di loro si torturano l’un l’altro, al segno che l’allenamento per sottrarsi alla pena non si differenzia per nulla dalla pena stessa. È probabile infatti che dal giudice non sarebbero torturati così atrocemente quanto lo si fa dai loro complici per impedire che vengano denunziati dal correo sottoposto a torture. In questi casi tuttavia la pazienza è, se mai, da ammirare, non da lodare; anzi, non è né da lodare né da imitare, poiché non si tratta di pazienza. Si potrà parlare di straordinaria insensibilità, ma non si trova nulla della pazienza; e quindi non c’è niente che possa essere giustamente lodato e niente che possa essere utilmente imitato. E quindi farai bene a giudicare quell’anima degna di tanto maggiore condanna quanto più dedica ai vizi le risorse destinate all’acquisto delle virtù. La pazienza è socia della sapienza, non schiava della concupiscenza; la pazienza è amica della buona coscienza, non avversaria dell’innocenza.

Criterio per distinguere la vera dalla falsa pazienza.
6. 5. Quando vedi qualcuno che soffre qualche male, non metterti subito a lodarne la pazienza, che è messa in luce solo dalla motivazione della pazienza. Se la motivazione è buona, la pazienza è vera. Se la motivazione non è resa impura dalla cupidigia, allora la pazienza si distingue da quella falsa. Quando la motivazione mira a un crimine, si fa un grande errore a chiamarla pazienza. Infatti non tutti coloro che sanno qualcosa posseggono la scienza; così non tutti coloro che patiscono qualcosa posseggono la pazienza. Solo chi della passione si serve per il bene merita l’elogio della vera pazienza e riceve la corona per la virtù della pazienza.

Sopportare i mali della vita per la beatitudine eterna.
7. 6. Gli uomini dunque sopportano con mirabile fortezza molte pene atroci per soddisfare le passioni, per commettere delitti o, quanto meno, per godere vita e salute nel tempo presente. Ciò è per noi un richiamo a sopportare disagi anche gravi per condurre una vita buona, in modo che alla fine conseguiamo la vita eterna: quella che ci assicura una felicità vera, senza scadenza di tempo, senza diminuzione di ciò che è positivo e vantaggioso. Il Signore disse: Con la vostra pazienza possederete le vostre anime 5. Non disse: « Le vostre ville », « i vostri onori », « i vostri piaceri », ma le vostre anime. Se dunque un’anima sopporta tanti disagi per possedere cose che la portano alla rovina, quanti non ne dovrà sopportare per possedere ciò che la sottrae alla rovina? E ora dirò una cosa dove non vi è questione di colpa: se uno soffre tanto per la propria salute fisica quando capita in mano ai medici che lo tagliano o bruciano, quanto non dovrà soffrire per la sua salute [eterna] attaccata da nemici furiosi, qualunque essi siano? I medici infatti facendo soffrire il corpo tentano di sottrarre il corpo alla morte; i nemici minacciando pene e morte al corpo sospingono l’anima e il corpo ad essere uccisi nella geenna.

Sopportando si provvede al bene del corpo stesso.
7. 7. C’è di più. Se per amore della giustizia si sacrifica la salute corporale, si provvede in maniera più efficace al bene del corpo stesso. Ciò vale anche se per amore della giustizia si sopportano con grande pazienza le sofferenze corporali e la stessa morte. Della redenzione finale del corpo parla infatti l’Apostolo quando dice: Noi gemiamo in noi stessi aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. E soggiunge: Noi siamo stati salvati nella speranza. La speranza poi, se la si vede, non è speranza. Ciò che infatti vede, come potrebbe uno sperarlo? Se invece speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con la pazienza 6.

La pazienza interessa l’anima e il corpo.
8. 7. Quando dunque ci affliggono mali che non ci inducono a commettere il peccato, esercitando la pazienza l’anima acquista il dominio di se stessa; non solo, ma se lo stesso corpo viene per qualche tempo colpito dal dolore o anche dalla morte, attraverso la pazienza lo si recupera per una salute stabile, anzi eterna, e così attraverso il dolore e la morte gli si procura una salute perfetta e un’immortalità felice. Al riguardo il Signore Gesù, volendo esortare i suoi martiri alla pazienza, promise loro che avrebbero ottenuto l’integrità del corpo senza subire la perdita non dico d’un qualche membro ma nemmeno di un capello. Diceva: Ve lo dico in verità: un solo capello della vostra testa non andrà perduto 7. E siccome son vere le parole dell’Apostolo: Nessuno ha mai odiato la sua carne 8, ne segue che il cristiano provvede al bene del suo corpo più con la pazienza che con l’intolleranza, e con il guadagno inestimabile dell’incorruttibilità futura compensa le tribolazioni della vita presente, per quanto grandi possano essere.
8. 8. Sebbene la pazienza sia una virtù dell’anima, tuttavia l’anima la esercita in parte su se stessa, in parte nei riguardi del corpo. La esercita in se stessa quando, senza che il corpo venga leso e toccato, l’anima è spinta dagli stimoli di avversità o da brutture reali o verbali a fare o a dire cose sconvenienti o indecorose; ma lei sopporta con pazienza tutti i mali per non commettere nulla di male con azioni o parole.

La pazienza dell’anima.
9. 8. In virtù di questa pazienza dell’anima noi, sani di corpo, sopportiamo che ci venga rinviata la nostra beatitudine e che ci tocchi di vivere fra gli scandali del tempo presente. A ciò si riferiscono le parole or ora menzionate: Se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con la pazienza. Per questa pazienza il santo [re] Davide sopportò le ingiurie di chi lo svillaneggiava e, sebbene potesse facilmente vendicarsi, non solo non si vendicò, ma trattenne dalla vendetta quell’altro che, addolorato, s’era fatto prendere dall’ira 9, e del suo potere regale si servì più per proibire che per esercitare la vendetta. In quel frangente non era il suo corpo che veniva tormentato da malattie o ferite, ma era il suo animo che, riconoscendo il momento dell’umiliazione, la sopportava per fare la volontà di Dio e per questo ingoiava con somma pazienza l’amara bevanda della contumelia. Questa pazienza ci insegnò il Signore quando disse che ai servi irritati per la mescolanza della zizzania [con il buon grano] e desiderosi di estirparla il padrone di casa rispose: Lasciate che [le due piante] crescano fino al tempo della mietitura 10. Infatti occorre sopportare con pazienza ciò che non si può eliminare con fretta. Di questa pazienza ci ha offerto un esempio palese lui stesso tollerando quel discepolo, che era ladro, vicino a sé fino al tempo della passione, cioè finché non lo denunziò come traditore 11. Prima di esperimentare le funi, la croce e la morte, non rifiutò il bacio di pace a quelle labbra menzognere 12. Tutti questi esempi, e i tanti altri che sarebbe lungo ricordare, rientrano in quel genere di pazienza dove l’anima non soffre per i suoi peccati, ma dentro di sé sopporta pazientemente quei mali che le provengono dal di fuori senza che il corpo ne venga minimamente colpito.

La pazienza dei martiri.

10. 8. C’è un altro campo per esercitare la pazienza: quello in cui l’anima tollera gli affanni e i dolori derivanti dai patimenti del corpo: non certo quelli che soffrono gli uomini stolti o perversi per raggiungere vani ideali o per perpetrare delitti ma, com’ebbe a determinare il Signore, per la giustizia 13. L’uno e l’altro combattimento sostennero i santi martiri. Vennero infatti coperti di contumelie da parte degli empi, e in quel caso l’animo rimanendo saldo sosteneva come delle sue proprie ferite, mentre il corpo ne era esente; per quanto poi riguarda il loro corpo, essi furono legati, incarcerati, affamati e assetati, torturati, segati, squartati, bruciati, uccisi barbaramente. Con incrollabile fedeltà sottomisero il loro spirito a Dio, mentre nel corpo soffrivano tutto ciò che la crudeltà dei persecutori seppe immaginare.

La pazienza nella lotta contro il diavolo.
10. 9. È più grande la lotta che sostiene la pazienza quando non si tratta d’un nemico visibile che perseguitando con ferocia ti spinge al male (esso è allo scoperto, e chi non gli consente lo vince in maniera palese), ma si tratta del diavolo stesso che, servendosi magari di gente incredula come di suoi strumenti, perseguita i figli della luce ovvero, rimanendo occulto li assale e con ferocia li stimola a fare e a dire cose che dispiacciono a Dio.

La pazienza di Giobbe.
11. 9. L’ira di questo nemico ebbe ad esperimentare il santo Giobbe: da lui fu aspramente provato con le due specie di tentazione, ma in tutt’e due riuscì vincitore con l’immutabile forza della pazienza e le armi della pietà. In principio, rimanendo illeso il corpo, soffrì la perdita di tutto ciò che aveva; e così, prima che il suo corpo subisse tormenti, il suo animo fu lacerato dalla perdita di quei beni che gli uomini hanno più a cuore, e, siccome si pensava che egli servisse Dio in vista di quei beni, ne doveva seguire che perdendoli avrebbe bestemmiato contro di lui. Fu colpito anche dalla morte improvvisa di tutti i figli: li aveva avuti uno dopo l’altro, li perse tutti in una volta; e se erano stati numerosi, questo non fu per accrescere la sua gioia ma per aumentare la sventura. Quando gli toccò di soffrire tutti questi mali, egli rimase fermo nella fedeltà a Dio, sempre unito alla volontà di colui che non avrebbe potuto perdere se non per una scelta della sua propria volontà; e, a posto di tutto quello che perse, gli rimase colui che glielo toglieva, colui nel quale avrebbe trovato ciò che era imperituro. A togliergli i beni infatti non era stato il maligno che l’aveva voluto danneggiare, ma colui che aveva dato a lui il potere di farlo.

Giobbe più avveduto di Adamo.
12. 9. Il nemico lo aggredì anche nel corpo, e lo colpì non solo nei beni che sono al di fuori dell’uomo ma anche nella sua stessa persona, in ogni parte dove gli fu possibile. Dalla testa ai piedi dolori di fuoco, vermi che uscivano, putridume che colava; ma in quel corpo in disfacimento l’animo restava integro e sopportava con pietà inalterata e pazienza invitta gli orribili tormenti d’una carne imputridita. Accanto a lui c’era la moglie, ma al marito non dava alcun aiuto, anzi lo esortava a bestemmiare Dio. Il diavolo, che a Giobbe aveva rapito i figli, nel lasciargli la moglie non si comportò da inesperto nell’arte del nuocere, avendo imparato già in Eva quanto una donna può rendersi utile al tentatore 14. Solo che questa volta non s’imbatte in un altro Adamo, da poter prendere al laccio tramite la donna. Fra i dolori, costui fu più accorto che non quell’altro fra gli allori: quello era nel godimento e fu vinto, questi era nella sofferenza e vinse; quello credette alle lusinghe, questo non si piegò di fronte ai tormenti. E c’erano anche gli amici: non per confortarlo nella sventura, ma per avanzare sospetti sulla sua colpevolezza. Non credevano infatti che un uomo colpito da tanti mali potesse essere innocente, e la loro lingua pronunziava accuse di colpe che erano estranee alla sua coscienza. E così mentre il corpo soffriva atroci dolori, anche l’anima era flagellata da infondate rampogne. Ma ecco Giobbe sopportare nel corpo i propri dolori, nel cuore le calunnie altrui. Rimproverava alla moglie la stoltezza, agli amici insegnava la sapienza, in tutto conservava la pazienza.

Deprecabile l’impazienza dei donatisti.
13. 10. Guardino a Giobbe quei tali che si danno la morte quando sono ricercati perché vivano. Togliendosi la vita presente essi si escludono anche da quella futura. Quand’anche li si costringesse a rinnegare Cristo o a commettere peccati contro la giustizia, come succedeva ai veri martiri, essi dovrebbero sopportare tutto con pazienza anziché darsi la morte per impazienza. Se infatti ci si potesse suicidare lecitamente per schivare le sofferenze, il santo Giobbe si sarebbe ucciso senz’altro per sottrarsi ai mali così gravi che la crudeltà del diavolo gli aveva causato negli averi, nei figli e nelle membra del corpo. Ma egli non lo fece. Impensabile infatti che un uomo sapiente come lui compisse su se stesso un gesto che nemmeno la moglie insipiente aveva osato suggerirgli. E se gliel’avesse suggerito, si sarebbe anche in tal caso buscata la risposta che ascoltò quando suggerì la bestemmia: Hai parlato come una donna stupida. Se dalla mano di Dio abbiamo ricevuto i beni, perché non dovremmo accettare anche i mali? 15 Quanto a lui, avrebbe perduto la pazienza sia che fosse morto bestemmiando, come voleva la moglie, sia che fosse morto uccidendosi, come nemmeno lei aveva osato proporgli. In ogni caso sarebbe stato del numero di coloro di cui è stato detto: Guai a chi perde la pazienza! 16 Invece di sottrarsi alle pene, le avrebbe accresciute in quanto, dopo la morte del corpo, sarebbe incorso nei supplizi riservati ai bestemmiatori, o agli omicidi, o a chi è peggio dei parricidi. Il parricida infatti è colpevole più d’ogni altro omicida, poiché uccide non solo un uomo ma un consanguineo, e fra gli stessi parricidi uno è ritenuto tanto più crudele quanto più prossimo è il congiunto che uccide. Ora chi uccide se stesso è peggiore di tutti i parricidi, perché nessuno è vicino a noi più di noi stessi. Quanto dunque non sarà grave la colpa di quei miseri che si infliggono da se stessi delle pene in questa vita e di là debbono scontare non solo quelle dovute alla loro empietà verso Dio ma anche quelle dovute alla crudeltà verso se stessi? Ma essi, per di più, presumono gli onori dei martiri! Anche se avessero sostenuto la persecuzione per una vera testimonianza a Cristo e si fossero uccisi per sfuggire ai persecutori, giustamente si applicherebbero ad essi le parole: Guai a chi perde la pazienza! In che modo infatti si potrebbe concedere loro con giustizia il premio della pazienza se questo andasse a coronare un martirio dovuto all’impazienza? Ovvero, uno che si è sentito dire: Amerai il prossimo tuo come te stesso 17, come può essere giudicato innocente se commette omicidio contro se stesso, quando è proibito commetterlo contro il prossimo?

La pazienza dei buoni.
14. 11. Vogliano dunque i santi ascoltare dalla Sacra Scrittura alcuni precetti di pazienza: Figlio, se ti presenti a servire Dio, sta’ saldo nella giustizia e nel timore e prepara la tua anima alla tentazione. Umilia il tuo cuore e sii coraggioso: così alla fine si accrescerà la tua vita. Accogli tutto ciò che ti sopraggiunge, e nel dolore sopporta e nella umiliazione sii paziente. Poiché l’oro e l’argento si provano col fuoco, gli uomini accetti [a Dio] nella fornace dell’umiliazione 18. In un altro testo si legge: Figlio, non venir meno sotto la disciplina del Signore e non stancarti quando da lui sei rimproverato. Egli infatti rimprovera colui che ama e usa i flagelli con il figlio che gli è caro 19. Quanto qui si dice e cioè: Il figlio che gli è caro corrisponde a gli uomini accetti del testo di prima. È giusto infatti che noi, scacciati dalla originaria felicità del paradiso per un’ostinata voglia di piaceri, vi siamo riammessi mediante l’umile sopportazione delle nostre sventure. Fuggimmo facendo il male, torniamo sopportando il male; lassù operatori di ingiustizia, quaggiù coraggiosi nella prova per amore della giustizia.

La sorgente della pazienza.
15. 12. Dobbiamo ora chiederci da dove procede la vera pazienza, degna del nome di virtù. Ci sono infatti di quelli che l’attribuiscono alle forze della volontà umana, non a quelle che ricevono dall’aiuto divino, ma a quelle che hanno dal libero arbitrio. Ora questo errore nasce dalla superbia ed è l’errore di coloro che abbondano, secondo le parole del salmo: Obbrobrio per quelli che abbondano e disprezzo per i superbi 20. Non è quindi questa la pazienza dei poveri, che non perisce in eterno 21. Quei poveri che la ricevono da quel ricco al quale si dice: Sei tu il mio Dio, perché non hai bisogno dei miei beni 22; dal quale viene ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto 23; a lui grida il bisognoso e il povero che loda il suo nome, e chiedendo, cercando e bussando dice: Mio Dio, liberami dalla mano del peccatore, dalla mano di chi trasgredisce la legge e dell’uomo iniquo, perché tu sei, Signore, la mia pazienza, la mia speranza fin dalla mia giovinezza 24. Ma questa gente stracolma [di sé] non si degna di presentarsi mendicante dinanzi a Dio per ricevere da lui la vera pazienza. Vantandosi della loro falsa pazienza, vogliono confondere il proposito dell’indigente, la cui speranza è il Signore 25. Non pensano che, essendo uomini, coll’attribuire un risultato così grande alla propria volontà, che è volontà umana, incorrono nella condanna della Scrittura: Maledetto ogni uomo che ripone nell’uomo la sua speranza 26. Ma ecco che costoro in forza della stessa loro volontà accecata dalla superbia sopportano stenti ed asperità per non dispiacere alla gente o per evitare mali maggiori o per compiacere se stessi o per amore del loro orgoglio presuntuoso. In tal caso, riguardo alla [loro] pazienza bisognerebbe dire quel che l’apostolo san Giacomo dice della sapienza: Questa sapienza non proviene dall’alto, ma è sapienza terrena, animalesca, diabolica 27. Perché infatti non equiparare la falsa pazienza dei superbi alla loro falsa sapienza? In realtà la vera pazienza viene a noi da colui dal quale ci deriva la vera sapienza. A lui canta quel povero di spirito che dice: A Dio è soggetta la mia anima, perché da lui è la mia pazienza 28.

Pazienza e volontà umana.
16. 13. Essi rispondono facendo questi ragionamenti: Se la volontà umana senza alcun aiuto di Dio ma con le sole forze del libero arbitrio sopporta tanti mali gravi e orribili, sia nell’animo che nel corpo, per godere del piacere di questa vita mortale e dei peccati; perché allo stesso modo la medesima volontà con le stesse forze del libero arbitrio e senza aspettarsi alcun aiuto da parte di Dio, ma sufficiente a se stessa per la naturale possibilità, non sopporta pazientemente per la giustizia e la vita eterna qualunque fatica o dolore dovesse capitare? Dicono ancora: La volontà dei malvagi è capace, senza l’aiuto divino, di far loro affrontare tormenti per l’iniquità anche prima che altri vengano a torturarli; la volontà di coloro che amano i passatempi della vita terrena, senza l’aiuto di Dio, riesce a far sì che essi perseverino nella menzogna, pur in mezzo a tormenti quanto mai atroci e prolungati, affinché non abbiano a confessare i loro delitti ed essere puniti con la morte. E non sarà in grado la volontà dei giusti, senza l’aiuto d’una forza che le venga dall’alto, di sopportare qualsiasi pena per la bellezza che è propria della giustizia e per amore della vita eterna?

Pazienza, carità e aiuto divino.
17. 14. Quelli che dicono queste cose non comprendono che tra i malvagi uno è tanto più resistente a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore del mondo, mentre tra i giusti uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio. Ma l’amore del mondo ha la sua origine dall’arbitrio della volontà, il suo progresso dal diletto del piacere e la sua fermezza dal vincolo dell’abitudine, mentre la carità di Dio è diffusa nei nostri cuori, non certamente da noi, ma dallo Spirito Santo che ci è stato dato 29. Perciò la pazienza dei giusti viene da colui per mezzo del quale è diffusa la loro carità. Lodando e inculcando questa carità l’Apostolo dice che essa, fra gli altri pregi, possiede anche quello di sopportare ogni cosa. La carità, dice, è longanime, e dopo un poco: La carità sopporta tutto 30. Quanto maggiore è dunque nei santi la carità di Dio tanto più facile è per loro sopportare ogni cosa per ciò che amano. Parimenti è dei peccatori: quanto più è grande in loro la cupidigia mondana tanto più riescono a sopportare tutto per soddisfare le loro voglie disordinate. Pertanto la vera pazienza dei giusti deriva da quella sorgente da cui deriva la carità divina; la falsa pazienza dei malvagi deriva dalla sorgente da cui proviene la cupidigia mondana. Ecco quanto dice al riguardo l’apostolo Giovanni: Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, non c’è in lui l’amore del Padre, poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione secolaresca, e questo non proviene dal Padre ma dal mondo 31. E questa concupiscenza, che non proviene dal Padre ma dal mondo, quanto più è forte e ardente nell’uomo, tanto più quest’uomo diviene paziente di fronte ai disagi e ai dolori che deve affrontare per ciò che desidera. Ne segue, come abbiamo già detto, che una tale pazienza non discende dall’alto, mentre viene dall’alto la pazienza dei santi, che scende dal Padre della luce. Pertanto l’una è terrena, l’altra celeste; l’una animale, l’altra spirituale; l’una diabolica, l’altra divinizzatrice. E la ragione di ciò è che la concupiscenza per la quale i peccatori sopportano tenacemente ogni male deriva dal mondo, mentre deriva da Dio la carità per la quale i buoni sopportano con fortezza tutti i loro mali. Va quindi da sé che l’uomo con la sua volontà, senza l’aiuto di Dio, ha risorse sufficienti per avere la pazienza falsa; e questo uomo diviene tanto più ostinato quanto più cupido, tanto più resistente di fronte ai mali quanto più cresce in malvagità. Quanto alla vera pazienza invece, la volontà umana non è in grado di conseguirla senza l’aiuto divino che la infiammi. Ora questo fuoco è lo Spirito Santo; e finché questo Spirito non viene ad infiammarla d’amore per il Bene inalterabile, la volontà non sarà mai capace di sopportare il male che l’affligge.

Doni di Dio, la carità e la pazienza.
18. 15. Come attestano gli autori divinamente ispirati, Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui 32. Chi pretende di poter avere la carità di Dio senza l’aiuto di Dio, che altro pretende se non che si possa avere Dio senza Dio? Ora, quale cristiano oserebbe dire questo, se non lo direbbe nessuno che sia soltanto sano di mente? Nell’Apostolo invece ecco come esulta la pazienza vera, pia, fedele, che per bocca dei santi dice: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Dunque non per merito nostro ma per virtù di colui che ci ha amati. Poi prosegue aggiungendo: Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né potenze, né presente né avvenire, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore 33. È questa la carità di Dio che è stata diffusa nei nostri cuori: non conquistata da noi ma diffusa dallo Spirito Santo che ci è stato donato 34. Viceversa è della concupiscenza dei cattivi, che è all’origine della loro falsa pazienza: essa non proviene dal Padre, come dice l’apostolo Giovanni, ma dal mondo 35.

Volontà umana e mondo presente.
19. 16. A questo punto qualcuno potrà obiettare: « Se la concupiscenza per la quale i cattivi tollerano ogni sorta di mali per ottenere quanto da loro desiderato deriva dal mondo, come si fa a dire che essa deriva dalla loro volontà? ». Quasi che essi stessi non siano nel mondo quando amano il mondo abbandonando il Creatore del mondo! Essi infatti si pongono al servizio delle creature e non del Creatore che è benedetto nei secoli 36. Se quindi Giovanni col nome di mondo ha voluto indicare coloro che amano il mondo, la volontà di gente come questa appartiene senz’altro al mondo; se invece col nome di mondo ha voluto indicare il cielo, la terra e le cose che vi si trovano, ha cioè voluto abbracciare tutto l’insieme del mondo creato, la volontà della creatura, in quanto diversa da quella del creatore, senza alcun dubbio appartiene al mondo. E per questo a tali persone dice il Signore: Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo 37. E agli apostoli diceva: Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Quindi li ammoniva a non attribuire a se stessi quanto oltrepassava i confini della loro umanità e a non pensare che il non appartenere al mondo, di cui aveva parlato, fosse risorsa della natura e non dono della grazia. Diceva così: Poiché voi non siete del mondo ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia 38. Essi dunque erano del mondo, e se non erano più mondo ciò dipendeva dal fatto che egli li aveva scelti di fra mezzo al mondo.

Grazia divina e meriti dell’uomo.
20. 17. Non ci sono opere buone antecedenti che meritino questa elezione: che è una elezione di grazia. Lo asserisce l’Apostolo quando scrive: Anche in questo tempo un resto è stato salvato attraverso una elezione di grazia. Ora, se è grazia, non deriva dalle opere; altrimenti la grazia non sarebbe grazia 39. È dunque, questa, una elezione della grazia, cioè una elezione per la quale gli uomini vengono eletti con un dono della grazia di Dio. È, dico, una elezione della grazia che previene tutti i meriti dell’uomo. Se infatti fosse concessa per un qualche merito di opere buone, non sarebbe più una grazia donata ma un debito che viene retribuito, e quindi non sarebbe esatto chiamarlo grazia. Lo dice lo stesso Apostolo: Dove c’è una ricompensa, questa non viene concessa per grazia, ma come compenso di un debito 40. Per essere quindi una vera grazia, cioè dono gratuito, essa non deve trovare nell’uomo nulla per cui gli sia dovuta; e questo, come ben si comprende, è detto anche nelle parole: Tu li salverai senza alcunché 41. È infatti la grazia che dona i meriti; non è essa che viene donata per i meriti. Essa precede la stessa fede, che segna l’inizio di ogni opera buona, come sta scritto: Il giusto vive per la fede 42. È poi questa grazia che non solo dà l’aiuto ai giusti ma anche la giustizia agli empi: per cui anche quando sostiene i giusti, e sembrerebbe accordata per i loro meriti, nemmeno allora cessa d’essere grazia, poiché è lei che viene in aiuto a quanto essa stessa aveva elargito. Per meritarci questa grazia che precede tutti i meriti di opere buone compiute dall’uomo, Cristo non solo fu ucciso per mano di empi ma morì per gli empi 43. Egli prima di morire si scelse gli apostoli: i quali certamente non erano giusti ma dovevano essere giustificati da lui, se a loro poteva dire: Io vi ho scelti dal mondo. Diceva dunque loro: Voi non siete del mondo, ma affinché non pensassero che non erano stati mai del mondo subito aggiunse: Io vi ho scelti dal mondo 44. Evidentemente il non essere del mondo fu un dono ad essi accordato nella elezione fatta dal Signore. E pertanto, se fossero stati scelti per la loro giustizia e non per un dono della sua grazia, non sarebbero stati scelti dal mondo, poiché se erano giusti, essi già non erano del mondo. Ma c’è di più. Se fossero stati scelti perché erano giusti, erano stati loro stessi a scegliersi per primi il Signore. Infatti chi può essere giusto senza scegliersi la giustizia? Ecco però che fine della legge è Cristo per la giustizia di quanti credono 45 [in lui]. Egli infatti per opera di Dio è diventato per noi e giustizia e santificazione e redenzione, affinché, come sta scritto, chi si vanta si vanti nel Signore 46. Quindi la nostra giustizia è lui.

Anche nel V. Testamento la giustizia era dono di Dio.
21. 18. Da questo si conclude che anche i giusti dell’Antico Testamento, nati cioè prima dell’incarnazione del Verbo, furono giustificati per questa fede in Cristo e per quella giustizia vera che per noi è Cristo, avendo essi creduto che si sarebbe realizzato in futuro ciò che noi crediamo essersi già realizzato. Anch’essi furono salvati mediante la fede ad opera della grazia: quindi non per loro iniziativa ma per un dono di Dio, non in virtù delle opere perché non si inorgoglissero 47. Le loro opere buone infatti non prevennero la misericordia di Dio ma la seguirono. Tant’è vero che essi udirono [queste parole], anzi essi stessi le scrissero tanto tempo prima che Cristo si incarnasse: Io farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò pietà di chi vorrò aver pietà. Da queste parole di Dio molto tempo dopo l’apostolo Paolo concludeva: Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre ma da Dio che usa misericordia 48. È anche loro quella voce risuonata tanto tempo prima dell’incarnazione di Cristo: Il mio Dio, la sua misericordia mi previene 49. Ebbene, come potevano essere senza la fede in Cristo coloro per la cui carità Cristo è stato preannunziato anche a noi, se è vero che senza la fede in lui nessun mortale ha potuto mai essere giusto, né lo può ora, né lo potrà in seguito? Se dunque gli apostoli furono scelti da Cristo quando erano giusti, sarebbero stati loro a scegliersi per primi Cristo, e successivamente, siccome erano giusti, poterono essere da lui scelti.Senza di lui infatti non potevano essere giusti. Ma le cose non sono andate così. Infatti egli disse loro: Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. Per questo dice l’apostolo Giovanni: Non siamo stati noi ad amare [per primi] Dio, ma Dio per primo ha amato noi 50.

Prima che la grazia ci scegliesse eravamo tutti peccatori.
22. 19. Se le cose stanno così, l’uomo che in questa vita agisce facendo leva sulla propria volontà, prima che Dio l’abbia scelto e l’abbia amato, cos’è se non un peccatore e un empio? Cos’è, dico, l’uomo creatura fuorviata e lontana dal Creatore 51, se il Creatore non si ricordasse di lui e venisse a sceglierlo gratuitamente e gratuitamente lo amasse? Se scelto e amato [da Dio] egli non viene antecedentemente risanato, egli non può scegliersi [Dio] né amarlo, poiché per la sua cecità non può vedere ciò che deve scegliere e per la sua malattia ha nausea per ciò che deve amare. Qualcuno però potrebbe obiettare: Come fa Dio a scegliersi antecedentemente e ad amare gli iniqui per renderli giusti se è stato scritto: Tu, Signore, hai in odio tutti gli operatori di iniquità 52? Come crederemo che avvenga questo se non in maniera ineffabile, che ci lascia pieni di stupore? Vien da pensare a un medico buono, che insieme odia e ama il malato: odia il fatto che sia malato, ama la persona da cui vuol allontanare la malattia.

La carità radice della vera pazienza.
23. 20. Questo sia detto riguardo alla carità, senza la quale ci è impossibile acquisire la vera pazienza. In effetti chi nei buoni tutto sopporta è la carità di Dio, come nei cattivi è la cupidigia mondana. Ora questa carità è in noi ad opera dello Spirito Santo che ci è stato donato: per cui, come da lui abbiamo la carità, così da lui abbiamo anche la pazienza. Quanto alla cupidigia mondana invece, quando sopporta con pazienza il peso di qualsiasi sventura può attribuirlo alle forze della volontà umana e vantarsene, ma è come un vantarsi della paralisi d’una malattia, non del vigore della salute. È, questo, un vanto pazzesco: non di chi è paziente ma dissennato. Questa tale volontà infatti tanto più si presenta paziente nel sopportare mali anche atroci quanto maggiore è l’avidità con cui cerca i beni temporali. Così facendo però si mostra priva dei beni eterni.

La volontà perversa e lo spirito del male.
24. 21. Può accadere che lo spirito del male, e chi è con lui associato, con aspirazioni peccaminose a volte renda la volontà umana o delirante nell’errore o ardente nella brama dei diversi piaceri mondani, sconvolgendola e infiammandola con vane fantasie e suggestioni immonde. Tuttavia, quando vediamo che tale volontà cattiva sopporta in modo sorprendente cose intollerabili, non per questo dobbiamo dire che essa sopporti il male per istigazione d’uno spirito immondo estraneo a lei, come accade per la volontà buona, la quale non può essere buona senza l’aiuto dello Spirito Santo. Che la volontà umana può esser cattiva senza che venga a sedurla o a stimolarla un qualche spirito appare assai chiaramente nella storia del diavolo stesso, il quale non risulta che sia diventato diavolo per la spinta d’un altro diavolo ma per colpa della sua volontà. Lo stesso è della volontà cattiva dell’uomo quando la cupidigia l’attira o il timore la frena, quando la gioia la dilata o la tristezza la raggela, eppure essa, nonostante che sia turbata da tutti questi moti dell’anima, affronta sprezzante quanto ad altri o a lei stessa in altri momenti sarebbe oltremodo gravoso. Senza lo stimolo di alcuno spirito esterno essa stessa può traviarsi e scivolare in basso, abbandonando le cose superiori per quelle inferiori. E quanto maggiore ritiene che sia il piacere derivante dalle cose che vuol possedere o teme di perdere, o da ciò che, possedendo, le dà gioia o che, perduto, la addolora, tanto più le sarà facile sopportare, in vista di quel piacere, ciò che le risulta meno gravoso a sopportare in confronto con ciò che ritiene più allettante a possedere. Ad ogni buon conto però, qualunque sia questo piacere, esso deriva dalla creatura, di cui conosciamo le propensioni. Quando infatti si ama una cosa creata, questa è vicina alla creatura che la ama con un contatto e rapporto in certo qual modo familiare, poiché se ne può assaporare direttamente la dolcezza.

Dio ci dona la buona volontà.
25. 22. La delizia che si ha nel possesso del Creatore, della quale dice la Scrittura: E tu li disseterai al torrente della tua delizia 53, è di tutt’altra natura. Dio infatti non è creatura, come lo siamo noi. Se quindi l’amore per lui non ci viene dato da lui stesso, non c’è altra sorgente da cui possiamo attingerlo. E pertanto la buona volontà, con cui si ama Dio, non può essere nell’uomo se Dio non opera in lui il volere e l’agire 54. Or eccola questa volontà buona: una volontà soggetta fedelmente a Dio, una volontà accesa da un santo fuoco celeste, una volontà che ama Dio e il prossimo per amore di Dio. È animata dall’amore per il quale l’apostolo Pietro poté rispondere: Signore, tu sai che io ti amo 55; è animata dal timore, di cui l’apostolo Paolo diceva: Operate la vostra salvezza con timore e trepidazione 56; è animata dalla gioia, di cui si dice: Gioiosi nella speranza, pazienti nella tribolazione 57; è animata anche dalla tristezza, che l’Apostolo dice d’aver provato, e grande, per i suoi fratelli 58. Se dunque questa volontà sopporta amarezze e disagi, è perché la carità di Dio è stata effusa nei nostri cuori 59, e questo non da altri all’infuori dello Spirito Santo che ci è stato donato 60.

Dono di Dio la carità di chi ama santamente.
26. 22. È una verità di cui nessun’anima fedele dubita: come è dono di Dio la carità di chi ama santamente, così lo è anche la pazienza di chi sopporta [i mali] con abbandono filiale. Non vuole infatti ingannarci né si inganna la Scrittura, la quale già nei libri dell’Antico Testamento attesta questa verità quando dice a Dio: Tu sei la mia pazienza 61, e ancora: Da lui viene a me la mia pazienza 62, mentre un altro profeta afferma che noi riceviamo da lui lo Spirito di fortezza. Negli scritti degli apostoli poi si legge: Per quanto riguarda Cristo, è stato fatto a voi il dono non solo di credere in lui ma anche di patire per lui 63. Sentendo che si tratta di cosa ricevuta in dono, l’anima non se ne inorgoglisca come se si trattasse di conquista propria.

La pazienza degli scismatici.
26. 23. Ora parliamo di uno che non ha quella carità di Cristo per cui si partecipa all’unità dello spirito e al vincolo della pace con cui la congregazione della Chiesa cattolica è tenuta insieme, ma si trova nello scisma. Se costui per non rinnegare Cristo sopporta con pazienza, spinto dal timore dell’inferno e delle pene eterne, le tribolazioni, le privazioni, la fame, la nudità, la persecuzione, i pericoli, le carceri, le catene, le torture, la spada, il fuoco, le belve o la stessa croce, non dovremo fargli una colpa quando soffre tutto ciò, anzi dobbiamo lodarne la pazienza. Non si potrà mai dire infatti che sarebbe stato meglio per lui se, rinnegando Cristo, avesse evitato tutti quei patimenti che ha subìto per confessarlo. Probabilmente dovremo ritenere che per lui ci sarà un giudizio meno severo che se fosse sfuggito agli stessi patimenti rinnegando Cristo. Nel quale caso le parole dell’Apostolo: Se consegnerò alle fiamme il mio corpo ma non avrò la carità non mi giova a nulla 64 debbono essere intese nel senso che ciò non mi gioverà a nulla per ottenere il regno dei cieli, non che non mi renderà più tollerabile la pena nel giudizio finale.

È dono di Dio anche la pazienza degli scismatici.
27. 24. È giusto indagare se sia dono di Dio o non si debba piuttosto attribuire alle forze della volontà umana la pazienza per la quale lo scismatico, temendo le pene eterne, sopporta dolori temporali non per l’errore che lo portò alla separazione ma per la verità del sacramento o della parola che in lui si è conservata. Occorre essere cauti. Se infatti diciamo che tale pazienza è dono di Dio, si potrebbe anche ritenere che quanti la posseggono fan parte del regno di Dio; se invece diciamo che non è dono di Dio, dovremmo necessariamente concludere che anche senza l’aiuto di Dio e senza un suo dono ci possa essere nella volontà dell’uomo qualcosa di buono. Non è infatti cosa cattiva credere che l’uomo sarà punito con il castigo eterno se rinnega Cristo e per una tal fede sopportare con animo risoluto tutti i supplizi umani.
27. 25. Pertanto non si deve negare che anche questo è dono di Dio, ma occorre precisare che di tutt’altro genere sono i doni concessi ai figli di quella Gerusalemme celeste, che è libera ed è la nostra madre.

Eredi e diseredati nel regno di Dio.
28. 25. Alcuni infatti di questi doni sono, per così dire, beni ereditari per noi che siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo; altri invece li possono ricevere anche i figli delle concubine, ai quali vogliamo paragonare i giudei increduli, gli scismatici e gli eretici. È vero infatti che si trova scritto: Scaccia la serva e suo figlio, poiché il figlio della serva non potrà essere erede insieme con il mio figlio Isacco 65. È vero anche che ad Abramo Dio disse: Da Isacco prenderà nome la tua discendenza 66, testo che l’Apostolo interpreta dicendo: Cioè non sono figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza son considerati i figli della promessa. Con questo egli ci fa comprendere che le parole « figli di Abramo in Isacco » si riferiscono, a motivo di Cristo, a quei figli di Dio che sono corpo e membra di Cristo, cioè che sono la Chiesa di Dio, una, vera, fraterna, cattolica, saldamente ancorata nella santa fede. Non colei che agisce per orgoglio o per timore ma colei che è mossa dall’amore 67. Nonostante questo, però, rimane vero che anche ai figli delle concubine Abramo, quando li allontanò dal suo figlio Isacco, diede dei doni affinché non restassero del tutto a mani vuote, sebbene non fossero accolti come eredi. Così infatti leggiamo: Abramo diede ogni suo avere al figlio Isacco, ma anche ai figli delle concubine fece dei doni quando li allontanò dal figlio Isacco 68. Se dunque noi siamo i figli della Gerusalemme che è la donna libera, rendiamoci conto che anche per i diseredati ci sono doni, sebbene diversi da quelli degli eredi. Eredi poi sono coloro ai quali è detto: Voi non avete ricevuto uno spirito da servi per ricadere di nuovo nel timore, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi nel quale gridiamo: Abbà, Padre 69.

L’eterna ricompensa dei fedeli pazienti.
29. 26. Gridiamo dunque [a Dio] mossi dallo Spirito di carità; e finché non arriviamo al possesso di quell’eredità dove vivremo per sempre, esercitiamo la pazienza animati da amore filiale, non da timore servile. Finché siamo poveri, gridiamo attendendo d’essere arricchiti dell’eredità celeste. Da lassù abbiamo ricevuto grandi pegni quando Cristo si è fatto povero per arricchirci, e da lui, elevato al possesso delle ricchezze eterne, è stato inviato lo Spirito Santo, che suggerisce ai nostri cuori santi desideri. Noi infatti ora siamo dei poveri, che credono e non contemplano ancora, che sperano e non posseggono ancora; che sospirano col desiderio e ancora non regnano felici; hanno fame e sete e ancora non sono sazi: di questi poveri è la pazienza che non perisce in eterno 70, non perché anche lassù seguiterà ad esserci la pazienza dove non ci saranno mali da sopportare, ma, se si dice che non perisce in eterno, è perché non resterà infruttuosa. Non andrà perduta in eterno perché eterno sarà il suo frutto. Chi infatti lavorando consegue risultati inconsistenti, deluso nella speranza per la quale lavora, dice giustamente: « Ho sprecato tutto il mio lavoro ». Il contrario è di chi giunge a conseguire quanto si riprometteva con il suo lavoro.Tutto allegro dice: « Non ho sprecato il mio lavoro ». Si dice dunque di un lavoro che non è andato perduto non perché esso dura per sempre ma perché non è stato fatto invano. Così è della pazienza dei poveri di Cristo, degli eredi di Cristo che [da lui] saranno fatti ricchi. Essa non perisce in eterno non perché anche nell’aldilà ci sarà comandato di tollerare pazientemente qualcosa, ma perché godremo della beatitudine eterna in premio di ciò che ora abbiamo sopportato con pazienza. Colui che nel tempo ha dato alla volontà di essere paziente non permetterà che abbia fine la felicità, che è eterna. Pazienza e felicità sono infatti frutto della carità, che è anch’essa un dono [divino].

Publié dans:Sant'Agostino, santi scritti |on 7 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

CORRERE NELLA VIA DELLA SALVEZZA – SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/insegnamenti/correresalvezzasimeone.htm

CORRERE NELLA VIA DELLA SALVEZZA – SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

Catechesi XXVIII              

Fratelli e padri, fate attenzione come ascoltate. Il Cristo Dio dice infatti: “Scrutate le Scritture” (Giovanni 5, 39). E perché dice questo? Per prima cosa perché noi siamo istruiti sulla via che conduce alla salvezza; poi, perché camminando senza distrarci, con la pratica dei comandamenti, arriviamo fino alla salvezza delle nostre anime. E che cos’è dunque la nostra salvezza? Gesù, il Cristo, come l’Angelo, drizzandosi davanti ai pastori, disse loro: “Ecco che vi annuncio una Buona Notizia, una grande gioia: vi è nato oggi un Salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di David” (Luca 2, 10-11). Affrettiamoci, dunque, tutti e ciascuno, miei cari, corriamo con forza, senza caricarci di nulla di pesante, di mondano, di ingombrante, che rischierebbe di farci rallentare il passo e di impedirci di arrivare e di entrare nella città di David. Vi prego, per la grazia che opera in voi, non trascurate la vostra salvezza, ma presto! Ponendo fine a questa specie di sonno della cattiva presunzione e della negligenza, non arrestiamoci, non sediamoci: fino a che, usciti dal mondo, troviamo e vediamo là in alto il nostro Salvatore e Dio, per prostrarci e cadere ai suoi piedi. Ed allora, non fermiamoci fino a quando anche lui ci dica: “Voi, voi non siete del mondo, ma sono io che vi ho scelto dal mondo” (Giovanni 15, 19).             Come dunque si arriva a non essere del mondo? Crocifiggendoti per il mondo, ed il mondo per te, come ha già detto Paolo: “Per me il mondo è stato crocifisso ed io per il mondo” (Galati 6, 14). “E qual è il rapporto, tu chiedi, di queste parole con le precedenti?”. Risposta: “Altre sono le parole, ma unico e identico è il senso delle une e delle altre”. Come infatti colui che è al di fuori della casa non vede quelli che sono chiusi all’interno, così chi è crocifisso per il mondo e mortificato non ha davanti alle cose del mondo alcuna sensazione. Ed ancora come il corpo morto né davanti ai corpi viventi né davanti ai corpi che giacciono con lui, non prova la minima sensazione, così chi nello Spirito divino è uscito dal mondo, essendo in compagnia di Dio, non può provare alcuna sensazione davanti al mondo ed alle cose del mondo.             È così, di conseguenza, fratelli, che si produce, prima della morte e prima della resurrezione dei corpi, la resurrezione delle anime, in opera, in potenza, in esperienza ed in verità. Infatti, essendo eliminati i sentimenti mortali dall’intelligenza immortale e la mortalità cacciata dalla vita, l’anima allora, come resuscitata dai morti, vede se stessa, senza dubbio possibile, come si vedono quelli che si svegliano dal sonno, e riconosce colui che l’ha resuscitata, Dio, e, comprendendo e rendendogli grazie, adora e glorifica la sua infinita bontà. Il corpo, al contrario, in rapporto ai suoi propri desideri, non ha il minimo soffio, movimento o ricordo, ma si trova in simile caso del tutto morto ed inanimato. Capiterà frequentemente in queste condizioni che l’uomo dimentichi per così dire persino le sue facoltà naturali, poiché la sua anima ha un’esistenza tutta intellettuale è al di sopra della natura. Ed è normale: “Camminate con lo Spirito, dice infatti la Scrittura, e non realizzate il desiderio della carne” (Galati 5, 16). Infatti morta, come ho detto, per la venuta dello Spirito, la carne ci lascerà ormai senza noie e vivrete senza inciampi, poiché “la legge non è fatta per il giusto” (1 Timoteo 1, 9), secondo il divino apostolo, cioè per colui che ha una condotta al di sopra della legge. “Là infatti – dice – dove è lo Spirito del Signore, là anche è la libertà” (2 Corinti 3, 17), libertà sicuramente dalla schiavitù della legge. Giacché la legge è una guida, un pedagogo, un conduttore ed un maestro di giustizia, poiché dice: “Tu farai questo e quello” ed al contrario: “Questo e quello tu non lo farai”. Ma per la grazia e per la verità, non è così. Ma come, allora? “Farai e dirai tutto secondo la grazia che ti è stata donata e che parla in te, come è scritto: ‘E saranno tutti istruiti da Dio’, poiché non apprenderanno il bene dalle lettere e dai caratteri, ma si istruiranno nel Santo Spirito, e non nella parola solamente, ma nella luce della parola e nella parola della luce, misticamente iniziati alle cose divine. Ed allora infatti che per voi stessi come per il prossimo, è detto, voi sarete maestri”, e più ancora: la luce del mondo, il sale della terra (Matteo 5, 14; 13).             Quelli dunque che vivevano prima della grazia, poiché erano sotto la legge, si trovano ugualmente sotto la sua ombra; ma quelli che sono arrivati dopo la grazia e la luce, sono stati liberati dall’ombra o schiavitù della legge, cioè sono innalzati al di sopra di essa, come per una scala – la vita evangelica – trasportati nelle altezze e partecipando alla vita del legislatore, sono legislatori essi stessi piuttosto che osservanti della legge.   Trad. di C. R. L.  

Publié dans:Ortodossia, santi scritti |on 11 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

SAN MASSIMO DI TORINO – PARTICIPIO PASSATO O PARTICIPIO PRESENTE?

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SAN MASSIMO DI TORINO – PARTICIPIO PASSATO O PARTICIPIO PRESENTE?

Participio passato o participio presente? San Massimo di Torino risponderebbe così. In margine alla Colletta della VI domenica di Pasqua.

MAGGIO 6, 2015 

Scrivere sulla preghiera Colletta della VI domenica di Pasqua può essere pericoloso: tanti e tanti sono gli spunti che potrebbe offrire questo testo, che nel Messale ci appare come un solo testo, ma che in verità è la centonizzazione di altri tre testi, molto più antichi. Può essere interessante affrontare questo testo da un dettaglio che non è proprio minimo, nonostante possa apparire secondario. Nella traduzione italiana, c’è una sfasatura temporale, in riferimento ai giorni di letizia. Vediamo: Fac nos, omnipotens Deus, hos laetitiae dies, quos in honorem Domini resurgentis exsequimur, affectu sedulo celebrare, ut quod recordatione percurrimus semper in opere teneamus Nel testo del Messale italiano, i giorni di letizia sono in onore “del Cristo risorto”, mentre nell’originale latino il participio presente suggerisce meglio una certa contemporaneità. Certamente, la traduzione non avrebbe potuto essere strettamente letterale – giorni di letizia in onore di Cristo risorgente -, ma non si vede la difficoltà di un’espressione italiana come la seguente: “giorni di letizia in onore di Cristo che risorge”. Si tratta di sfumature, e forse non vale la pena di farne una questione di stato, ma può essere comunque utile notare queste piccolezze: siamo nel tempo pasquale, e l’unità della cinquantina poteva essere evidenziata anche in tale attenzione temporale. Quel participio dovrà essere passato o presente? Al di là delle regole grammaticali o dello stile linguistico, qui vale, prima di tutto, la regola liturgica e “lo stile di Dio”: l’azione pasquale di Dio è perennemente presente, e i miracoli di Cristo non passano con il passare degli anni, figuriamoci se passano con il passare dei giorni! Su questo dovremo tornare, per oggi (!) sarà sufficiente e bello ascoltare alcuni passaggi di san Massimo di Torino, tratti da un sermone nella festa dell’Epifania, in cui il brano evangelico era la pericope delle nozze di Cana: I miracoli di Cristo, infatti, sono tali che non passano per la distanza di anni, ma acquistano vigore per la grazia; non vengono sepolti dall’oblio, ma si rinnovano quanto a efficacia. Dinanzi alla potenza di Dio in realtà niente risulta abolito, niente risulta passato. In rapporto alla sua grandezza tutto è per lui al presente. Per lui tutto il tempo è oggi  [totum illi tempus est hodie] e di conseguenza il santo profeta dice: Mille anni ai suoi occhi come un giorno solo. E se tutto il tempo di secoli è un giorno solo per il Signore, nello stesso giorno in cui il Salvatore operò meraviglie per i nostri padri le operò anche per noi. Perciò anche noi come i nostri antenati vediamo i miracoli del Signore, quando li guardiamo con stupore pari al loro. Anche noi come loro abbiamo dolcemente bevuto dalle stesse idrie: essi vi hanno attinto una coppa di vino, mentre noi ne abbiamo ricavato il calice di salvezza.

San Massimo di Torino, Sermone 102,2.

edizione: Massimo di Torino, Sermoni liturgici (Letture cristiane del primo millennio 28) (ed. M. Mariani Puerari), Milano 1999, 350; cf. CCL 23, 406

DALLA “LETTERA AI FEDELI” DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20020210_lettera-fedeli-3_it.html

DALLA “LETTERA AI FEDELI” DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

A cura della Pontificia Facoltà “San Bonaventura” (Seraphicum).

« Oh, come è glorioso, santo e grande avere in cielo un Padre! Oh, come è santo e bello e amabile avere in cielo uno Sposo! Oh, come è santo, come è caro, piacevole e umile, pacifico e dolce e amabile e sopra ogni cosa desiderabile avere un tale fratello che offrì la sua vita per le sue pecore (Gv 10,15) e pregò il Padre per noi dicendo: Padre santo, custodisci nel nome tuo coloro che mi hai dato. Padre, tutti coloro che mi hai dato nel mondo erano tuoi e li hai dati a me; e le parole che desti a me le ho date a loro; ed essi le hanno accolte e veramente hanno riconosciuto che io sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro; non prego per il mondo. Benedicili e santificali. E per loro io santifico me stesso, affinché anche loro siano santificati in un’unità come lo siamo noi. E voglio, o Padre, che dove sono io ci siano con me anche loro, affinché vedano la gloria mia nel tuo regno (Gv 17,6-24). E poiché patì tanto per noi e ci gratificò di tanti doni e continuerà a gratificarcene per il futuro, ogni creatura che è in cielo e in terra e nel mare e nella profondità degli abissi (Ap 5,13), renda a Dio lode, gloria e onore e benedizione, poiché egli è la nostra virtù e la nostra forza. Egli che solo è buono (Lc 18,19), che solo è altissimo, che solo è onnipotente e ammirabile, glorioso e santo, degno di lode e benedetto per gli infiniti secoli dei secoli. Amen. » 

Preghiera Altissimo, onnipotente, bon Signore, tue so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione. A te solo, Altissimo, se confano e nullo omo è digno te mentovare. Laudato sie, mi Signore, cun tutte le tue creature, spezialmente messer lo frate Sole, lo quale è iorno, e allumini noi per lui.Ed ello è bello e radiante cun grande splendore: de te, Altissimo, porta significazione.Laudato si, mi Signore, per sora Luna e le Stelle: in cielo l’hai formate clarite e preziose e belle. Laudato si, mi Signore, per frate Vento, e per Aere e Nubilo e Sereno e onne tempo, per lo quale a le tue creature dai sustentamento. Laudato si, mi Signore, per sor Aqua, la quale è molto utile e umile e preziosa e casta. Laudato si, mi Signore, per frate Foco, per lo quale enn’allumini la nocte: ed ello è bello e iocondo e robustoso e forte. Laudato si, mi Signore, per sora nostra madre Terra, la quale ne sostenta e governa, e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba. Laudato si, mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore e sostengo infirmitate e tribulazione. Beati quelli che ‘l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scampare. Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali! Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati, ca la morte seconda no li farrà male. Laudate e benedicite mi Signore, e rengraziate e serviteli cun grande umiltate.

 

Publié dans:San Francesco d'Assisi, santi scritti |on 17 février, 2016 |Pas de commentaires »

ALCUNI INSEGNAMENTI DI SANTA TERESA D’AVILA

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/teresatocci.htm

ALCUNI INSEGNAMENTI DI SANTA TERESA D’AVILA

(è un po’ lungo – non tanto – le altre meditazioni, sono sette, da leggere)

FRANCO MICHELINI-TOCCI

Teresa d’Avila è una personalità che merita di essere considerata con attenzione da chiunque abbia interesse per la vita spirituale. Certo, un cristiano troverà nelle sue opere un linguaggio che gli è più familiare di altri, ma anche un buddhista o un induista, o chiunque altro, se vorrà cogliere il fondo del suo messaggio, troverà qualcosa di utile alla sua pratica, soprattutto dal punto di vista psicologico. Teresa è stata infatti, come lei stessa ci dice alla fine dell’autobiografia, una grande maestra spirituale, con una pratica di insegnamento affinata per tutta la vita. Una vita durata 67 anni, che si concluse nell’ottobre del 1582. La prima cosa che colpisce è la sua personalità, molto poco corrispondente alla visione edulcorata che la tradizione agiografica stende come un sudario su tutti i grandi canonizzati, col risultato di renderli lontani e inaccessibili, anziché farne modelli di vita per tutti. La chiesa sembra escludere l’idea che un santo possa sbagliare, cioè che possa essere umano, e così ogni volta che Teresa denuncia serenamente le sue colpe e le sue manchevolezze, troviamo a pie’ di pagina la nota di un pio commentatore impegnato a testimoniare con fervore che si sa bene che “non commise nessun peccato mortale”. Ma io preferisco credere a quello che Teresa, al pari della maggioranza degli altri santi, ci dice non soltanto sui propri sbagli, ma sugli sbagli che inevitabilmente possono toccare anche alle grandi personalità spirituali, almeno finché sono uomini e donne viventi sulla terra. Ecco le sue stesse parole:  Queste anime hanno vivi desideri e ferme risoluzioni di non commettere imperfezioni di sorta, ma non senza che per questo lascino di commetterne molte, e anche peccati. Non però con avvertenza…Parlo dei peccati veniali, non dei mortali, dai quali si sperano libere, benché non con molta sicurezza, essendo possibile che ne abbiano qualcuno di occulto. 1  Meriterebbe un cenno particolare, per cogliere meglio la personalità di Teresa, anche un suo dono specifico, che fu quello della relazione interpersonale, in particolare la sua capacità di affetti profondi, di devozioni assolute, di slanci che la portavano in estasi, tutti segni del suo carattere impulsivo, generoso, poco incline a rispettare le forme stereotipate della vita monastica, ma il discorso sarebbe lungo e ci distoglierebbe dal dedicare tutta l’attenzione a quello che ella chiamò “il metodo di orazione”, cioè la pratica seguita per giungere al momento culminante dell’“unione trasformante”. Nella sintesi che segue terremo conto, soprattutto, di ciò che può maggiormente interessare un praticante di meditazione. Bisogna dire intanto che l’“orazione” di Teresa ha poco a che fare con quello che la parola suggerisce. Ella infatti dichiara che aveva difficoltà con la preghiera verbale e immaginativa, difficoltà che fu poi superata dalla lettura di Osuna, un contemplativo suo contemporaneo, che suggeriva un metodo di preghiera basato essenzialmente sul raccoglimento. L’altra difficoltà consistette nel conflitto interiore nel quale visse i primi vent’anni della sua vita religiosa. Questo conflitto faceva sì che ella portasse nel raccoglimento tutti i problemi della sua vita non integrata, rivolta al mondo e non all’Assoluto. Alcune sue affermazioni fanno pensare che le maggiori difficoltà le derivassero da un autocompiacimento narcisistico, che creava naturalmente un ostacolo al non attaccamento e all’abbandono. Confessa ella infatti, con la sua tipica lucida sincerità: Dio mi ha dato la grazia di piacere a chiunque. Ho sempre cercato di contentare chiunque, nonostante la ripugnanza che a volte sentivo. 2 Quando infine, dopo un travaglio durato vent’anni, davanti a una statua dell’Ecce homo, immagine della totale rinuncia a se stessi, ebbe un’intuizione profonda di sé che le fece cambiare orientamento, incominciò per lei il periodo in cui la pratica dell’‘orazione’ le manifestò tutti i grandi doni che la resero famosa. Il metodo da lei praticato è esposto nelle sue opere principali, in modo più sistematico nel Castello interiore e nel Cammino di perfezione e, con un linguaggio più immediato, nella Vita scritta da lei stessa. Le prime considerazioni riguardano due fatti. Il primo è che questo tipo di lavoro interiore non è per tutti e che occorre una predisposizione, il secondo che è necessario un certo tipo di sforzo, maggiore all’inizio e sempre più leggero man mano che si procede, fino a cessare del tutto nel grado più alto. Questo lavoro consiste essenzialmente nel cercare di calmare l’irrequietezza della mente che è data, nel linguaggio classico di Teresa, dalla dispersione delle potenze, o facoltà, dell’anima: intelletto, memoria e volontà (noi potremmo dire, con un linguaggio oggi più accessibile: pensieri, ricordi e affetti). Tutto dunque nasce dall’osservazione, tipica dei mistici di tutti i paesi, che queste facoltà normalmente non sono soggette a controllo e, agendo a loro piacere, mantengono la psiche in stato di agitazione e di disordine, rendendo impossibile ogni tentativo di instaurare la pace e la calma interiori. Più precisamente, si potrebbe dire che lo stato disordinato in cui si trovano impedisce l’accesso a quel ‘fondo’ dell’anima (come per primi lo chiamano i mistici tedeschi) in cui regna sempre la quiete divina.

RACCOGLIMENTO, PRIME ‘STAZIONI’, PRIMA ACQUA Per ottenere questo risultato, lo sforzo iniziale consiste nel ‘raccoglimento’, che è un modo per tenere occupata la mente su un unico oggetto, evitando che si disperda come fa di solito. L’oggetto, indicato da Teresa, è in realtà più d’uno, ma questi si possono ridurre a tre o quattro principali. Al primo posto possiamo mettere quello più tradizionale per un cristiano, che è la meditazione, ossia l’attenta osservazione di un episodio importante della Scrittura, come per esempio la passione di Cristo. Tuttavia, in maniera piuttosto libera e originale, Teresa non si sogna nemmeno di dire che questo sia l’unico modo e ne suggerisce almeno altri tre. Uno consiste nella lettura di un libro, soffermandosi di tempo in tempo su qualcosa che attragga in modo particolare l’attenzione, l’altro nella meditazione di una propria mancanza o difficoltà e il terzo nella contemplazione della natura. “Per me bastava anche la vista dei campi, dell’acqua e dei fiori”, ci dice. 3 Poiché però sappiamo che questi inizi sono caratterizzati da sforzo, dobbiamo pensare che si debba esercitare una buona dose di volontà per mantenere l’attenzione concentrata il più possibile sull’oggetto prescelto. Scegliendo una metafora che le è cara, Teresa dirà che all’inizio della via si è simili a un giardiniere che attinga faticosamente l’acqua dal pozzo per innaffiare il giardino. In questa prima fase non mancano osservazioni rivolte ai principianti, che meritano, per l’acume con cui sono formulate, la dovuta attenzione. In particolare, viene segnalata l’importanza del fare tutto con leggerezza e allegria, senza cercare di soffocare i propri desideri, anche quando sono semplici e umanissimi desideri di riuscita nel cammino intrapreso. 4 La raccomandazione di non affidarsi in maniera acritica ai maestri spirituali (“oggi così rari e così pochi di numero”), 5 detta proprio da lei che si affidò totalmente ad alcuni di essi, mette in luce il fatto che il suo entusiasmo non fu mai disgiunto da una sicura capacità di giudizio. Metteva in guardia soprattutto contro coloro che, essendo inutilmente troppo prudenti, ostacolavano il cammino dei discepoli, costringendoli ad attenersi alle forme abituali della pratica, quando erano già pronti per passare alle forme superiori. Infine, meritano di essere ricordate, per una loro universale opportunità, tre raccomandazioni. La prima è quella di non credere che giovi al raccoglimento avere tutto quello che può sembrare necessario, in termini di silenzio o di ambiente adatto, sotto pretesto che le cure temporali disturbino l’orazione. La seconda, notevolissima per il suo anticonformismo, esprime diffidenza verso certi slanci comuni ai principianti: Quando non sapevo ancora come correggere me stessa, desideravo grandemente di fare del bene agli altri: tentazione molto comune ai principianti e che a me riuscì assai bene.  Appena si è cominciato a gustare la pace e i vantaggi dell’orazione, si desidera che tutti si facciano spirituali. 6 E la terza, dello stesso genere, riguarda la preoccupazione per i difetti altrui: (a volte) l’angustia è così viva che impedisce di fare orazione, con l’aggiunta anche di credere, per nostro maggior danno, che ciò sia virtù, perfezione e grande amore di Dio… Il più sicuro per l’anima che comincia a fare orazione è di dimenticare tutto e tutti per non attendere che a se stessa e accontentare il Signore. 7  Sembra dire con ciò Teresa che l’interesse per il bene altrui non è frutto dell’entusiasmo del principiante, ma conseguenza di un serio lavoro su di sé (senza che questo significhi però sforzo eccessivo, altra caratteristica da principianti). 8 Per semplicità tralascio i particolari che riguardano alcune distinzioni graduali in questa prima fase del raccoglimento. Teresa la divide in tre livelli, nei quali è possibile esaminare diverse forme delle prime difficoltà, come la tentazione di rinunciare e l’aridità interiore, quando sembra che anche gli sforzi non abbiano effetto di alcun genere e il principiante si sente depresso e smarrito. Questi diversi stadi sono chiamati, nel Castello interiore, col termine spagnolo di moradas, cioè di soste o tappe; nelle edizioni italiane più recenti è invalso l’uso di chiamarle ‘mansioni’, dal latino del vangelo di Giovanni (14, 2), espressione di senso piuttosto dubbio in italiano, che rischia il fraintendimento. Credo perciò che sarebbe meglio tradurre con ‘stazioni’, usando il termine con cui si traduce in genere l’espressione analoga usata nel sufismo, il misticismo musulmano, che poteva non essere del tutto ignoto a Teresa, non foss’altro che per ragioni di contiguità geografica e ambientale (il regno di Granata era caduto solo 23 anni prima che lei nascesse).E passiamo ora allo stadio successivo, che è quello della ‘quiete’.

Publié dans:santi scritti |on 15 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

RIFLETTI SULLA POVERTÀ, UMILTÀ E CARITÀ DI CRISTO – LETTERE DI SANTA CHIARA

http://www.maranatha.it/Feriale/santiProprio/0811Page.htm

RIFLETTI SULLA POVERTÀ, UMILTÀ E CARITÀ DI CRISTO – 11 AGOSTO: SANTA CHIARA

Dalla «Lettera alla beata Agnese di Praga» di santa Chiara, vergine

(Ed. I. Omaechevarria, Escritos de Santa Clara, Madrid 1970, pp. 339-341)

Felice certamente chi può esser partecipe del sacro convito, in modo da aderire con tutti i sentimenti del cuore a Cristo, la cui bellezza ammirano senza sosta tutte le beate schiere dei cieli, la cui tenerezza commuove i cuori, la cui contemplazione reca conforto, la cui bontà sazia, la cui soavità ricrea, il cui ricordo illumina dolcemente, al cui profumo i morti riacquistano la vita e la cui beata visione renderà felici tutti i cittadini della celeste Gerusalemme.
Poiché questa visione è splendore di gloria eterna, «riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia» (Sap 7, 26), guarda ogni giorno in questo specchio, o regina, sposa di Gesù Cristo. Contempla continuamente in esso il tuo volto, per adornarti così tutta interiormente ed esternamente, rivestirti e circondarti di abiti multicolori e ricamati, abbellirti di fiori e delle vesti di tutte le virtù, come si addice alla figlia e sposa castissima del sommo Re. In questo specchio rifulge la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità. Contempla lo specchio in ogni parte e vedrai tutto questo.
Osserva anzitutto l’inizio di questo specchio e vedrai la povertà di chi è posto in una mangiatoia ed avvolto in poveri panni. O meravigliosa umiltà, o stupenda povertà! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra è adagiato in un presepio!
Al centro dello specchio noterai l’umiltà, la beata povertà e le innumerevoli fatiche e sofferenze che egli sostenne per la redenzione del genere umano.
Alla fine dello stesso specchio noterai l’umiltà, la beata povertà e le innumerevoli fatiche e sofferenze che egli sostenne per la redenzione del genere umano. Alla fine dello stesso specchio potrai contemplare l’ineffabile carità per cui volle patire sull’albero della croce ed in esso morire con un genere di morte di tutti il più umiliante. Perciò lo stesso specchio, posto sul legno della croce, ammoniva i passanti a considerare queste cose, dicendo: «Voi tutti che passate per la via, considerare e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore!» (Lam 1, 12). Rispondiamo dunque a lui, che grida e si lamenta, con un’unica voce ed un solo animo: «Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima» (Lam 3, 20).
Così facendo ti accenderai di un amore sempre più forte, o regina del Re celeste.
Contempla inoltre le sue ineffabili delizie, le ricchezze e gli eterni onori, sospira con ardente desiderio ed amore del cuore, ed esclama: «Attirami dietro a te, corriamo al profumo dei tuoi aromi» (Ct 1, 3 volg.), o Sposo celeste. Correrò, né verrò meno fino a che non mi abbia introdotto nella tua dimora, fino a che la tua sinistra non stia sotto il mio capo e la tua destra mi cinga teneramente con amore (cfr. Ct 2, 4. 6).
Nella contemplazione di queste cose, ricordati di me, tua madre, sapendo che io ho scritto in modo indelebile il tuo ricordo sulle tavolette del mio cuore, ritenendoti fra tutte la più cara

Publié dans:Santi, santi scritti |on 11 août, 2015 |Pas de commentaires »

SCRITTI DEI SANTI SULL’ADORAZIONE – SANTA TERESA D’AVILA – 15 OTTOBRE (m)

http://www.adorazioneeucaristica.it/scrittiteresaavila.htm

SCRITTI DEI SANTI SULL’ADORAZIONE

SANTA TERESA D’AVILA – 15 OTTOBRE (m)

«Mentre l’anima è ben lontana dall’aspettarsi di vedere qualcosa, e non le passa neppure per la mente, d’un tratto le si presenta tutta intera la visione che sconvolge le potenze e i sensi, riempiendola di timore e di turbamento, per poi darle una pace deliziosa e l’anima si ritrova con la cognizione di tali sublimi verità da non aver più bisogno di alcun maestro.»
“Niente ti turbi, niente ti spaventi. Tutto passa, Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto.
Chi ha Dio ha tutto. Dio solo basta.”
…Considerate, o Eterno Padre, che tanti flagelli, strapazzi e penosissime sofferenze non sono cose da dimenticarsi. Ed è dunque possibile, Creator mio, che un cuore tanto affettuoso come il vostro, sopporti che si faccia così poco conto, come ai nostri giorni, di ciò che vostro Figlio ha effettuato con tanto amore, unicamente per contentarvi e per obbedire ai vostri comandi, quando gli ingiungeste di amarci fino a lasciarsi nel SS. Sacramento, che ora gli eretici oltraggiano, distruggendo i suoi tabernacoli e demolendo le sue chiese?
Forse che vostro Figlio deve fare qualche altra cosa per contentarvi? Non ha Egli già fatto tutto? Non è forse bastato che durante la sua vita gli mancasse perfino ove posare la testa, continuamente sommerso nelle tribolazioni? Bisogna proprio che oggi venga privato anche delle sue chiese, ove convoca i suoi amici, di cui conosce la debolezza, e sa che in mezzo alle loro prove hanno bisogno di essere fortificati con quel cibo che loro dispensa? Non ha forse già soddisfatto abbastanza per il peccato di Adamo? Possibile che ogni qualvolta noi torniamo ad offendervi, la debba sempre pagare questo innocentissimo Agnello? Non lo permetterete più, o mio sovrano Signore! Si plachi ormai la vostra divina Maestà! Non ché considerare i nostri peccati, ricordate che a redimerci fu il vostro Figlio sacratissimo. Ricordate i suoi meriti, i meriti della sua gloriosissima Madre, quelli di tanti santi e di tanti martiri che sono morti per Voi!
…Gesù, dicendo al Padre dacci oggi il nostro pane quotidiano, sembra che domandi questo pane soltanto per un giorno, cioè per la durata di questo mondo, che può dirsi appunto di un giorno. Egli lo chiede anche per gli infelici che si danneranno e che nell’altra vita non lo potranno più godere. Se questi sventurati si lasciano vincere dal demonio, non è certo per colpa sua, perché Egli nella lotta non cessa mai d’incoraggiarli. Per questo essi non avranno mai di che scusarsi, né mai da lamentarsi dell’Eterno Padre se ha loro tolto quel pane quando ne avevano più bisogno. Suo Figlio infatti dice: Giacché, Padre, ha da essere per un giorno, permetti di passarmelo in schiavitù.
Il Padre ce lo dette e lo mandò nel mondo per sua propria volontà; ed ora per sua propria volontà il Figlio non vuole abbandonare il mondo, felice di rimanere con noi a maggior gaudio dei suoi amici e a confusione dei suoi avversari. Questo, secondo me, è il motivo per cui ha ripetuto oggi; questa la ragione per cui il Padre ci elargì quel Pane divinissimo, e ci dette in alimento perpetuo la manna di questa sacratissima Umanità. Noi ora la possiamo trovare quando vogliamo, per cui se moriamo di fame è unicamente per colpa nostra. L’anima troverà sempre nel SS. Sacramento, sotto qualsiasi aspetto lo consideri, grandi consolazioni e delizie; e dopo aver cominciato a gustare il Salvatore, non vi saranno prove, persecuzioni e travagli che non sopporterà facilmente.
…Un giorno, appena comunicata, mi fu dato d’intendere che il corpo sacratissimo di Cristo viene ricevuto nell’interno dell’anima dallo stesso suo Padre. Compresi chiaramente che le tre divine Persone sono dentro di noi e che il Padre gradisce molto l’ offerta che gli facciamo di suo Figlio, perché gli si offre la possibilità di trovare in Lui le sue delizie e le sue compiacenze anche sulla terra. Nell’anima abbiamo soltanto la divinità, non l’umanità, perciò l’offerta gli è così cara e preziosa, che ce ne ricompensa con immensi favori.
Compresi pure che il Padre lo riceve in sacrificio anche se il sacerdote è in peccato, salvo che all’infelice non sono concessi i favori come alle anime in grazia. E ciò, non perché manchi al Sacramento la virtù d’influire, dipendendo essa dalla compiacenza con cui il Padre accetta il sacrificio, ma per difetto di chi lo riceve, a quel modo che non è per difetto del sole se i suoi raggi non riverberano quando cadono sulla pece come quando battono sul cristallo. Se ora mi dovessi spiegare, mi farei meglio comprendere. Sono cose che importa molto conoscere. Grandi misteri avvengono nel nostro interno al momento della comunione. Il male è che questi nostri corpi non ce li lasciano godere!
…Se il temperamento o qualche infermità non permettono di pensare alla passione del Signore per essere troppo penosa, nessuno vieta di far compagnia a Gesù risorto, giacché l’abbiamo così vicino nel SS. Sacramento, in cui si trova glorificato. No, non si regge a tener sempre fisso il pensiero nei grandi tormenti che Gesù ha sofferto. Ma qui si può contemplarlo non già afflitto e dilacerato, versante sangue da ogni parte, stanco dei viaggi, perseguitato da quelli a cui ha fatto del bene e disconosciuto dai suoi stessi apostoli, ma rifulgente di gloria e privo di dolori, stimolante gli uni, animante gli altri, e nostro compagno nel SS. Sacramento, per il quale ci permette di pensare che, in procinto di salire al cielo, non si sia sentito di allontanarsi da noi neppure un poco.
Eppure, o mio Dio, io mi sono allontanata da Voi nella speranza di meglio servirvi!… Quando vi abbandonavo con il peccato, almeno non vi conoscevo, ma conoscervi, Signore, e credere di meglio avanzare abbandonandovi!… Oh che falsa strada avevo preso, Signore! Anzi, ero del tutto fuori strada! Ma Voi avete raddrizzato i miei passi, e dacché vi vedo a me vicino, vedo pure ogni bene. Non mi è più venuta una prova che, mirandovi innanzi ai tribunali, non abbia sopportato facilmente. Tutto si può sopportare con un amico così buono, con un così valoroso capitano che per primo entrò nei patimenti.
Egli aiuta e incoraggia, non viene mai meno, è un amico fedele. Per me, specialmente dopo quell’inganno, ho sempre riconosciuto e tuttora riconosco che non possiamo piacere a Dio, né Dio accorda le sue grazie se non per il tramite dell’Umanità sacratissima di Cristo, nel quale ha detto di compiacersi. Ne ho fatta molte volte l’esperienza, e me l’ha detto Lui stesso, per cui posso dire di aver veduto che per essere a parte dei segreti di Dio, bisogna passare per questa porta.
…Accostandoci al santissimo Sacramento con grande spirito di fede e di amore, una sola comunione credo che basti per lasciarci ricche. E che dire di tante? Ma sembra che ci accostiamo al Signore unicamente per cerimonia: ecco perché ne caviamo poco frutto. – O mondo miserabile che accechi chi vive in te, onde non veda i tesori che potrebbe acquistare con l’eterne ricchezze!…
“Mi baci coi baci di sua bocca!” Signore del cielo e della terra!… Possibile che così intimamente si possa godervi fin da questa vita mortale, e che così bene lo Spirito Santo ce lo dia a conoscere con queste parole dei Cantici che noi non vogliamo ancora capire? Oh, le delizie che voi riservate alle anime secondo queste parole! Quali tenerezze! Quali soavità!
Una sola di esse dovrebbe bastarci per liquefarci in Voi. Siate benedetto, Signore! No, non sarà mai per Voi che subiremo delle perdite. Per quali vie, per quanti mezzi ci dimostrate il vostro amore! Con le sofferenze, con i tormenti, con la vostra morte si dura, con la pazienza con cui ogni giorno sopportate e perdonate le ingiurie. E quasi ciò non bastasse lo dimostrate ancora con le parole che in questi Cantici rivolgete all’anima che vi ama, insegnandole a ripeterle pure a Voi. Sono parole che feriscono così al vivo, che senza il vostro aiuto, non saprei proprio come, sentendole, si possano sopportare.
…«C’è un modo in cui il Signore parla all’anima e a me sembra un segno sicurissimo della sua opera: è la visione intellettuale. Ha luogo così nell’intimo dell’anima e sembra di udire così chiaramente e al tempo stesso segretamente, con l’udito spirituale, pronunciare proprio dal Signore quelle parole, che lo stesso modo di intendere, insieme con ciò che la visione opera, rassicura e dà la certezza che il demonio non può intromettersi minimamente. I grandi effetti che lascia sono, appunto, motivo di crederlo; se non altro c’è la sicurezza che non procede dall’immaginazione, sicurezza che con un po’ di avvertenza si può sempre avere per le seguenti ragioni.
La prima perché c’è una evidente differenza circa la chiarezza del linguaggio: nelle parole di Dio essa è tale che ci si rende conto anche di una sola sillaba mancante e si ha il ricordo preciso del diverso modo in cui tale parole ci sono state dette.
La seconda, perché spesso non si pensava nemmeno a ciò a cui le parole si riferiscono – intendo dire che vengono all’improvviso, a volte anche mentre si sta in conversazione – e spesso riguardano cose mai pensate né credute possibili.
La terza, perché nelle parole di Dio l’anima è come una persona che ode, mentre in quelle dell’immaginazione è come una persona che va componendo a poco a poco ciò che ella stessa desidera udire.
La quarta, perché le parole sono assai diverse, e una sola di quelle divine fa capire molto più di quello che il nostro intelletto non potrebbe mettere insieme in così breve spazio di tempo. La quinta, perché insieme con le parole, spesso, in un modo che io non saprei spiegare, si comprende assai più di quello che significano, benché senza suoni».
…«Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata.
Ma questo non avviene molto di frequente; pertanto, al sopraggiungere di impegni, persecuzioni, sofferenze, quando non si può avere più tanta quiete, o in caso di aridità, Cristo è un ottimo amico, perché vedendolo come uomo, soggetto a debolezze e a sofferenze, ci è di compagnia.
Prendendoci l’abitudine, poi, è molto facile sentircelo vicino, anche se alcune volte avverrà di non poter fare né una cosa né l’altra. Per questo è bene non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa.
Il Signore restò privo di consolazione; fu lasciato solo nelle sue sofferenze; non abbandoniamolo noi, perché egli ci aiuterà a salire più in alto meglio di quanto avrebbe potuto fare ogni nostra diligenza e si allontanerà quando lo riterrà conveniente o quando vorrà trarre fuori l’anima da se stessa. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio e amarlo tanto che, pur volendo Sua Maestà elevarla a un altissimo grado di contemplazione, se ne riconosce indegna, dicendo con san Pietro: Allontanatevi da me, Signore, perché sono uomo peccatore (Lc 5,8)».

Publié dans:Santi, santi scritti |on 14 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA : LETTERA A POLICARPO – SALUTO

http://www.sangiuseppedemerode.it/pdf/materiali%20didattici/alessandro/letteratura%20latina%20web/letteratura%20cristiana/s_ignazio_di_antiochia.html

SANT’IGNAZIO D’ANTIOCHIA

LETTERA A POLICARPO

SALUTO

Ignazio, Teoforo, a Policarpo vescovo della Chiesa di Smirne, o meglio, che ha per vescovo Dio Padre e il Signore nostro Gesù Cristo, molta gioia.

Pietà fondata sulla roccia
I, 1. Lodo la tua pietà in Dio, fondata su una roccia incrollabile, e rendo la massima gloria (al Signore), perché sono stato fatto degno del tuo volto irreprensibile. Potessi goderne in Dio. 2. Ti esorto nella carità che hai a proseguire nel tuo cammino e ad incitare tutti a salvarsi. Dimostra la rettitudine del tuo posto con ogni cura nella carne e nello spirito. Preoccupati dell’unità di cui nulla è più bello. Sopporta tutti, come il Signore sopporta anche te; sostieni tutti nella carità, come già fai. 3. Cura le preghiere che non si interrompano; chiedi una saggezza maggiore di quella che hai; veglia possedendo uno spirito insonne. Parla a ciascuno nel modo conforme a Dio. Sostieni come perfetto atleta le infermità di tutti. Dove maggiore è la fatica, più è il guadagno.

Prudente come un serpente e semplice come una colomba
II, 1. Se ami i discepoli buoni, non hai merito; piuttosto devi vincere con la bontà i più riottosi. Non si cura ogni ferita con uno stesso impiastro. Calma le esacerbazioni (della malattia) con bevande infuse. 2. In ogni cosa sii prudente come un serpente e semplice come la colomba. Per questo sei di carne e di spirito, perché tratti con amabilità quanto appare al tuo sguardo; per ciò che è invisibile prega che ti sia rivelato, perché non manchi di nulla e abbondi di ogni grazia. 3. Il tempo presente esige che tu tenda a Dio, come i naviganti invocano i venti e coloro che sono sbattuti dalla tempesta il porto. Come atleta di Dio sii sobrio; il premio è l’immortalità, la vita eterna in cui tu credi. In tutto sono per te una ricompensa io e le mie catene che tu hai amate.

Il grande atleta incassa i colpi e vince
III, 1. Non ti abbattano coloro che sembrano degni di fede e insegnano l’errore. Sta’ fermo come l’incudine sotto i colpi. E’ proprio del grande atleta incassare i colpi e vincere. Dobbiamo sopportare ogni cosa per amore di Dio, perché anche lui ci sopporti. 2. Sii più zelante di quello che sei. Discerni i tempi. Aspetta chi è al di sopra del tempo, atemporale, invisibile, per noi (fattosi) visibile, impalpabile, impassibile, per noi (divenuto) passibile, e sopportò ogni cosa.

La libertà dello schiavo
IV, 1. Non siano trascurate le vedove; dopo il Signore sei tu la loro guida. Nulla avvenga senza il tuo parere e tu nulla fare senza Dio, come già fai. Sii forte. 2. Le adunanze siano molto frequenti. Invita tutti per nome. 3. Non disprezzare gli schiavi e le schiave; ma essi non si gonfino, e si sottomettano di più per la gloria di Dio, perché ottengano da lui una libertà migliore. Non cerchino di farsi liberare dalla comunità per non essere schiavi del desiderio.

 Ogni cosa per la gloria di Dio
V, 1. Fuggi i mestieri vietati e di più predica contro di essi. Raccomanda alle mie sorelle di amare il Signore e di sostenere i mariti nella carne e nello spirito. Così esorta anche i miei fratelli, nel nome di Gesù Cristo, ad amare le spose come il Signore la Chiesa. 2. Se qualcuno può rimanere nella castità a gloria della carne del Signore, vi rimanga con umiltà. Se se ne vanta è perduto, e se si ritiene più del vescovo si è distrutto. Conviene agli sposi e alle spose di stringere l’unione con il consenso del vescovo, perché le loro nozze avvengano secondo il Signore e non secondo la concupiscenza. Ogni cosa si faccia per l’onore di Dio.

Nessuno sia disertore
VI, 1. State col vescovo perché anche Dio stia con voi. Offro in cambio la vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi e con loro vorrei essere partecipe in Dio. Unite insieme i vostri sforzi, lottate, correte, soffrite, dormite, svegliatevi come amministratori di Dio, colleghi e servitori. 2. Cercate di piacere a colui sotto il quale militate e ricevete la mercede. Nessuno di voi sia disertore. Il vostro battesimo sia come lo scudo, la fede come elmo, la carità come lancia, la pazienza come vostra armatura. I vostri depositi siano le vostre opere, perché possiate ritirare capitali adeguati. Siate tolleranti nella dolcezza gli uni verso gli altri, come Dio lo è con voi. Possa io gioire sempre di voi.

Il cristiano a servizio di Dio
VII, 1. Poiché la Chiesa di Antiochia nella Siria, per le vostre preghiere, è in pace come mi è stato riferito, sono divenuto più fiducioso nella serenità di Dio, se col patire lo raggiungo per trovarmi nella risurrezione vostro discepolo. 2. Conviene, o Policarpo, ricolmo di ogni felicità divina, che tu raduni un’assemblea gradita a Dio e che elegga uno che amate e sia zelante che potrà ben chiamarsi corriere di Dio, e gli sia affidato di recarsi in Siria per celebrare la vostra carità sempre attiva nella gloria di Dio. 3. Il cristiano non vive per sé, ma è a servizio di Dio. Quest’opera è di Dio, e anche vostra quando l’avrete compiuta. Ho fiducia nella grazia perché siete pronti all’opera buona che concerne Dio. Conoscendo il vostro zelo per la verità, vi ho esortato con poche parole.

Congedo
VIII, 1. Non ho potuto scrivere a tutte le Chiese dovendo imbarcarmi improvvisamente da Troade a Neapolis, come impone l’ordine ricevuto. Scriverai tu alle Chiese (che ti sono) davanti, conoscendo la volontà di Dio, che facciano la stessa cosa, di mandare cioè messaggeri, potendolo, o di spedire lettere a mezzo dei tuoi inviati per essere glorificati con un’opera eterna, come tu ne sei meritevole. 2. Saluto tutti per nome e la donna di Epitropo con tutta la sua casa e quella dei figli. Saluto il mio amato Attalo. Saluto chi sarà ritenuto degno di dover andare in Siria. La grazia sarà sempre con lui e con Policarpo che lo manda. 3. Vi prego di essere forti nel Dio nostro Gesù Cristo e in lui rimanete nell’unità e sotto la vigilanza di Dio. Saluto Alce, nome a me caro. State bene nel Signore.

Publié dans:Padri Apostolici, Santi, santi scritti |on 16 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

15 OTTOBRE: SANTA TERESA D’AVILA – PENSIERI SULL’AMOR DI DIO

http://www.carmelitane.com/libri/TeresaAvila/PENSIERI/PENSIERIcap1.htm

15 OTTOBRE: SANTA TERESA D’AVILA

PENSIERI SULL’AMOR DI DIO

(libro completo:
http://www.carmelitane.com/libri/TeresaAvila/PENSIERI/INDICE.htm)

PROLOGO

1. Osservando le misericordie di nostro Signore verso le anime da lui condotte in questi monasteri della Regola primitiva di nostra Signora del Monte Carmelo, che egli si compiacque di far istituire, ho visto che ad alcune in particolare concede molte grazie. Solo le anime che sentono il bisogno di trovare qualcuno che spieghi loro ciò che passa fra l’anima e Dio potranno capire quanto si soffra nel non averne l’intelligibilità. A me il Signore, da qualche anno a questa parte, ha fatto provare una grande consolazione tutte le volte che odo o leggo alcune parole del Cantico dei Cantici di Salomone, al punto che – senza intendere chiaramente il significato del latino tradotto in volgare – mi sento raccogliere e commuovere l’anima più che dalla lettura di libri assai devoti che comprendo pienamente. Ciò mi avviene quasi sempre, mentre prima, neanche se cercavano di chiarirmi il senso di quelle parole in volgare riuscivo a capirne di più…
2. Da quasi due anni, poco più o poco meno, mi sembra che il Signore mi faccia arrivare a cogliere qualcosa del senso di certe parole rispondenti al mio scopo; credo, pertanto, che serviranno di consolazione alle consorelle che nostro Signore conduce per questo cammino e anche a me stessa. Spesso il Signore mi ha fatto intendere una quantità di significati che desideravo non dimenticare mai; ciò nonostante, non osavo mettere nulla per iscritto.
3. Ora, seguendo il consiglio di persone a cui devo obbedienza, scriverò qualcosa di ciò che il Signore mi rivela circa il significato racchiuso nelle parole di cui la mia anima gode tanto, e ciò ai fini del cammino dell’orazione per il quale, come ho detto, egli conduce le consorelle di questi monasteri, che sono figlie mie. Se lo scritto sarà tale da meritare che lo leggiate, accettate questo povero piccolo dono da parte di chi vi augura, come a se stessa, tutti i doni dello Spirito santo, nel cui nome io lo comincio. Piaccia alla divina Maestà che vi riesca…

CAPITOLO 1

Tratta della venerazione con cui devono esser lette le sacre Scritture e della difficoltà che hanno le donne d’intenderle, in particolare il «Cantico dei Cantici».

Mi baci il Signore con il bacio della sua bocca, perché le tue mammelle sono migliori del vino, eccetera (Ct 1,1).

1. Ha colpito molto la mia attenzione il fatto che qui – a quanto è dato capire – sembra che l’anima stia parlando con una persona e chieda la pace ad un’altra, perché dice: Mi baci con il bacio della sua bocca; poi, rivolgendosi a colui con il quale sembra intrattenersi, aggiunge: Le tue mammelle sono migliori. Non capisco come ciò sia, e godo molto di non capirlo. Infatti, figlie mie, non c’è dubbio che l’anima non deve ammirare tanto – né la inducono a farlo, né le ispirano rispetto per il suo Dio – le cose che qui sembra di poter intendere con il nostro povero intelletto, quanto quelle che in nessun modo si riesce a comprendere. Pertanto, vi raccomando caldamente, se leggerete un libro, ascolterete un sermone o penserete ai misteri della nostra santa fede, di non stancarvi né di sforzare la mente a sottilizzare su ciò che non potete intendere con facilità; molte cose non sono alla portata delle donne e neanche a quella degli uomini.
2. Quando il Signore vuol darcene l’intelligenza, lo fa senza che vi sia alcuno sforzo da parte nostra. Dico questo per noi donne e per quegli uomini che non hanno il compito di sostenere la verità con l’aiuto della loro dottrina; quelli invece che il Signore incarica di illustrarcela, è evidente che devono applicarsi ad approfondirla e che da ciò traggono un grande vantaggio. Noi pertanto dobbiamo accettare con semplicità ciò di cui il Signore ci fa dono e non affaticarci a cercare quello che non ci dà, ma piuttosto rallegrarci di pensare d’avere un Dio e un Signore così grande, che una sua sola parola racchiude in sé mille misteri di cui non comprendiamo neppure il principio. Se il testo fosse in latino, ebraico o greco, non vi sarebbe motivo di meraviglia, ma si tratta di un testo in volgare; eppure quante cose vi sono nei Salmi del glorioso re Davide che, pur tradotte nella nostra lingua, ci restano così oscure come in latino! Pertanto, guardatevi sempre dal logorarvi la mente e sfinirvi dietro a queste cose: alle donne non è necessario più di quanto comporti la loro intelligenza. Anche solo con questo, Dio le favorirà della sua grazia. Quando Sua Maestà vorrà farcele comprendere, ne penetreremo il senso senza alcuna attenzione o fatica da parte nostra. Quanto al resto, umiliamoci e – come ho detto – rallegriamoci di avere un Dio così grande che le sue parole, anche dette nella nostra lingua, ci riescono incomprensibili.
3. Vi sembrerà forse che certe cose del Cantico dei Cantici si sarebbero potute dire in altro modo. Non me ne meraviglierei, considerata la nostra grossolanità; ho anche sentito dire da alcune persone che evitavano di ascoltarle. Oh, Dio mio, quanto è grande la nostra miseria! Ci accade come a quegli animali velenosi che trasformano in veleno tutto ciò che mangiano: da così grandi grazie come son quelle che qui il Signore ci concede nel farci conoscere quel che prova un’anima che lo ama, mentre egli ci incoraggia a trattenerci in colloquio e a gioire con lui, non sappiamo trarre altro che paure e dare alle sue parole significati che riflettono la debolezza del nostro amore per il Signore.
4. Oh, quanto ci serviamo male, Signor mio, di tutti i benefici che ci avete concesso! Vostra Maestà cerca ogni sorta di mezzi e di espedienti, per dimostrarci l’amore che ci porta; e noi, sprovvisti come siamo dell’esperienza di amarvi, ne facciamo così poco conto che, proprio per questa mancanza d’esercizio, i nostri pensieri se ne vanno dove sono soliti andare, non preoccupandoci di approfondire i grandi misteri racchiusi in un linguaggio di cui si serve lo Spirito santo. Che cosa poteva egli fare di più per accenderci di amore verso di lui e indurci a pensare che non senza una profonda ragione fu mosso a parlare così?
5. Ricordo di aver ascoltato una predica bellissima tenuta da un religioso, il cui argomento principale erano le gioie che la sposa trova nel suo rapporto con Dio. E siccome trattava d’amore – né poteva essere altrimenti, perché era la predica del mandato – ci furono tante risa e le sue parole furono così mal interpretate, che io ne rimasi meravigliata. È evidente che tutto dipende da quel che ho detto: ci esercitiamo così male nell’amore di Dio che ci sembra impossibile un tale rapporto dell’anima con lui. Ma io conosco alcune persone che, allo stesso modo in cui queste altre non traevano dalla predica alcun vantaggio – certamente perché non la capivano e senza dubbio pensavano che il religioso dicesse cose di testa sua –, ne hanno ricavato così grandi vantaggi, così grandi gioie, così gran sicurezza da ogni timore, che assai spesso sentono di dover rendere particolari lodi a nostro Signore per aver egli lasciato un salutare rimedio alle anime che lo amano per davvero, capiscono e vedono che Dio può abbassarsi fino a quel punto. E, se prima la loro esperienza non era sufficiente per bandire la loro paura quando il Signore le favoriva di grandi grazie, ora con quelle parole si sentono più tranquille.
6. So di una persona che ha trascorso vari anni con molti timori, senza che nulla potesse rassicurarla, finché piacque al Signore che udisse alcuni passi del Cantico dei Cantici, dai quali comprese che la sua anima era sulla buona strada. Si rese conto infatti – ripeto – di come sia possibile che l’anima innamorata del suo Sposo provi, nel suo rapporto con lui, tutte quelle ebbrezze, quei deliqui, quelle morti, quelle angosce, gioie, consolazioni, dopo aver lasciato, per amor suo, tutti i piaceri del mondo ed essersi totalmente rimessa e abbandonata fra le sue mani, non solo a parole – come accade ad alcuni – ma con assoluta sincerità, confermata dai fatti. Oh, che eccellente retributore è Dio, figlie mie! Avete un Signore e uno Sposo al quale non sfugge nulla, che tutto vede e intende. Anche se si tratta di cose assai piccole, non tralasciate pertanto, sorelle mie, di fare per amor suo tutto quello che potrete; egli non guarderà se non all’amore con cui lo avrete fatto.
7. Concludo, dunque, con questo consiglio: che mai, imbattendovi in cose della sacra Scrittura o dei misteri della nostra fede che non capite, vi soffermiate in esse più di quanto vi ho detto, né mai vi meravigliate, quasi fossero esagerate, delle parole d’amore che Dio rivolge all’anima. L’amore che egli ha nutrito e nutre ancora per noi è quanto mi sorprende di più e mi fa perdere il senno, nonostante quello che siamo. Poiché esiste un tale amore, mi rendo perfettamente conto che non c’è esagerazione nelle parole con cui Dio manifesta quello che ha dimostrato ancor più intensamente con le opere. Giunte a questo punto, vi prego, per amor mio, che vi soffermiate un po’ a pensare all’amore che il Signore ci ha dimostrato e a quanto ha fatto per noi, riconoscendo chiaramente come un amore così potente e forte da averlo indotto a soffrire tanto non si sia potuto manifestare se non con parole sorprendenti.
8. Tornando ora a quello che avevo cominciato a dire, in queste parole devono racchiudersi grandi cose e profondi misteri. Sono certamente di tale valore che alcuni teologi, da me pregati di spiegarmi che cosa abbia voluto dire lo Spirito santo e quale fosse il vero significato di quelle sue parole, mi hanno risposto che gli studiosi ne hanno tentato molte interpretazioni e, ciò malgrado, ancora non sono riusciti a dar loro il senso che realmente hanno. Stando così le cose, vi sembrerà che sia molto superba, poiché voglio darvene qualche spiegazione; ma, per poco umile che io sia, non ho la pretesa di darvene il senso esatto. Mio unico intento è questo: siccome godo di quel che il Signore mi fa capire, quando ascolto qualche passo del Cantico dei Cantici, così credo di procurare anche a voi la stessa gioia nel manifestarvelo. Se, poi, la mia spiegazione non risponde al senso che le parole hanno, io le interpreto così, e credo che, non allontanandosi dall’insegnamento della Chiesa e dei santi (per questo, prima che voi vediate il mio scritto, esso sarà esaminato attentamente da teologi, competenti in materia), il Signore ce ne dia il permesso, come, quando pensiamo alla sua passione, ci consente di immaginare maggiori particolari – circa le pene e i tormenti che in essa egli ebbe a soffrire – di quelli descritti dagli evangelisti. E, non lasciandoci guidare dalla curiosità, come ho detto all’inizio, ma solo accettando quel che Sua Maestà ci fa intendere, sono sicura che non gli rincresce la consolazione e il diletto che noi cerchiamo nelle sue parole e nelle sue opere, allo stesso modo in cui si allieterebbe e si compiacerebbe un re se, amando un pastorello che gli andasse a genio, lo vedesse contemplare il broccato delle sue vesti chiedendosi che cosa sia e come sia stato fatto. Molto meno a noi donne dovrà essere impedito di godere delle ricchezze del Signore. Discuterle e insegnarle, convinte d’indovinarne il senso, senza consultare i teologi, questo, sì, ci è proibito. Pertanto, non pretendo scrivere qui qualcosa di esatto (il Signore lo sa bene), ma, come questo pastorello di cui ho parlato, è per me una consolazione offrire a voi, quali figlie mie, le mie meditazioni, siano pur insieme a molte sciocchezze. Incomincio, dunque, con l’aiuto di questo divino mio Re e con il permesso del mio confessore. Piaccia al Signore che, come mi ha concesso di riuscire in altre cose che vi ho detto (forse è stata Sua Maestà stessa a dirle per mezzo mio, essendo scritti indirizzati a voi), io riesca anche ora a farlo. Del resto, se non dovesse essere così, ritengo ugualmente come bene impiegato il tempo speso nello scrivere e nell’occupare la mia mente in una materia talmente divina che non ero neppure degna d’udirne parlare.
9. Nel testo citato all’inizio mi sembra che la sposa si rivolga a una terza persona, che è poi la stessa di cui parla. Con ciò fa capire che in Cristo ci sono due nature, una divina e un’altra umana. Su questo argomento non mi soffermo, perché il mio proposito è parlare soltanto di ciò che mi sembra possa riuscire utile a noi che pratichiamo l’orazione, anche se tutto giova a incoraggiare e a destare l’ammirazione di un’anima che ama ardentemente il Signore. Sua Maestà sa bene che, pur se a volte io abbia udito la spiegazione di alcune di queste parole o se me l’abbiano data dietro mia richiesta, il che è accaduto di rado, con la mia cattiva memoria non ricordo più nulla. Pertanto non potrò dire se non quello che il Signore m’insegnerà e che avrà relazione con il mio argomento. E di queste parole: Mi baci col bacio di sua bocca, che danno inizio al Cantico non ricordo d’avere udito mai alcuna spiegazione.
Mi baci con il bacio della sua bocca.
10. Oh, che parole queste, mio Signore e mio Dio, per essere dette da un verme al suo Creatore! Siate benedetto, Signore, che ci istruite in tanti modi! Ma chi oserà, mio Re, dirle, se voi non glielo permetterete? Sono parole che riempiono di stupore, pertanto stupirà il fatto che osi porle sulla bocca di qualcuno. Si dirà che sono un’ignorante, che tali parole non vogliono dire questo, che esse hanno molti significati, che è evidente che non possiamo rivolgerle a Dio, pertanto sarebbe bene che la gente semplice non le leggesse. Ammetto pure che abbiano molti significati, ma l’anima accesa da un amore che la fa uscire di senno, non ne accetta altri e non vuol dire se non queste parole, visto che il Signore non gliene toglie la possibilità. Dio mio! Ma che cosa ci fa meravigliare? La realtà non è forse più strabiliante? Non ci accostiamo forse al santissimo Sacramento? Io pensavo appunto  se la sposa non chiedesse qui questa grazia che Gesù Cristo ci ha concesso dopo. Ho pensato anche se ella chiedesse quell’intima unione che consiste nel farsi Dio uomo, quell’amicizia che egli strinse con il genere umano, perché è evidente che il bacio è segno di pace e di grande amicizia fra due persone. Il Signore ci aiuti a capire quante specie di pace vi siano!
11. Prima di andare avanti voglio dire una cosa che, a mio parere, è degna di nota anche se sarebbe meglio dirla in altro luogo, ma lo faccio ora per non dimenticarla. Sono convinta che ci sono molte persone che si accostano al santissimo Sacramento (e Dio voglia che m’inganni!) con gravi peccati mortali. Se esse udissero un’anima, morta d’amore per il suo Dio, servirsi di queste parole, ne resterebbero sbigottite e la considererebbero una grande temerità. Per lo meno sono sicura ch’esse non le diranno mai. Tali parole, infatti, e altre simili che si trovano nel Cantico, sono dettate dall’amore, e poiché esse ne sono prive, potranno ben leggere il Cantico ogni giorno, ma non se ne serviranno mai e non oseranno neanche pronunziarle a fior di labbra. Veramente ispira timore persino l’udirle, tanta è la maestà che hanno in sé. Voi, mio Signore, l’avete ben grande nel santissimo Sacramento, senonché, siccome la fede di tali persone non è viva, ma è morta, vedendovi così umile sotto le specie del pane, e non udendovi parlare loro, perché esse non meritano di ascoltarvi, osano comportarsi come fanno.
12. Certo queste parole, prese alla lettera, sarebbero veramente tali da spaventare se chi le dice fosse pienamente padrone di sé, ma a colui che il vostro amore ha tratto fuori di sé, voi, Signore, perdonate che dica questo e anche altro, benché sia una temerità. Io dico, mio Signore, che se il bacio significa pace e amicizia, perché le anime non dovrebbero chiedervi di accordarle loro? Quale preghiera migliore possiamo rivolgervi se non quella che vi faccio ora, mio Signore, di darmi questa pace con il bacio della vostra bocca? Questa, figlie mie, è una richiesta straordinaria, come vi mostrerò in seguito.

Publié dans:Santi, santi scritti |on 14 octobre, 2013 |Pas de commentaires »
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