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7 maggio: Santa Flavia Domitilla Martire

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Santa Flavia Domitilla Martire

7 maggio

I-II secolo

Vissuta tra il primo e il secondo secolo, sono poche le informazioni su di lei. A parte una leggendaria Passio, non anteriore al V secolo, sia Eusebio sia Dione Cassio raccontano che sarebbe stata perseguitata sotto Diocleziano. Da Eusebio sappiamo che Flavia, nipote di Flavio Clemente, uno dei consoli di Roma (95 d.C.), per la sua fede in Cristo fu deportata a Ponza dove dovette soffrire, secondo San Girolamo, un lungo martirio. Dione Cassio ci dice, invece, che fu moglie di Flavio Clemente e che perse la vita per la propria fede. Una iscrizione conservata oggi nella basilica dei Ss. Nereo e Achilleo conferma queste ultime affermazioni, precisando che Flavia Domitilla era “neptis“ nipote di Vespasiano, padre di Domiziano, e che fu moglie di Flavio Clemente.

Etimologia: Flavia = dai capelli biondi, dal latino

Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma, comemmorazione di santa Domitilla, martire, che, nipote del console Flavio Clemente, accusata durante la persecuzione di Domiziano di aver rinnegato gli dèi pagani, per la sua testimonianza di fede in Cristo fu deportata insieme ad alcuni altri nell’isola di Ponza, dove consumò un lungo martirio. Eusebio di Cesarea, nella Storia Ecclesiastica (III, 18, 4) scrive: «Tramandano che nell’anno quindicesimo di Domiziano, Flavia Domitilla, nipote, per parte della sorella, di Flavio Clemente, che fu allora uno dei consoli di Roma (95 d.C), insieme con numerose altre persone fu deportata nell’isola di Ponza per avere confessato Cristo ». A sua volta, Dione Cassio, nella Historia romana (LXVII, 13-14), afferma che l’imperatore Domiziano « tolse la vita, con molti altri, anche a Flavio Clemente, benché fosse suo cugino e avesse in moglie Flavia Domitilla, ella pure sua consanguinea. Tutti e due furono accusati di ateismo, e di ciò anche altri, sviatisi dietro le costumanze dei Giudei, ebbero condanna, chi di morte, chi di confisca. Domitilla fu soltanto relegata nell’isola di Pandataria ».
Dai citati passi dei due storici, dunque, risulta che, sul finire del I sec, due matrone, aventi l’una e l’altra il nome di Domitilla e imparentate l’una e l’altra con la famiglia imperiale dei Flavi, furono condannate per la loro adesione alla fede cristiana. Dione Cassio, per l’esattezza, parla nei confronti della Domitilla relegata a Pandataria (oggi Ventotene), non di Cristianesimo, bensì di « ateismo », ma è noto che questa era l’accusa rivolta dagli idolatri ai primi seguaci di Cristo.
Alcuni studiosi, fra i quali il Mommsen, l’Aubé e lo Styger, ritennero di poter identificare in una sola persona le due Domitille, supponendo errori o confusioni degli storici ma, il De Rossi sostenne giustamente la diversità dei due personaggi, ristabilendo la genealogia delle loro famiglie. E questa conferma che la Domitilla citata da Eusebio, era nipote di Flavio Clemente, mentre quella ricordata da Dione Cassio era moglie del console martire, dal quale ebbe sette figli. A tal proposito, di grande importanza è l’iscrizione mutila ritrovata nel sec. XVIII nell’area del Cimitero sulla Via Ardeatina e che qui riportiamo con le integrazioni proposte dal Mommsen : « tatia baucyl (la…nu) / trix septem lib (erorum pronepotum) / divi vespasian(i filiorum FI. Clementis et) flaviae DOMiTiL(lae uxoris eius, divi) / vespasiani neptis a (ccepto loco e) / ius beneficio hocSEPULCHRU(m feci) / MEIS LIBERTIS lIBERTABUSpo (sterisque eorum). L’iscrizione, conservata oggi nella parete di fondo della basilica dei SS. Nereo e Achilleo in detto Cimitero, precisa, dunque, che Tazia Baucilla, nutrice dei sette figli di Flavio e di Flavia Domitilla, ottenne da quest’ultima il terreno per un sepolcro. Nel documento epigrafico si precisa, inoltre, che Flavia Domitilla era « neptis », cioè nipote di Vespasiano, padre di Domiziano, confermando, così, l’affermazione di Dione Cassio secondo la quale la moglie di Flavio Clemente era « consanguinea » dello stesso Domiziano.
In merito, poi, alle « confusioni » nelle quali sarebbero incorsi gli storici nell’indicare i luoghi di relegazione delle due Domitille, Umberto Fasola sottolinea che le isole di Ponza e di Ventotene erano troppo tristemente note per essere confuse l’una con l’altra. A Ponza, infatti, furono relegati le figlie di Caligola e un figlio di Germanico e a Ventotene furono confinate Giulia, figlia di Augusto, Agrippina, moglie di Germanico e Ottavia moglie di Nerone.
La venerazione per la Flavia Domitilla relegata a Ponza è antichissima: s. Girolamo (Ep. ad Eustoch. 108) dice che la vedova Paola, nel suo viaggio verso Oriente, visitò nell’isola il luogo dove la santa « longum martyrium duxerat ». Peraltro, il nome di Domitilla non figura né nella Depositio Martyrum, né nel Martirologio Geronimiano : la festa di essa, al 12 magg., non è anteriore al IX sec. e fu introdotta nei libri liturgici per influsso del Martirologio di Floro, il quale la incluse nel suo elenco probabilmente per errore, scambiando un flavi(us) ricordato nel Geronimiano sotto la data del 7 magg.
Le notizie su Flavia Domitilla che figurano nella passio leggendaria (V-VI sec.) non hanno alcuna attendibilità: fra l’altro, in essa, si parla di due « eunuchi », Nereo e Achilleo, i quali avrebbero convertito Domitilla alla fede cristiana, mentre dal carme damasiano dedicato ai due martiri sappiamo che essi prima della conversione erano militari a servizio del persecutore. L’esistenza, però, delle due Domitille e la loro condanna all’esilio per aver abbracciato il Cristianesimo sono fatti inoppugnabili, come dimostrano chiaramente i documenti. Il corpo d’una Flavia Domitilla è venerato nel titolo dei SS. Nereo ed Achilleo, traslatovi da S. Adriano dal Baronio.

Autore: Alessandro Carletti

SAN GIORGIO, MARTIRE – Festa: 23 Aprile

http://www.ewtn.com/library/mary/george.htm

(traduzione Google dall’inglese)

SAN GIORGIO, MARTIRE (Anno 303)

Festa: 23 Aprile

San Giorgio è onorato nella Chiesa cattolica come uno dei martiri più illustri di Cristo. I greci hanno a lungo lo distinguono per il titolo di Grande Martire, e mantenere il suo festival una vacanza di obbligo. C’era un tempo a Costantinopoli cinque o sei chiese dedicate in suo onore, il più antico dei quali è stato sempre detto di essere stata costruita da Costantino il Grande, che sembra anche essere stato il fondatore della chiesa di San Giorgio, che si trovava sopra la sua tomba in Palestina. Entrambe le chiese sono state certamente costruite sotto i primi imperatori cristiani. Al centro della sesta età, l’imperatore Giustiniano eresse una nuova chiesa in onore di questo santo a Bizanes, in Piccola Armenia: l’imperatore Maurizio ha fondato uno a Costantinopoli. Esso è legato alla vita di San Teodoro di Siceon che ha servito Dio a lungo in una cappella che portava il nome di San Giorgio, aveva una devozione particolare a questo glorioso martire, e fortemente consigliato lo stesso a Mauritius quando predisse lui l’impero. Una delle chiese di San Giorgio a Costantinopoli, Manganes chiamato, con un monastero adiacente, ha dato l’Ellesponto il nome del Braccio di San Giorgio. Per questo giorno è San Giorgio onorato come patrono principale, o tutelare santo, da diversi paesi dell’Est, in particolare i georgiani. Gli storici bizantini si riferiscono a diverse battaglie sono state acquisite, e di altri miracoli battuto, attraverso la sua intercessione. Da frequenti pellegrinaggi alla sua chiesa e la tomba in Palestina, eseguito da coloro che hanno visitato la Terra Santa, la sua venerazione era molto diffusa l’Occidente. San Gregorio di Tours lo menziona come altamente celebrato in Francia nel sesto secolo.1 San Gregorio Magno ordinò una vecchia chiesa di San Giorgio, che era caduto a decadere, per essere repaired.2 Il suo ufficio si trova nel Sacramentario di quel papa e molti others.3 St. Clotildis, moglie di Clodoveo, il primo re cristiano di Francia, eresse altari sotto il suo nome, e la chiesa di Chelles, costruito da lei, era originariamente dedicata in suo onore. La vita antica Droctovaeus menzioni, che alcune reliquie di San Giorgio sono stati collocati nella chiesa di St. Vincent, ora si chiama San Germaris, a Parigi, quando fu consacrata. Fortunato di Poitiers ha scritto un epigramma su una chiesa di San Giorgio, in Mentz. L’intercessione di questo santo è stata implorata in particolare nelle battaglie e guerrieri, come emerge da istanze diverse della storia bizantina, e si dice di essere stato egli stesso un grande soldato. Egli è, in questo giorno, il santo tutelare della repubblica di Genova, ed è stato scelto dai nostri antenati nella stessa qualità sotto il nostro primo re normanni. Il grande consiglio nazionale, tenutosi a Oxford nel 1222, ordinò la sua festa di mantenere una vacanza di rango minore per tutta la England.4 Sotto il suo nome e insegna è stata istituita dal nostro Re vittorioso, Edoardo III, nel 1330, l’Ordine più nobile di cavalleria in Europa, composto da venticinque cavalieri oltre al sovrano. La sua istituzione è datato cinquanta anni prima che i cavalieri di San Michele sono stati istituiti in Francia da Luigi XI; ottanta anni prima che l’ordine del Toson d’Oro, istituito da Filippo il Buono, duca di Borgogna, e centonovanta anni prima che l’Ordine di S. Andrea è stato istituito in Scozia da James V. L’imperatore Federico IV istituì, nel 1470, un ordine di cavalieri in onore di San Giorgio, e un Ordine militare d’onore a Venezia porta il suo name.5
La straordinaria devozione di tutta la cristianità a questo santo è una prova autentica, come è glorioso il suo trionfo e il nome sono sempre stati in chiesa. Tutti i suoi atti riferiscono che egli ha sofferto sotto Diocleziano a Nicomedia. Joseph Assemani6 mostra, dal consenso unanime di tutte le chiese, che fu incoronato il 23 aprile. Secondo il racconto ci Metafraste, è nato in Cappadocia, di nobili genitori cristiani. Dopo la morte del padre andò con sua madre in Palestina, lei essendo nativo di quel paese, e avere c’è un ingente patrimonio, che è sceso al figlio George lei. Era forte e robusto nel corpo, e dopo aver abbracciato la professione di un soldato, è stata fatta una tribuna, o colonnello nell’esercito. Con il suo coraggio e la condotta ben presto preferito a maggiori stazioni dall’imperatore Diocleziano. Quando il principe mosso guerra contro la religione cristiana, San Giorgio messo da parte i segni della sua dignità, ha gettato la sua commissione e posti, e si lamentò con l’imperatore stesso della sua gravità ed editti sanguinose. Fu immediatamente gettato in prigione, e ha cercato, in primo luogo dalle promesse, e successivamente sottoposte alla domanda e torturato con grande crudeltà, ma nulla poteva scuotere la sua costanza. Il giorno dopo è stato condotto attraverso la città e decapitato. Alcuni pensano che lo stato lo stesso illustre uomo giovane che demolire gli editti quando sono stati fissati fino a Nicomedia, come Lattanzio riferisce nel suo libro, alla morte dei persecutori ed Eusebio nella sua history.7 Il motivo per cui St . George è stato considerato come il patrono dei militari è in parte al punteggio della sua professione, e in parte sul credito di un suo parente che sembra l’esercito cristiano nella guerra santa, prima della battaglia di Antiochia. Il successo di questa battaglia la fortuna di provare i cristiani, sotto Goffredo di Buglione, reso il nome di San Giorgio più famoso in Europa e smaltiti i militari per implorare più in particolare la sua intercessione. Questa devozione è stata confermata, come si dice, da un’apparizione di San Giorgio al nostro re, Riccardo I, nella sua spedizione contro i Saraceni, che la visione dichiarate alle truppe, era per loro un grande incoraggiamento, e subito dopo sconfitto il St. George enemy.8 è di solito dipinta a cavallo e l’inclinazione ad un drago ai suoi piedi, ma questa rappresentazione non è altro che una figura emblematica, che pretende che con la sua fede e di fortezza cristiana, ha conquistato il diavolo, chiamato il drago in l’Apocalisse.

Anche se disonore molti il ??mestiere delle armi da una licenziosità dei costumi, ma, per mostrarci che la santità perfetta è raggiungibile in tutti gli stati, troviamo i nomi di altri soldati registrati i martirologi che quasi di qualsiasi altra professione. Ogni vero discepolo di Cristo deve essere un martire nella disposizione del suo cuore, come deve essere pronti a perdere tutto, e di soffrire qualsiasi cosa, piuttosto che offendere Dio. Ogni buon cristiano è anche un martire, con la pazienza e il coraggio con cui porta tutte le prove. Non c’è virtù più necessaria, né che l’esercizio dovrebbe essere più frequente, che pazienza. In questa vita mortale, dobbiamo continuamente qualcosa a soffrire di delusioni negli affari, dalla severità delle stagioni, dalla ingiustizia, capriccio, irritabilità, gelosia o antipatia degli altri, e da noi stessi, in dolori sia di mente o il corpo. Anche le nostre debolezze e gli errori sono soggetti noi di pazienza. E come abbiamo sempre molti oneri, sia di nostro che degli altri, a sopportare, è solo nella pazienza che siamo di possedere le nostre anime. Questo ci offre comfort in tutte le nostre sofferenze e mantiene le nostre anime in tranquillità incrollabile e la pace. Questa è la vera grandezza d’animo e la virtù delle anime eroiche. Ma, ahimè! Ogni incidente volant e disturba noi, e noi siamo insopportabile persino a noi stessi. Quale conforto dovremmo trovare, quale pace dovremmo godere, quali tesori di virtù, dovremmo accumulare, che un raccolto di meriti dovremmo raccogliere, se avessimo imparato il vero spirito di cristiana pazienza! Questo è il martirio e la corona di ogni discepolo fedele di Cristo.

Note di chiusura
1. L. de Glor. Mart. c. 101.
2. L. 19, ep. 73, p. 1173, ed. Ben.
3. Non. Menardi in Sacram. S. Greg.
4. Conc. t. 11, pag. 275.
5. Cfr. F. Honore, Hist. des Ordres de Chevaleried, t. 4. Anche Ashmole di Ordine della Giarrettiera; Register Anstis di e Pott Antichità di Windsor e Hist. della presente ordinanza, 4to. 1749, con gli Stati membri. note di Dr. Buswel, canonico di Westminster.
6 Jos Assemani in Calend. Univer. t. 6, p. 284. Vedi Memoires de lAcademie des Inscript. t. 26 p. 436.
7 Cfr. gli Atti di S. Antimo e Comp.
8 Cfr. La storia Dr. Heylin di San Giorgio.
(Tratto da vol. IV di « Le vite o padri, dei martiri e altri santi principali » da parte del Rev. Alban Butler, l’edizione 1864 pubblicata da D. & J. Sadlier, & Company)

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16 aprile: Santa Bernardetta Soubirous Vergine (mf)

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Santa Bernardetta Soubirous Vergine

16 aprile

Lourdes, 7 gennaio 1844 – Nevers, 16 aprile 1879

Quando, l’11 febbraio del 1858, la Vergine apparve per la prima volta a Bernadette presso la rupe di Massabielle, sui Pirenei francesi, questa aveva compiuto 14 anni da poco più di un mese. Era nata, infatti, il 7 gennaio 1844. A lei, povera e analfabeta, ma dedita con il cuore al Rosario, appare più volte la «Signora». Nell’apparizione del 25 marzo 1858, la Signora rivela il suo nome: «Io sono l’Immacolata Concezione». Quattro anni prima, Papa Pio IX aveva dichiarato l’Immacolata Concezione di Maria un dogma, ma questo Bernadette non poteva saperlo. La lettera pastorale firmata nel 1862 dal vescovo di Tarbes, dopo un’accurata inchiesta, consacrava per sempre Lourdes alla sua vocazione di santuario mariano internazionale. La sera del 7 Luglio 1866, Bernadette Soubirous decide di rifugiarsi dalla fama a Saint-Gildard, casa madre della Congregazione delle Suore della Carità di Nevers. Ci rimarrà 13 anni. Costretta a letto da asma, tubercolosi, tumore osseo al ginocchio, all’età di 35 anni, Bernadette si spegne il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua. (Avvenire)

Patronato: Pastori
Etimologia: Bernardetta = ardita come orso, dal tedesco

Emblema: Giglio
Martirologio Romano: A Nevers sempre in Francia, santa Maria Bernarda Soubirous, vergine, che, nata nella cittadina di Lourdes da famiglia poverissima, ancora fanciulla sperimentò la presenza della beata Maria Vergine Immacolata e, in seguito, preso l’abito religioso, condusse una vita di umiltà e nascondimento.   

A metà strada tra Lione e Parigi, adagiata lungo la Loira, c’è Nevers, la città in cui è sepolto, da circa 125 anni, il corpo incorrotto di santa Bernadette Soubirous. Entrando nel cortile del convento di Saint Gildard, casa madre delle Suore della Carità, si accede alla chiesa attraverso una porticina laterale. La semioscurità, in questa architettura neogotica dell’Ottocento, è rotta dalle luci che illuminano un’artistica cassa funeraria in vetro. Dentro c’è il piccolo corpo (appena un metro e quarantadue centimetri di altezza) di una giovane religiosa che sembra quasi dormire, con le mani giunte attorno a un rosario ed il capo reclinato a sinistra. E’ il corpo mortale di Bernadette, la veggente di Lourdes, rimasto pressocchè intatto dal giorno della sua morte. Per la scienza un fatto “inspiegabile”, per la fede invece un segno inequivocabile del “dito” di Dio in una vicenda, come quella di Lourdes, che ha tutti i caratteri dell’eccezionalità e i cui effetti si possono contemplare anche oggi in quello straordinario luogo di fede e di pietà mariana che è la piccola città dei Pirenei dove Maria apparve per la prima volta l’11 febbraio del 1858.
Quella mattina era un giovedì grasso e a Lourdes faceva tanto freddo. In casa Soubirous non c’era più legna da ardere. Bernadette, che allora aveva 14 anni, era andata con la sorella Toinette e una compagna a cercar dei rami secchi nei dintorni del paese. Verso mezzogiorno le tre bambine giunsero vicino alla rupe di Massabielle, che formava, lungo il fiume Gave, una piccola grotta. Qui c’era “la tute aux cochons”, il riparo per i maiali, un angolo sotto la roccia dove l’acqua depositava sempre legna e detriti. Per poterli andare a raccogliere, bisognava però attraversare un canale d’acqua, che veniva da un mulino e si gettava nel fiume.
Toinette e l’amica calzavano gli zoccoli, senza calze. Se li tolsero, per entrare nell’acqua fredda. Bernadette invece, essendo molto delicata e soffrendo d’asma, portava le calze. Pregò l’amica di prenderla sulle spalle, ma quella si rifiutò, scendendo con Toinette verso il fiume. Rimasta sola, Bernadette pensò di togliersi anche lei gli zoccoli e le calze, ma mentre si accingeva a far questo udì un gran rumore: alzò gli occhi e vide che la quercia abbarbicata al masso di pietra si agitava violentemente, per quanto non ci fosse nell’aria neanche un alito di vento. Poi la grotta fu piena di una nube d’oro, e una splendida Signora apparve sulla roccia.
Istintivamente, Bernadette s’inginocchiò, tirando fuori la coroncina del Rosario. La Signora la lasciò fare, unendosi alla sua preghiera con lo scorrere silenzioso fra le sue dita dei grani del Rosario. Alla fine di ogni posta, recitava ad alta voce insieme a Bernadette il Gloria Patri. Quando la piccola veggente ebbe terminato il Rosario, la bella Signora scomparve all’improvviso, ritirandosi nella nicchia, così come era venuta.
Bernadette Soubirous aveva compiuto 14 anni da poco più di un mese. Era nata, infatti, il 7 gennaio 1844, da Louise Casterot e François, un mugnaio ridotto in miseria dalla sua eccessiva “bontà” verso i creditori. Bernadette, che era la primogenita, a 14 anni non sapeva né leggere né scrivere e non aveva ancora fatto la prima Comunione, tuttavia sapeva assai bene il Rosario e teneva sempre con sé una coroncina da pochi spiccioli dalla quale era solita non separarsi mai. È, quindi, proprio a una quattordicenne poverissima ed analfabeta, ma che prega tutti i giorni il Rosario, che la Madonna decide di apparire la mattina dell’11 febbraio 1858, in un piccolo paese ai piedi dei Pirenei.
Intanto la notizia delle apparizioni si diffonde in un baleno. Nell’apparizione del 24 febbraio la Madonna ripete per tre volte la parola “Penitenza”. Ed esorta: “Pregate per i peccatori”.
Infine nell’apparizione del 25 marzo 1858, la Signora rivela finalmente il suo nome:: “Que soy – dice nel dialetto locale – era Immaculada Councepciou…” (Io sono l’Immacolata Concezione). Quattro anni prima, Papa Pio IX aveva dichiarato l’Immacolata Concezione di Maria un dogma, cioè una verità della fede cattolica, ma questo Bernadette non poteva saperlo. Così, nel timore di dimenticare tale espressione per lei incomprensibile, la ragazza partì velocemente verso la casa dell’abate Peyramale, ripetendogli tutto d’un fiato la frase appena ascoltata.
L’abate, sconvolto, non ha più dubbi. Da questo momento il cammino verso il riconoscimento ufficiale delle apparizioni può procedere speditamente, fino alla lettera pastorale firmata nel 1862 dal vescovo di Tarbes, che, dopo un’accurata inchiesta, consacrava per sempre Lourdes alla sua vocazione di santuario mariano internazionale.
La sera del 7 Luglio 1866, Bernadette Soubirous varcava la soglia di Saint-Gildard, casa madre della Congregazione delle Suore della Carità di Nevers. “Sono venuta qui per nascondermi”, aveva detto con umiltà. Tante attenzioni, tante morbose curiosità attorno alla sua persona dopo le apparizioni, non le davano che dispiacere. Nei 13 anni che rimane a Nevers sarà infermiera, a volte sacrestana, ma spesso ammalata lei stessa… Svolge tutte le sue mansioni con delicatezza e generosità: “Non vivrò un solo istante senza amare”.
Ma la malattia avanza implacabile: asma, tubercolosi, tumore osseo al ginocchio. L’11 dicembre 1878 è definitivamente costretta a letto: “Sono macinata – dice lei – come un chicco di grano”. All’età di 35 anni, il 16 aprile 1879, mercoledì di Pasqua, alle 3 del pomeriggio, gli occhi della piccola veggente che videro Maria si chiudono per sempre. Beatificata nel 1925, il Papa Pio XI l’ha proclamata santa l’8 dicembre 1933.

Autore: Maria Di Lorenzo

12 marzo – San Luigi Orione Sacerdote e fondatore

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12 marzo – San Luigi Orione Sacerdote e fondatore

Nacque a Pontecurone nella diocesi di Tortona, il 23 giugno 1872. A 13 anni entrò fra i Frati Minori di Voghera. Nel 1886 entrò nell’oratorio di Torino diretto da san Giovanni Bosco. Nel 1889 entrò nel seminario di Tortona. Proseguì gli studi teologici, alloggiando in una stanzetta sopra il duomo. Qui ebbe l’opportunità di avvicinare i ragazzi a cui impartiva lezioni di catechismo, ma la sua angusta stanzetta non bastava, per cui il vescovo gli concesse l’uso del giardino del vescovado. Il 3 luglio 1892, il giovane chierico Luigi Orione, inaugurò il primo oratorio intitolato a san Luigi. Nel 1893 aprì il collegio di san Bernardino. Nel 1895, venne ordinato sacerdote. Molteplici furono le attività cui si dedicò. Fondò la Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Missionarie della Carità; gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Suore Sacramentine. Mandò i suoi sacerdoti e suore nell’America Latina e in Palestina sin dal 1914. Morì a Sanremo nel 1940. (Avvenire)

Etimologia: Luigi = derivato da Clodoveo

Martirologio Romano: A Sanremo in Liguria, san Luigi Orione, sacerdote, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza per il bene dei giovani e di tutti gli emarginati.  

Un santo dei nostri tempi, di lui esiste una vastissima bibliografia e periodicamente escono pubblicati stampati, riviste, quaderni di spiritualità, libri che lo riguardano, lo analizzano in tutti i suoi aspetti, parlano della sua opera, davvero grande.
Luigi Giovanni Orione nacque a Pontecurone nella diocesi di Tortona il 23 giugno 1872 da onesti e semplici genitori, in particolare la madre fu una saggia educatrice e gli fu di valido aiuto nelle sue future attività con i ragazzi.
Lavorò nei campi nella sua fanciullezza, frequentando un po’ di scuola e dedito alle pratiche religiose. A 13 anni entrò fra i Frati Minori di Voghera, purtroppo a causa di una grave polmonite, dovette ritornarsene in famiglia.
Ristabilitasi, aiutò il padre nella selciatura delle strade, esperienza che gli risulterà molto utile per comprendere le sofferenze e la mentalità degli operai. Nel 1886 entrò nell’oratorio di Torino diretto da s. Giovanni Bosco, ove rimarrà per tre anni, l’insegnamento ricevuto e l’esperienza vissuta con il santo innovatore, non si cancellò più dal suo animo, costituendo una direttiva essenziale per le sue future attività in campo giovanile.
Inaspettatamente lasciò i salesiani e nel 1889 entrò nel seminario di Tortona per studiare filosofia per due anni, al termine del corso, proseguì gli studi teologici, alloggiando in una stanzetta sopra il duomo, nel quale prestava servizio per le Messe; riceveva anche un piccolo compenso per le sue necessità.
Nel duomo ebbe l’opportunità di avvicinare i ragazzi a cui impartiva lezioni di catechismo, ma la sua angusta stanzetta non bastava, per cui il vescovo, conscio dell’importanza dell’iniziativa, gli concesse l’uso del giardino del vescovado.
Il 3 luglio 1892, il giovane chierico Luigi Orione, inaugurò il primo oratorio intitolato a s. Luigi; l’anno successivo riuscì ad aprire un collegio detto di s. Bernardino, subito frequentato da un centinaio di ragazzi.
Il 13 aprile 1895, venne ordinato sacerdote, celebrando la prima Messa fra i suoi ragazzi, che nel frattempo si erano trasferiti nell’ex convento di S. Chiara.
Attorno a lui si riunirono altri sacerdoti e chierici, formando il primo nucleo della futura congregazione; si impegnò con tutte le sue forze in molteplici attività: visite ai poveri ed ammalati, lotta contro la Massoneria, diffusione della buona stampa, frequenti predicazioni, cura dei ragazzi.
Si precipitò a soccorrere le popolazioni colpite dal terremoto del 1908 a Messina e Reggio Calabria, inviando nelle sue Case molti orfani, divenne il centro degli aiuti sia civili che pontifici. Papa Pio X gli diede l’incarico, che durò tre anni, di vicario generale della diocesi di Messina.
Stessa operosità dimostrò negli aiuti ai terremotati della Marsica nel 1915, accogliendo altri orfani, a cui diede come a tutti, il vivere, l’istruzione, il lavoro.
Se s. Giovanni Bosco fu l’esempio per l’educazione dei ragazzi, san Luigi Orione fu l’esempio per le opere di carità; girò varie volte l’Italia per raccogliere vocazioni e aiuti materiali per la sue molteplici Opere. Per curare tante attività, fondò la Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Missionarie della Carità; dal lato spirituale e contemplativo, fondò gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Suore Sacramentine, a queste due Istituzioni ammise anche i non vedenti.
Ancora lo spirito missionario lo spinse a mandare i suoi figli e suore nell’America Latina e in Palestina sin dal 1914; ben due volte per sostenere le sue opere, si recò egli stesso nel 1921 e nel 1934 a Buenos Aires, dove restò per tre anni organizzando scuole, colonie agricole, parrocchie, orfanotrofi, case di carità dette “Piccolo Cottolengo”.
Sempre in movimento conduceva una vita penitente e poverissima, sebbene cagionevole di salute, organizzò missioni popolari, presepi viventi, processioni e pellegrinaggi, con l’intento che la fede deve permeare tutte le fasi della vita.
Gli ultimi tre anni della sua vita li trascorse sempre a Tortona, facendo visita settimanale al ‘Piccolo Cottolengo’ di Milano ed a quello di Genova; cedendo alle pressioni dei medici e dei confratelli, si concesse qualche giorno di riposo a Sanremo nella villa di S. Clotilde, dove morì dopo pochi giorni, il 12 marzo 1940.
I funerali furono solennissimi e ricevé l’omaggio di tutte le città del Nord Italia da dove passò il corteo funebre; venne tumulato nella cripta del Santuario della Madonna della Guardia di Tortona, da lui fatto edificare. Venticinque anni dopo nel 1965, fu fatta la ricognizione della salma che fu trovata completamente intatta e di nuovo tumulata.
In queste brevi note biografiche, non si riesce a descrivere l’importanza che l’Opera sociale e spirituale di don Orione, come da sempre è chiamato così, ha avuto nel contesto umano, prima con le conseguenze di disastri naturali e poi con i disastri provocati dalla follia umana delle due Guerre Mondiali.
Personaggi di ogni ceto sociale e culturale lo conobbero e contattarono, dai papi s. Pio X e Benedetto XV al maestro Lorenzo Perosi, dalle autorità politiche nazionali e locali, ai santi del suo tempo. Il fondatore della ‘Piccola Opera della Divina Provvidenza’ è stato beatificato il 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II, in un tripudio di tanti suoi figli ed assistiti provenienti da tanta Nazioni.
E’ stato proclamato santo da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004, data di culto in cui lo ricorda ogni anno la Congregazione da lui fondata.

Autore: Antonio Borrelli

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San Sebastiano Martire

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San Sebastiano Martire

20 gennaio – Memoria Facoltativa

Milano, 263 ca. – Roma, 304 ca.

Le notizie storiche su san Sebastiano sono davvero poche, ma la diffusione del suo culto ha resistito ai millenni, ed è tuttora molto vivo. Ben tre Comuni in Italia portano il suo nome, e tanti altri lo venerano come santo patrono. San Sebastiano fu sepolto nelle catacombe che ne hanno preso il nome. Il suo martirio avvenne sotto Diocleziano. Secondo i racconti della sua vita sarebbe stato un cavaliere valsosi dell’amicizia con l’imperatore per recare soccorso ai cristiani incarcerati e condotti al supplizio. Avrebbe fatto anche opera missionaria convertendo soldati e prigionieri. Lo stesso governatore di Roma, Cromazio, e suo figlio Tiburzio, da lui convertiti, avrebbero affrontato il martirio. Tutto ciò non poteva passare inosservato a corte, tanto che Diocleziano stesso convocò Sebastiano. Inizialmente si appellò alla vecchia familiarità: «Ti avevo aperto le porte del mio palazzo e spianato la strada per una promettente carriera e tu attentavi alla mia salute». Poi passò alle minacce e infine alla condanna. Venne legato al tronco di un albero, in aperta campagna, e saettato da alcuni commilitoni. (Avvenire)

Patronato: Atleti, Arcieri, Vigili urbani, Tappezzieri
Etimologia: Sebastiano = venerabile, dal greco

Emblema: Freccia, Palma
Martirologio Romano: San Sebastiano, martire, che, originario di Milano, venne a Roma, come riferisce sant’Ambrogio, al tempo in cui infuriavano violente persecuzioni e vi subì la passione; a Roma, pertanto, dove era giunto come ospite straniero, ebbe il domicilio della perpetua immortalità; la sua deposizione avvenne sempre a Roma ad Catacumbas in questo stesso giorno.
Le notizie storiche su s. Sebastiano sono davvero poche, ma la diffusione del suo culto ha resistito ai millenni, ed è tuttora molto vivo, ben tre Comuni in Italia portano il suo nome, e tanti altri lo venerano come santo patrono.
Le fonti storiche certe sono: il più antico calendario della Chiesa di Roma, la ‘Depositio martyrum’ risalente al 354, che lo ricorda al 20 gennaio e il “Commento al salmo 118” di s. Ambrogio (340-397), dove dice che Sebastiano era di origine milanese e si era trasferito a Roma, ma non dà spiegazioni circa il motivo.
Le poche notizie storiche sono state poi ampliate e diciamo abbellite, dalla successiva ‘Passio’, scritta probabilmente nel V secolo dal monaco Arnobio il Giovane.
Ne facciamo qui il riassunto integrando le due fonti, dando prima una introduzione storica.
Nel 260 l’imperatore Galliano aveva abrogato gli editti persecutori contro i cristiani, ne seguì un lungo periodo di pace, in cui i cristiani pur non essendo riconosciuti ufficialmente, erano però stimati, occupando alcuni di loro, importanti posizioni nell’amministrazione dell’impero.
E in questo clima favorevole, la Chiesa si sviluppò enormemente anche nell’organizzazione; Diocleziano che fu imperatore dal 284 al 305, desiderava portare avanti questa situazione pacifica, ma poi 18 anni dopo, su istigazione del suo cesare Galerio, scatenò una delle persecuzioni più crudeli in tutto l’impero.
Sebastiano, che secondo s. Ambrogio era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia meridionale) e da madre milanese, era stato educato nella fede cristiana, si trasferì a Roma nel 270 e intraprese la carriera militare intorno al 283, fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma, stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo, domestico (cubicolario) della famiglia imperiale, che poi morì martire.
La leggendaria ‘Passio’, racconta che un giorno furono arrestati due giovani cristiani Marco e Marcelliano, figli di un certo Tranquillino; il padre ottenne un periodo di trenta giorni di riflessione prima del processo, affinché potessero salvarsi dalla certa condanna sacrificando agli dei.
Nel tetro carcere i due fratelli stavano per cedere alla paura, quando intervenne il tribuno Sebastiano riuscendo a convincerli a perseverare nella fede; mentre nel buio della cella egli parlava ai giovani, i presenti lo videro circondato di luce e tra loro c’era anche Zoe, moglie del capo della cancelleria imperiale, diventata muta da sei anni. La donna si inginocchiò davanti a Sebastiano, il quale dopo aver implorato la grazia divina fece un segno di croce sulle sue labbra, restituendole la voce.
A ciò seguì una collana di conversioni importanti, il prefetto di Roma Cromazio e suo figlio Tiburzio, Zoe col marito Nicostrato e il cognato Castorio; tutti in seguito subirono il martirio, come pure i due fratelli Marco e Marcelliano e il loro padre Tranquillino.
Sebastiano per la sua opera di assistenza ai cristiani, fu proclamato da papa s. Caio “difensore della Chiesa” e proprio quando, secondo la tradizione, aveva seppellito i santi martiri Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato, detti Quattro Coronati, sulla via Labicana, fu arrestato e portato da Massimiano e Diocleziano, il quale già infuriato per la voce che si diffondeva in giro, che nel palazzo imperiale si annidavano i cristiani persino tra i pretoriani, apostrofò il tribuno: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me, ingiuriando gli dei”.
Sebastiano fu condannato ad essere trafitto dalle frecce; legato ad un palo in una zona del colle Palatino chiamato ‘campus’, fu colpito seminudo da tante frecce da sembrare un riccio; creduto morto dai soldati fu lasciato lì in pasto agli animali selvatici.
Ma la nobile Irene, vedova del già citato s. Castulo, andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, secondo la pia usanza dei cristiani, i quali sfidavano il pericolo per fare ciò e spesso venivano sorpresi e arrestati anche loro.
Ma Irene si accorse che il tribuno non era morto e trasportatolo nella sua casa sul Palatino, prese a curarlo dalle numerose lesioni. Miracolosamente Sebastiano riuscì a guarire e poi nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli che cercava il martirio, decise di proclamare la sua fede davanti a Diocleziano e al suo associato Massimiano, mentre gli imperatori si recavano per le funzioni al tempio eretto da Elagabolo, in onore del Sole Invitto, poi dedicato ad Ercole.
Superata la sorpresa, dopo aver ascoltato i rimproveri di Sebastiano per la persecuzione contro i cristiani, innocenti delle accuse fatte loro, Diocleziano ordinò che questa volta fosse flagellato a morte; l’esecuzione avvenne nel 304 ca. nell’ippodromo del Palatino, il corpo fu gettato nella Cloaca Massima, affinché i cristiani non potessero recuperarlo.
L’abbandono dei corpi dei martiri senza sepoltura, era inteso dai pagani come un castigo supremo, credendo così di poter trionfare su Dio e privare loro della possibilità di una resurrezione.
La tradizione dice che il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia.
Le catacombe, oggi dette di San Sebastiano, erano dette allora ‘Memoria Apostolorum’, perché dopo la proibizione dell’imperatore Valeriano del 257 di radunarsi e celebrare nei cosiddetti “cimiteri cristiani”, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e dell’Ostiense, trasferendoli sulla via Appia, in un cimitero considerato pagano.
Costantino nel secolo successivo, fece riportare nei luoghi del martirio i loro corpi e dove si costruirono poi le celebri basiliche.
Sulla Via Appia si costruì un’altra basilica costantiniana la “Basilica Apostolorum”, in memoria dei due apostoli.
Fino a tutto il VI secolo, i pellegrini che vi si recavano attirati dalla ‘memoria’ di s. Pietro e s. Paolo, visitavano in quel cimitero anche la tomba del martire, la cui figura era per questo diventata molto popolare e quando nel 680 si attribuì alla sua intercessione, la fine di una grave pestilenza a Roma, il martire s. Sebastiano venne eletto taumaturgo contro le epidemie e la chiesa cominciò ad essere chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”.
Il santo venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo.
Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons il 13 ottobre 826; mentre il suo successore Gregorio IV (827-844) fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e inserendo il capo in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato.
Gli altri resti di s. Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di S. Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta; nel XVII secolo l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.
S. Sebastiano è considerato patrono degli arcieri e archibugieri, tappezzieri, fabbricanti di aghi e di quanti altri abbiano a che fare con oggetti a punta simili alle frecce.
Patrono di Pest a Budapest e dei Giovani dell’Azione Cattolica, è invocato nelle epidemie, specie di peste, così diffusa in Europa nei secoli addietro.
Nell’arte antica s. Sebastiano fu variamente raffigurato come anziano, uomo maturo con barba e senza barba, vestito da soldato romano o con lunghe vesti proprie di un uomo del Medioevo.
Dal Rinascimento in poi diventò nell’arte, l’equivalente degli dei ed eroi greci, celebrati per la loro bellezza come Adone o Apollo, poi ispirandosi ad una leggenda dell’VIII secolo, secondo la quale il martire sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon, nelle sembianze di un efebo, pittori e scultori cominciarono a raffigurarlo come un bellissimo giovane nudo, legato ad un albero o colonna e trafitto dalle frecce.
Il soggetto si presentava ad una libera interpretazione del primo martirio delle frecce, (non si teneva conto che fosse poi morto con il flagello) e secondo l’estro dell’artista per un compiaciuto virtuosismo anatomico, applicato ad un soggetto religioso.
Anche Michelangelo nel “Giudizio Universale”, lo immaginò nudo e possente come un Ercole, mentre stringe in pugno un fascio di frecce, interpretazione guerriera del mite santo, beato nella comunione del Signore.
Innumerevoli sono le opere d’arte che lo raffigurano e quasi tutti gli artisti, pittori e scultori, si cimentarono nell’opera, anzi la semplicità del soggetto, uomo nudo legato ad una colonna, fu congeniale specie agli scultori.
Ancora vivente, il papa lo denominò “difensore della Chiesa”, e celeste patrono e difensore fu denominato da intere città, capolavoro di questo tema è l’affresco di Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Agostino, della turrita San Gimignano (1465), dove s. Sebastiano come le iconografie della Madonna della Misericordia, accoglie gli abitanti della città sotto il suo mantello, sorretto da angeli e contro il quale si spezzano le frecce scagliate dal cielo da Dio.
Infine è da ricordare che insieme a s. Giovanni Battista, è molto raffigurato nei gruppi di santi che circondano il trono della Madonna o che sono posti ai lati della Vergine.

Autore: Antonio Borrelli

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Benedetto XVI: Sant’Ilario di Poitiers – memoria facoltativa il 13 gennaio

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 10 ottobre 2007

Sant’Ilario di Poitiers – memoria facoltativa il 13 gennaio

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare di un grande Padre della Chiesa di Occidente, sant’Ilario di Poitiers, una delle grandi figure di Vescovi del IV secolo. Nel confronto con gli ariani, che consideravano il Figlio di Dio Gesù una creatura, sia pure eccellente, ma solo creatura, Ilario ha consacrato tutta la sua vita alla difesa della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.
Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario. Le fonti antiche dicono che nacque a Poitiers, probabilmente verso l’anno 310. Di famiglia agiata, ricevette una solida formazione letteraria, ben riconoscibile nei suoi scritti. Non sembra che sia cresciuto in un ambiente cristiano. Egli stesso ci parla di un cammino di ricerca della verità, che lo condusse man mano al riconoscimento del Dio creatore e del Dio incarnato, morto per darci la vita eterna. Battezzato verso il 345, fu eletto Vescovo della sua città natale intorno al 353-354. Negli anni successivi Ilario scrisse la sua prima opera, il Commento al Vangelo di Matteo. Si tratta del più antico commento in lingua latina che ci sia pervenuto di questo Vangelo. Nel 356 Ilario assiste come Vescovo al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il «sinodo dei falsi apostoli», come egli stesso lo chiama, dal momento che l’assemblea fu dominata dai Vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo. Questi «falsi apostoli» chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di Poitiers. Così Ilario fu costretto a lasciare la Gallia durante l’estate del 356.
Esiliato in Frigia, nell’attuale Turchia, Ilario si trovò a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo. Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinse a lavorare strenuamente per il ristabilimento dell’unità della Chiesa, sulla base della retta fede formulata dal Concilio di Nicea. A questo scopo egli avviò la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: La Trinità. In essa Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre, non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore stesso: «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».
Il Padre e il Figlio sono della stessa natura. E se alcuni passi del Nuovo Testamento potrebbero far pensare che il Figlio sia inferiore al Padre, Ilario offre regole precise per evitare interpretazioni fuorvianti: alcuni testi della Scrittura parlano di Gesù come Dio, altri invece mettono in risalto la sua umanità. Alcuni si riferiscono a Lui nella sua preesistenza presso il Padre; altri prendono in considerazione lo stato di abbassamento (kénosis), la sua discesa fino alla morte; altri, infine, lo contemplano nella gloria della risurrezione. Negli anni del suo esilio Ilario scrisse anche il Libro dei Sinodi, nel quale riproduce e commenta per i suoi confratelli Vescovi della Gallia le confessioni di fede e altri documenti dei sinodi riuniti in Oriente intorno alla metà del IV secolo. Sempre fermo nell’opposizione agli ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo mi sembra caratteristico: lo spirito di conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo.
Nel 360 o nel 361 Ilario poté finalmente tornare dall’esilio in patria e subito riprese l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma l’influsso del suo magistero si estese di fatto ben oltre i confini di essa. Un sinodo celebrato a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Negli ultimi anni di vita egli compose ancora i Trattati sui Salmi, un commento a cinquantotto Salmi, interpretati secondo il principio evidenziato nell’introduzione dell’opera: «Non c’è dubbio che tutte le cose che si dicono nei Salmi si devono intendere secondo l’annunzio evangelico, in modo che, qualunque sia la voce con cui lo spirito profetico ha parlato, tutto sia comunque riferito alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, alla sua incarnazione, passione e regno, e alla gloria e potenza della nostra risurrezione» (Istruzione sui Salmi 5). Egli vede in tutti i Salmi questa trasparenza del mistero di Cristo e del suo Corpo, che è la Chiesa. In diverse occasioni Ilario si incontrò con san Martino: proprio vicino a Poitiers il futuro Vescovo di Tours fondò un monastero, che esiste ancor oggi. Ilario morì nel 367. La sua memoria liturgica si celebra il 13 gennaio. Nel 1851 il beato Pio IX lo proclamò Dottore della Chiesa.
Per riassumere l’essenziale della sua dottrina, vorrei dire che Ilario trova il punto di partenza della sua riflessione teologica nella fede battesimale. Nel De Trinitate Ilario scrive: Gesù «ha comandato di battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr Mt 28,19), cioè nella confessione dell’Autore, dell’Unigenito e del Dono. Uno solo è l’Autore di tutte le cose, perché uno solo è Dio Padre, dal quale tutto procede. E uno solo il Signore nostro Gesù Cristo, mediante il quale tutto fu fatto (1 Cor 8,6), e uno solo è lo Spirito (Ef 4,4), dono in tutti … In nulla potrà essere trovata mancante una pienezza così grande, in cui convergono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo l’immensità nell’Eterno, la rivelazione nell’Immagine, la gioia nel Dono» (2,1). Dio Padre, essendo tutto amore, è capace di comunicare in pienezza la sua divinità al Figlio. Trovo particolarmente bella la seguente formula di sant’Ilario: «Dio non sa essere altro se non amore, non sa essere altro se non Padre. E chi ama non è invidioso, e chi è Padre lo è nella sua totalità. Questo nome non ammette compromessi, quasi che Dio sia padre in certi aspetti, e in altri non lo sia» (ibid., 9,61).
Per questo il Figlio è pienamente Dio senza alcuna mancanza o diminuzione: «Colui che viene dal perfetto è perfetto, perché chi ha tutto, gli ha dato tutto» (ibid., 2,8). Soltanto in Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, trova salvezza l’umanità. Assumendo la natura umana, Egli ha unito a sé ogni uomo, «si è fatto la carne di tutti noi» (Trattato sui Salmi 54,9); «ha assunto in sé la natura di ogni carne e, divenuto per mezzo di essa la vite vera, ha in sé la radice di ogni tralcio» (ibid., 51,16). Proprio per questo il cammino verso Cristo è aperto a tutti – perché egli ha attirato tutti nel suo essere uomo –, anche se è richiesta sempre la conversione personale: «Mediante la relazione con la sua carne, l’accesso a Cristo è aperto a tutti, a patto che si spoglino dell’uomo vecchio (cfr Ef 4,22) e lo inchiodino alla sua croce (cfr Col 2,14); a patto che abbandonino le opere di prima e si convertano, per essere sepolti con Lui nel suo Battesimo, in vista della vita (cfr Col 1,12; Rm 6,4)» (ibid., 91,9).
La fedeltà a Dio è un dono della sua grazia. Perciò sant’Ilario chiede, alla fine del suo trattato sulla Trinità, di potersi mantenere sempre fedele alla fede del Battesimo. E’ una caratteristica di questo libro: la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione. Tutto il libro è un dialogo con Dio.
Vorrei concludere l’odierna catechesi con una di queste preghiere, che diviene così anche preghiera nostra: «Fa’, o Signore – recita Ilario in modo ispirato – che io mi mantenga sempre fedele a ciò che ho professato nel Simbolo della mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Che io adori te, nostro Padre, e insieme con te il tuo Figlio; che io meriti il tuo Spirito Santo, il quale procede da te mediante il tuo Unigenito… Amen» (La Trinità 12,57).

31 dicembre : San Silvestro papa (mf)

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San Silvestro I Papa

31 dicembre – Memoria Facoltativa

Papa dal 31/01/314 al 31/12/335)

Silvestro è il primo Papa di una Chiesa non più minacciata dalle terribili persecuzioni dei primi secoli. Nell’anno 313, infatti, gli imperatori Costantino e Licinio hanno dato piena libertà di culto ai cristiani, essendo papa l’africano Milziade, che è morto l’anno dopo. Gli succede il prete romano Silvestro. A lui Costantino dona come residenza il palazzo del Laterano, affiancato più tardi dalla basilica di San Giovanni, e costruisce la prima basilica di San Pietro. Il lungo pontificato di Silvestro (21 anni) è però lacerato dalle controversie disciplinari e teologiche, e l’autorità della Chiesa di Roma su tutte le altre Chiese, diffuse ormai intorno all’intero Mediterraneo, non è ancora affermata. Nel Concilio di Arles (314) e di Nicea (325) papa Silvestro non ha alcun modo di intervenire: gli vengono solo comunicate, con solennità e rispetto, le decisioni prese. Fu il primo a ricevere il titolo di «Confessore della fede».

Etimologia: Silvestro = abitatore delle selve, uomo dei boschi, selvaggio, dal latino

Martirologio Romano: San Silvestro I, papa, che per molti anni resse con saggezza la Chiesa, nel tempo in cui l’imperatore Costantino costruì le venerande basiliche e il Concilio di Nicea acclamò Cristo Figlio di Dio. In questo giorno il suo corpo fu deposto a Roma nel cimitero di Priscilla.
È il primo Papa di una Chiesa non più minacciata dalle terribili persecuzioni dei primi secoli. Nell’anno 313, infatti, gli imperatori Costantino e Licinio hanno dato piena libertà di culto ai cristiani, essendo Papa l’africano Milziade, che è morto l’anno dopo. Gli succede il prete romano Silvestro. A lui Costantino dona come residenza il palazzo del Laterano, affiancato più tardi dalla basilica di San Giovanni, e costruisce la prima basilica di San Pietro.
In pace con l’autorità civile, ma non tra di loro: così sono i cristiani del tempo. Il lungo pontificato di Silvestro (ben 21 anni) è infatti tribolato dalle controversie disciplinari e teologiche, e l’autorità ordinaria della Chiesa di Roma su tutte le altre Chiese, diffuse ormai intorno all’intero Mediterraneo, non è ancora compiutamente precisata.
Costantino, poi, interviene nelle controversie religiose (o i vescovi e i fedeli lo fanno intervenire) non tanto per “abbassare” Silvestro, ma piuttosto per dare tranquillità all’Impero. (Tanto più che lui non è cristiano, all’epoca; e infondata è la voce secondo cui l’avrebbe battezzato Silvestro).
Costantino indice nel 314 il Concilio occidentale di Arles, in Gallia, sulla questione donatista (i comportamenti dei cristiani durante le persecuzione di Diocleziano). E sempre lui, nel 325, indice il primo Concilio ecumenico a Nicea, dove si approva il Credo che contro le dottrine di Ario riafferma la divinità di Gesù Cristo («Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre»).
Papa Silvestro non ha alcun modo di intervenire nei dibattiti: gli vengono solo comunicate, con solennità e rispetto, le decisioni prese. E, insomma, ci appare sbiadito, non per colpa sua (e nemmeno tutta di Costantino); è come schiacciato dagli avvenimenti. Ma pure deve aver colpito i suoi contemporanei, meglio informati di noi: tant’è che, appena morto, viene subito onorato pubblicamente come “Confessore”. Anzi, è tra i primi a ricevere questo titolo, attribuito dal IV secolo in poi a chi, pur senza martirio, ha trascorso una vita sacrificata a Cristo.
Silvestro è un Papa anche sfortunato con la storia, e senza sua colpa: per alcuni secoli, infatti, è stato creduto autentico un documento, detto “donazione costantiniana”, con cui l’imperatore donava a Silvestro e ai suoi successori la città di Roma e alcune province italiane; un documento già dubbio nel X secolo e riconosciuto del tutto falso nel XV.
Un anno dopo la sua morte, a papa Silvestro era già dedicata una festa al 31dicembre; mentre in Oriente lo si ricorda il 2 gennaio.

Autore: Domenico Agasso

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21 dicembre: San Pietro Canisio Sacerdote e dottore della Chiesa (mf)

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San Pietro Canisio Sacerdote e dottore della Chiesa

21 dicembre – Memoria Facoltativa

Nimega, 1521 – Friburgo, Svizzera, 21 dicembre 1597

Pietro Kanijs (Canisio, nella forma latinizzata) nasce a Nimega, in Olanda, nel 1521. È friglio del borgomastro della città, ha perciò la possibilità di studiare diritto canonico a Lovanio e diritto civile a Colonia. In questa città ama trascorrere il tempo libero nel monastero dei certosini e la lettura del breve opuscolo degli Esercizi spirituali che Sant’Ignazio ha scritto da poco determina la svolta decisiva della sua vita: compiuta la pia pratica a Magonza sotto la direzione di padre Faber, entra nella Compagnia di Gesù ed è l’ottavo gesuita a emettere i voti solenni. A lui si deve la pubblicazione delle opere di San Cirillo di Alessandria, di San Leone Magno, di San Girolamo e di Osio di Cordova. Prende parte attiva al concilio di Trento, come teologo del cardinale Truchsess e consigliere del papa. Sant’Ignazio lo chiama in Italia, mandandolo dapprima in Sicilia, poi a Bologna, per rimandarlo quindi in Germania, dove resta per trent’anni, in qualità di superiore provinciale. Pio V gli offrì il cardinalato, ma Pietro Canisio pregò il papa di lasciarlo al suo umile servizio della comunità. Morì a Friburgo, in Svizzera, il 21 dicembre 1597. (Avvenire)

Etimologia: Pietro = pietra, sasso squadrato, dal latino

Martirologio Romano: San Pietro Canisio, sacerdote della Compagnia di Gesù e dottore della Chiesa, che, mandato in Germania, si adoperò strenuamente per molti anni nel difendere e rafforzare la fede cattolica con la predicazione e con i suoi scritti, tra i quali il celebre Catechismo. A Friburgo in Svizzera prese infine riposo dalle sue fatiche.
Continuando nella sua catechesi sui santi, Benedetto XVI ha dedicato l’udienza generale del 9 febbraio a san Pietro Canisio (1521-1597), gesuita e teologo presente come perito al Concilio di Trento.Olandese di nascita, nel 1548 fu inviato dal fondatore dei Gesuiti, sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), in Germania. Il Papa ne richiama le parole annotate nel suo diario e riferite alla Basilica di San Pietro, dove il santo si era recato per pregare: «Là io ho sentito che una grande consolazione e la presenza della grazia mi erano concesse per mezzo di tali intercessori [Pietro e Paolo]. Essi confermavano la mia missione in Germania e sembravano trasmettermi, come ad apostolo della Germania, l’appoggio della loro benevolenza. Tu conosci, Signore, in quanti modi e quante volte in quello stesso giorno mi hai affidato la Germania per la quale in seguito avrei continuato ad essere sollecito, per la quale avrei desiderato vivere e morire».
I tempi per una missione in Germania non erano facili: «ci troviamo – ricorda il Papa – nel tempo della Riforma luterana, nel momento in cui la fede cattolica nei Paesi di lingua germanica, davanti al fascino della Riforma, sembrava spegnersi. Era un compito quasi impossibile quello di Canisio, incaricato di rivitalizzare, di rinnovare la fede cattolica nei Paesi germanici». Ma, nutrito della spiritualità di sant’Ignazio, san Pietro Canisio riuscì sia a rafforzare la fede cattolica là dov’era rimasta maggioritaria – in Baviera, poi a Vienna, a Praga e in Polonia, dove fu nunzio pontificio – sia a mantenerla nelle regioni tedesche a maggioranza protestante. Partecipò anche ai colloqui di Worms del 1557 con i dirigenti protestanti, fra cui Filippo Melantone (1497-1560), che sfiorarono una riconciliazione poi sfumata soprattutto per l’opposizione dei principi protestanti tedeschi. Consacrò l’ultima parte della sua vita a Friburgo, in Svizzera, dove si era ritirato nel 1580 e dove morirà nel 1597, alla predicazione e alla stesura delle sue ultime opere.
San Pietro pubblicò in effetti numerosi volumi. «Ma i suoi scritti più diffusi – nota il Pontefice – furono i tre Catechismi composti tra il 1555 e il 1558. Il primo Catechismo era destinato agli studenti in grado di comprendere nozioni elementari di teologia; il secondo ai ragazzi del popolo per una prima istruzione religiosa; il terzo ai ragazzi con una formazione scolastica a livello di scuole medie e superiori. La dottrina cattolica era esposta con domande e risposte, brevemente, in termini biblici, con molta chiarezza e senza accenni polemici. Solo nel tempo della sua vita sono state ben 200 le edizioni di questo Catechismo! E centinaia di edizioni si sono succedute fino al Novecento. Così in Germania, ancora nella generazione di mio padre, la gente chiamava il Catechismo semplicemente il Canisio: è realmente il catechista per secoli, ha formato la fede di persone per secoli».
Si può dire che la caratteristica fondamentale della missione tedesca di san Pietro Canisio sia stata, afferma Benedetto XVI, «saper comporre armoniosamente la fedeltà ai principi dogmatici con il rispetto dovuto ad ogni persona. San Canisio ha distinto l’apostasia consapevole, colpevole, dalla fede, dalla perdita della fede incolpevole, nelle circostanze. E ha dichiarato, nei confronti di Roma, che la maggior parte dei tedeschi passata al Protestantesimo era senza colpa. In un momento storico di forti contrasti confessionali, evitava – questa è una cosa straordinaria – l’asprezza e la retorica dell’ira – cosa rara come ho detto a quei tempi nelle discussioni tra cristiani, – e mirava soltanto alla presentazione delle radici spirituali e alla rivitalizzazione della fede nella Chiesa». Fermezza nella dottrina, contro ogni sincretismo e relativismo, e cordialità nelle relazioni personali, contro un certo zelo amaro, costituiscono la formula per l’ecumenismo che il Papa ha recentemente proposto, con riferimento specifico proprio ai luterani, nella recente Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Per mettere in pratica questa formula non serve solo un profondo sapere teologico. Serve anche la vita spirituale, che in san Pietro Canisio era alimentata fin dalla giovinezza secondo il Papa «dalla devotio moderna e dalla mistica renana», movimenti di risveglio spirituale fioriti tra la fine del XV secolo e i primi decenni del XVI. «È caratteristica per la spiritualità di san Canisio – afferma ancora il Papa – una profonda amicizia personale con Gesù. Scrive, per esempio, il 4 settembre 1549 nel suo diario, parlando con il Signore: “Tu, alla fine, come se mi aprissi il cuore del Sacratissimo Corpo, che mi sembrava di vedere davanti a me, mi hai comandato di bere a quella sorgente, invitandomi per così dire ad attingere le acque della mia salvezza dalle tue fonti, o mio Salvatore”. E poi vede che il Salvatore gli dà un vestito con tre parti che si chiamano pace, amore e perseveranza».
Il Papa identifica tre radici della spiritualità del santo: la mistica certosina, gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola e la devozione al Sacro Cuore. «All’amicizia con Gesù san Pietro Canisio si era formato nell’ambiente spirituale della Certosa di Colonia, nella quale era stato a stretto contatto con due mistici certosini: Johann Lansperger, latinizzato in Lanspergius [1489-1539], e Nicolas van Hesche, latinizzato in Eschius [1507-1578]. Successivamente approfondì l’esperienza di quell’amicizia, familiaritas stupenda nimis, con la contemplazione dei misteri della vita di Gesù, che occupano larga parte negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. La sua intensa devozione al Cuore del Signore, che culminò nella consacrazione al ministero apostolico nella Basilica Vaticana, trova qui il suo fondamento»
Dalla frequenza personale con sant’Ignazio deriva per san Pietro Canisio il convincimento che «non si dà anima sollecita della propria perfezione che non pratichi ogni giorno la preghiera, l’orazione mentale, mezzo ordinario che permette al discepolo di Gesù di vivere l’intimità con il Maestro divino. Perciò, negli scritti destinati all’educazione spirituale del popolo, il nostro Santo insiste sull’importanza della Liturgia con i suoi commenti ai Vangeli, alle feste, al rito della santa Messa e degli altri Sacramenti, ma, nello stesso tempo, ha cura di mostrare ai fedeli la necessità e la bellezza che la preghiera personale quotidiana affianchi e permei la partecipazione al culto pubblico della Chiesa».
Questi tesori della spiritualità ignaziana, afferma il Papa, «conservano intatto il loro valore, specialmente dopo che sono stati riproposti autorevolmente dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: la vita cristiana non cresce se non è alimentata dalla partecipazione alla Liturgia, in modo particolare alla santa Messa domenicale, e dalla preghiera personale quotidiana, dal contatto personale con Dio. In mezzo alle mille attività e ai molteplici stimoli che ci circondano, è necessario trovare ogni giorno dei momenti di raccoglimento davanti al Signore per ascoltarlo e parlare con Lui».
Questo vale per tutti i fedeli, ma vale tanto di più per chi è chiamato ad annunciare ad altri il Vangelo. La vita di san Pietro Canisio è la prova che «il ministero apostolico è incisivo e produce frutti di salvezza nei cuori solo se il predicatore è testimone personale di Gesù e sa essere strumento a sua disposizione, a Lui strettamente unito dalla fede nel suo Vangelo e nella sua Chiesa, da una vita moralmente coerente e da un’orazione incessante come l’amore. E questo vale per ogni cristiano che voglia vivere con impegno e fedeltà la sua adesione a Cristo».

Autore: Massimo Introvigne

9 dicembre : San Juan Diego Cuauhtlatoatzin Veggente di Guadalupe

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/90946

San Juan Diego Cuauhtlatoatzin Veggente di Guadalupe

9 dicembre – Memoria Facoltativa

1474 circa – Guadalupe, 1548

Nel dicembre 1531 la Madonna apparve a Guadalupe, in Messico, scegliendo come suo interlocutore un povero indio, Juan Diego, nato verso il 1474 e morto nel 1548, che prima di convertirsi al cattolicesimo portava un affascinante nome azteco, Cuauhtlotatzin, che sta a significare “colui che parla come un’aquila”. Cuauhtlotatzin fu tra i primi a ricevere il battesimo, nel 1524, all’eta’ di cinquant’anni, con il quale gli fu imposto il nuovo nome cristiano di Juan Diego, e con lui venne battezzata anche la moglie Malintzin, che prese a sua volta il nome di Maria Lucia. Rimasto vedovo dopo solo quattro anni di matrimonio, orientò tutta la sua vita a Dio. Dopo le apparizioni della S. Vergine sulla collina del Tepeyac visse santamente per 17 anni in una casetta che il vescovo Zumàrraga gli aveva fatto costruire a fianco della cappella eretta in onore della Vergine di Guadalupe. Giovanni Paolo II nel 1990 lo ha dichiarato beato, per proclamarlo infine santo nel 2002.
Martirologio Romano: San Giovanni Diego Cuauhtlatoatzin, che, di origine indigena, dotato di fede purissima, con la sua umiltà e il suo fervore fece sì che si edificasse il santuario in onore della Beata Maria Vergine di Guadalupe sul colle Tepeyac presso Città del Messico, dove ella apparve a lui ed egli si addormentò nel Signore.   

Con lo sbarco degli spagnoli nelle terre del continente latino-americano aveva avuto inizio la lunga agonia di un popolo che aveva raggiunto un altissimo grado di progresso sociale e religioso. Il 13 agosto 1521 segno’ il tramonto di questa civiltà. Tenochtitlan, la superba capitale del mondo atzeco, fu saccheggiata e distrutta. L’immane tragedia che ha accompagnato la conquista del Messico da parte degli spagnoli, sancisce per un verso la completa caduta del regno degli aztechi e per l’altro l’affacciarsi di una nuova cultura e civiltà originata dalla mescolanza tra vincitori e vinti.
E’ in questo contesto che, dieci anni dopo, va collocata l’apparizione della Madonna a un povero indio di nome Juan Diego, nei pressi di Città del Messico. La mattina del 9 dicembre 1531, mentre sta attraversando la collina del Tepeyac per raggiungere la citta’, l’indio e’ attratto da un canto armonioso di uccelli e dalla visione dolcissima di una Donna che lo chiama per nome con tenerezza. La Signora gli dice di essere « la Perfetta Sempre Vergine Maria, la Madre del verissimo ed unico Dio » e gli ordina di recarsi dal vescovo a riferirgli che desidera le si eriga un tempio ai piedi del colle. Juan Diego corre subito dal vescovo, ma non viene creduto.
Tornando a casa la sera, incontra nuovamente sul Tepeyac la Vergine Maria, a cui riferisce il suo insuccesso e chiede di essere esonerato dal compito affidatogli, dichiarandosene indegno. La Vergine gli ordina di tornare il giorno seguente dal vescovo, che, dopo avergli rivolto molte domande sul luogo e sulle circostanze dell’apparizione, gli chiede un segno. La Vergine promette di darglielo l’indomani. Ma il giorno seguente Juan Diego non puo’ tornare: un suo zio, Juan Bernardino, è gravemente ammalato e lui viene inviato di buon mattino a Tlatelolco a cercare un sacerdote che confessi il moribondo; giunto in vista del Tepeyac decide percio’ di cambiare strada per evitare l’incontro con la Signora. Ma la Signora è la’, davanti a lui, e gli domanda il perche’ di tanta fretta. Juan Diego si prostra ai suoi piedi e le chiede perdono per non poter compiere l’incarico affidatogli presso il vescovo, a causa della malattia mortale dello zio.
La Signora lo rassicura, suo zio e’ gia’ guarito, e lo invita a salire sulla sommita’ del colle per cogliervi i fiori. Juan Diego sale e con grande meraviglia trova sulla cima del colle dei bellissimi « fiori di Castiglia »: è il 12 dicembre, il solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano allora vigente, e né la stagione nè il luogo, una desolata pietraia, sono adatti alla crescita di fiori del genere. Juan Diego ne raccoglie un mazzo che porta alla Vergine, la quale pero’ gli ordina di presentarli al vescovo come prova della verita’ delle apparizioni. Juan Diego ubbidisce e giunto al cospetto del presule, apre il suo mantello e all’istante sulla tilma si imprime e rende manifesta alla vista di tutti l’immagine della S. Vergine. Di fronte a tale prodigio, il vescovo cade in ginocchio, e con lui tutti i presenti.
La mattina dopo Juan Diego accompagna il presule al Tepeyac per indicargli il luogo in cui la Madonna ha chiesto le sia innalzato un tempio. Nel frattempo l’immagine, collocata nella cattedrale, diventa presto oggetto di una devozione popolare che si è conservata ininterrotta fino ai nostri giorni. La Vergine ha scelto come suo interlocutore un “povero indio”, Juan Diego, nato verso il 1474 e morto nel 1548 a Guadalupe, che prima di convertirsi al cattolicesimo portava un affascinante nome azteco, Cuauhtlotatzin, che sta a significare “colui che parla come un’aquila”. Varie fonti ci tramandano i dati biografici del veggente del Tepeyac: egli e’ un macehual, cioe’ un uomo del popolo, piccolo coltivatore diretto in un modesto villaggio: poco più di niente, nella società azteca complessa e fortemente gerarchizzata. Cuauhtlotatzin fu tra i primi a ricevere il battesimo, nel 1524, all’eta’ di cinquant’anni, con il quale gli fu imposto il nuovo nome cristiano di Juan Diego, e con lui venne battezzata anche la moglie Malintzin, che prese a sua volta il nome di Maria Lucia.
Il neoconvertito si distingueva in mezzo agli altri per la sollecitudine nel frequentare la catechesi e i sacramenti, senza badare ai sacrifici che questo richiedeva: si poneva in cammino fin dalle prime ore del giorno per raggiungere Santiago di Tlatelolco, dove i francescani radunavano gli indigeni per catechizzarli. Rimasto vedovo dopo solo quattro anni, Juan Diego orienta la sua vita ancora più decisamente verso Dio: trascorre tutto il suo tempo fra il lavoro dei campi e le pratiche della religione cristiana, fra cui l’ascolto della catechesi impartita agli indigeni convertiti dai missionari spagnoli. Conduce una vita esemplare che edifica molti. L’esperienza eccezionale vissuta sul Tepeyac s’inserisce in un’esistenza gia’ trasformata dalla grazia del battesimo e cementata dall’incontro con la Madre di Dio che ne potenzia in modo straordinario il cammino di fede, fino a spingerlo ad abbandonare tutto, casa e terra, per trasferirsi in una casetta che il vescovo Zumàrraga gli ha fatto costruire a fianco della cappella eretta in onore della Vergine di Guadalupe.
Qui Juan Diego vive per ben 17 anni in penitenza e orazione, assoggettandosi agli umili lavori di sagrestano, senza mai mancare al suo impegno di testimoniare quanto Maria ha fatto per lui e può fare per tutti quelli che con affetto filiale vorranno rivolgersi al suo cuore di Madre.
La morte lo coglie nel 1548, quando ha ormai 74 anni.La sua fama di santita’, che gia’ l’aveva accompagnato in vita, cresce nel tempo fino ai nostri giorni, finche’ nel 1984 si dette finalmente inizio alla sua causa di beatificazione e si pose mano all’elaborazione della Positio, orientata a comprovarne non solo il culto, da tempo immemorabile, ma anche a dimostrare le virtu’ del servo di Dio e a illustrarne la vita, separate il piu’ possibile dal fatto guadalupano. Attraverso una solida base documentale si voleva cioe’ dimostrare che Juan Diego, per i suoi soli meriti di cristiano, era degno di assurgere agli onori degli altari, finche’ – al termine di un complesso iter ecclesiastico – con il decreto Exaltavit humiles (6 maggio 1990), se ne e’ finalmente concessa la memoria liturgica, fissata al 9 dicembre, data della prima apparizione della “Morenita”. Giovanni Paolo II ha dichiarato beato il veggente Juan Diego nel 1990, per proclamarlo infine santo nel 2002.

Autore: Maria Di Lorenzo

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 9 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

Beato Charles de Foucauld (15 settembre 1858 – 1 dicembre 1916)

dal sito:

http://orantidistrada.blogspot.com/2011/07/beato-charles-de-foucauld.html

Beato Charles de Foucauld (1858-1916)

«Il regno del cielo è per noi, è pronto per noi. Non attacchiamoci dunque alle cose della terra, che assomigliano così poco a un regno. Che pazzia attaccarci a questo, noi re, noi possessori del regno celeste!»
(Charles de Foucauld, Opere)

Biografia.
Charles de Foucauld (Fratel Carlo di Gesù) nasce a Strasburgo il 15 settembre 1858, con il nome di Charles Eugène de Foucauld da un’antica e ricca famiglia. Rimane orfano di entrambi i genitori a cinque anni. L’eredità, di cui entra in possesso maggiorenne, viene quasi subito dilapidata. Entra nell’esercito e diventa ufficiale di cavalleria, quindi partecipa ad una spedizione in Algeria, ma nel 1872 si ritira dall’esercito per dedicarsi ad un viaggio di esplorazione nel Marocco, qui entra in contatto con la religione islamica e viene affascinato dalla solitudine del deserto.
Tornato si converte, grazie all’esempio della cugina Maria de Bondy e all’abate Huvelin, che diventerà suo direttore spirituale, negli ultimi giorni dell’ottobre 1886. Da subito si sente chiamato alla vita religiosa. Consigliato di fare un pellegrinaggio in Terra Santa vi si reca nel 1889 e successivamente visita in ritiro spirituale la Trappa di Nostra Signora delle Nevi. Entra nell’ordine il 16 gennaio 1890, ma richiede di recarsi in Siria, nella Trappa di Cheikhlé, presso Akbés, monastero poverissimo in cui, nel febbraio del 1892, fa la sua professione.
Poco tempo dopo la professione iniziano le inquietudini: comincia gli studi di teologia, mentre vorrebbe dedicarsi « alla pratica della povertà, dell’abiezione, della mortificazione, dell’imitazione di Nostro Signore » ed al lavoro manuale. Nel 1893 è deciso ad abbandonare l’ordine sulla base del fatto che « non era possibile, alla Trappa, condurre la vita di povertà, di abiezione, di distacco effettivo, di umiltà, di raccoglimento di Nostro Signore a Nazareth ». I suoi superiori, insieme al direttore spirituale Huvelin si spaventano della determinazione con cui Charles vorrebbe praticare le virtù. Solo nel 1896, riconoscendo che l’impulso da cui è mosso è irresistibile, gli permette di seguire quella via che lo condurrà alla sua Nazareth, senza però pensare a una Congregazione. Nel 1897 fa voto di castità e povertà perpetue e nel febbraio del 1897 si reca in Terra Santa, vestito come un povero.
Lì viene accettato come domestico delle Clarisse, alloggiando in una capanna fatta d’assi, fuori della clausura. Scrive in quel periodo: « Io non posso concepire l’amore senza un bisogno imperioso di conformità, di rassomiglianza e soprattutto di partecipazione a tutte le pene, a tutte le difficoltà, a tutte le durezze della vita. » Il suo ideale è sempre più quello di imitare il suo Maestro e qui sta l’essenza della sua vocazione. Tre desideri lo accompagnano: lavorare per il bene delle anime, ricevere il sacerdozio, ritrovare l’obbedienza istante per istante. Cerca un compagno con cui condividere queste aspirazioni, ma inutilmente. Cerca di acquistare, senza riuscirvi, il Monte delle Beatitudini (Tabor), per potersi stabilire lì e vivere da eremita.
Torna in Francia e si prepara per l’ordinazione sacerdotale che avverrà il 9 giugno 1901. Con l’intento di ritornare in Marocco, si stabilisce a Béni-Abbès, in Algeria. In dicembre celebra la sua prima messa nella cappella di un complesso (un fortino e un’oasi) da lui costruita « con mattoni murati a secco e tronchi di palma ». È autorizzato a fondare una nuova famiglia religiosa col nome di «Piccoli Fratelli del Sacro Cuore di Gesù», « destinata ad adorare giorno e notte la santa Eucaristia perpetuamente esposta, nella solitudine e nella clausura, nei paesi di missione, nella povertà e nel lavoro ». Pensa anche alla fondazione delle «Piccole Sorelle» sulla base di un testo della Regola redatta nel 1899 a Nazareth. In questo periodo, riscatta alcuni schiavi, si preoccupa dell’evangelizzazione dei Tuareg, studiando la loro lingua e traducendo i Vangeli in lingua tamahaq, dopo aver visitato la loro terra, l’Hoggar.

Nell’agosto del 1905 si stabilisce in maniera definitiva a Tamanrasset (Sahara algerino) per « diventare l’amico di un popolo abbandonato ». Costruisce un eremitaggio (Asekrem) nel 1910 a oltre 2600 metri di altitudine. Diventerà a poco a poco il suo Monte delle Beatitudini che egli cercava. La solitudine è sempre più profonda, nonostante le continue visite dei Tuareg, ma il suo intento di ricercare compagni per la sua Opera rimane infruttuoso. La fondazione dei « Piccoli Fratelli » tarda ad arrivare. Le cose che lui chiede ai suoi futuri compagni sono tre: «1. essere pronti a dare il loro sangue senza resistenza; 2. essere pronti a morire di fame; 3. obbedirmi nonostante la mia indegnità».
La mattina di venerdì 1° dicembre 1916, giorno della sua morte, viene tradito e tirato fuori con violenza dall’eremo. Messo in ginocchio con le braccia legate dietro al dorso e attaccate alle caviglie, resta in preghiera mentre alcuni Tuareg saccheggiano. Viene successivamente interrogato con un fucile puntato alla testa. All’arrivo di altre persone, il guardiano, sconvolto, spara e Charles de Foucauld cade su un fianco. Viene spogliato completamente dei vestiti e gettato nel fosso che circonda l’eremo. In un taccuino che gli serviva da promemoria aveva scritto all’inizio: « vivi come se dovessi morire martire oggi ».
Solo dopo 17 anni dalla sua morte, su iniziativa di René Voillaume, nascono a El Abiod Sidi Scheik i Piccoli Fratelli di Gesù e nello stesso anno le Piccole Sorelle del Sacro Cuore di Gesù a Montpellier. Le Piccole Sorelle di Gesù nascono nel 1959 con la piccola sorella Magdeleine e nel 1950 le fraternità sacerdotali e secolari. Nel 2002 si contano diciannove differenti fraternità fra laici, preti, religiosi e religiose sparsi nel mondo.
Il processo canonico inizia il 16 febbraio 1927 presso la diocesi di Ghardaïa da mons. Nouet. Dopo una lunga serie di vicissitudini si arriva al deposito del materiale presso la Congregazione per le cause dei Santi il 25 luglio 1995. Dopo la nomina della Commissione avvenuta nel giugno del 2000, il 24 aprile 2001, Giovanni Paolo II dichiara Venerabile il Servo di Dio Charles de Foucauld e il 13 novembre 2005 viene dichiarato Beato da papa Benedetto XVI.

Spiritualità.
Scrive il Dizionario di mistica: «Il messaggio spirituale che egli lascia in eredità a quanti vorranno essere come lui imitatori del « Modello Unico », che si articola:
1. sull’esperienza di una vita tesa alla conformità al Cristo, centrata specialmente sulla povertà (con tratti che lo avvicinano a Francesco di Assisi), sulla spogliazione interiore (sulla base delle opere di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce) e sull’abiezione della croce, quale forma totale di abbandono alla volontà del Padre;
2. sull’esperienza di una vita nascosta con Cristo in Dio nella casa di Nazareth, dove il nascondimento è costituito da una quotidianità umile e semplice, laboriosa e orante, obbediente e accogliente, e dal sentimento della propria piccolezza davanti a Dio e alla propria missione. E come la vita di Nazareth è illuminata dalla presenza del Figlio di Dio, così nello stile di Nazareth praticato a Béni Abbès, all’Asekrem, a Tamanrasset, sarà la presenza eucaristica a dar significato, direzione e vigore alla sua preghiera contemplativa;
3. sull’esperienza di una vita posta sotto il segno della fraternità universale, verso tutti, soprattutto verso i più poveri. In questa rispettosa apertura e in questa condivisione fraterna egli vede l’attuarsi dell’incontro con Gesù povero. Questa esperienza gli consente, inoltre, di farsi solidale con la condizione di chi lavora, lavorando e cercando di promuovere condizioni più umane di vita, sempre in una prospettiva che resta evangelica, al di là delle implicazioni sociali che comporta.
Charles de Foucauld sottolinea, inoltre, il primato di Gesù Cristo su tutto, annunciato con la vita, comunicato nel mistero segreto e forte di una vicinanza fedele, come Maria nella visitazione: il silenzio, la piccolezza, la povertà, l’universalità fraterna.»

Il percorso mistico.
Come scrive Jean-François Six, Charles de Foucauld mostra una grande cultura, pur non essendo un pensatore astratto. Non appartiene ai mistici dell’essenza, come Suso o Giovanni della Croce, quanto a quelli dell’esistenza, come Francesco d’Assisi o Teresa di Lisieux. Forse non ha elaborato un nuovo messaggio spirituale, quanto ha dato testimonianza di essere un mistico del Vangelo. Charles de Foucauld desidera imitare i trenta anni di vita nascosta di Gesù a Nazareth. Questa è la sua intenzione fondamentale, che rimarrà tale in tutto il suo sviluppo. Egli desidera vivere il Vangelo in modo nascosto e silenzioso, non predicandolo direttamente. Foucauld si pone sul versante di una « mistica della notte », della kénosis, dell’estraniamento di Dio, del suo silenzio in cui si conosce più chiaramente quanto più grande è il nascondimento.
Via purgativa: il suo è un percorso di sofferenza comune ai più. Colpiti da una serie continua di lutti quando era piccolo, Foucauld vive la morte come parte essenziale della sua esistenza. Tutta l’esperienza di conversione successiva ai primi momenti (tutti dediti all’esplorazione della vita, delle culture e delle persone) è un turbinio di sensazioni e di provocazioni. L’ingresso nella Trappa dal 1890 al 1896 è dapprima un luogo di quiete e di consolazione, poi, dopo la professione è inquieto: ama la vita semplice e non tanto gli studi, che ritiene « non valgono la pratica della povertà, dell’abiezione, della mortificazione, dell’imitazione de Nostro Signore, e infine quanto ci dà il lavoro manuale ». Egli cerca dunque, nonostante l’obbedienza, la beatitudine della povertà che lo condurrà tra il 1897 e il 1900 a Nazareth, vestito come un povero, alloggiato in una capanna d’assi, fuori della clausura.
Via illuminativa: Nazareth è l’intuizione fondamentale che si realizza a gradi: in un primo momento cerca di tradurre in pratica la somiglianza alla lettera. Egli vuole vivere quella povertà concreta, assumendo in prima persona, alla lettera, il ruolo del carpentiere Gesù. Nel vangelo cerca tutto ciò che rimanda a quella povertà, all’umiliazione del Figlio di Dio che si è fatto uomo. Certo di quello che affermava l’abate Huvelin, suo direttore spirituale, « Gesù Cristo ha preso talmente l’ultimo posto, che nessun uomo ha più potuto toglierglielo ». Foucauld ha voluto applicare a sé queste parole nel modo più rigoroso possibile, con una radicalità e un impegno che non ha mai conosciuto compromessi. Ed arriva alla convinzione che questo cammino di Nazareth, che nessuna comunità ecclesiastica sembra aver mai percorso, deve essere vissuto nella chiesa. Dal 1893 è spinto dal proposito di fondare una comunità destinata a realizzare con lui la vita secondo lo stile di Gesù a Nazareth. La comunità che egli desidera deve essere presente per i poveri. Egli rifiuta la differenza che si fa nelle comunità monastiche tra occupazione manuale e spirituale, fra padri e fratelli. Tutti, senza eccezione, devono fare un lavoro manuale, così come Gesù, che « ha lavorato con le sue mani ». I conventi devono restare piccole comunità, al fine di evitare che un gran numero significhi anche una certa importanza, un certo ruolo. Non si possono possedere beni, né personali né comunitari. Tutti devono mantenersi attraverso un lavoro manuale e non ricevere elemosine o altri aiuti esterni.
Notte dello spirito: Nazareth e la vita di nascondimento è anche il prosieguo della sua vita spirituale. Egli, nonostante le varie formulazioni di regole di vita, non avrà compagnia di alcuno. Il tema della solitudine viene ripetuto più volte nelle sue Lettere, che ne parlano sempre in termini di sofferenza, comunque arricchita dalla presenza di Cristo, che mai delude e mai abbandona. Eppure, la sua è un’esperienza reale di abbandono, nei suoi propositi, nelle sue regole, ma non nella sua ispirazione. Tutto ciò che voleva vivere era il nascondimento agli occhi del mondo e tale è avvenuto, pur nella sofferenza di una via esigente che si era imposta. Dio non delude e nel momento in cui Foucauld desiderava vivere in quel modo, egli lo ha accontentato. Foucauld non trova persone disposte a condividere con lui questa intuizione e lo stesso abate Huvelin cerca di dissuaderlo a scrivere regole di vita per altri. Egli resta solo nel deserto. Egli proprio allora desidera un contatto ancora più intenso con le persone che vivono vicino a lui, nel deserto, per meglio conoscerli. Ma si sente soltanto un ospite, pur essendo benevolmente accolto. Quando muore nessuno si accorge di quanto era avvenuto. L’associazione, fondata nel 1916, contava appena 49 membri. Da questo piccolo nucleo nasce tutto ciò che aveva desiderato.
Via unitiva: Il mistero di Nazareth e della vita nascosta è in realtà il mistero della stessa incarnazione di Cristo, che è opera di redenzione. Ossia i modi in cui Cristo ci è narrato nella sua esperienza ordinaria, prima degli anni di predicazione fino al sacrificio finale, sono le stesse modalità del Figlio eterno nei nostri confronti: le parole e i gesti che ci riguardano, i tratti e i segni nei quali interloquisce con noi e agisce in favore degli uomini. Pertanto il canone evangelico non è la semplice fonte storica della rivelazione pubblica, bensì il modo permanente della relazione personale. La sequela e l’imitazione del Signore si ricompongono nell’unico tratto affettivo del legame d’amore. Imitare Cristo significa dunque rivivere il mistero della salvezza che è venuta per tutti coloro che, poveri, indifesi, soli, abbandonati, privi di speranza e di futuro, aspettavano che il mistero si rivelasse, che la vita si rendesse visibile agli occhi del corpo e del cuore. L’esperienza della vita di Foucauld è la stessa esperienza di salvezza di Cristo. Fino alla morte finale per mano di chi amava.

Preghiera dell’abbandono, di Charles de Foucauld. »Padre mio, rimetto il mio Spirito nelle Vostre mani ».
Padre mio, mi rimetto nelle Vostre mani;
Padre mio, confido in Voi;
Padre mio, mi abbandono a Voi;
Padre mio, fate di me di me ciò che Vi piacerà; qualunque cosa facciate di me, Vi ringrazio; grazie di tutto; io sono pronto a tutto; accetto tutto; Vi ringrazio di tutto purché la Vostra volontà si compia in me, mio Dio, e in tutte le Vostre creature, in tutti i Vostri figli, in tutti coloro che il Vostro cuore ama.
Non desidero niente altro, mio Dio, rimetto la mia anima nelle Vostre mani.
Ve la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché Vi amo.
Ed è per me un’esigenza d’amore il donarmi, rimettermi nelle Vostre mani senza misura; mi rimetto nelle Vostre mani con una fiducia infinita perché Voi siete mio Padre.

Tratto da: www.mistica.info …»

Publié dans:S - BEATI, Santi: memorie facoltative |on 1 décembre, 2011 |Pas de commentaires »
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