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16 Novembre : Santa Margherita di Scozia Regina e vedova

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Santa Margherita di Scozia Regina e vedova

16 novembre – Memoria Facoltativa

Ungheria, circa 1046 – Edimburgo, Scozia, 16 novembre 1093

Figlia di Edoardo, re inglese in esilio per sfuggire all’usurpatore Canuto, Margherita nacque in Ungheria intorno al 1046. Sua madre, Agata, discendeva dal santo re magiaro Stefano. Quando aveva nove anni suo padre potè tornare sul trono; ma presto dovette fuggire ancora, questa volta in Scozia. E qui Margherita a 24 anni fu sposa del re Malcom III, da cui ebbe sei figli maschi e due femmine. Il Messale romano la descrive come «modello di madre e di regina per bontà e saggezza». Si racconta che il re non sapesse leggere e avesse un grande rispetto per questa moglie istruita: baciava i libri di preghiera che la vedeva leggere con devozione. Caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, li assisteva personalmente e invitava Malcom III a fare altrettanto. Già gravemente ammalata ricevette la notizia dell’uccisione del marito e del figlio maggiore nella battaglia di Alnwick: disse di offrire questa sofferenza come riparazione dei propri peccati. Morì a Edimburgo il 16 novembre 1093. (Avvenire)

Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino

Martirologio Romano: Santa Margherita, che, nata in Ungheria e sposata con Malcolm III re di Scozia, diede al mondo otto figli e si adoperò molto per il bene del suo regno e della Chiesa, unendo alla preghiera e ai digiuni la generosità verso i poveri e offrendo, così, un fulgido esempio di ottima moglie, madre e regina.
Nel suo celebre quadro, rappresentante il Paradiso, il Beato Angelico pose fra molti frati, anche un Re e una Regina, volendo significare che la corona reale può unirsi felicemente all’aureola della santità.
La Santa di oggi fu infatti Regina di Scozia, e Regina abbastanza fortunata, fatto insolito questo, perché le altre coronate, si santificarono quasi sempre attraverso la disgrazia, l’umiliazione e l’infelicità.
Molte sono le Margherite di sangue reale iscritte nel Calendario cristiano: Margherita figlia del Re di Lorena, benedettina del XIII secolo; Margherita figlia del Re d’Ungheria, domenicana dello stesso secolo; Margherita figlia del Re di Baviera, vedova del XIV secolo; Margherita di Lorena, allevata come figlia del Re Renato d’Angiò; alle quali si potrebbero aggiungere Margherita dei Duchi di Savoia e Margherita dei Conti Colonna.
Quella di oggi nacque nel 1046, nipote di Edmondo 11, detto Fianchi di Ferro, e figlia di Edoardo, rifugiatosi in terra straniera per sfuggire a Canuto, usurpatore del trono d’Inghilterra.
Sua madre, Agata, sorella della Regina d’Ungheria, discendeva dal Re Santo Stefano. Morto l’usurpatore Canuto, Edoardo poteva tornare in Inghilterra, quando Margherita non aveva che 9 anni, ma dopo qualche tempo, la famiglia reale dovette fuggire ancora, in Scozia, dove il Re Malcom III chiese la mano di Margherita, che a ventiquattro anni s’assideva così sul trono di Scozia.
Ebbe sei figli maschi e due femmine, che educò amorosamente e che non le diedero mai nessun dolore. Suo marito non era né malvagio né violento, soltanto un po’ rude e ignorante. Non sapeva leggere, ed aveva un grande rispetto per la moglie istruita. Baciava i libri di preghiera che le vedeva leggere con devozione; chiedeva costantemente il suo consiglio.
Ella non insuperbì per questo. Si mantenne discreta, rispettosa e modesta. E caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, che assisteva e faceva assistere al Re. Per la Scozia non corsero mai anni migliori di quelli passati sotto il governo veramente cristiano di Malcom III e di Margherita, la quale, benvoluta dai sudditi, amata dal marito, venerata dai figli, dedicava tutta la sua vita al bene della sua anima e al benessere degli altri.
Non avendo dolori propri, cercò di lenire quelli degli altri; non avendo disgrazie familiari o dinastiche, cercò di soccorrere gli altri disgraziati, non conoscendo né, miseria né mortificazioni, cercò di consolare i miseri e gli umiliati. E accolse con animo lieto l’unica brutta notizia, che le giunse sul letto di morte. Il marito ed un figlio erano caduti combattendo in una spedizione contro Guglielmo detto il Rosso. A chi, con cautela, cercava di attenuare la crudeltà della notizia, Margherita fece capire di averla già avuta. E ringraziò Dio di quel dolore che le sarebbe servito a scuotere, nelle ultime ore, i peccati di tutta la vita.
Ciò non significava disamore e insensibilità verso il marito e il figlio morti. Ella sperava, anzi ne era certa, di riunirsi a loro, dopo quel doloroso passo, oltre la porta della morte, nella luce della Redenzione.

Fonte: 
Archivio Parrocchia

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24 ottobre: San Luigi Guanella Sacerdote (mf)

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San Luigi Guanella Sacerdote (mf)

24 ottobre

Fraciscio di Campodolcino, 19 dicembre 1842 – Como, 24 ottobre 1915

Luigi Guanella nacque a Fraciscio di Campodolcino (Sondrio) nel 1842. Nel 1866 divenne sacerdote. Nella sua attività pastorale avvicinò le esperienze del Cottolengo e di don Bosco, che incontrò a Torino e con il quale trascorse tre anni. Nel 1881 fondò i Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza. Presto da Como si diffusero in Italia e anche in America, Asia e Africa. A Roma, con l’aiuto di Pio X, sorse la basilica del Transito di San Giuseppe. Guanella intervenne con don Orione nel terremoto della Marsica: gennaio 1915. Si spense pochi mesi dopo. È beato dal 1964 e santo dal 2011.

Etimologia: Luigi = derivato da Clodoveo

Martirologio Romano: A Como, beato Luigi Guanella, sacerdote, che fondò la Congregazione dei Servi della Carità e delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza per prendersi cura delle necessità dei più poveri e degli afflitti e provvedere alla loro salvezza.   

1. Biografia
Luigi Guanella nacque a Fraciscio di Campodolcino in Val San Giacomo (Sondrio) il 19 dicembre 1842. Morì a Como il 24 ottobre 1915.
La sua valle e il paese (m. 1350 sul mare) sono nelle Alpi Retiche. Fin dall’antichità vi si stabilirono delle comunità vissute, con fatica e stento, di agricoltura alpina e di allevamento e la cui storia, economia e struttura sociale fino al 1800 sono segnate dalla posizione geografica della valle chiusa sui due lati da due catene di monti altissimi, ma soggetta a invasioni di transito. La valle segna la via più breve di comunicazione tra il sud e il nord delle Alpi centrali, conferendo qualche vantaggio, soprattutto i privilegi di una certa libertà comunale concessa perché gli abitanti non ostacolassero le comunicazioni commerciali o militari. Fieri di questa libertà, fervidamente attaccati alla religione cattolica in contrasto col confinante canton Grigioni riformato, vivevano in povertà, dediti ai più duri lavori per garantirsi il minimo di sopravvivenza. Le qualità che ne riportò il G. furono l’abitudine al sacrificio e al lavoro, l’autonomia, la pazienza e la fermezza nelle decisioni, insieme a grande fede.
Queste qualità si rafforzarono nella famiglia: il padre Lorenzo, per 24 anni sindaco di Campodolcino sotto il governo austriaco e dopo l’unificazione (1859), severo e autoritario, la madre Maria Bianchi, dolce e paziente, e 13 figli quasi tutti arrivati all’età adulta.
A dodici anni ottenne un posto gratuito nel collegio Gallio di Como e proseguì poi gli studi nei seminari diocesani (1854-1866). La sua formazione culturale e spirituale è quella comune ai seminari nel Lombardo-Veneto, per lungo periodo sotto il controllo dei governanti austriaci; il corso teologico era povero di contenuto culturale, ma attento agli aspetti pastorali e pratici: teologia morale, riti, predicazione e, di più, alla formazione personale: pietà, santità, fedeltà. La vita cristiana e sacerdotale si alimentava alla devozione comune fra la popolazione cristiana. Questa impostazione concreta pose il giovane seminarista e sacerdote assai vicino al popolo e a contatto con la vita che esso conduceva. Quando tornava al paese per le vacanze autunnali si immergeva nella povertà delle valli alpine; si interessava dei bambini e degli anziani e ammalati del paese, passando i mesi nella cura di questi, e nei ritagli si appassionava alla questione sociale (Taparelli), raccoglieva e studiava erbe medicinali (Mattioli), si infervorava leggendo la storia della Chiesa (Rohrbacher). In seminario teologico entrò in familiarità col vescovo di Foggia, Bernardino Frascolla, rinchiuso nel carcere di Como, poi a domicilio coatto in seminario (1864-66), e si rese conto della ostilità che dominava le relazioni dello stato unitario verso la Chiesa. Questo vescovo ordinò G. sacerdote il 26 maggio 1866.
Entrò con entusiasmo nella vita pastorale in Valchiavenna (Prosto, 1866 e Savogno, 1867-1875) e, dopo un triennio salesiano, fu di nuovo in parrocchia in Valtellina (Traona, 1878-1881), per pochi mesi a Olmo e infine a Pianello Lario (Como, 1881-1890).
Fin dagli inizi a Savogno rivelò i suoi interessi pastorali: l’istruzione dei ragazzi e degli adulti, l’elevazione religiosa, morale e sociale dei suoi parrocchiani, con la difesa del popolo dagli assalti del liberalismo e con l’attenzione privilegiata ai più poveri. Non disdegnava interventi battaglieri, quando si vedeva ingiustamente frenato o contraddetto dalle autorità civili nel suo ministero, così che venne presto segnato fra i soggetti pericolosi (« legge dei sospetti »), specialmente dal momento che pubblicò un libretto polemico. Nel frattempo a Savogno approfondiva la conoscenza di don Bosco e dell’opera del Cottolengo; invitò don Bosco ad aprire un collegio in valle; ma, non potendo realizzare il progetto, il G. ottenne di andare per un certo periodo da don Bosco.
Richiamato in diocesi dal Vescovo, aprì in Traona un collegio di tipo salesiano; ma anche qui venne ostacolato; si andò a rimestare le controversie di Savogno e gli fu imposto di chiudere il collegio. Si mise a disposizione del vescovo con obbedienza eroica. Mandato a Pianello poté dedicarsi all’attività di assistenza ai poveri, rilevando l’Ospizio fondato dal predecessore don Carlo Coppini, con alcune orsoline che organizzò in congregazione religiosa (Figlie di S. Maria della Provvidenza) e con queste avviò la Casa della Divina Provvidenza in Como (1886), con la collaborazione di suor Marcellina Bosatta e della sorella Beata Chiara. La Casa ebbe subito un rapido sviluppo, allargando l’assistenza dal ramo femminile a quello maschile (congregazione dei Servi della Carità), benedetta e sostenuta dal Vescovo B. Andrea Ferrari. L’opera si estese ben presto anche fuori città: nelle province di Milano (1891), Pavia, Sondrio, Rovigo, Roma (1903), a Cosenza e altrove, in Svizzera e negli Stati Uniti d’America (1912), sotto la protezione e l’amicizia di S. Pio X. Nell’opera maschile ebbe come collaboratori esimi don Aurelio Bacciarini, poi vescovo di Lugano, e don Leonardo Mazzucchi.
Le opere e gli scopi che cadono sotto l’attenzione del G. (e gli impedirono di fermarsi con don Bosco) sono quelli tipici della sua terra di origine. Molti i bisognos: bambini e giovani, anziani lasciati soli, emarginati, handicappati psichici (ma anche ciechi, sordomuti, storpi): tutta la fascia intermedia tra i giovani di don Bosco e gli inabili del Cottolengo, persone ancora capaci di una ripresa: terreno duro e arido come la sua terra natale, ma che, lavorato con amore (nelle scuole, laboratori, colonie agricole) può dare frutti insperati.

2. Il carisma e messaggio – la santità
Il carisma suo è l’annuncio biblico della paternità di Dio che per il G. costituisce un’esperienza personale profonda, di carattere mistico e profetico, e dà alla sua santità e missione una dimensione tipica e qualificata; esperienza che vuole partecipare specialmente ai più poveri e abbandonati: Dio è padre di tutti e non dimentica né emargina i suoi figli. Notevoli i suoi due scritti: Andiamo al Padre (1880) e Il Fondamento (1885). Le sue case si organizzano coerentemente in strutture a misura d’uomo, con spirito di famiglia e adattano un proprio metodo preventivo (cf. Regolamento dei Servi della Carità, l905), affidate alla paternità di Dio. La guida e la conduzione di tutto sono affidate a lui: « è Dio che fa ».
La santità di L.G. sta nella perfezione non solo morale, ma ontologica, conforme alla sua esperienza della paternità di Dio. Cercò sempre, fin dalla giovinezza, una coerenza tra il pensare, credere e agire; lo nota fin dal ginnasio il suo insegnante di religione: “Cerca con singolare diligenza di approfondire tutte le parti dell’insegnamento, sente ed ama quel che impara e ne informa la vita”. Come sacerdote, ministro di Dio, il suo incontro con Dio Padre fu partecipazione alla sua carità immensa, alla onnipotenza creatrice e provvidente, alla misericordia incarnata e redentrice e divenne crocevia di incontro degli uomini con Dio, attraverso e mediante la carità del santo verso i fratelli bisognosi.
Si aggiungano le forme proprie del tempo: le devozioni al S. Cuore, alla Vergine Immacolata e un’ascetica austera di penitenze, di preghiere, di severità e osservanza, di lavoro e sacrificio per la missione della carità; in uno stile di semplicità, tolleranza, misericordia, speranza gioiosa, quasi in contrasto col suo carattere energico, volitivo, fatto per rompere gli indugi, qualche volta impulsivo e irascibile. Univa una volontà indomabile. Su questa via verso la santità guidò la discepola beata suor Chiara Bosatta, capolavoro della sua arte di educatore e di direttore spirituale.
Il Guanella è stato proclamato beato da Paolo VI il 25 ottobre 1964 (Processi diocesani: 1923-1930, introduzione della causa: 15 marzo 1939) ed è stato canonizzato a Roma da Papa Benedetto XVI il 23 ottobre 2011. Il suo corpo è venerato nel Santuario del S. Cuore in Como.

Autore: Piero Pellegrini

Fonte: 
www.guanelliani.org 

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LA VITA DEI SANTI MEDICI COSMA E DAMIANO (26 settembre mf)

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LA VITA DEI SANTI MEDICI COSMA E DAMIANO (26 settembre mf)

I SS. Martiri Cosma e Damiano, venerati in questo Santuario, vissero in tempi difficilissimi per la fede cristiana. Dichiararsi cristiano per chi ricopriva un ruolo pubblico importante comportava rischi di carriere, proscrizione, quando non addirittura la condanna a morte. In siffatto clima sociale, religioso e politico vissero questi due santi, che il loro principale biografo definì « illustri atleti di Cristo e generosissimi Martiri ».
La loro vita e soprattutto l’indomita eroicità dimostrata nei momenti cruciali li hanno costituiti modelli di santità e intercessori presso Dio. In tutto il mondo cristiano sono sorte in loro onore cappelle votive, chiese e basiliche. I malati si rivolgono a questi Santi per ricevere la guarigione. Numerosi furono i miracoli ottenuti dall’invocazione dei SS. Cosma e Damiano, che la Chiesa ha designato Patroni dei medici, dei chirurghi, dei farmacisti, degli ospedali.

Testimoni di Cristo
Le brevi notizie storiche che li riguardano risultano dai « Martirologi » e « Sinassari », antichi testi liturgici che riportano il resoconto della vita dei Santi e dei Martiri dei secoli antichi, disposti giorno per giorno per tutto l’anno. Il principale biografo dei SS. Cosma e Damiano fu il dotto vescovo Teodoreto, che resse dall’anno 440 al 458 la città episcopale di Ciro, importante centro commerciale della Siria. Qui fu eretta a questi due Santi la prima chiesa votiva.
I SS. Cosma e Damiano, originari dell’Arabia, erano fratelli. Secondo certe fonti, non ritenute storicamente attendibili, erano gemelli. Nacquero nella seconda metà del III secolo da genitori cristiani. A impartire loro la prima educazione alla fede dovette incaricarsi la madre, di nome Teodota (secondo altri, Teodora), poiché il padre morì presto, durante una persecuzione in Cilicia.

Santi Anargiri
Dalla città natale per ragioni di studio furono inviati in Siria, dove appresero le scienze, specializzandosi nella medicina. Esercitarono con valentia questa professione a Egea e poi a Ciro, città dell’Asia Minore. Le « fonti » sottolineano la scrupolosa preparazione professionale dei SS. Cosma e Damiano. Alcuni testi parlano di un farmaco di loro invenzione chiamato « Epopira ». Si distinguevano per la solerte e benefica operosità verso i malati, con predilezione per i più poveri e gli abbandonati. La tradizione riferisce anche che curavano i malati senza mai chiedere retribuzione. Ciò valse loro l’appellativo di « Santi Anargiri », con cui sono passati alla storia. La loro fama di uomini coraggiosi, di insigni benefattori, si sparse rapidamente in tutta la regione. L’attività di questi Santi non si ridusse alla sola cura dei corpi. Nel loro esercizio professionale miravano anche al bene delle anime con l’esempio e con la parola. Riuscirono a convertire al cristianesimo molti pagani. Il libro del « Sinassario » della Chiesa di Costantinopoli riferisce il curioso episodio di una donna, di nome Palladia, la quale in segno di gratitudine per l’ottenuta guarigione, insistette per offrire ai due Santi la ricompensa di tre uova. Al netto rifiuto, la donna reagì rimproverandoli, perché considerò tale atteggiamento come una mancanza di galateo nei suoi riguardi. Ottenne così il risultato che S. Damiano, di nascosto dell’altro, accettasse il piccolo dono, ma anche che il Santo venisse severamente rimproverato da suo fratello.

Fermezza di fronte alle persecuzioni
I santi Cosma e Damiano si imposero risolutamente una scelta di vita controcorrente rispetto al paganesimo imperante. Nell’Impero Romano, particolarmente nelle regioni orientali dove il cristianesimo si era propagato con più successo, tra il 286 e il 305 d.C. sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano scoppiarono le persecuzioni. Le maggiori repressioni avvenivano nell’esercito, principalmente a causa del rifiuto da parte dei cristiani della milizia, oltre che delle cerimonie pagane e del culto dell’imperatore. In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303, i SS. Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di perturbare l’ordine pubblico e di professare una fede religiosa vietata. Il loro processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano competente per territorio nella Cilicia. Minacciati di torture e di condanna alla pena capitale, si tentò in tutte le maniere di farli apostatare. I SS. Cosma e Damiano, invece, risposero così ai loro persecutori: « Noi adoriamo il solo vero Dio e seguiamo il nostro unico Maestro, Gesù Cristo ». Questa eroica resistenza servì di incoraggiamento per gli altri cristiani più titubanti e pavidi, anch’essi sottoposti al grave dilemma: abiurare, per aver salva la vita; o perseverare nella professione della fede e patire carcere, torture e morte seguendo Cristo sulla via della Croce.

Il Martirio
Dopo l’arresto e il processo i Santi furono sottoposti a una serie di crudeli torture, nella vana speranza di farli recedere dal loro fermo proposito. Come primo castigo fu loro inflitta la fustigazione. Poiché i carnefici non ottennero di farli apostatare, legati mani e piedi furono gettati in mare da un alto burrone con un grosso macigno appeso al collo, per facilitarne lo sprofondamento. Miracolosamente, invece, i legacci si sciolsero ed i santi fratelli riaffiorarono in superficie sani e salvi, accolti a riva da uno stuolo di fedeli festanti, ringraziando Dio per lo straordinario evento. Nuovamente arrestati, subirono altre dolorosissime prove. Condotti davanti a una fornace ardente, furono immersi nel fuoco legati con robuste catene. Le fiamme però non consumarono quelle membra sante, che uscirono ancora una volta indenni e fu tale il timore dei soldati che li avevano in custodia, da costringerli a fuggire precipitosamente. Il libro del « Martirologio » che si ispira al citato Teodoreto ci informa che « i santi Cosma e Damiano furono martiri cinque volte ». Passarono infatti per le prove dell’annegamento, della
fornace ardente, della lapidazione, della flagellazione, per finire i loro giorni terreni col martirio nell’anno 303.

Diffusione del culto
La pietà dei fedeli provvide a dare a questi indomiti atleti di Cristo degna sepoltura nella città di Ciro in Cilicia. Sulla loro tomba sorse una chiesa, meta di ininterrotti pellegrinaggi, per venerarvi le reliquie e per invocare la loro intercessione. Uno dei più illustri pellegrini fu l’Imperatore Giustiniano, il restauratore dell’Impero Romano d’Oriente (+ 565). Guarito da una perniciosa malattia, andò in preghiera preso la tomba dei SS. Taumaturghi. In segno di riconoscenza fece erigere a Basilica la loro chiesa e dispose la fortificazione della città di Ciro.
Molto rapidamente il culto dei SS. Cosma e Damiano si estese a tutto l’Oriente bizantino. Gli scambi commerciali che intercorrevano tra Roma e l’Oriente facilitarono la conoscenza anche in Occidente della fama di questi due Martiri. La prima cappella in loro onore nella città eterna risale all’epoca di Papa Simmaco (498-515). Poco tempo dopo, ad opera di Felice IV nell’anno 528 furono trasportate a Roma le reliquie dei SS. Cosma e Damiano, ai quali fu edificata la grande Basilica esistente nel Foro Romano. Nel 1924 una commissione di esperti nominata da Pio XI, effettuando una ricognizione, ritrovò le ossa di questi SS. Martiri nel pozzetto situato sotto l’antico altare della Basilica. A ricordo della traslazione delle reliquie e della dedicazione della Basilica romana, nella liturgia occidentale fu fissata al 27 settembre la festività liturgica dei SS. Cosma e Damiano.
I loro nomi furono inseriti nel canone della Messa Tridentina, e furono gli ultimi Santi cui venne concesso simile onore. Nella Chiesa greca la festa liturgica cade in due date: il 1 luglio e il 1 novembre.
In Oriente a partire dal V secolo sorsero numerose chiese dedicate ai SS. Cosma e Damiano: in Scizia, in Cappadocia, in Panfilia, a Salonicco, a Gerusalemme, a Edessa del Ponto. In epoca posteriore (secoli X-XIII) il culto si diffuse in Bulgaria, in Romania, nelle regioni bizantine dell’Italia meridionale, tra cui la Calabria. La più famosa chiesa eretta in Oriente fu la Basilica che si trovava a Costantinopoli, proclamata santuario nazionale, alla quale accorrevano malati di ogni ceto sociale per chiedere la guarigione. In questa Basilica avveniva il rito dell’incubazione. Secondo la tradizione, mentre gli altri fedeli trascorrevano la notte in preghiera, i malati presenti si addormentavano adagiati su poveri giacigli nelle navate della chiesa. Durante il sonno miracolosamente apparivano i Santi Medici dai quali ricevevano le cure necessarie per la guarigione. Dei numerosi prodigi attribuiti all’intercessione dei SS. Cosma e Damiano esiste una circostanziata narrazione, che rimonta al VI secolo.
A Brattirò ogni anno immancabilmente, nella Chiesa Parrocchiale di S. Pietro Apostolo, nei giorni 25-26-27 Settembre si onorano i SS. MM. Questa Chiesa ha l’onore di conservare e custodire gelosamente una loro Reliquia autentica, avuta da Roma che in quei giorni espone alla venerazione ed al bacio dei fedeli e devoti. Chi prega, chi intercede, chi ringrazia, vuoI dire che a mezzo dei Santi Cosma e Damiano ottengono la salute desiderata sia del corpo che dell’ anima.

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I MISTERI DI SANTA CRISTINA (24 luglio mf)

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I MISTERI DI SANTA CRISTINA

Si rinnovano a Bolsena le celebrazioni per la Patrona: martire durante le persecuzioni di Diocleziano, fu protagonista di una serie di incredibili miracoli prima della sua morte

di Pietro Barbini

ROMA, lunedì, 23 luglio 2012 (ZENIT.org) – Domani, 24 luglio, la Chiesa festeggia Santa Cristina di Bolsena, vergine e martire al tempo della “grande persecuzione” dell’imperatore Diocleziano (243-312). In questo giorno a Bolsena, città di cui è Santa Patrona, si svolge una singolare manifestazione religiosa chiamata I Misteri di Santa Cristina. Si tratta di una rivisitazione dei tormenti patiti dalla giovane martire.
Per l’occasione vengono allestiti, nelle cinque piazze della città, dei palchetti presso i quali verranno rappresentati i dieci martiri subiti dalla Santa prima di “salire alla casa Padre” (la Ruota, la caldaia, la fornace, il lago, l’inferno, le verghe, i serpenti, il taglio della lingua e le frecce).
Alla vigilia della festa, la sera del 23 luglio, viene portata in processione la statua della Santa, posta sopra una sorta di macchina a forma di tempietto, percorrendo un tragitto che va dalla Basilica a lei dedicata alla Chiesa del Santissimo Salvatore, attraversando le diverse piazze e sostando dinanzi ai palchetti illuminati che riproducono, silenziosamente, le diverse fasi del martirio di Santa Cristina, come delle vere e proprio icone viventi.
La mattina del giorno seguente, il 24 luglio, sarà percorso a ritroso lo stesso tratto di strada, ritornando alla Basilica di Santa Cristina. La storia di questa santa martire è un vero e proprio mistero; il documento principale che ne descrive gli avvenimenti è La Passione di Santa Cristina, uno scritto agiografico risalente il IX secolo.
Alcuni scavi archeologici, effettuati nella seconda metà del 1800, hanno rivelato che a Bolsena il suo culto risalirebbe almeno al secolo IV: presso il suo sepolcro, infatti, sorse un cimitero sotterraneo, all’interno del quale fu trovata una sua statua in terracotta e un sarcofago con all’interno le sue reliquie.
Interessante constatare che la sua immagine appare nei mosaici in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, datati VI secolo, parimenti il suo nome viene citato nel Martyrologium Hieronymianum, il più antico catalogo di martiri cristiani della Chiesa latina, redatto da un autore anonimo del V secolo. Il testo più antico, invece, è un frammento di papiro egiziano, proveniente da Oxjrhynchos, V secolo, che contiene, assieme ad un brano della vita di san Panfuzio, un brano della Passio di Cristina. Il frammento è tradotto fedelmente negli Atti della santa, in particolare nel codice Farfense 29.
Dalle testimonianze si racconta che Cristina, figliadi Urbano,prefetto dell’attuale Bolsena, e di una nobildonna di casato romano, fu iniziata alla fede cristiana da una serva. Scoperta dal padre fu rinchiusa in un’ala del palazzo assieme a dodici ancelle e costretta ad adorare gli idoli pagani. Una sera la giovane fanciulla, appena undicenne ma ardente di fede, distrusse i simulacri d’oro e, calandosi dalla finestra della torre, distribuì i pezzi ai poveri.
Il padre, allora, furioso, la fece percuotere da dodici uomini (si racconta che caddero a terra stremati, talmente grande era la resistenza della santa), dopodiché la rinchiuse in carcere. Il frammento egizio riporta che, nel corso dell’interrogatorio, Cristina redarguì il padre con le seguenti parole “non sai che il figlio di Dio vivo, luce di verità e salvatore del mondo, discese dal cielo per redimere ogni malvagità e per salvarci, ed ora nel nome di quel Cristo che salva ti affronto, per vincere la tua ira e darti la morte”.
Venne dunque flagellata e poi legata alla ruota, sotto la quale venne appiccato il fuoco ed infine gettata in mezzo ad un lago con un sasso legato al collo, ma la santa galleggiò miracolosamente “come un fiore di ninfea”. Alla vista dell’ennesimo prodigio Urbano, preso dalla disperazione, morì imprecando gli dei.
Ad Urbano succedette un certo Dione, il quale le inflisse pene sempre più inumane e terribili, come l’immersione nella caldaia di pece, resina ed olio bollenti; le fece poi tagliare i capelli e, trascinata nuda per la città, la condusse al tempio di Apollo, costringendola ad adorare la statua del dio pagano, che venne ridotta in polvere al suo solo sguardo; una scheggia colpì Dione e lo uccise. Si racconta che alla vista di tutto ciò migliaia di pagani si convertirono al cristianesimo.
A Dione succedette Giuliano, che la fece murare per cinque giorni in una fornace (i cui resti si trovano a circa 2 km a sud di Bolsena); le furono poi applicati due aspidi e due serpenti e aizzate contro due vipere. La giovane affrontò qualsiasi tipo di supplizio rimanendo salda nella fede, chiedendo a Dio solamente di non essere abbandonata nella “lotta” e da tutte queste torture ne uscì sempre miracolosamente incolume.
Dopo le numerose sconfitte, si racconta che Giuliano le fece tagliare le mammelle e poiché continuava a cantare lodi al Signore le fu mozzata la lingua, che la fanciulla raccolse e scagliò contro Giuliano accecandolo in un occhio. Legata dunque ad un palo fu trafitta da decine di frecce, due delle quali le colpirono il cuore e il fianco procurandole la morte. Era l’alba del 24 luglio.
Le sue reliquie, ritrovate nel 1880 nel sarcofago dentro le catacombe poste sotto la basilica dei Santi Giorgio e Cristina, ebbero anche loro un destino travagliato. Le cronache narrano che nel 1098 due pellegrini diretti in Terrasanta sostarono a Bolsena e trafugarono il suo corpo. Arrivati poi nella città di Sepino, gli abitanti del paese scoprirono le sacre spoglie e da quel giorno rimasero nella città molisana, dove tuttora viene festeggiata per ben quattro volte l’anno.
Altre reliquie si trovano a Palermo, città della quale è compatrona, e a Toffia. Attualmente, però, l’unica reliquia considerata autentica è l’osso dell’avambraccio conservato a Sepino. Nella Chiesa di Santa Cristina a Bolsena si trova invece la pietra del supplizio, che compone l’altare maggiore, sulla quale sono impresse le impronte dei suoi piedi.
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24 luglio (mf): San Charbel Makhlouf

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24 luglio (mf): San Charbel Makhlouf

Vita di un eremita

Il nostro Santo nacque in Beqakafra, paese distante a 140 Km. della capitale del Libano, Beirut, un giorno 8 di maggio dell’anno di 1828; quinto figlio di Antun Makhlouf e Brigitte Chidiac, pia famiglia di contadini. Otto giorno dopo la sua nascita, ricevette il battesimo, nella chiesa di Nostra Signora del suo paese,dove i suoi genitori gli hanno imposto il nome di Yusef.(Giuseppe) I primi anni trascorsero in pace e tranquillità, circondato della sua famiglia e sopratutto dell’insigne devozione di sua madre, che per tutta la sua vita fece praticò con la parola e le opere la sua fede religiosa, dando esempio ai suoi figli che crebbero, così nel santo timore di Dio. A tre anni, il padre di Yusef fu arruolato dall’Esercito turco, che combatteva in quel momento de contro le truppe egizie. Suo padre muore ritornando a casa e sua madre passato po’ di tempo si risposa con un uomo devoto e perbene, che successivamente riceverà il diaconato. Yusef aiutò sempre il suo patrigno in tutte le cerimonie religiose, rivelando fin dal principio un raro ascetismo ed inclinazione alla vita di preghiera.
INFANZIA
Yusef imparò le prime nozioni nella scuola parrocchiale del suo paese, piccola stanza adiacente alla chiesa. All’età di 14 anni si dedica a curare un gregge di pecore vicino alla casa paterna; e in questo periodo iniziano le sue prime e autentiche esperienze riguardanti la preghiera, si ritirava costantemente in una caverna che aveva scoperto vicino ai pascoli, e lì passava molte ore in meditazione, ricevendo spesso le burle degli altri ragazzi come Lui pastori della zona. A parte il suo patrigno (diacono), Yusef ebbe due zii da parte di madre che erano eremiti e appartenenti all’Ordine Libanese Maronita, e da essi accorreva con frequenza, trascorrendo molte ore in conversazioni, riguardanti la vocazione religiosa e il monacato, che ogni volta si fa più significativo per Lui.
LA VOCAZIONE
All’età di 20 anni, Yusef è un uomo fatto, sostegno della casa, Lui sa che presto dovrà contrarre matrimonio, tuttavia, resiste all’idea e prende un periodo di attesa di tre anni, nei quali ascoltò la voce di Dio « Lascia tutto, vieni e seguimi » si decide, e quindi, senza salutare nessuno, nemmeno sua madre, una mattina dell’anno di 1851 si dirige al convento della Madonna di Mayfouq, dove sarà ricevuto prima come postulante e poi come novizio, facendo una vita esemplare sin dal primo momento, sopratutto riguardo all’obbedienza. Quì Yusef prese l’abito di novizio e rinunziò al suo nome originale per scegliere quello di CHARBEL, un martire di Edessa vissuto nel secondo secolo.
STUDI PER SACERDOTE
Passato qualche tempo lo trasferirono al convento di Annaya, dove professò i voti perpetui come monaco nel 1853. Subito dopo, l’obbedienza lo portò al monastero di San Cipriano di Kfifen (nome del paese), dove realizzò i suoi studi di filosofia e teologia, facendo una vita esemplare soprattutto nell’osservanza della Regola del suo Ordine. Fu ordinato sacerdote il 23 luglio 1859 da parte di Mons. Jose al Marid, sotto il patriarcato di Paulo Massad, nella residenza patriarcale di Bkerke. Da poco tempo ordinato, il P. Charbel ritornò al monastero di Annaya per ordine dei suoi superiori. Lì passò lunghi anni, sempre come esempio per tutti i suoi confratelli nelle diverse attività, che lo coinvolgevano: l’apostolato, la cura dei malati, cura di anime ed il lavoro manuale (più è umile meglio è).
L’EREMITA
Così trascorse la sua vita in comunità. Tuttavia, egli anelava ardentemente di essere eremita, e per questo chiese autorizzazione al superiore, il quale vedendo che Dio era con Lui redasse l’autorizzazione il 13 di febbraio del 1875. E vi rimase fino al giorno della sua morte avvenuta la vigilia di Natale dell’anno di 1898. Nell’eremo dei santi Pietro e Paolo, il P. Charbel si dedicò al colloquio intimo con Dio, perfezionandosi nelle virtù, nella ascesi, nella santità eroica, nel lavoro manuale, nella coltivazione della terra, nella preghiera (Liturgia delle ore 7 volte al giorno), e nella mortificazione della carne, mangiando una volta al giorno e portando il cilicio. Il P. Charbel raggiunse la fama dopo il suo morte, iniziando con il prodigio del suo corpo incorrotto, che sudava sangue, quello della luce osservati e constatati non solo dai membri del suo Ordine, ma dal popolo che cominciò a venerarlo come Santo, anche quando la gerarchia ed i superiori ne avevano proibito il culto, in attesa che la Chiesa pronunciasse il suo verdetto.
BEATIFICAZIONE E CANONIZZAZIONE
Col passare del tempo, ed in vista dei miracoli che faceva e del culto di cui era oggetto, il P. Superiore generale Ignacio Dagher andò a Roma nel 1925 per sollecitare di S.S. Papa Pio XI l’apertura del processo di beatificazione dell’eremita P. Charbel. Durante la chiusura del concilio Vaticano II, il 5 di dicembre di 1965, il papa Paolo VI, lo beatificò, con le seguenti parole: « un eremita della montagna libanese è iscritto nel numero dei Venerabili… un nuovo membro di santità monastica arricchisce con il suo esempio e con la sua intercessione tutto il popolo cristiano. Egli può farci capire in un mondo affascinato per il comfort e la ricchezza, il grande valore della povertà, della penitenza e dell’ascetismo, per liberare l’anima nella sua ascensione a Dio ». Il 9 di ottobre di 1977 durante il sinodo mondiale di vescovi, lo stesso Papa canonizzò al Beato Charbel, elevando lo agli altari con il seguente formula:  » In onore della Santa ed Unica Trinità per esaltazione della fede cattolica e promozione della vita cristiana, con l’autorità del nostro Signore Gesù Cristo, e dei venerabili apostoli Pietro e Paolo, e nostra, dopo matura riflessione e implorando l’intenso aiuto divino… decretiamo e definiamo che il Beato Charbel Majluf è SANTO, e lo iscriviamo nel libro dei Santi, stabilendo che sia venerato come Santo con pietosa devozione in tutta la Chiesa. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. »
Innamorato dell’Eucaristia e del Santa Vergine Maria, San Charbel modello ed esempio di vita consacrata, è considerato l’ultimo dei Grandi Eremiti. I suoi miracoli sono molteplici e chi si affida alla sua intercessione, non resta deluso, ricevendo sempre il beneficio della Grazia e la guarigione del corpo e dell’anima.
« Il giusto fiorirà, come una palma, si alzerà come un cedro del Libano, piantato nella casa del Signore. » Sal.91(92)13-14

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20 luglio: Sant’ Apollinare di Ravenna Vescovo e martire

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Sant’ Apollinare di Ravenna Vescovo e martire

20 luglio (23 luglio) – Memoria Facoltativa

circa II-III secolo

Sant’Apollinare, originario di Antiochia, per primo rivestì la carica episcopale nella città imperiale di Ravenna, forse incaricato dallo stesso apostolo San Pietro, di cui si dice fosse stato discepolo. Si dedicò all’opera di evangelizzazione dell’Emilia-Romagna, per morire infine martire, come vuole la tradizione. Le basiliche di Sant’Apollinare in Classe e Sant’Apollinare Nuovo sono luoghi privilegiati nel tramandarne la memoria. Il suo culto tuttavia si diffuse rapidamente anche oltre i confini cittadini. I pontefici Simmaco (498-514) ed Onorio I (625-638) ne favorirono la diffusione anche a Roma, mentre il re franco Clodoveo gli dedicò una chiesa presso Digione. In Germania probabilmente si diffuse ad opera dei monasteri benedettini, camaldolesi e avellani. Una chiesa era a lui dedicata anche a Bologna nell’area del Palazzo del Podestà, ma siccome fu demolita nel 1250 il cardinale Lambertini gli dedicò un altare nell’attuale Cattedrale cittadina. Sant’Apollinare è considerato patrono della città di cui per primo fu pastore, nonché dell’intera regione Emilia-Romagna. (Avvenire)

Patronato: Ravenna, Emilia-Romagna
Etimologia: Apollinare = sacro ad Apollo, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Palma, Pallio
Martirologio Romano: Sant’Apollinare, vescovo, che, facendo conoscere tra le genti le insondabili ricchezze di Cristo, precedette come un buon pastore il suo gregge, onorando la Chiesa di Classe presso Ravenna in Romagna con il suo glorioso martirio. Il 23 luglio migrò al banchetto eterno.
(23 luglio: A Classe presso Ravenna in Romagna, commemorazione di sant’Apollinare, vescovo, la cui memoria si celebra il 20 luglio).
Sant’Apollinare, protovescovo di Ravenna e primo evangelizzatore dell’Emilia-Romagna, visse al tempo dell’Impero Bizantino d’Occidente, in periodo collocabile all’incirca tra la fine del II e gli inizi del III secolo. Secondo la tradizione Apollinare proveniva da Antiochia e sarebbe stato addirittura discepolo dell’apostolo San Pietro. Questi lo avrebbe destinato a ricoprire per primo la carica episcopale nella città imperiale di Ravenna. Questa tradizione nacque nel VII secolo e non è documentata storicamente, tanto da contrastare con le probabili datazioni prima esposte. A quanto pare risalirebbe al tempo dell’arcivescovo Mauro (642-671), che quasi certamente ne fu l’autore, forse per conferire un maggior prestigio alla Chiesa locale di questa città che stata cominciando ad assumere sempre maggiore importanza.
Sin dai primi tempi Apollinare fu sicuramente venerato quale martire, come asserì il vescovo ravennate San Pier Crisologo in un suo sermone, ed il suo culto si diffuse assai, nonostante non si tramandino molti dettagli attendibili sulla sua vita o sulla sua morte.
Menzionato per la prima volta dal Martirologio Gerominiano del V secolo in data 23 luglio quale “confessore” e “sacerdote”, ancora oggi il Martyrologium Romanum lo commemora in tale anniversario, anche se la memoria liturgica è anticipata di tre giorni. Quando infatti, dopo il Giubileo del 2000, papa Giovanni Paolo II volle ripristinare nel calendario liturgico della Chiesa latina la memoria facoltativa di Sant’Apollinare, dovette optare per la data del 20 luglio onde evitare sovrapposizioni con altre festività obbligatorie.
La splendida basilica di Sant’Apollinare in Classe, presso Ravenna, fu consacrata nel 549: custodiva la tomba del santo ed un prezioso mosaico lo raffigurava nella volta dell’abside. Nell’VIII secolo l’antica basilica di San Martino in Ciel d’Oro fu restaurata e ridenominata Sant’Apollinare Nuovo al fine di divenire nuovo centro del culto tributato al santo protovescovo.
I pontefici Simmaco (498-514) ed Onorio I (625-638) favorirono la diffusione anche a Roma della venerazione verso Sant’Apollinare, mentre il re franco Clodoveo gli dedicò una chiesa presso Digione. In Germania probabilmente si diffuse ad opera dei monasteri benedettini, camaldolesi e avellani. Una chiesa era a lui dedicata anche a Bologna nell’area del Palazzo del Podestà, ma siccome fu demolita nel 1250 il cardinale Lambertini gli dedicò un altare nell’attuale Cattedrale cittadina. Sant’Apollinare è considerato patrono della città di cui per primo fu pastore, nonché dell’intera regione Emilia-Romagna.

Autore: Fabio Arduino

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20 Luglio: Sant’Elia Profeta

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Sant’ Elia Profeta

20 luglio

sec. IX a.C.

Elia (il cui nome significa «il mio Dio è Jahvè») nacque verso la fine del X sec. a.C. e visse sotto il regno di Acab, che aveva imposto il culto del dio Baal. Elia si presentò dinanzi al re Acab ad annunciargli, come castigo, tre anni di siccità. Abbattutosi il flagello sulla Palestina, ritornò dal re e per dimostrare l’inanità degli idoli lanciò la sfida sul monte Carmelo contro i 400 profeti di Baal. Quando sul solo altare innalzato da Elia si accese prodigiosamente la fiamma, e l’acqua invocata scese a porre fine alla siccità, il popolo linciò i sacerdoti idolatri. Ma Elia dovette sottrarsi all’ira della moglie di Acab, Jezabel, seguace del dio Baal. Sconfortato, pregò Dio di farlo morire. Ma dopo un angelo, gli apparve Dio ed Elia comprese che il trionfo del bene avviene con pazienza, perché Dio domina il tempo.Il fiero profeta, che indossava un mantello di pelle sopra un rozzo grembiule stretto ai fianchi, come otto secoli dopo vestì, Giovanni Battista, di cui è la prefigurazione, tornò in mezzo al popolo di Dio, ma non assistette al pieno trionfo di Jahvè. Morì misteriosamente nell’850 a.C., su un carro di fuoco. (Avvenire)

Etimologia: Elia = il mio Signore è Jahvè, dall’ebraico

Martirologio Romano: Commemorazione di sant’Elia Tesbita, che fu profeta del Signore nei giorni di Acab e di Acazia, re di Israele, e con tale forza rivendicò i diritti dell’unico Dio contro l’infedeltà del popolo, da prefigurare non solo Giovanni Battista, ma il Cristo stesso; non lasciò profezie scritte, ma la sua memoria viene fedelmente conservata, in particolare sul monte Carmelo.
Elia con Eliseo e Samuele, è uno dei più grandi profeti di ione (distinti dai profeti scrittori, come Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, che hanno lasciato degli scritti inanone dei Libri sacri), e la sua missione fu di incitare il popolo alla fedeltà all’unico vero Dio, senza lasciarsi sedurre dall’influsso del culto idolatrico e licenzioso di Canaan. Elia (il cui nome significa « il mio Dio è Jahvè ») nacque verso la fine del X sec. a.C. e svolse gran parte della sua missione sotto il regno del pavido Acab (873-854), docile strumento nelle mani dell’intrigante moglie Jezabel, di origine fenicia, che aveva dapprima favorito e poi imposto il culto del dio Baal.
Quando ormai il monoteismo pareva soffocato e la maggioranza del popolo aveva abbracciato l’idolatria, Elia si presentò dinanzi al re Acab ad annunciargli, come castigo, tre anni di siccità. Abbattutosi il flagello sulla Palestina, Elia ritornò dal re e per dimostrare la inanità degli idoli lanciò la sfida sul monte Carmelo contro i 400 profeti di Baal. Quando sul solo altare innalzato da Elia si accese prodigiosamente la fiamma, e l’acqua invocata scese a porre fine alla siccità, il popolo esultante linciò i sacerdoti idolatri. Elia credette giunto il momento del trionfo di Javhè, e perciò tanto più amara e incomprensibile gli apparve la necessità di sottrarsi con la fuga all’ira della furente Jezabel.
Braccato nel deserto come un animale da preda, l’energico e intransigente profeta sembrò avere un attimo di cedimento allo sconforto. Il suo lavoro, la sua stessa vita gli apparvero inutili e pregò Dio di recidere il filo che lo teneva ancora legato alla terra. Ma un angelo lo confortò, porgendogli una focaccia e una brocca d’acqua; poi Dio stesso gli apparve, restituendogli l’indomito coraggio di un tempo. Elia comprese che Dio non propizia il trionfo del bene con gesti spettacolari, ma agisce con longanime pazienza, poiché egli è l’Eterno e domina il tempo.
Il fiero profeta, che indossava un mantello di pelle sopra un rozzo grembiule stretto ai fianchi, come otto secoli dopo vestì il precursore di Cristo, Giovanni Battista, di cui è la prefigurazione, tornò con rinnovato zelo in mezzo al popolo di Dio, ma non assistette al pieno trionfo di Jahvè. L’opera di riedificazione spirituale, tanto faticosamente iniziata, venne portata avanti con pieno successo dal suo discepolo Eliseo, al quale comunicò la divina chiamata mentre si trovava nei campi dietro l’aratro, gettandogli sulle spalle il suo mantello. Eliseo fu anche l’unico testimone della misteriosa fine di Elia, avvenuta verso l’ 850 a.C., su un carro di fuoco.

Autore: Piero Bargellini

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19 luglio: Santa Macrina la Giovane Monaca

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Santa Macrina la Giovane Monaca

19 luglio

Prima di 10 fratelli, tra i quali ben 4 sono santi (lei, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Pietro sacerdote e monaco), nacque in Ponto nel 327. Giovane e bella, era un partito agognato, ma scelse presto di dedicarsi esclusivamente a Dio. Per diversi anni rimase al fianco della madre per aiutarla nel governo della casa e nell’educazione dei fratelli. Esercitò un’influenza decisiva sulle scelte dei due fratelli più famosi, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa. Quando gli uomini ebbero trovata la loro strada, madre e figlia decisero di ritirarsi ad Annesi sulle rive del fiume Iris. Qui Macrina divenne la superiora del monastero doppio dove uomini e donne si sforzavano di vivere in pienezza il Vangelo. Al ritorno dal concilio di Antiochia, Gregorio di Nissa si fermò ad Annesi per salutare la sorella. Fu l’ultimo incontro tra i due dato che Macrina morì nel 380 a soli 53 anni.
Gregorio, tuttavia, fece a tempo a sentire dalle sue labbra la grandiosa preghiera pronunciata prima di morire. La sua spiritualità e la sua vita sono narrate dallo stesso Gregorio.
Martirologio Romano: Nel monastero di Annesi lungo il fiume Iris nel Ponto ancora in Turchia, santa Macrina, vergine, sorella dei santi Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Pietro di Sivas, che, versata nelle Sacre Scritture, si ritirò a vita solitaria, mirabile esempio di desiderio di Dio e di distacco dalla vanità del mondo.

Macrina era la primogenita dei dieci figli di Basilio ed Emmelia, famiglia del Ponto in Grecia e famiglia benedetta da Dio in quanto fra i suoi figli abbiamo oltre s. Macrina anche s. Basilio Magno, vescovo di Cesarea, s. Gregorio vescovo di Nissa, e Pietro sacerdote e monaco.
Macrina chiamata la Giovane, perché portava il nome della nonna paterna anch’essa santa, Macrina l’Anziana, fu educata fin dalla più tenera età nelle Sacre Scritture e sin dall’adolescenza era dotata di una particolare bellezza, cosicché molti erano i pretendenti alla sua mano; il padre come era costume, scelse per lei il più adatto; ma questo fidanzato fu rapito all’affetto della ragazza da una morte immatura.
Macrina allora finse di considerare come un vero matrimonio il suo fidanzamento e giurò fedeltà al defunto giovane, come sposa che attende il marito lontano per una lunga assenza.
Rimasta in casa, aiutò molto la madre nell’accudire ed educare tutti i fratelli, tanto più che era rimasta vedova dopo la nascita del decimo figlio.
Quando sistemati adeguatamente tutti i figli rimasero sole, Macrina convinse la madre a ritirarsi con lei nella solitudine di Annesi presso Hore nel Ponto, sulle rive del fiume Iris, per fondare un monastero in cui le avrebbero seguite le loro domestiche.
Macrina fu molto influente sul fratello Basilio, il quale lasciò la vita mondana di erudito per abbracciare, verso il 356 la vita monastica, poi divenne vescovo di Cesarea nel 370, tornando a rivedere la sorella nel monastero nel 376; ordinò sacerdote il fratello minore Pietro, che viveva in un monastero vicino a quello della sorella; Basilio morì il 1° gennaio 379.
Alla morte della madre avvenuta nel 373, Macrina divenne superiora del monastero; di ritorno dal Concilio di Antiochia del 379, Gregorio divenuto vescovo di Nissa, volle passare per Annesi per visitare la sorella, ma la trovò nei suoi ultimi momenti di vita; poterono avere solo un ultimo colloquio di alto tenore spirituale e dopo una magnifica preghiera elevata a Dio, Macrina morì (380).
La sua ‘Vita’ e la sua spiritualità ci è stata narrata in importanti opere scritte dallo stesso s. Gregorio di Nissa.
Il suo corpo fu sepolto nella chiesa dei ‘40 martiri di Sebaste’, a poca distanza dal monastero, dove già erano i corpi dei suoi genitori; ai funerali, presente il vescovo del luogo, partecipò una gran folla di fedeli.
La sua memoria liturgica compare in tutti i calendari e Martirologi Orientali al 19 luglio, mentre in Occidente è menzionata in alcuni si e altri no, finché non fu inserita definitivamente nel ‘Martirologio Romano’, sempre al 19 luglio con l’annuncio: “In Cappadocia, s. Macrina vergine, sorella dei santi Basilio Magno e Gregorio di Nissa”.

Autore: Antonio Borrelli

Giovanni Paolo II visita la parrocchia dei Santi Aquila e Priscilla collaboratori di Paolo, Omelia, post per la memoria facoltiva

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VISITA ALLA PARROCCHIA DEI SANTI AQUILA E PRISCILLA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 15 novembre 1992

Fratelli e sorelle carissimi

della Parrocchia dei Santi Aquila e Priscilla!

1. “Questo è il giorno fatto dal Signore; rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Sal 118, 24). Dopo vent’anni di attesa, e di intenso lavoro pastorale, ecco giunto il momento solenne della consacrazione di questa chiesa, voluta dal mio predecessore, l’indimenticabile Papa Paolo VI. Essa, dedicata a due coniugi fedelissimi collaboratori di San Paolo, vuol essere segno visibile della comunione che anima la vostra comunità ecclesiale. Una comunità, la vostra, che durante un lungo periodo di tempo si è riunita in locali provvisori, ma che sin dall’inizio ha cercato di crescere nella collaborazione e nella solidarietà. Questo è veramente “il giorno fatto dal Signore”. Giorno di gioia e di ringraziamento; giorno di riflessione e di nuovi generosi propositi di bene. Come ben sottolinea il rito di dedicazione, l’opera muraria edificata dalle mani dell’uomo viene santificata e consacrata a Dio. La sua destinazione è il culto pubblico, è la convocazione dell’assemblea dei fedeli per celebrare l’Eucaristia e gli altri sacramenti, per pregare per ricevere la conveniente istruzione cristiana, per sentirsi anche visibilmente e a pieno titolo membri della famiglia dei figli di Dio in Cristo Gesù. In questo luogo si compiranno le tappe dell’itinerario di ogni credente: nasceranno alla fede le nuove creature, si formeranno le famiglie cristiane; sarà distribuito il pane della parola e il pane del corpo e sangue di Cristo; si prenderà forza per servire la missione alla quale ciascuno è chiamato; si accompagneranno per l’estremo commiato i fratelli chiamati al riposo eterno.
2. Ma accanto alla “chiesa di mattoni” dovete ora proseguire a costruire “la Chiesa di persone”. I testi biblici dell’odierna liturgia ci invitano a meditare su questo impegno apostolico che tutti concerne personalmente. Il vostro sogno, cari parrocchiani, è compiuto e potete ben disporre adesso di una casa che è veramente casa di tutti perché è dimora di Dio, nostro Padre celeste. Come la chiesa-edificio è formata di mattoni o di pietre ben allineate, sovrapposte, compaginate e unite tra loro, così la Chiesa-corpo di Cristo dev’essere un edificio spirituale armonico, fatto di pietre vive, che riproducono in se stesse le caratteristiche di Cristo. Lo abbiamo ascoltato poco fa. L’apostolo Pietro, nella sua prima Lettera, chiama il Signore con il nome di “pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pt 2 ,4), aggiungendo che pure noi veniamo “impiegati come pietre vive, per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (Ivi). Affinché ciò si compia – ci ricorda il testo evangelico poc’anzi proclamato – è necessario coltivare una fede schietta e profonda come quella del Principe degli Apostoli che a Cesarea di Filippo, esclamò, “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 18). Tu sei il Cristo! Chi può ripetere ciò con interiore verità, se non colui che è posseduto dallo Spirito Santo? Solamente l’ascolto fedele della Parola di Dio e la ricerca incessante della divina volontà conducono il credente all’intimità con Cristo. Questa vostra chiesa di forma circolare, solenne e semplice allo stesso tempo, ben sottolinea come il popolo cristiano è chiamato a camminare e convergere verso l’Eucaristia. È allo spezzare del pane che i discepoli di Emmaus riconobbero il divino Maestro (cf. Lc 24, 30-31). Così sarà anche per voi: nella degna partecipazione all’unico pane e all’unico calice voi potrete meglio comprendere la vostra identità di cristiani e più adeguatamente approfondire la vostra missione apostolica.
3. So che siete già generosamente incamminati su questa via, segnata dall’apostolo Pietro. In particolare vi sforzate di essere “pietre vive”, ponendo ogni cura nella formazione cristiana delle famiglie, in ciò guidati dal carisma proprio di una parrocchia posta sotto la protezione di due coniugi santi. Con la preghiera composta in occasione della Missione Popolare dello scorso anno domandavate al Signore che ogni famiglia di questa comunità parrocchiale “diventasse una piccola chiesa”. Il vostro obiettivo resta tuttora quello di riflettere sull’identità della vera famiglia cristiana, seguendo l’insegnamento del Magistero e l’esempio dei Santi Patroni Aquila e Priscilla. Come vostro Pastore non posso non confermarvi e incoraggiarvi in questo proposito. La famiglia è la cellula vitale della società e della Chiesa. Fondati nell’amore di Dio, i nuclei familiari, se vivono uniti, fedeli, aperti alla preghiera e alla fraterna solidarietà, diventano un’autentica forza di rinnovamento per la società e per il popolo cristiano. Questo quartiere, nel quale vivete e operate, denso di popolazione e carico di molteplici problemi, risente di quelle contraddizioni e di quei mali tipici delle moderne metropoli, dove talora si rischia di raggiungere persino preoccupanti livelli di degrado morale. La droga, la piccola delinquenza, l’indifferenza verso gli altri, la chiusura nei propri piccoli interessi costituiscono concrete e quotidiane minacce alla pacifica convivenza delle persone e all’armonioso sviluppo del tessuto sociale. Solo famiglie solide, sostenute da una coraggiosa e compatta comunità parrocchiale, sono in grado di contrastare tali rischi e minacce. Assai opportunamente, pertanto, in questi anni sono state messe in atto da voi numerose iniziative spirituali, sociali, caritative, educative. Fra queste mi piace ricordare l’oratorio con le diverse attività per i giovani, le associazioni, i gruppi di impegno, le missioni parrocchiali itineranti. Sono persuaso che grazie all’intensa collaborazione offerta da ciascuno di voi, la Parrocchia dei Santi Aquila e Priscilla può guardare con fiducia al suo avvenire e immettere nel quartiere quella forza che consiste nella “fede e carità effettivamente vissute” (Gaudium et spes, 42).
4. Carissimi fratelli e sorelle, abbiate sempre dinanzi a voi l’ampio orizzonte missionario nel quale ben deve situarsi l’azione di ciascuno, delle vostre famiglie, dell’intera Comunità parrocchiale. La nostra Diocesi di Roma, mediante la celebrazione del Sinodo, vuole condurre tutti i credenti della Città di Roma a prendere coscienza della propria irrinunciabile missione evangelica in quest’ultimo decennio del secolo ventesimo, che ci prepara al Terzo Millennio cristiano. So che proprio ieri si è conclusa la prima fase delle Assemblee sinodali, dedicata alle Congregazioni Generali, durante le quali si sono ascoltati molti interventi dei rappresentanti della Comunità diocesana. Nei prossimi giorni inizieranno i Circoli Minori, ai quali seguiranno di nuovo le Congregazioni Generali. Facendo mie le parole pronunciate venerdì sera nella Basilica di San Giovanni in Laterano dal Cardinale Vicario, vorrei invitarvi a riconoscere e a vivere il Sinodo come “dono di grazia, opera dello Spirito Santo nella chiesa di Roma e per gli uomini e le donne di questa città”, nella comunione e nella testimonianza apostolica.
5. La Diocesi di Roma ha bisogno di comunione, di collaborazione e di coordinamento e sono grato al Cardinale Vicario per l’impegno che profonde in questo senso. Lo saluto con affetto e con lui saluto il Vescovo Ausiliare di Settore, Monsignor Cesare Nosiglia, il parroco, Monsignor Candido Facciolongo e i vicari parrocchiali. Saluto anche tutti i sacerdoti parroci di questa Prefettura. Rivolgo un cordiale pensiero ai Religiosi, alle Religiose e ai laici attivamente impegnati nelle varie iniziative comunitarie. Un particolare saluto va agli ammalati, agli anziani, a quanti soffrono nel corpo e nello spirito. Voglio abbracciare tutti i bambini; saluto poi i giovani qui presenti e quelli del vostro quartiere Portuense. Da questa chiesa, nel giorno della sua dedicazione, vorrei rivolgere alla Diocesi un appello a favore della costruzione di nuovi edifici di culto. L’Avvento ormai imminente è tempo prezioso per aprire il cuore alla generosità. Possa il fattivo contributo di tutti venire incontro alle numerose Comunità che ancora non dispongono di un adeguato luogo dove incontrarsi per pregare e crescere insieme come popolo di Dio.
6. “Ama la tua chiesa come tua casa e la tua casa diventerà piccola chiesa”. Con quest’invito a voi ben familiare vorrei esortarvi, carissimi fratelli e sorelle, a imitare i vostri Protettori che con amore e fedeltà reciproca hanno seguito le orme di Cristo e con il lavoro delle loro mani hanno cooperato alla missione apostolica di San Paolo, colonna della Chiesa di Roma.
Possano essi con la loro intercessione suscitare tra di voi famiglie sante, capaci di donare al Signore figli generosi, disposti a servirlo senza riserve.
La loro preghiera ottenga a tutti voi di essere saldi nella fede, radicati nella speranza, generosi nella carità, dediti a ogni virtù cristiana, affinché, grazie anche all’annuncio e alla testimonianza di ogni fedele di questa Parrocchia, giunga agli abitanti della Città di Roma con forza nuova la lieta novella del Vangelo, così che si costruisca con il contributo di tutti una città a dimensione d’uomo.
Santi Aquila e Priscilla, che avete fatto della vostra casa aperta all’accoglienza una “chiesa domestica” (cf. 1 Cor 16, 19), sostenete l’impegno delle famiglie di questa parrocchia. Rendetele autentici focolari di amore e di speranza evangelica, fari luminosi di fedeltà e di misericordia; templi vivi per “offrire sacrifici spirituali a Dio per mezzo di Gesù Cristo”.

Amen!

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26 giugno : San Josemaria Escrivá de Balaguer Sacerdote, Fondatore dell’Opus Dei

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26 giugno : San Josemaria Escrivá de Balaguer Sacerdote, Fondatore dell’Opus Dei

Barbastro, Spagna, 9 gennaio 1902 – Roma, 26 giugno 1975

Josemaría Escrivá nacque a Barbastro (Spagna) il 9 gennaio 1902. Fu ordinato sacerdote nel 1925. Nel 1927 iniziò a Madrid un instancabile lavoro sacerdotale dedicato in particolare ai poveri e ai malati nelle borgate e negli ospedali. Il 2 ottobre del 1928 ricevette una speciale illuminazione divina e fondò l’Opus Dei, un’istituzione della Chiesa che promuove fra cristiani di tutte le condizioni sociali una vita coerente con la fede in mezzo al mondo attraverso la santificazione delle opere quotidiane: il lavoro, la cultura, la vita familiare… Alla sua morte, nel 1975, la sua fama di santità si è diffusa in tutto il mondo, come dimostrano le molte testimonianze di favori spirituali e materiali attribuiti all’intercessione del fondatore dell’Opus Dei, fra cui anche guarigioni clinicamente inesplicabili. Il 6 ottobre 2002 è stato canonizzato nel corso di una solenne cerimonia presieduta dal Santo Padre Giovanni Paolo II alla presenza di oltre 300 mila fedeli. (Avvenire)

Etimologia: Josemaría = composto di Giuseppe e Maria

Martirologio Romano: A Roma, san Giuseppe Maria Escrivà de Balaguer, sacerdote, fondatore dell’Opus Dei e della Società sacerdotale della Santa Croce.

Josemaría Escrivá nacque a Barbastro (Spagna) il 9 gennaio 1902. Fra i 15 e i 16 anni cominciò ad avvertire i primi presentimenti di una chiamata divina, e decise di farsi sacerdote. Nel 1918 iniziò gli studi ecclesiastici nel Seminario di Logroño, e dal 1920 li proseguì nel Seminario S. Francesco di Paola, a Saragozza, dove dal 1922 svolse mansioni di « Superiore ». Nel 1923 iniziò gli studi di Legge nell’Università di Saragozza, col permesso dell’Autorità ecclesiastica, senza che ciò ostacolasse gli studi teologici. Ricevette il diaconato il 20 dicembre 1924, e fu ordinato sacerdote il 28 marzo 1925.
Nella primavera del 1927, sempre col permesso dell’Arcivescovo, si trasferì a Madrid, dove si prodigò in un instancabile lavoro sacerdotale in tutti gli ambienti, dedicandosi anche ai poveri e ai malati delle borgate, specie agli incurabili e ai moribondi degli ospedali. Divenne cappellano del “Patronato per i malati”, iniziativa assistenziale delle Dame Apostoliche del Sacro Cuore, e fu docente in un’Accademia universitaria. Frattanto continuava gli studi e i corsi di dottorato in Legge, che a quell’epoca si tenevano solo nell’Università di Madrid.
Il 2 ottobre del 1928 il Signore gli fece vedere con chiarezza l’Opus Dei. Da quel giorno il fondatore dell’Opus Dei si dedicò, con grande zelo apostolico per tutte le anime, a compiere la missione che Dio gli aveva affidato. Il 14 febbraio del 1930 iniziò l’apostolato dell’Opus Dei con le donne. Nel 1934 fu nominato Rettore del Patronato di Santa Elisabetta.
Il 14 febbraio 1943 fondò la Società sacerdotale della Santa Croce, inseparabilmente unita all’Opus Dei, che, oltre a permettere l’ordinazione sacerdotale di membri laici dell’Opus Dei e la loro incardinazione al servizio dell’Opera, avrebbe più tardi consentito pure ai sacerdoti incardinati nelle diocesi di condividere la spiritualità e l’ascetica dell’Opus Dei, cercando la santità nell’esercizio dei doveri ministeriali, pur restando alle esclusive dipendenze del rispettivo Ordinario diocesano.
Nel 1946 si trasferì a Roma, dove rimase fino alla fine della vita. Da Roma stimolò e guidò la diffusione dell’Opus Dei in tutto il mondo, prodigando tutte le sue energie nel dare agli uomini e alle donne dell’Opera una solida formazione dottrinale, ascetica e apostolica. Alla morte del fondatore l’Opus Dei contava più di 60.000 membri, di 80 nazionalità.
Monsignor Escrivá fu Consultore della Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto canonico e della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università; Prelato onorario di Sua Santità e membro onorario della Pontificia Accademia teologica romana, è stato anche Gran Cancelliere delle Università di Navarra (Spagna) e Piura (Perù) .
San Josemaría Escrivá è morto il 26 giugno 1975. Da anni offriva la sua vita per la Chiesa e per il Papa. Fu sepolto nella Cripta della chiesa di S. Maria della Pace, a Roma.
La fama di santità che già ebbe in vita si è diffusa, dopo la sua morte, in tutti gli angoli della terra, come dimostrano le molte testimonianze di favori spirituali e materiali attribuiti all’intercessione del fondatore dell’Opus Dei; fra di essi si registrano anche guarigioni clinicamente inesplicabili. Numerosissime sono anche state le lettere provenienti dai cinque continenti, fra le quali si annoverano quelle di 69 cardinali e di circa 1.300 vescovi – più di un terzo dell’episcopato mondiale – che chiedevano al Papa l’apertura della Causa di Beatificazione e Canonizzazione di Josemaría Escrivá. La causa si è aperta nel febbraio del 1981. Conclusi tutti i necessari tramiti giuridici, la beatificazione del fondatore dell’Opus Dei è stata celebrata il 17 maggio 1992. Il 6 ottobre 2002 è stato canonizzato nel corso di una solenne cerimonia presieduta dal Santo Padre Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro alla presenza di oltre 300 mila fedeli provenienti da tutto il mondo.
Dal 21 maggio 1992 il corpo del beato Josemaría Escrivá riposa nell‚altare della chiesa prelatizia di S. Maria della Pace, nella sede centrale della Prelatura dell’Opus Dei, costantemente accompagnato dalla preghiera e dalla gratitudine delle tante persone di tutto il mondo che si sono avvicinate a Dio attratte dall‚esempio e dagli insegnamenti del fondatore dell’Opus Dei e dalla devozione di quanti ricorrono alla sua intercessione.

Fonte: Ufficio Informazioni dell’Opus Dei

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