Archive pour la catégorie 'Santi: memorie facoltative'

SANTA MARIA EGIZIACA – 1 APRILE

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SANTA MARIA EGIZIACA

1 APRILE

Il racconto della sua vita confina spesso con la leggenda. Di sicuro era nata nel IV secolo ad Alessandria d’Egitto e si guadagnava da vivere facendo la prostituta. Fuggita da casa a 12 anni, a 29 si imbarcò su una nave di pellegrini diretta in Terra Santa. Arrivata a Gerusalemme, volle partecipare alla festa dell’Esaltazione della croce al Santo Sepolcro. Prima di entrare però fu come trattenuta da una forza invisibile mentre una voce dentro di lei diceva: «Tu non sei degna di vedere la croce di colui che è morto per te tra dolori inenarrabili». Convertitasi, andò a vivere solitaria nel deserto oltre il Giordano dove restò per 47 anni. Là fu trovata dal monaco Zosimo che le porse la santa Comunione, promettendole di tornare l’anno successivo. Quando fece ritorno la trovò però morta. Era probabilmente il 430. Secondo la tradizione la tomba sarebbe stata scavata da un leone con i suoi artigli. (Avvenire)

Patronato: Prostitute pentite
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall’egiziano; signora, dall’ebraico

Emblema: Ampolla d’unguento
Martirologio Romano: In Palestina, santa Maria Egiziaca, che, famosa peccatrice di Alessandria, per intercessione della beata Vergine nella Città Santa si convertì a Dio e condusse in solitudine al di là del Giordano una vita di penitenza.

Cercare di riassumere la vita di Maria, che si presenta come una composizione di Sofronio, vescovo di Gerusalemme, attribuzione contro la quale non si è potuto portare alcun argomento decisivo, è farle perdere tutto il suo sapore, la qualità principale per cui questo racconto ha potuto avere qualche interesse; in effetti il suo carattere storico è quasi inesistente anche se, come si dirà piú oltre, è stato costruito intorno ad un iniziale nucleo reale: l’esistenza di una tomba di una santa solitaria palestinese, forse proprio di nome Maria.
Zosimo, ieromonaco di qualche laura palestinese, va, secondo l’abitudine, a trascorrere una parte della Quaresima nelle profondità del deserto. Credendo dapprima ad un’allucinazione si rende ben presto conto della realtà della sua visione: una forma femminile cui l’ardore del sole ha disseccato la pelle, senza altra veste che la sua capigliatura bianca come la lana. Vedendo in questo incontro la volontà della Provvidenza, Zosimo cerca di avvicinarla e vi riesce solo sulla riva di un torrente, ma la sua interlocutrice non consente ad iniziaré ia conversazione prima che il monaco le abbia lanciato il suo mantello per coprire la sua nudità. Dopo essersi reciprocamente benedetti si mettono a pregare e Zosimo vede Maria che levita nell’aria. Il monaco dubita allora di trovarsi di fronte ad una macchinazione diabolica, ma Maria lo tranquillizza chiamandolo per nome. Incitata da lui Maria comincia a raccontare la sua vita.
Egiziana di origine, a dodici anni era fuggita dalla casa paterna per condurre a suo agio ad Alessandria la vita di peccato che l’ardone dei suoi sensi reclamava. Per diciassette anni visse in questo stato. Un giorno, vedendo dei pellegrini che s’imbarcavano per Gerusalemme, spinta dalla curiorità ed in cerca di nuove avventure, si uní al gruppo, convinta che il suo fascino le avrebbe permesso facilmente di pagarsi il prezzo del viaggio. I suoi piaceri ebbero termine a Gerusalemme il giorno della festa della Croce: ella voleva infatti come gli altri, entrare nella basilica, ma ogni volta che tentava di varcarne la soglia una forza interiore glielo impediva.
A questo punto sentí il richiamo del Giordano.
Uscendo dalla città uno sconosciuto le diede tre pezzi d’argento che le sarebbero serviti. ad acquistare pani che dovevano essere il suo ultimo nutrimento terrestre duratole per almeno diciassette anni. Giunta a sera sulle rive del Giordano ed avendo scorto il santuario di S. Giovanni Battista, ella vi fece una visita per pregare e quindi si recò al fiume per purificarsi. In seguito ricevette la Comunione eucaristica e con questo viatico iniziò il suo lungo cammino nel deserto cammino che al momento dell’incontro con Zosimo durava già da quarantasette anni.
Giunta al termine del suo racconto autobiografico Maria pregò Zosimo di ritornare l’anno dopo, la sera del giovedí santo in un luogo che ella gli indicò sulle rive del Giordano, per portarle l’Eucarestia. Zosimo fu fedele all’appuntamento e Maria traversò miracolosamente il fiume per raggiungere il monaco. Dopo essersi comunicata ed avere rinnovato l’appuntamento per l’anno successivo nel luogo del primo incontro presso il torrente, Maria riprese la sua marcia nel deserto. Tornando l’anno dopo sulla riva del torrente Zosimo si credette da principio solo, poi scorse a terra il corpo di Maria morta, rivestito ancora del vecchio mantello da lui datole due anni prima. Una scritta sulla terra gli rivelò alcuni aspetti del mistero: « padre Zosimo sotterra il corpo dell’umile Maria; restituisci alla terra ciò che è della terra, aggiungi polvere a polvere ed in nome di Dio prega per me; sono morta nel mese di pharmouti, secondo gli egiziani, che corrisponde all’aprile dei Romani, la notte della Passione del Salvatore, dopo aver partecipato al pasto mistico ».
Zosimo capí che Maria era già morta da un anno, il giorno stesso in cui le aveva dato la s. Comunione. Si mise subito all’opera per seppellire il corpo di lei, ma non aveva altro utensile che un pezzo di legno; aveva appena cominciato a scavare che ebbe la sorpresa di trovarsi a lato un leone che si dimostrò subito in grande familiarità con lui e che in breve tempo, su richiesta del monaco, scavò una fossa sufficiente a deporre Maria. Dopo aver ricoperto di terra il corpo della santa, Zosimo ritornò al suo monastero, dove raccontò tutta la storia all’abbà Giovanni l’egumeno e ai suoi confratelli per loro edificazione.
Tutti sono concordi nel vedere in questa storia soltanto una pia leggenda, come ha scritto H. Delehave: « una creazione poetica, senza dubbio fra le piú belle di quante ci abbia lasciato l’antichità cristiana ».
Questa creazione letteraria, tuttavia, non è tutta pura invenzione, essa non è che lo sviluppo di una tradizione palestinese che vide la luce intorno alla tomba di una solitaria locale esistita realmente. In effetti, nella Vita di Ciriaco, opera di Cirillo di Scitovoli, l’autore racconta di una sua passeggiata nel deserto in compagnia di un certo abbà Giovanni. F. Delmas, dopo un accurato controllo tra la Vita di Maria opera di Sofronio e, contemporaneamente la Vita di Paolo di Tebe, scritta da s. Girolamo (in cui la parte di Zosimo è sostenuta da un Antonio), ed il racconto del monaco Giovanni nella l’ita di Ciriaco, cosí riassume le conclusioni del suo studio: « 1) il quadro generale della vita di s. Maria Egiziaca mi sembra ricalcato sulla vita di s Paolo eremita. 2) la vita di s. Maria Egiziaca mi sembra non essere altro che uno sviluppo retorico della vita di Maria inserita negli Atti di s. Ciriaco ».
Giovanni Mosco, cronologicamente posteriore a Cirillo, presenta uno svolgimento diverso della leggenda di Maria, ma malgrado le divergenze, le grandi linee dei due racconti sono abbastanza simili perché si possa concludere per l’unicità del fatto originario. al quale entrambi fanno riferimento. Sofronio, di cui abbiamo già sottolineata la dipendenza da Cirillo, ha anche preso in prestito qualche dettaglio da Giovanni Mosco, in particolare la localizzazione della scoperta di Maria nel deserto al di là del Giordano.
Non minore fu la popolarità di Maria in Occidente.
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Culto liturgico.
I sinassari bizantini venerano Maria al 1° aprile, qualcuno al 3 o al 4 dello stesso mese. Questa data è in relazione con il supposto giorno della morte di Maria, un giovedí santo nel mese di pharmouthi. A1 1° aprile Maria figura anche nel Typikon della laura di S. Saba. I calendari palestino-georgiani fanno di lei menzione il 1°, il 4 o il 6 dello stesso mese. Il Sinaiticus 34 (X sec.) la nomina per la terza volta il 2 dicembre. Qualche calendario siriaco la menziona ancora il 1° aprile. Il Sinassario Alessandrino di Michele, vescovo di Atr?b e Mal?g le dedica una lunga notizia proveniente dalla Vita di Sofronio al 6 barmudah e la traduzione geez di questo Sinassario ha conservato la stessa notizia al giorno corrispondente del 6 miyaziya. Il Calendario marmoreo di Napoli menziona Maria al 9 aprile. I primi martirologi occidentali medievali la ignorano e, a quanto sembra, Usuardo fu il primo ad introdurla al 2 aprile nel suo Martirologio con lo stesso breve elogio di s. Pelagia all’8 ottobre Pietro de’ Natalibus le ha dedicato un lungo capitolo de] suo Catalogus.
Il 2 aprile divenne quindi la data tradizionale della commemoraziohe di Maria in Occidente.

Autore: Joseph-Maria Sauget

 

11 MARZO: SAN SOFRONIO DI GERUSALEMME PATRIARCA

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SAN SOFRONIO DI GERUSALEMME PATRIARCA

11 marzo

Damasco, 550 circa – Gerusalemme, 639

Sofronio, siriano di Damasco, fu eletto patriarca di Gerusalemme nel 634. La Palestina al tempo si trovava a vivere sotto la pressione dell’imminente invasione da parte di Abu-Bekr, suocero di Maometto († 632) e del califfo Omar. Allo stesso Sofronio fu impossibile celebrare il Natale, come di consueto, nella chiesa della Natività di Betlemme a causa dell’assedio. Ma il patriarca dovette affrontare anche l’eresia del monotelismo che proponeva un modello cristologico incompleto e limitante. Assieme a Massimo il Confessore, Sofronio cercò di combattere con vari scritti l’eresia che usciva dalla stessa corte imperiale di Costantinopoli. Nel 638 però dovette consegnare la città al califfo Omar. Morì di lì a poco. Di lui ci sono pervenute alcune poesie e lettere. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Gerusalemme, san Sofronio, vescovo, che ebbe per maestro e amico Giovanni Mosco, con il quale visitò i luoghi del monachesimo; eletto dopo Modesto vescovo di questa sede, quando la Città Santa cadde nelle mani dei Saraceni, difese con forza la fede e l’incolumità del popolo.
Sofronio “il sofista”, una delle personalità più interessanti dell’epoca, colto, di mentalità aperta ed appassionato difensore dell’ortodossia, nacque a Damasco verso il 550. Abandonò ancora giovincello la sua città natale, per intraprendere numerosi viaggi, ma sempre rimase orgoglioso del suo luogo d’origine, “dove Paolo arrivò cieco e da dove partì guarito, dove un persecutore in fuga divenne un predicatore; la città che diede rifugio all’apostolo e da cui fuggì in un cesto calato dalla finestra, meritandosi così le grazie dei santi ed acquistando una grande fama [...]”. Sofronio compì i suoi studi prevalentemente a Damasco, ove fu istruito nella cultura greca e siriaca. Desideroso di farsi monaco, fece visita alla laura di San Teodosio in Giudea e qui incontrò Giovanni Mosco, con il quale strinse un duraturo legame di amicizia.
Difficile è valutare l’influnza che ciascuno esercitò sull’altro: Sofronio era decisamente più colto, ma considerava l’amico sua guida spirituale e suo consigliere. Il principale loro legame era forse costituito dalla comune fede calcedonese, ma iniziarono anche una collaborazione nel tramandare alle generazioni future le vite dei Padri del deserto. I contrasti già presenti a quel tempo nel mondo mediorientale spinsero i due amici a spostarsi molto, ospitati da diversi monasteri. Tra il 578 ed il 584 furono in Egitto, ove Sofronio fu allievo dell’aristotelico Stefano di Alessandria ed entrambi divennero amici di Teodoro il filosofo e Zoilo, quest’ultimo erudito calligrafo. In questo periodo Sofronio iniziò a perdere la vista, ma fu miracolato visitando la tomba dei Santi Ciro e Giovanni presso Menuti ed in ringraziamento scrisse un resoconto di ben settanta miracoli attribuiti alla loro intercessione.
Dal 584 in poi diventa difficile ricotruire con esattezza i loro movimenti. Per un certo tempo pare presero strade diverse: Sofronio divenne monaco nel monastero di San Teodosio, mentre Giovanni Mosco vagò tra il Sinai, la Cilicia e la Siria. I due amici si ritrovaro infine al servizio del patriarca d’Alessandria, San Giovanni l’Elemosiniere, nominato nel 610. Pochi anni dopo i persiani occuparono i luoghi santi e si diressero verso l’Egitto, quindi il patriarca con Sofronio e Govanni Mosco partirono per Cipro, passarono poi ad altre isole ed infine giunsero a Roma. Nella Città Eterna Giovanni l’Elemosiniere morì nel 619, consegnando a Sofronio le sue ultime volontà.
Grande impegno profuse Sofronio per contrastere le eresie dilaganti, in particolare il monotelismo che l’imperatore Eraclio aveva imposto a tutto l’impero con il benestare del patriarca Sergio di Costantinopoli. Dal 634 Sofronio fu il nuovo patriarca di Gerusalemme, ruolo che gli permise di proseguire con maggiore autorevolezza la sua battaglia. Essendo sempre più evidenti le eresie in cui stava cadendo Sergio e nel timore che papa Onorio potesse cadere nella trappola, incaricò Stefano di Dora di recarsi a Roma in sua vece, essendo lui impossibilitato per un’imminente invasione saracena, e lo fece giurare sul Calvario di rimanere fedele alla fede calcedonese.
L’inviato riferì al concilio Lateranense del 649 la volontà di Sofronio: Là mi fece promettere con giuramento solenne: “Se tu dimentichi o disprezzi la fede che ora è minacciata, dovrai rendere conto a colui che, sebbene Dio, fu crocifisso in questo santo luogo, quando nella sua prossima venuta Egli giudicherà i vivi e i morti. Come tu sai, non posso compiere questo viaggio a causa dell’invasione dei saraceni [...]. Vai senza indugio fino all’altra estremità della terra, alla sede apostolica, il fondamento dell’insegnamento ortodosso e di’ ai santi uomini che sono là non una, non due, ma molte volte ciò che sta accadendo; di’ loro tutta la verità e nulla più. Non esitare, domanda loro e pregali insistentemente di utilizzare la loro ispirata sapienza per emettere un giudizio definitivo e annientare questo nuovo insegnamento che ci è stato inflitto”. Impressionato dal solenne appello che Sofronio aveva pronunciato in quel luogo santo e venerabile, e considerato il potere episcopale che per grazia di Dio mi era stato conferito, partii subito per Roma. Sono qui davanti a voi per la terza volta, chino davanti alla sede apostolica implorando, come Sofronio e molti altri fecero, “venite in aiuto della fede cattolica minacciata”.
Ci vollere ben dieci anni prima che il papa San Martino I condannasse l’eresia al medesimo concilio. Sofronio scese a patti con i saraceni per evitare stragi di popolo a Gerusalemme, ma morì pochi mesi dopo nel 639. Lasciò ai posteri diverse omelie, una splendida orazione per benedire l’acqua nella festa del Battesimo del Signore, nonché inni e cantici di straordinaria bellezza. I suoi tropari per la settimana santa costituirono la fonte degli “Improperia” tuttora recitati nella liturgia del Venerdì Santo.

Autore: Fabio Arduino 

OTTANT’ANNI FA (1929, l’articolo è del 2009) L’ABATE DI SAN PAOLO FUORI LE MURA ILDEFONSO SCHUSTER DIVENTAVA ARCIVESCOVO DI MILANO

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/206q04a1.html

OTTANT’ANNI FA L’ABATE DI SAN PAOLO FUORI LE MURA ILDEFONSO SCHUSTER DIVENTAVA ARCIVESCOVO DI MILANO

LASCIÒ UN GIARDINO FIORITO PER ANDARE A FARE UN «MESTIERACCIO»

DI INOS BIFFI

L’8 settembre 1929 – esattamente ottant’anni fa – nella festa della Natività di Maria, patrona del Duomo, faceva il suo ingresso a Milano come arcivescovo, l’abate di San Paolo fuori le Mura, Ildefonso Schuster.
La sua figura non era sconosciuta alla Chiesa ambrosiana che, dal 1926 al 1928, lo aveva visto operare, in una missione non facile, come visitatore apostolico dei seminari, quando anche si trattò di progettare e di iniziare la costruzione del nuovo seminario, fuori dalla città, sulla collina boscosa di Venegono Inferiore. Fu una scelta sapiente, per la preparazione nel silenzio e nello studio di quei preti ambrosiani che, una volta scesi nelle popolose parrocchie e nei polverosi oratori, sarebbero stati educatori illuminati e zelanti pastori d’anime. Ecco perché una sua alienazione aprirebbe una ferita profonda nella memoria e nell’identità della Chiesa ambrosiana.
Specialmente il clero era stato impressionato da quel monaco raccolto, rapido, dal profilo gentile. Ne aveva, in particolare, apprezzato la cultura liturgica – egli era il celebre autore dei diversi volumi del Liber Sacramentorum:  un commento al messale romano che ancora oggi si può rimeditare e gustare – tanto il monaco di San Paolo aveva saputo cogliere e illustrare l’anima della preghiera cristiana e lo spirito delle sue vetuste formule, che egli conosceva e spiegava ai seminaristi in modo eccellente. Certo, lo stile, distinto e rispettoso, era accompagnato da una lucida e ferma determinazione, che, d’altronde, rifletteva la risolutezza perentoria di Chi lo aveva mandato e del quale, non senza una prudente mediazione, traduceva le decisioni, ossia di Pio XI, che, dopo essere stato per qualche mese sulla cattedra di sant’Ambrogio, continuava tranquillamente ancora a governarla.
L’invio di Schuster alla sede di Milano era ovviamente dovuto a lui, che lo aveva nominato a quella Chiesa il 26 giugno del 1929, gli aveva imposto il cappello cardinalizio il 18 luglio e lo aveva ordinato vescovo il 21 luglio.
È difficile conoscere per quali ragioni Pio XI, che non si incantava facilmente ed era un lucido conoscitore di uomini, abbia inviato come arcivescovo sulla cattedra di sant’Ambrogio l’abate di San Paolo, che non appariva e, di fatto, non era un uomo di governo. A Roma presiedeva un gruppo di monaci, a Milano avrebbe trovato molte centinaia di presbiteri; la sua diocesi nel Lazio si riduceva a qualche piccola parrocchia, quella ambrosiana era sconfinata. Alla sua nomina, mordacemente, il cardinale vicario Pompili aveva osservato:  « Ma come potrà reggere l’arcidiocesi lombarda, quando non riesce a governare il pollaio di San Paolo? ». Di fatto non pochi anche a Milano rimasero perplessi.
Sarebbe interessante – e ora è possibile con l’accesso agli archivi vaticani del tempo – conoscere le valutazioni di Pio XI sulle varie iniziative pubbliche o « politiche » di Schuster. Forse non tutte le scelte dell’arcivescovo di Milano, che mostrava autonomia di giudizio e tempestività di decisioni, facilitate dal suo temperamento impulsivo e ostinato, erano condivise dal Papa, col quale era in frequente contatto. D’altronde, non mancavano vescovi intelligenti, suoi suffraganei, come quello di Bergamo, Adriano Bernareggi, o di Cremona, Giovanni Cazzani, o autorevoli sacerdoti milanesi e laici riflessivi, che, di là dalla buona fede del cardinale, giudicavano non totalmente prudenti certi suoi gesti. Ma qui viene in mente quanto affermava Newman di Cirillo d’Alessandria:  « Cirillo, lo so, è un santo »; questo però non vuol dire, aggiungeva, che lo sia stato in ogni momento della sua vita o che ogni suo gesto sia stato obiettivamente impeccabile.
Questo non va dimenticato, se non si vuol ridurre a puro e sterile panegirico la biografia di Schuster, com’è stato fatto e, si fa, abitualmente. Nell’ampio e fluido elogio funebre, tenuto il 2 settembre 1954 nel Duomo di Milano, il « Porporato Pontefice dei Veneti » – così Schuster aveva definito il patriarca Roncalli – delineava con ammirevole finezza il profilo spirituale e pastorale del cardinale, monaco e pastore, appartenente alla « fortissima razza dei cenobiti » e al novero dei « grandi Vescovi della Chiesa »:  « Un prodigio coram angelis et hominibus ». E affermava:  « Egli con intenzione retta, con cuore generoso, in vista del pubblico bene, pose talvolta la sua fiducia in chi cessò poi di meritarla:  ma non cessò per questo di essere oggetto della sua carità. Attentare su questo punto alla perfetta buona fede del cardinale Schuster, alla sua lealtà nobile e grande, alla purezza della sua pietà misericordiosa, è azione inqualificabile che la voce della coscienza riprova, e che la storia a sua volta saprà smentire ».
Mentre trascorreva gli ultimi suoi giorni a Venegono, il pensiero di Schuster riandava agli anni passati a Milano, e – come aveva scritto nell’epigrafe per il suo venticinquesimo di episcopato – ringraziava Dio di averlo tradotto « incolume attraverso le dittature, i bombardamenti e gli incendi di Milano »; di averlo fatto passare per « il fuoco e la tempesta »; e di averlo condotto, sostenuto dalla « devota fedeltà del gregge al tribolato pastore », sulla via della salvezza.
Un giorno – ricorda Giovanni Colombo nei Novissima verba, che sono le sue pagine più belle – « nel vano della finestra [il cardinale] guardava in faccia al tramonto. Un tramonto di fine agosto così malinconico che pareva d’autunno inoltrato. Il cielo era tutto di un monotono grigiore cinereo:  poco più su della collina morenica che costeggia a destra l’Olona, il sole morente traspariva con una chiazza sanguigna, come fa una ferita a fior di benda ». Era di recente avvenuta la canonizzazione di Pio X, che Schuster personalmente non si attendeva. A commento l’arcivescovo dichiarava:  « Non tutti gli atti del suo governo si dimostrarono in seguito pienamente opportuni e fecondi »; ma, « altra cosa è l’incidenza più o meno felice sul piano storico di un governo ecclesiastico, altra cosa è la santità che lo anima ». « Certo pensava anche a sé – osserva Colombo – e rispondeva a interrogativi intimi. Ma su un punto la testimonianza della sua coscienza non aveva perplessità:  d’aver cercato solo e sempre in ogni pensiero e in ogni atto il Signore ». Ed è esattamente questa insonne ricerca di Dio, in un totale distacco da ogni bene terreno, che ha unificato e resa splendida ed esemplare la vita di Schuster.
Egli era uscito dal suo monastero – monasterium meum!, come amava dire evocando san Gregorio Magno – per pura obbedienza all’imperiosa volontà di Pio XI. « Quando l’onore di Dio, il servizio della Chiesa ed il bene delle anime lo esigono o lo consigliano – avrebbe scritto in Un pensiero quotidiano al giorno sulla Regola di S. Benedetto – non ci deve trattenere l’amore del « loco natio » né alcuna altra nostalgia ».
La partenza dal cenobio aveva però causato in lui una profonda sofferenza. Chiudendo la sua prima lettera pastorale, confessava di lasciare « con cuore trafitto la mia vetusta abbazia di san Paolo e il giardino fiorito della sua piccola diocesi »; mentre chi lo accompagnava nella sua discesa da Montecassino per avviarsi a Milano ricorda che, dopo aver abbracciato e benedetto i suoi confratelli, « salito in auto, scoppiò in un pianto dirotto che non poté trattenere per qualche momento ». Anche a Milano, sino alla fine dei suoi giorni, il monastero continuò ad affascinarlo con struggente nostalgia.
Ma, se « il respiro della sua vita – come ancora diceva Roncalli nell’orazione funebre – fu la preghiera in esercizio quotidiano di pietà religiosa », questo non solo non lo distraeva dalla dedizione insonne e laboriosissima alla vita attiva qual è richiesta a un pastore d’anime di milioni di fedeli, ma ne costituiva lo stimolo e la risorsa. Amava dire:  « Fare l’arcivescovo di Milano è un mestieraccio ».
D’altra parte, sempre nella sua prima lettera pastorale aveva scritto di sentirsi inviato « per dirla con una frase dell’Apostolo:  « per immolarmi sul sacrificio vostro e sulla liturgia (divino servizio) della vostra Fede »":  vi rimase fedele dal primo momento fino all’ultimo dei suoi anni trascorsi come pastore della Chiesa ambrosiana. I decenni di vita contemplativa, la sua passione per il raccoglimento della cella e soprattutto per l’azione liturgica e per l’opus Dei col suo primato, non lo ritrassero mai da questa « immolazione », anche se imprimevano qualche linea di frettolosità e di impazienza non sempre gradita.
Avvertirono il suo « sacrificio » anzitutto i sacerdoti che, pure, non mancarono di sperimentare, all’inizio del suo episcopato, una severità eccessiva, che poteva in qualche caso diventare sommaria e sbrigativa:  una severità che, dopo la tragedia della guerra e la costatazione dello zelo del presbiterio ambrosiano, finì con lo sciogliersi in una paternità sempre più indulgente e dolce.
Quanto ai fedeli ambrosiani non ebbero, fin da subito, al solo vederlo, il minimo dubbio, né la più piccola esitazione:  per essi quella delicata figura, sempre rapida e raccolta, dagli occhi vivi e dal sorriso lieve, era la figura di un santo.
In particolare, questa santità traspariva nella « devozione » con cui celebrava. Il cardinale Giacomo Biffi ha colto perspicacemente questo aspetto:  « Non era un colosso, eppure la sua presidenza veniva percepita come qualcosa di determinante e di intenso. La gente semplice correva a contemplare quest’uomo esiguo e fragile che, nelle vesti del « liturgo », diventava un gigante. « Liturgo »:  ecco la parola giusta, anche se ovviamente nessuno dei semplici la conosceva. Dunque, un liturgista insigne, ma più che altro un « liturgo » imparagonabile.
« I suoi gesti erano sempre sciolti e misurati:  non c’era niente di teatrale nella sua attitudine. Eppure il suo era davvero uno spettacolo, al tempo stesso spontaneo e affascinante. Intento insieme e assorto, era agli occhi di tutti un testimone eloquente dell’invisibile. Nessuno era più sollecito di lui, che si muoveva entro i sacri misteri con la disinvoltura di chi si sente a casa. Non ci meraviglia allora che i milanesi accorressero in Duomo all’immancabile appuntamento domenicale ».
Del resto, egli, decenni prima del Vaticano ii, ebbe lucida e acuta la percezione della teologia della liturgia. Scriveva:  la Sacra Liturgia è « la preghiera speciale che è per eccellenza la preghiera della Chiesa »; essa è la preghiera « che direttamente sgorga dal cuore della Chiesa orante ».
Schuster si spense quasi improvvisamente il 30 agosto 1954 proprio nel suo seminario. Vi era arrivato, « stremato, smagrito, sofferente », cogliendo tutti di sorpresa:  non aveva fatto mai una vacanza, e i cinque lustri di episcopato lo avevano ormai tutto consumato. L’indomita fortezza del suo animo era sempre stata racchiusa in quel corpo esile, che più volte era comparso nei luoghi più remoti e impervi della diocesi – « come un lumicino preoccupato quasi più di nascondersi che di apparire », avrebbe detto il Patriarca Roncalli nell’epicedio; ma in quei giorni la sua figura ci appariva spossata oltre misura.
Sempre nei Novissima verba Giovanni Colombo, allora rettore maggiore dei seminari milanesi, ricorda:  « L’automobile dell’Arcivescovo si fermò davanti all’atrio del Seminario verso le 18 del 14 agosto. Non pioveva più, ma una bassa nuvolaglia copriva tutto il cielo e la campagna era macera di pioggia recente ».
Non era stato facile convincerlo a lasciare il torrido episcopio di Milano per salire a quel colle, dove il riposo e l’aria salubre si sperava avrebbero rinnovato le sue energie esauste. Ma non ebbe alcun giovamento.
Si spense dopo un’agonia – che ai presenti era parsa una liturgia – e dopo aver benedetto la sua Chiesa e aver chiesto perdono di quello che aveva fatto e non fatto.
Faceva « ancora buio », come quando Maria di Magdala andò al sepolcro:  era l’ora del canto del gallo, « l’araldo del giorno », come lo chiama sant’Ambrogio, quando « la stella lucifera dalla tenebra libera il cielo ». A quell’ora nel monastero di San Paolo, dove l’abate Schuster era sempre il primo ad apparire, si scioglieva « il labbro devoto » e si elevava « la santa primizia dei canti ». A quell’ora abitualmente l’arcivescovo incominciava, pregando, la sua giornata intensa. In quell’alba la sua giornata terrena era finita:  sorgeva « il Giorno che illumina giorni » per una lode ormai perenne.
Quasi subito, dopo quell’annunzio, si avviò un pellegrinaggio orante e ininterrotto al colle del seminario:  una fiumana di gente, come fosse avvenuto tacitamente un accordo in tutta la diocesi, saliva a venerare l’arcivescovo santo e, più che a pregare per lui, ad affidarsi alla sua intercessione.
La mattina nel trasporto a Milano avrebbe percorso, tra folle innumerevoli, la sua « via trionfale » – come l’ha denominata il cardinale Colombo, che nel secolo scorso fu a sua volta un grande arcivescovo di Milano insieme a Ferrari, a Schuster e a Montini – « addobbata di arazzi, illuminata dallo sfolgorio solare ».
È importante per una Chiesa che non si spenga e non si annebbi la memoria della sua storia, e soprattutto dei suoi pastori, specialmente quando questi si presentino con il pregio raro e splendido della santità. Ecco perché sarebbe segno di avvedutezza pastorale e di sensibilità spirituale riaccenderne le figure con impegnative e studiose memorie.

(L’Osservatore Romano 7-8 settembre 2009)

SAN CHARBEL MAKHLOUF – 24 LUGLIO (mf)

http://www.figlididio.it/communio/charbel/charbel.html

SAN CHARBEL MAKHLOUF – 24 LUGLIO (mf)

Non è semplice scrivere di San Charbel Makhlouf, un monaco appartenente all’Ordine Libanese Maronita, vissuto nel secolo scorso ed elevato alla Gloria degli altari da Paolo VI il 9 ottobre 1977, non tanto per i suoi miracoli o per i fatti prodigiosi o eclatanti avvenuti durante la sua vita e dopo la sua morte, quanto per le sue virtù eroiche che permettono a noi occidentali di conoscere meglio l’intensa spiritualità della Chiesa Orientale.
La vita di questo Santo merita di essere maggiormente conosciuta anche in occidente, specialmente fra le nuove generazioni che sono alla ricerca di una nuova e intensa spiritualità, come dimostrano l’aumento delle vocazioni negli Ordini monastici contemplativi. Se riusciremo a comprendere il messaggio che San Charbel ci ha lasciato siamo certi che questi potrà essere un valido aiuto per tutti i credenti.

La vita
Il nostro Santo nacque in Beqakafra, paese distante 140 Km. della capitale del Libano, Beirut, l’otto di maggio dell’anno 1828.
Quinto figlio di Antun Makhlouf e Brigitte Chidiac, una pia famiglia di contadini. Otto giorni dopo la sua nascita ricevette il battesimo nella chiesa di Nostra Signora del suo paese, dove i suoi genitori gli imposero il nome di Yusef (Giuseppe). I primi anni trascorsero in pace e tranquillità, circondato della sua famiglia e soprattutto dell’insigne devozione di sua madre, che per tutta la sua vita praticò con la parola e le opere la sua fede religiosa, dando esempio ai suoi figli che crebbero così nel santo timore di Dio.
A tre anni, il padre di Yusef fu arruolato dall’Esercito turco che combatteva in quel momento contro le truppe egizie. Suo padre muore ritornando a casa dalla guerra e sua madre, passato po’ di tempo, si risposa con un uomo devoto e perbene che successivamente riceverà il diaconato. Yusef aiutò sempre il suo patrigno in tutte le cerimonie religiose, rivelando fin dal principio un raro ascetismo ed una inclinazione alla vita di preghiera.

Infanzia
 Yusef imparò le prime nozioni nella scuola parrocchiale del suo paese, in una piccola stanza adiacente alla chiesa. All’età di 14 anni si dedica a curare un gregge di pecore vicino alla casa paterna; in questo periodo iniziano le sue prime e autentiche esperienze riguardanti la preghiera: si ritirava costantemente in una caverna che aveva scoperto vicino ai pascoli e lì passava molte ore in meditazione, ricevendo spesso le burle degli altri ragazzi come lui pastori della zona. A parte il suo patrigno (diacono), Yusef ebbe due zii da parte di madre che erano eremiti appartenenti all’Ordine Libanese Maronita, e da essi accorreva con frequenza, trascorrendo molte ore in conversazioni, riguardanti la vocazione religiosa e il monachesimo.

La vocazione
 All’età di 20 anni, Yusef è un uomo fatto, sostegno della casa, egli sa che presto dovrà contrarre matrimonio, tuttavia resiste all’idea e prende un periodo di attesa di tre anni, nei quali ascoltò la voce di Dio: « Lascia tutto, vieni e seguimi ». Si decide, e senza salutare nessuno, nemmeno sua madre, una mattina del 1851 si dirige al convento della Madonna di Mayfouq, dove sarà ricevuto prima come postulante e poi come novizio, facendo una vita esemplare sin dal primo momento, soprattutto riguardo all’obbedienza. Qui Yusef prese l’abito di novizio e rinunziò al suo nome originale per scegliere quello di Charbel, un martire di Edessa vissuto nel secondo secolo.

Studi da sacerdote
 Passato qualche tempo lo trasferirono al convento di Annaya, dove professò i voti perpetui come monaco nel 1853. Subito dopo, l’obbedienza lo portò al monastero di San Cipriano di Kfifen, dove realizzò i suoi studi di filosofia e teologia, facendo una vita esemplare soprattutto nell’osservanza della Regola del suo Ordine. Fu ordinato sacerdote il 23 luglio 1859 da parte di Mons. Jose al Marid, sotto il patriarcato di Paulo Massad, nella residenza patriarcale di Bkerke. Ordinato da poco tempo, padre Charbel ritornò al monastero di Annaya per ordine dei suoi superiori. Lì passò lunghi anni, sempre come esempio per tutti i suoi confratelli nelle diverse attività che lo coinvolgevano: l’apostolato, la cura dei malati, la cura delle anime ed il lavoro manuale.

L’eremita
 Così trascorse la sua vita in comunità. Tuttavia, egli anelava ardentemente ad essere eremita, e per questo chiese l’autorizzazione al superiore, il quale vedendo che Dio era con lui redasse l’autorizzazione il 13 di febbraio del 1875. Charbel rimase eremita fino al giorno della sua morte avvenuta la vigilia di Natale dell’anno 1898.
Nell’eremo dei Santi Pietro e Paolo, il P. Charbel si dedicò al colloquio intimo con Dio, perfezionandosi nelle virtù, nella ascesi, nella santità eroica, nel lavoro manuale, nella coltivazione della terra, nella preghiera (Liturgia delle ore 7 volte al giorno), e nella mortificazione della carne, mangiando una volta al giorno e portando il cilicio. Padre Charbel raggiunse la fama dopo la sua morte, iniziando con il prodigio del suo corpo incorrotto che sudava sangue ed emanava una luce misteriosa. Fenomeni osservati e constatati non solo dai membri del suo Ordine, ma dal popolo che cominciò a venerarlo come Santo anche quando la gerarchia ed i superiori ne avevano proibito il culto, in attesa che la Chiesa pronunciasse il suo verdetto.

Beatificazione e canonizzazione
 Col passare del tempo, ed in vista dei miracoli che avvenivano e del culto di cui era oggetto, il padre Superiore Generale, Ignacio Dagher, andò a Roma nel 1925 per sollecitare Papa Pio XI all’apertura del processo di beatificazione. Durante la chiusura del concilio Vaticano II, il 5 di dicembre di 1965, Papa Paolo VI, beatificò padre Charbel con le seguenti parole: « Un eremita della montagna libanese è iscritto nel numero dei Venerabili… un nuovo membro di santità monastica arricchisce con il suo esempio e con la sua intercessione tutto il popolo cristiano. Egli può farci capire in un mondo affascinato per il comfort e la ricchezza, il grande valore della povertà, della penitenza e dell’ascetismo, per liberare l’anima nella sua ascensione a Dio ».
Il 9 di ottobre di 1977 durante il sinodo mondiale di vescovi, lo stesso Papa canonizzò il Beato Charbel, elevandolo agli altari con il seguente formula: « In onore della Santa ed Unica Trinità per esaltazione della fede cattolica e promozione della vita cristiana, con l’autorità del Nostro Signore Gesù Cristo e dei venerabili Apostoli Pietro e Paolo, e nostra, dopo matura riflessione e implorando l’intenso aiuto divino… decretiamo e definiamo che il Beato Charbel Makhlouf è Santo, e lo iscriviamo nel Libro dei Santi, stabilendo che sia venerato come Santo con pietosa devozione in tutta la Chiesa. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».
Innamorato dell’Eucaristia e del Santa Vergine Maria, San Charbel modello ed esempio di vita consacrata, è considerato l’ultimo dei Grandi Eremiti. I suoi miracoli sono molteplici e chi si affida alla sua intercessione, non resta deluso, ricevendo sempre il beneficio della Grazia e la guarigione del corpo e dell’anima.
« Il giusto fiorirà, come una palma, si alzerà come un cedro del Libano, piantato nella casa del Signore » (Sal 91(92)13-14).

I miracoli
In vita San Charbel non ha compiuto numerosi miracoli, anche se era un uomo di grande fede e spiritualità e molte persone si recavano nel suo eremo per chiedere preghiere e grazie.
Charbel era un monaco orientale e un eremita, seguiva la tradizione dei Padri del deserto e come tale rifiutava il contatto con la gente per stare nella solitudine e quindi si potrebbe dire che non aveva, in pratica, l’occasione di compiere miracoli.
Tuttavia vogliamo, ricordare un episodio prodigioso del quale sono stati testimoni i suoi confratelli e avvenuto prima di ritirarsi nel suo eremo.
Una sera Charbel tardò a rientrare in convento e per questo non aveva fatto in tempo a farsi consegnare l’olio per la sua lampada; il frate dispensiere per punirlo di questa mancanza, si rifiutò di fare la consegna dopo l’orario prescritto.
Il Padre Charbel rientrò nella sua cella e casualmente il dispensiere notò che nonostante l’ora tarda la finestra era illuminata. Chiamò quindi il Superiore e con questi si recò dal Santo che con la lanterna accesa stava leggendo il breviario. Il Superiore rimproverò Charbel per l’infrazione alla Regola chiedendogli: « Perché tenete la lanterna accesa a quell’ora? Non avete fatto il voto di povertà? ». Padre Charbel si prostrò in ginocchio, chiese perdono al Superiore e rispose che durante la giornata non avuto tempo di leggere l’Uffizio e che quindi lo faceva ora.
A questo punto il dispensiere disse che lui non gli aveva dato l’olio e il Superiore interrogò Charbel in proposito per sapere dove si fosse procurato il combustibile. Questi dopo molte insistenze disse che vi aveva messo un po’ d’acqua.
Il Superiore che credeva soltanto ai propri occhi prese in mano la lanterna che immediatamente si spense. L’aprì, versò il contenuto sul pavimento, e alla luce di una candela constatò che era acqua! Il Superiore rimase interdetto e uscendo dalla cella fra lo sgomento gli disse: « Pregate per me ».
Contrariamente a quanto accade di solito, la fama di santità di Charbel si manifestò pienamente dopo la sua morte. La sua salma fu sepolta nel cimitero di Anaya, dove riposa tuttora e qui è stato anche edificato un santuario in suo onore. Alcune persone dalle case vicine cominciarono e vedere una luce che usciva dal luogo di sepoltura di San Charbel. La notizia iniziò a diffondersi e con essa le prime affermazioni della santità, finché il Superiore si recò di persona nelle case vicine al cimitero dove constatò l’esistenza di questa luce misteriosa.
A questo punto i frati decisero di aprire la tomba; trovarono il corpo di Charbel leggermente coperto di muffa ma sostanzialmente integro nonostante fossero trascorsi circa quattro mesi dalla morte e dallo stesso usciva una sostanza biancastra mista a sangue che nessun medico anche in epoche successive è riuscito a spiegare e a catalogare. Tale fenomeno è presente anche ai nostri giorni.
Poiché la fama di santità di Charbel si era notevolmente diffusa e anche per timore che il corpo potesse essere trafugato, cosa frequente a quell’epoca, i monaci decisero di trasferire la salma in un luogo più sicuro e segreto anche per evitare che fosse oggetto di devozione da parte dei fedeli.
È noto che per la Chiesa simili manifestazioni di per sé sono insufficienti a stabilire la santità, perché essa si basa sulle opere che il Santo ha fatto in vita e se queste possono essere un valido esempio per le generazioni future. Vista comunque la crescente fama di Santità di padre Charbel e i numerosi miracoli che gli venivano attribuiti, nel 1926 il Patriarca Maronita presentò a Roma la documentazione necessaria per iniziare una causa di beatificazione.
I miracoli validi per la beatificazione riguardano la guarigione prodigiosa di Suor Marie-Abel Kamari della congregazione del Sacro Cuore affetta da una gravissima forma di ulcera che guarì istantaneamente il 12 luglio 1950 mentre stava pregando sulla tomba del Santo e l’altro riguarda un certo Iskandar Nalm Obeid, de Baabdate che nel 1937 aveva perso l’uso di un occhio,e ora stava perdendo anche l’altro, riacquistò la vista mentre stava pregando a Anaya sulla tomba di Charbel.
Per la santificazione fu presentata la prodigiosa guarigione di Myriam Aouad, de Mammana affetta da un incurabile cancro alla gola fu guarita nel 1967. Numerosi sono i miracoli, le grazie e i fatti prodigiosi attribuiti all’intercessione di Charbel. Nell’apposito registro conservato nel convento di Annaya sono raccolti centinaia di racconti e le migliaia di lettere provenienti da tutto il mondo che testimoniano le grazie ricevute dai fedeli e non solo cristiani ma anche musulmani.
Di tutti questi ne vogliamo ricordare soltanto uno che ci sembra particolarmente significato perché « autenticato » dalla setta musulmana dei Drusi. Un ragazza, certa Hosn Mohair era nata con una gamba di 5 o 6 centimetri più corta dell’altra, questa imperfezione la faceva zoppicare vistosamente. Un giorno si recò ad Anaya e ritornò portando a casa dell’acqua benedetta e della terra che aveva raccolto presso la tomba del Santo e con questo impasto cominciò a massaggiare la gamba difettosa. I familiari, non vedendo per diversi giorni alcun esito da questa cura cercavano di dissuaderla, ma la ragazza spinta da una fede incrollabile continuò, finché la gamba difettosa raggiunse la stessa lunghezza dell’altra; cosa che gli permise di camminare normalmente. I notabili del villaggio, drusi, che la conoscevano personalmente, rilasciarono nel 1950 delle dichiarazioni giurate attestanti il fatto prodigioso.

Le virtù
In occidente l’apostolato viene fatto principalmente attraverso l’azione e i Santi si distinguono oltre che per la loro intensa spiritualità anche per mezzo delle opere di misericordia, come curare gli infermi, educare la gioventù, alleviare i bisogni della povera gente.
Diversa è la tradizione orientale dove si raggiunge la perfezione non con le opere, ma per mezzo di un continua e costante ricerca interiore di Dio seguendo il concetto che salvando la propria anima si salva il mondo.
Il monaco in oriente non ha doveri pastorali, ma dà il suo esempio con la vocazione, la vita ascetica, le preghiere, le penitenze e con la pratica eroica della virtù. Il monaco quindi deve restare accanto al popolo cristiano, non materialmente, bensì spiritualmente per insegnare il cammino verso la perfezione per mezzo della quale si può raggiungere il Padre Celeste.
Non è quindi l’asceta che va verso il mondo, ma sono gli uomini che vanno verso di lui per riceverne consigli, esempi, migliorarsi, edificarsi, per ottenere benefici materiali e spirituali grazie ai doni divini che possiede soltanto chi è veramente consacrato a Dio. L’ eremita vive completamente distaccato dal mondo perché le passioni, i peccati e le imperfezioni degli uomini possono intralciare l’asceta nella sua assoluta ricerca di perfezione. Quindi la solitudine diventa il mezzo attraverso il quale l’asceta in fuga dal mondo trova la pace interiore e la perfetta unione con Dio.
Ma nella sua vita Charbel non si è limitato a fare tutto questo, egli ha vissuto in modo eroico i voti che aveva pronunciato fin dal primo momento della sua ordinazione.
Certamente anche lui avrà sentito il richiamo dei sensi e avrà combattuto per conservare la sua purezza. I Padri del deserto dicevano a proposito dei pensieri impuri: « se non hai pensieri di tal natura sei un uomo senza speranza; infatti se non hai pensieri di tal natura è segno che tu compi delle azioni ».
Non possiamo certamente sapere se Charbel abbia subito delle violente tentazioni, ma sappiamo che egli faceva di tutto per evitarle. Si rifiutava di parlare con le donne e fra queste erano escluse anche i membri della sua famiglia e non solo evitava perfino di incontrarle sul cammino. Le donne che vivevano intorno al convento Annaya sapevano che il Santo non gradiva la loro presenza e anche loro collaboravano cercando di non incontrarlo oppure nascondendosi al suo apparire.
Anche nella povertà di Charbel era molto rigido, egli non possedeva assolutamente nulla e niente chiedeva, non voleva nemmeno toccare il denaro e quando qualcuno gli lasciava una elemosina, chiamava un suo confratello affinché prendesse i soldi e li consegnasse al Superiore. Si racconta che un giorno il Superiore vedendolo con il saio logoro e malandato gli disse di andare dal fratello sarto per farsene cucire uno nuovo, ma Charbel rispose che quell’abito per lui andava bene mentre era praticamente inservibile, e per far indossare a Charbel un nuovo vestito il Superiore fu costretto a ordinarglielo.
L’obbedienza fu certo la virtù eroica più eclatante del Santo, egli obbediva senza discutere a qualsiasi ordine ricevuto e non solo dai suoi superiori, ma anche dai confratelli e dagli stessi operai del monastero. Tutti potevano comandare padre Charbel. Egli anche quando era un monaco anziano, e poteva non svolgere determinate mansioni, non solo non chiedeva di essere dispensato, ma sceglieva i lavori più umili e fastidiosi. Quindi padre Charbel lavava i piatti, puliva i pavimenti, aiutava gli inservienti del monastero nei lavori meno gratificanti.
Tutto questo dimostra anche l’umiltà del Santo, che nonostante fosse una persona dotta e intelligente in molte occasioni aveva rifiutato importanti incarichi che il suo Ordine gli voleva conferire, dicendo sempre che esistevano persone migliori di Lui per svolgere tali mansioni.

Il Cardinale Paolo Pietro Méouchi, Patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente scrisse a Mons. Salvatore Garofano, Rettore Magnifico della Pontificia Università Urbaniana « De Propaganda Fide » e autore della biografia del Santo redatta in lingua italiana (« Il profumo del Libano » Roma 1977), questa lettera che sintetizza mirabilmente la spiritualità e le virtù del Santo:
Nel dramma dove, attraverso la storia, il mondo si dibatte, i Santi conservano i riflessi di Colui che è nominato « La luce del mondo », Gesù Cristo.
Nell’ultima decade del IXX secolo dove il vento del razionalismo soffia spesso, sul Libano, una sentinella, il monaco Charbel Makhlouf monta la guardia sulla Santa montagna, per affermare nella semplicità del credente e con la presenza di Dio di un anima innamorata che il dramma che scuote l’umanità, nel suo pellegrinaggio terrestre, non trova la sua soluzione che nel ritorno verso le regioni profonde dell’anima dove abita la Santissima Trinità.
Sempre, nella storia della spiritualità orientale si sono opposte la gnosi dei sapienti e la fede dei semplici. Gli gnostici che cercano di mettere Dio nei limiti della ragione trovano davanti a loro delle anime che preferiscono ritrovare il Creatore sulla via del cuore e dell’esperienza, la via, senza esclusione della dotta ignoranza, che si nutre alle grandi fonti della Sacra Scrittura, dei Padri del deserto e della teologia morale. Così faceva San Charbel Makhlouf.
In una spogliazione totale del mondo e soprattutto della propria mente, questo monaco semplice e generoso, ha preferito la pienezza di Dio all’illusione delle ricchezze del mondo. Egli ha messo in pratica che l’avere non è niente e che l’essere è tutto. Dio, la semplicità stessa, non ha niente, ma è l’Assoluto. Così nella fuga dal mondo – questa è d’altronde una delle caratteristiche della spiritualità orientale – Charbel ha voluto stabilire con i suoi prediletti il dialogo della fiducia, della presenza e dell’amore. Egli si sentiva costantemente chiamato dal Cristo Salvatore a ritirarsi nella profondità, e i suoi occhi che si chiudono al mondo, si aprono a delle ricchezze insondabili e divine, che nessun occhio ha visto e nessun orecchio ha sentito. (I Cor. 2,9).
Bisogna credere allora che il nostro monaco abbia vissuto la sua gioia crocefisso da un anima tesa costantemente a convertirsi e a fare penitenza in unione con la croce vittoriosa, nell’egoismo di colui che fissato sull’Assoluto, non ha più cura dei miserabili che vivono sulla terra le loro strane avventure? Ma no! Charbel ritrova la Chiesa nel suo pellegrinaggio spirituale. Che cosa hanno valso delle mortificazioni eroiche, incomprensibili a volte, talmente esse erano eccessive, se esse non erano per riparare se non dei peccati personali come dicevano i Padri della Chiesa, ma i peccati degli altri, di cui si è solidali per l’edificazione delle stesso ed unico Corpo Mistico di Gesù Cristo?
Questo bene, queste strade della profondità che ha praticato Charbel Makhlouf nella sua esistenza, dimentico del mondo, ma che Dio doveva glorificare con dei prodigi inauditi e senza nome, giacché i valori di questa terra si sono lacerati e la fede ha lasciato il posto alla visione.

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22 LUGLIO: SANTA MARIA MADDALENA (DI MAGDALA)

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SANTA MARIA MADDALENA (DI MAGDALA)

22 LUGLIO

MAGDALA, SEC. I

La Chiesa latina era solita accomunare nella liturgia le tre distinte donne di cui parla il Vangelo e che la liturgia greca commemora separatamente: Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, la peccatrice «cui molto è stato perdonato perché molto ha amato», e Maria Maddalena o di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesù, che ella seguì e assistette con le altre donne fino alla crocifissione ed ebbe il privilegio di vedere risorto. L’identificazione delle tre donne è stata facilitata dal nome Maria comune almeno a due e dalla sentenza di San Gregorio Magno che vide indicata in tutti i passi evangelici una sola e medesima donna. I redattori del nuovo calendario, riconfermando la memoria di una sola Maria Maddalena senz’altra indicazione, come l’aggettivo « penitente », hanno inteso celebrare la santa donna cui Gesù apparve dopo la Risurrezione. È questa la Maddalena che la Chiesa oggi commemora e che, secondo un’antica tradizione greca, sarebbe andata a vivere a Efeso, dove sarebbe morta. In questa città avevano preso dimora anche Giovanni, l’apostolo prediletto, e Maria, Madre di Gesù.

Patronato: Prostitute pentite, Penitenti, Parrucchieri
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall’egiziano; signora, dall’ebraico

Emblema: Ampolla d’unguento
Martirologio Romano: Memoria di santa Maria Maddalena, che, liberata dal Signore da sette demòni, divenne sua discepola, seguendolo fino al monte Calvario, e la mattina di Pasqua meritò di vedere per prima il Salvatore risorto dai morti e portare agli altri discepoli l’annuncio della risurrezione.

Maria di Magdala, risanata dal Signore Gesù, seguendolo lo serviva con grande affetto (Lc. 8,3). Alla fine, quando i discepoli erano fuggiti, Maria Maddalena era là in piedi presso la croce del Signore con Maria, Giovanni ed alcune donne (Gv. 19,25). Il giorno di Pasqua Gesù apparve a lei e la mandò ad annunciare la sua risurrezione ai discepoli (Mc. 16,9; Gv 20,11-18).
La Chiesa latina era solita accomunare nella liturgia le tre distinte donne di cui parla il Vangelo e che la liturgia greca commemora separatamente: Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, l’innominata peccatrice « cui molto è stato perdonato perché molto ha amato », e Maria Maddalena o di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesù, che ella seguì e assistette con le altre donne fino alla crocifissione ed ebbe il privilegio di vedere risorto. L’identificazione delle tre donne è stata facilitata dal nome Maria comune almeno a due e dalla sentenza di S. Gregorio Magno che vide indicata in tutti i passi evangelici una sola e medesima donna.
I redattori del nuovo calendario, riconfermando la memoria di una sola Maria Maddalena senz’altra indicazione, come l’aggettivo « penitente », hanno inteso celebrare la santa donna cui Gesù apparve dopo la Risurrezione. Al capitolo settimo S. Luca, dopo aver descritto l’unzione della peccatrice che irrompe improvvisamente nella sala del banchetto e versa sui piedi di Gesù profumati unguenti che poi asciuga coi propri capelli, prosegue così il suo racconto: « In seguito Gesù passava di città in città, di villaggio in villaggio… e con lui andavano i dodici, ed anche alcune donne, le quali erano state guarite da spiriti maligni e da infermità: Maria, detta Maddalena, da cui erano stati cacciati sette demoni, Giovanna… e molte altre donne, le quali somministravano ad essi i loro averi ».
L’ignota peccatrice, che per la contrizione perfetta ha meritato il perdono dei peccati, è distinta dalla Maddalena, ben conosciuta, che segue costantemente il Maestro dalla Galilea alla Giudea, fino ai piedi della croce e il cui ardente amore Gesù premia nel giorno della Risurrezione. Ella è inconfondibilmente « presso la croce di Gesù », poi in veglia amorosa « seduta di fronte al sepolcro », infine, all’alba del nuovo giorno è la prima a recarsi di nuovo al sepolcro, dove ella rivede e riconosce il Cristo risorto da morte. Alla Maddalena, in lacrime per aver scorto il sepolcro vuoto e la grossa pietra ribaltata, Gesù si rivolge chiamandola semplicemente per nome: « Maria! » e a lei affida l’annuncio del grande mistero: « Va’ a dire ai miei fratelli: io salgo al Padre mio e Padre vostro, al mio Dio e vostro Dio ». E’ questa la Maddalena che la Chiesa oggi commemora e che, secondo un’antica tradizione greca, sarebbe andata a vivere a Efeso, dove sarebbe morta. In questa città avevano preso dimora anche Giovanni, l’apostolo prediletto, e Maria, Madre di Gesù.
L’Ordine dei Predicatori l’annoverò nel numero dei suoi Patroni. Frati e Suore la onorarono in ogni tempo col titolo di “Apostola degli Apostoli”, come viene celebrata nella Liturgia Bizantina, e paragonarono la missione della Maddalena, di annunciare la risurrezione, col loro ufficio apostolico.

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17 LUGLIO: SANTA MARCELLINA VERGINE, 327 – 397 – SORELLA DI SANT’AMROGIO

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17 LUGLIO: SANTA MARCELLINA VERGINE, 327 – 397 – SORELLA DI SANT’AMROGIO

Marcellina nacque a Roma (o, secondo altre fonti, a Treviri) da famiglia patrizia verso il 327 e si convertì in gioventù al cristianesimo. Fu maestra di fede per i fratelli minori, Satiro e Ambrogio, soprattutto dopo la morte della madre. Il secondo sarebbe divenuto il celebre santo vescovo di Milano. Nel giorno di Natale del 353 la donna ricevette il velo verginale da Papa Liberio in San Pietro in vaticano. Nel 374, all’elezione del fratello, si trasferì con lui e Satiro a Milano. Nella città lombarda Marcellina continuò la vita comunitaria con le compagne venute da Roma. Morì nel 397, pochi mesi dopo Ambrogio, e fu sepolta nella basilica ambrosiana. Nel 1838 il milanese monsignor Luigi Biraghi fondò l’Istituto religioso femminile delle suore di santa Marcellina, impegnate per vocazione nell’educazione culturale e morale della gioventù femminile. (Avvenire)

Etimologia: Marcellino, diminutivo di Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino

Emblema: Giglio
Martirologio Romano: A Milano, santa Marcellina, vergine, sorella del vescovo sant’Ambrogio, che ricevette a Roma nella basilica di San Pietro il velo della consacrazione da papa Liberio nel giorno dell’Epifania del Signore.

Sorella maggiore di s. Satiro e di s. Ambrogio, probabilmente nacque a Treviri circa l’anno 330 quando il padre vi si trovava come alto funzionario imperiale.
S. Ambrogio attesta che la sorella Marcellina ricevette il velo verginale dalle mani del papa Liberio nella basilica di S. Pietro in Vaticano nel Natale di un anno che sembra essere il 353: nel De virginibus dà il testo de] discorso pronunciato dal papa in quella circostanza. La santa, che aveva seguito a Milano i suoi fratelli per essere loro collaboratrice, sopravvisse a s. Ambrogio (m. 397).
Morta il 17 luglio di un anno non ben precisato (sembra però ca. il 400) fu sepolta nella cripta della basilica di S. Ambrogio, presso la tomba del fratello. Un’antica Vita la dice morta ai tempi del vescovo s. Simpliciano (397-401), il quale sarebbe l’autore dell’iscrizione sepolcrale che, tuttavia, non contiene dati biografici di particolare interesse. Nel 1812 i resti mortali di Marcellina, tolti dal sepolcro nel 1722 dall’arcivescovo card. Benedetto Erba-Odescalchi e custoditi temporaneamente in sacrestia, furono solennemente traslati nell’apposita cappella eretta in suo onore nella basilica di S. Ambrogio dalla pietà dei fedeli di Milano.
Oltre al De virginibus, scritto dietro sua richiesta e a lei dedicato, ci sono rimaste tre lettere indirizzate alla sorella dal santo sul suo conflitto con Giustina, sulla invenzione dei corpi dei ss. Gervasio e Protasio e sulla questione della sinagoga di Callinico. Nel discorso funebre per la morte del fratello Satiro, inoltre, Ambrogio accenna anche al grande dolore provato, in quella circostanza, dalla sorella Marcellina. La festa di Marcellina viene celebrata il 17 luglio. In onore della santa sorella di Ambrogio, nel 1838, mons. Luigi Biraghi, direttore spirituale del Seminario maggiore di Milano e successivamente dottore della Biblioteca Ambrosiana, cor l’aiuto di suor Marina Videmari, fondava a Cernusco sul Naviglio (Milano), l’Istituto religioso femminile delle  » Marcelline », per l’educazione culturale e morale della gioventú femminile, soprattutto di condizione distinta (con l’impegno però di educare gratuitamente anche le fanciulle povere).
Nella Certosa di Pavia si trova un dipinto di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone (notizie 1481-1510), l’ultimo buon pittore della generazione di Vincenzo Foppa, che lavorò molto e a lungo per conto dei Certosini; in esso s. Marcellina figura in piedi con s. Satiro e i ss. Gervasio e Protasio, patroni di Milano, davanti al trono vescovile su cui siede s. Ambrogio. Il dipinto si riferisce al carattere piú noto della santa, quello cioè di educatrice dei due fratelli minori Satiro e Ambrogio.
Agli Invalides di Parigi esisteva inoltre una statua in marmo della santa, scomparsa durante la Rivoluzione francese.

Autore: Antonio Rimoldi

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8 LUGLIO: SANTI AQUILA E PRISCILLA SPOSI E MARTIRI, DISCEPOLI DI SAN PAOLO

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SANTI AQUILA E PRISCILLA SPOSI E MARTIRI, DISCEPOLI DI SAN PAOLO

8 luglio

I secolo

Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo – cristiani, molto cari all’apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Ponto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla (o Prisca).L’apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi, quando chiese di essere ospitato nella loro casa a Corinto. I due lo seguirono anche in Siria, fino ad Efeso. Qui istruirono nella catechesi cristiana Apollo, l’eloquente giudeo – alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla fecero in modo di battezzarlo prima che partisse per Corinto. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono citazioni bibliche. Alcuni identificano Priscilla con la vergine e martire romana Prisca e Aquila con qualcuno della gens Acilia, collegata con le Catacombe, perciò i due sarebbero martiri per decapitazione. (Avvenire)

Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Aquila e Prisca o Priscilla, coniugi, che, collaboratori di san Paolo, accoglievano in casa loro la Chiesa e per salvare l’Apostolo rischiarono la loro stessa vita.

Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all’apostolo s. Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è due volte chiamata.
Troviamo i due santi per la prima volta a Corinto, quando Paolo vi arrivò nel suo secondo viaggio apostolico l’anno 51: essi erano venuti da poco nella capitale dell’Acaia provenienti da Roma, loro abituale dimora, in seguito al decreto dell’imperatore Claudio, che ordinava l’espulsione da Roma di tutti i giudei, fossero essi cristiani, o meno. Aquila e Priscilla erano probabilmente cristiani prima del loro incontro con Paolo a Corinto, come sembra suggerire la familiarità che subito nacque tra di loro, benché il Sinassario Costantinopolitano li dica battezzati da Paolo. L’apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi e l’utilità che ne poteva trarre per la sua difficile missione a Corinto e chiese o accettò di essere loro ospite. Esercitando essi il medesimo mestiere di Paolo (fabbricanti di tende), diedero all’apostolo agio di poter lavorare e provvedersi il necessario alla vita senza essere di peso a nessuno. Quando poco dopo si dice che Paolo, lasciata la sinagoga, « entrò nella casa d’un tale Tizio Giusto, proselita », non è necessario pensare che abbia lasciato la casa di Aquila e Priscilla; I’apostolo, abbandonata la sinagoga per il rifiuto dei giudei a convertirsi, avrebbe scelto come luogo di predicazione e di culto la casa vicina ad essa, quella del proselita Tizio Giusto, mantenendo però come dimora abituale durante l’anno e mezzo che rimase a Corinto la casa di Aquila e Priscilla. È opportuno notare a questo riguardo che non si dice fungesse da « chiesa domestica » l’abitazione dei due a Corinto, come era invece il caso di quelle che essi avevano a Roma e a Efeso. Quando s. Paolo, terminata la sua missione a Corinto, volle fare ritorno in Siria, ebbe compagni di viaggio A. e P. fino ad Efeso, dove essi rimasero. L’oggetto del loro viaggio potrà essere stato commerciale, ma l’averlo fatto coincidere con quello di Paolo indica, oltre alla loro stima ed amore per lui, che essi non erano estranei alle sue preoccupazioni apostoliche. Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell’apostolo, nell’istruire « nella via del Signore », cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l’eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina c ristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi da apostolico zelo, si presero cura di completare la sua istruzione e probabilmente di battezzarlo prima che egli partisse per Corinto. Ad Efeso offrirono la loro casa a servizio della comunità per le adunanze cultuali (ecclesia domestica) e, secondo la lezione di alcuni codd. greci, seguiti dalla Volgata latina, s. Paolo sarebbe stato loro ospite anche ad Efeso, come già lo era stato a Corinto. Scrivendo infatti da Efeso (verso il 55) la prima lettera ai Corinti, dice: « Molti saluti nel Signore vi mandano Aquila e Priscilla, con quelli che nella loro casa si adunano, dei quali sono ospite ». Ma l’elogio più caldo di Aquila e Priscilla Io fa l’apostolo scrivendo da Corinto ai Romani nell’a. 58 (intanto i due coniugi per ragione del loro commercio si erano trasferiti a Roma). Nella lunga serie di venticinque persone salutate nel c. 16 della lettera ai Romani Aquila e Priscilla sono i primi: « Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvare a me la vita, essi hanno rischiato la testa; a loro non solo io rendo grazie, ma anche tutte le Chiese dei gentili. Salutate anche la comunità che si aduna in casa loro ». In queste parole si sente l’animo grato dell’apostolo per i suoi insigni benefattori, che con grave loro pericolo gli hanno salvato la vita, in un’occasione non meglio precisata: forse ad Efeso, durante il tumulto degli argentieri capeggiati da Demetrio. Grande lode è poi per i due santi sposi che tutte le Chiese dei gentili siano loro debitrici d i gratitudine; di tre delle principali – Corinto, Efeso, Roma – si è fatto cenno nei testi sopracitati. L’ultima menzione di Aquila e Priscilla l’abbiamo nell’ultima lettera di s. Paolo che, prigioniero di Cristo per la seconda volta a Roma, scrive al suo discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, incaricandolo di salutare Priscilla e Aquila, che di nuovo si erano recati ad Efeso. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull’Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria, e credendo altresì ravvisare nel nome di Aquila qualcuno della gens Acilia collegata con le dette Catacombe, li fanno martiri, anzi, prendendo occasione dal « cervices suas supposuerunt » di Rom. 16,4. determinano il genere di martirio: la decapitazione.

SANT’EFREM IL SIRO (mf il 9 giugno): UN POETA CHE CELEBRA LA BELLEZZA DELLA MADONNA

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 SANT’EFREM IL SIRO (mf il 9 giugno):

 UN POETA CHE CELEBRA LA BELLEZZA DELLA MADONNA

Dante, Petrarca, Boccaccio, Manzoni, Testori… una lunghissima lista di poeti che hanno cantato la Madonna nei loro componimenti. Chi non ricorda le parole ispirate di Dante, nella preghiera alla Vergine che San Bernardo pronuncia nel canto XXXIII del Paradiso e che inizia con il celebre verso: “Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio”?
Sembra che nessun grande poeta nella storia della letteratura italiana abbia potuto resistere all’incanto che proviene dalla Madonna. Non ci sorprendiamo. La poesia è traduzione in parole dei frammenti della bellezza che il poeta, con la sua ispirazione, riesce a mettere insieme. La Madonna è la creatura in cui tutta la Bellezza si è raccolta.

Il primo poeta di Maria
Uno dei Padri della Chiesa, vissuti nel IV secolo, è, in ordine cronologico, il primo dei poeti mariani, quello che ha aperto la strada a tanti altri, di tutte le epoche e di tutte le lingue. Questo Padre della Chiesa si chiama Efrem. È un nome inusuale. Infatti egli è siriano, nativo di Nibisi, un’antichissima città che oggi si trova in Iraq. I cristiani della Siria e della Mesopotamia lo hanno sempre ritenuto un grande dottore e, ancora oggi, pur in mezzo alle immani difficoltà che devono affrontare, lo venerano con devozione.
I suoi componimenti, che assommano addirittura tre milioni di versi, sono ricchi di afflato mistico elevato al punto che Efrem è stato chiamato “la cetra dello Spirito Santo”. Se tutte le poesie scritte da Efrem sono dotate di bellezza, quelle in cui parla della Madonna sono veramente incantevoli perché sgorgano da un cuore teneramente filiale e così ad Efrem è stato giustamente attribuito anche il titolo di “il cantore di Maria”.
Efrem non è un teologo speculativo che scopre nuove idee. Egli, piuttosto, riferisce il contenuto tradizionale della fede, soprattutto i racconti della Bibbia, ma riveste questa materia di immagini liriche ed in questa sua capacità risiede il suo valore.

Tutto in me e tutto ovunque
Come i lettori assidui di “Maria Ausiliatrice” ricorderanno, già altri scrittori cristiani prima di Efrem, come Giustino ed Ireneo, avevano paragonato Maria ad Eva per mostrare, attraverso la contrapposizione, il ruolo esercitato dalla Madonna nella storia della salvezza. Efrem riprende lo stesso tema ma lo presenta con immagini poetiche veramente ispirate: “Guarda il mondo: due occhi ha avuto. Eva, l’occhio sinistro, quello cieco; Maria, occhio luminoso, quello destro. Per colpa dell’occhio sinistro si ottenebrò il mondo e rimase buio. Ma mediante Maria, occhio destro, s’illuminò il mondo con la luce celeste che abitò in lei e gli uomini ritrovarono l’unità”.
Quando vuole affermare la verginità di Maria, un articolo della fede alla quale la Chiesa ha sempre aderito, Efrem non propone dei ragionamenti per confutare gli avversari di questa verità, ma canta questo grande mistero rielaborando in modo poetico delle immagini tratte dalla Bibbia, come quella del roveto ardente che non si consuma: “Come il Sinai, io t’ho portato e non fui incendiata dal tuo fuoco tremendo, la tua fiamma non mi consumò”. Forse, tra i cristiani, non c’è celebrazione più dolce ed amata di quella del santo Natale. Tutti ci commuoviamo dinanzi al Presepe, anche le persone più severe e, persino, violente.
Naturalmente questo accade anche al nostro poeta siriano, Efrem, il quale, contemplando gli eventi accaduti a Betlemme, si lascia trasportare dal suo fervore religioso e poetico e mette sulla bocca della Madonna questi versi, una specie di ninna-nanna della Madre di Dio al Suo Bambino, che adora: “Maria effondeva il suo cuore con inimitabili accenti e cantava il suo canto di culla:
«Chi mai diede alla solitaria di concepire e dare alla luce colui che insieme è uno e molti, piccolo e grande, tutto in me e tutto dovunque? Il giorno in cui Gabriele entrò presso di me povera, in un istante mi ha fatto signora ed ancella. Perché io sono ancella della tua divinità, ma anche madre della tua umanità, o Signore e Figlio mio!»”.

Compartecipe della gloria
Qualche volta Efrem aggiunge dei particolari che non sono riportati nei Vangeli. Potremmo dire che si permette delle “licenze poetiche”. Una di queste è veramente felice e appare ragionevolmente vera. Si tratta della credenza secondo la quale il Signore Risorto sia apparso subito a sua Madre. Scrive Efrem: “Va’, di’ ai miei fratelli: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro».
Maria, come fu presente al primo miracolo, così ebbe le primizie della risurrezione dagli inferi”. Molti santi ed alcuni mistici hanno confermato questa opinione, molto radicata nella pietà popolare: Maria, come fu partecipe del dolore del Crocifisso, così per prima dovette gioire della gioia del Risorto. I poeti certe volte sono grandi teologi. Efrem ne è una dimostrazione.

Un prodigio la Madre Tua!
Nel far vibrare le corde del suo cuore, che sembra che non si stanchi mai di celebrare la bellezza e la grandezza di Maria, intuisce che c’è una profonda somiglianza tra la Madonna e la Chiesa. Entrambe sono accomunate da molteplici tratti. Come sempre, Efrem esprime questi concetti con la sua arte, delicata e robusta allo stesso tempo, impregnata di reminiscenze bibliche. “La Chiesa ci ha dato il pane vivo, al posto di quegli azimi che aveva dato l’Egitto. Maria ci ha dato il pane che nutre veramente, invece del pane della fatica che Eva ci aveva procurato”.
Un illustre studioso di Efrem e di tutta l’antica letteratura cristiana in lingua siriaca (una lingua molto simile a quella che parlava Gesù, l’aramaico), ha detto che per questo Padre della Chiesa la Vergine Santa è per lui una persona alla quale si sente intimamente legato e verso la quale si ritiene obbligato da un debito di immensa riconoscenza per il contributo offerto dalla Madonna alla salvezza dell’umanità. Efrem si sente attratto dalla Madonna.
Il mistero che promana dalla sua figura lo riempie di ammirazione e di stupore: “Nessuno, o Signore sa come chiamare la madre tua. Se la chiama Vergine, vi è la presenza del Figlio; se la chiama sposa, si rende conto che nessuno l’ha conosciuta. Un prodigio è la Madre tua! Il seno della madre tua ha sovvertito l’ordine delle cose. Il Creatore di tutte le cose vi entrò ricco e ne uscì mendicante. C’è un bambino nell’utero e il sigillo verginale rimase illeso. O grande portento!”. Efrem, pur esprimendosi con immacolato rispetto, si rivolge a Lei con quella confidenza da cui nasce la preghiera fiduciosa, come quella che riportiamo di seguito a conclusione della nostra presentazione del pensiero mariologico di Efrem il Siro, e che sembra anticipare di secoli, altre preghiere accorate alla Madre di Dio, composte da altri santi:
“O Maria, nostra mediatrice, in te il genere umano ripone tutta la sua gioia. Da te attende protezione. In te solo trova il suo rifugio. Ed ecco, anch’io vengo a te con tutto il mio fervore, perché non ho coraggio di avvicinarmi a tuo Figlio: pertanto imploro la tua intercessione per ottenere salvezza. O tu che sei compassionevole, o tu che sei la Madre del Dio di misericordia, abbi pietà di me”.

Roberto SPATARO

27 MAGGIO: SANT’ AGOSTINO DI CANTERBURY VESCOVO

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SANT’ AGOSTINO DI CANTERBURY VESCOVO

27 MAGGIO – MEMORIA FACOLTATIVA

m. 26 maggio 604

Abate benedettino a Roma, fu invitato da San Gregorio Magno ad evangelizzare l’Inghilterra, ricaduta nell’idolatria sotto i Sassoni. Qui fu ricevuto da Etelberto, re di Kent che aveva sposato la cattolica Berta, di origine franca. Etelberto si convertì, aiutò Agostino e gli permise di predicare in piena libertà. Nel Natale successivo al suo arrivo in Inghilterra, più di diecimila Sassoni ricevettero il battesimo. Il Papa inviò altri missionari e nominò arcivescovo e primate d’Inghilterra Agostino, che cercò di riunire la Chiesa bretone a quella sassone senza riuscirci perché troppo forte era il rancore dei bretoni contro gli invasori sassoni. Suo merito però è stato quello di aver convertito quasi tutto il regno di Kent.

Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Sant’Agostino, vescovo di Canterbury in Inghilterra, che fu mandato dal papa san Gregorio Magno insieme ad altri monaci a predicare la parola di Dio agli Angli: accolto con benevolenza da Edilberto re del Kent, imitò la vita apostolica della Chiesa delle origini, convertì il re e molti altri alla fede cristiana e istituì in questa terra numerose sedi episcopali. Morì il 26 maggio.
(26 maggio: A Canterbury in Inghilterra, deposizione di sant’Agostino, vescovo, la cui memoria si celebra domani)
  La Gran Bretagna, evangelizzata fin dai tempi apostolici (il primo missionario a sbarcarvi sarebbe stato, secondo la leggenda, Giuseppe di Arimatea), era ricaduta nell’idolatria in seguito all’invasione dei Sassoni nel quinto e nel sesto secolo. Quando il re del Kent, Etelberto, sposò la principessa cristiana Berta, figlia del re di Parigi, questa domandò che fosse eretta una chiesa e che alcuni sacerdoti cristiani vi celebrassero i santi riti. Appresa la notizia, il papa S. Gregorio Magno giudicò maturi i tempi per l’evangelizzazione dell’isola. La missione fu affidata al priore del monastero benedettino di S. Andrea sul Celio, Agostino, la cui dote precipua non doveva essere il coraggio, ma in compenso era tanto umile e docile.
Partito da Roma alla testa di quaranta monaci nel 597, fece tappa nell’isola di Lerino. Le notizie sul temperamento bellicoso dei Sassoni lo spaventarono al punto che se ne tornò a Roma a pregare il papa di mutargli programma. Per incoraggiarlo, Gregorio lo nominò abate e poco dopo, quasi ad invogliarlo al passo decisivo, appena giunto in Gallia, lo fece consacrare vescovo. Il viaggio procedette ugualmente a brevi tappe. Finalmente, con l’arrivo della primavera, presero il largo e raggiunsero l’isola britannica di Thenet, dove il re in persona, spintovi dalla buona consorte, andò ad incontrarli.
I missionari avanzavano verso il corteo regale in processione al canto delle litanie, secondo il rituale appena introdotto a Roma. Fu per tutti una felice sorpresa. Il re accompagnò i monaci fino alla residenza già fissata, a Canterbury, a mezza strada tra Londra e il mare, dove sorse la celebre abbazia che prenderà il nome di Agostino, cuore e sacrario del cristianesimo inglese. L’opera missionaria dei monaci ebbe un esito insperato, poiché lo stesso re domandò il battesimo, spingendo col suo esempio migliaia di sudditi ad abbracciare la religione cristiana.
A Roma la notizia venne accolta con gioia dal papa, che espresse la sua soddisfazione nelle lettere scritte ad Agostino e alla regina. Insieme con un gruppo di nuovi collaboratori, il santo pontefice inviò ad Agostino il pallio e la nomina ad arcivescovo primate d’Inghilterra, ma al tempo stesso lo ammoniva paternamente a non insuperbirsi per i successi ottenuti e per l’onore che l’alta carica gli conferiva. Seguendo le indicazioni del papa per la ripartizione in territori ecclesiastici, Agostino eresse altre due sedi vescovili, quella di Londra e quella di Rochester, consacrando vescovi Mellito e Giusto. Il santo missionario morì il 26 maggio del 604 e fu sepolto a Canterbury nella chiesa che porta il suo nome.

Autore: Piero Bargellini

22 MAGGIO: SANTA RITA DA CASCIA VEDOVA E RELIGIOSA

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SANTA RITA DA CASCIA VEDOVA E RELIGIOSA

22 MAGGIO – MEMORIA FACOLTATIVA

ROCCAPORENA, PRESSO CASCIA, PERUGIA, C. 1381 – CASCIA, PERUGIA, 22 MAGGIO 1447/1457

La tradizione ci racconta che, portata alla vita religiosa, fu data in sposa ad un uomo brutale e violento che, convertito da lei, venne in seguito ucciso per una vendetta. I due figli giurarono di vendicarlo e Rita, non riuscendo a dissuaderli, pregò Dio farli piuttosto morire. Quando ciò si verificò, Rita si ritirò nel locale monastero delle Agostiniane di Santa Maria Maddalena. Qui condusse una santa vita con una particolare spiritualità in cui veniva privilegiata la Passione di Cristo. Durante un’estasi ricevette una speciale stigmata sulla fronte, che le rimase fino alla morte. La sua esistenza di moglie di madre cristiana, segnata dal dolore e dalle miserie umane, è ancora oggi un esempio.

Patronato: Donne maritate infelicemente, Casi disperati
Etimologia: Rita = accorc. di Margherita

Martirologio Romano: Santa Rita, religiosa, che, sposata con un uomo violento, sopportò con pazienza i suoi maltrattamenti, riconciliandolo infine con Dio; in seguito, rimasta priva del marito e dei figli, entrò nel monastero dell’Ordine di Sant’Agostino a Cascia in Umbria, offrendo a tutti un sublime esempio di pazienza e di compunzione.
Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n’è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.
E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.
Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.
E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.
A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc.
Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 (o 1457, come viene spesso ritenuto) Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.

Autore: Antonio Borrelli

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