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MARCO 4,26-34. COMMENTO DI SAN BEDA IL VENERABILE (mf 25 maggio)

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MARCO 4,26-34. COMMENTO DI SAN BEDA IL VENERABILE (mf 25 maggio)

(non è il vangelo di oggi, ma siamo nell’anno delle letture di San Marco Evangelista)

In Marci evangelium expositio,I,4 PL 92,172-174.

L’uomo getta il chicco nel terreno, quando affida al suo cuore generose risoluzioni. Poi dorme, perché riposa già nella speranza di un’opera buona. Tuttavia, egli si alza di notte e di giorno, perché deve procedere in mezzo a circostanze felici o avverse.
Il seme germoglia e viene su senza che egli sappia come, giacché la virtù, una volta concepita, progredisce senza che sia possibile misurarne l’avanzamento.
La terra da se porta frutto, perché la grazia preveniente di Dio aiuta l’uomo a far spuntare buone opere.
La terra dapprima produce erba, poi la spiga, e infine il grano pieno nella spiga. L’erba rappresenta i teneri inizi del bene; la spiga significa che la virtù concepita nell’animo sta facendo progressi; il grano maturo vuoi dire che l’impianto della virtù è abbastanza robusto per compiere un lavoro consistente e accurato.

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Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura.
Allorché l’Onnipotente ha fatto maturare il grano, vale a dire quando dirige ognuno verso la sua perfezione, da mano alla falce, pronunziando il suo giudizio e mettendo termine alla vita mortale; poi miete per ammassare il frumento nei granai del cielo.
Quando concepiamo buoni desideri, gettiamo in terra il chicco; dando inizio al bene, siamo erba; crescendo nelle buone opere diventiamo spiga, e consolidandoci nella perfezione arriviamo ad essere la spiga turgida di chicchi.
Se dunque noti qualcuno ancora incerto nel bene, come grano in erba, non lo canzonare, perché in lui sta spuntando il frumento di Dio.Gesù dice ancora: A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso e come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra. e il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra.
Il regno di Dio rappresenta la predicazione del vangelo e la conoscenza delle Scritture, che sono la via verso la vita. Gesù parlava di questo allorché affermò ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo: Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.1( Mt 21,43 ) Il Regno è perciò davvero simile a un granellino di senapa che il seminatore getta nel suo campo.

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Solitamente si dice che il seminatore della parabola raffigura Cristo Salvatore, perché egli semina la salvezza nell’anima dei fedeli. Un’altra interpretazione vede nel seminatore l’uomo stesso che getta il chicco nel terreno del suo cuore.
La nostra anima riceve il grano della predicazione, lo semina nel cuore, lo conserva in vita e lo fa moltiplicare grazie al calore della fede.
Questo seme è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra.
La predicazione del vangelo è la più modesta di tutte le dottrine filosofiche. Essa annunzia lo scandalo della croce, e in priorità insegna la fede nella morte e nella risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, uomo e Dio.
Se paragoni questa dottrina a quella dei filosofi, ai loro sistemi, al loro volumi, allo splendore dell’eloquenza e allo sfoggio di cultura dei loro discorsi, vedrai subito come il vangelo sia il più piccolo fra tutti i semi.
Eppure tutte quelle dottrine non hanno nulla di vivo, di concreto o di essenziale, ma si esauriscono facilmente, diventando flaccide e marce come ortaggi e verdure che avvizziscono e sono gettati via.
La predicazione evangelica, al contrario, pur sembrando minuscola in apertura, spuntando contemporaneamente nell’anima del fedele e nel mondo intero, non secca come l’erba ma cresce a misura di albero.

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Il chicco di senape, seminato in terra o nel campo del Signore, non da un ortaggio ma cresce e si trasforma in albero. Il suo sviluppo supera in altezza, dimensione e longevità tutte le piante ortofruttifere.
Lalbero della predicazione evangelica si pianta, elevando gli spiriti degli ascoltatori e facendo loro desiderare le realtà suprerme. Quest’albero stende lunghi rami, perché i predicatori annunziano il vangelo nel mondo intero. Esso eccelle per durata di vita, dato che la verità che i predicatori annunziano non avrà mai fine.
Sotto la sua ombra nidificano gli uccelli del cielo, perché le anime dei fedeli sono avvezze a volare verso l’alto con il desiderio e a fissare lassù il cuore, dimentiche di quello che passa, secondo questa parola del salmista: Sotto le sue ali troverai rifug io. 2 ( Sal 90,4 )
Lo stesso la sposa del Cantico dei cantici cioè la Chiesa, composta dalle anime dei santi proclama con fierezza: Alla sua ombra., cui anelavo mi siedo e dolce e il suo frutto al mio palato. 3 ( Ct 2,3 ) Cio significa in altri termini:
Abbandonando ogni consolazione, mi sono posta sotto la protezione di Dio che desideravo vedere. E’ tale l’allegrezza di vederlo e la sua presenza è cosi dolce al mio cuore che forzatamente devo disprezzare, anzi rigettare, tutto quello che non è l’amato.

 

SAN GIOVANNI DAMASCENO SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA – 4 DICEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

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SAN GIOVANNI DAMASCENO SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA – 4 DICEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

Damasco, 650 – 749

Nacque intorno al 675 a Damasco (da cui Damasceno) in Siria. Suo padre era ministro delle finanze. Colto e brillante, divenne consigliere e amico del Califfo cioè il prefetto arabo che guidava la regione. La frequentazione del monaco siciliano Cosmo, portato schiavo a Damasco, determinò in lui il desiderio di ritirarsi a vita solitaria, in compagnia del fratello, futuro vescovo di Maiouna. Andò dunque a vivere nella «laura» di San Saba, piccolo villaggio di monaci a Gerusalemme, dove ricevette l’ordinazione sacerdotale e in virtù della sua profonda preparazione teologica, ebbe l’incarico di predicatore titolare nella basilica del Santo Sepolcro. Tra le sue opere accanto agli inni e ai trattati teologici dedicati alla Madonna, è autore del compendio di teologia «Fonte della conoscenza» e de i «Tre discorsi in favore delle sacre immagini». Teologo illuminato e coltissimo, si meritò il titolo di «San Tommaso dell’Oriente». Nel 1890 Leone XIII lo ha proclamato dottore della Chiesa. (Avvenire)

Patronato: Pittori
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall’ebraico

Martirologio Romano: San Giovanni Damasceno, sacerdote e dottore della Chiesa, che rifulse per santità e dottrina e lottò strenuamente con la parola e con gli scritti contro l’imperatore Leone l’Isaurico in difesa del culto delle sacre immagini. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò qui alla composizione di inni sacri fino alla morte. Il suo corpo fu deposto in questo giorno.

Catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì 6 maggio 2009
Cari fratelli e sorelle,
vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre – di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890.
Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria.
Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: « In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?… E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?… E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole » (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: « Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2) » (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: « Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon) » (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: « Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro » (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, « fosse rinforzata e rinnovata » dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’ »essere », ma nel « bene-essere » (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: « Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)… » E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: « Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio » (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B).
Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.

Autore: Benedetto XVI

 

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SAN COLOMBANO ABATE – 23 NOVEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

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SAN COLOMBANO ABATE

23 NOVEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

Irlanda c. 525-530 – Bobbio, Piacenza, 23 novembre 615

Colombano è uno dei rappresentanti del mondo monastico che danno origine a quella ‘peregrinatio pro Domino’, che costituì uno dei fattori dell’evangelizzazione e del rinnovamento culturale dell’Europa. Dall’Irlanda passò (c. 590) in Francia, Svizzera e Italia Settentrionale, creando e organizzando comunità ecclesiastiche e fondando vari monasteri, alcuni dei quali, per esempio Luxeuil e Bobbio, celebri per gli omonimi libri liturgici. La regola monastica che codifica la sua spiritualità è improntata a grande rigore e intende associare i monaci al sacrificio di Cristo. La sua prassi monastica ha influito sulla nuova disciplina penitenziale dell’Occidente. (Mess. Rom.)

Patronato: Motociclisti Etimologia: Colombano = dolce, delicato Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: San Colombano, abate, che di origine irlandese, fattosi pellegrino per Cristo per istruire nel Vangelo le genti della Francia, fondò insieme a molti altri monasteri quello di Luxeuil, che egli stesso governò in una stretta osservanza della regola; costretto all’esilio, attraversò le Alpi e fondò in Emilia il monastero di Bobbio, celebre per la disciplina e gli studi, dove, benemerito della Chiesa, morì in pace e il suo corpo fu deposto in questo giorno. Il santo abate Colombano è l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo «europeo», perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 e indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione «totius Europae, di tutta l’Europa», con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1). Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord- est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita. All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della «peregrinatio pro Christo», del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Anne-gray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord. A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza «tariffata» per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, «ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti cosa più grave sono disattese» (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III). Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare e imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i ed entusiasmo ai coetanei. monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni. Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle del Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi. Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: «Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo» (cfr Instr. XI). Queste parole, il santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

Autore: Papa Benedetto XVI (udienza generale 11.06.2008)

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SAN CALLISTO I PAPA 14 OTTOBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

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SAN CALLISTO I PAPA

14 OTTOBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

(Papa dal 217 al 222)

Ebbe molti avversari tra i cristiani dissidenti di Roma, e proprio da uno scritto del capo di questi cristiani separati, un antipapa, abbiamo quasi tutte le notizie sul suo conto, presentate però in modo tendenzioso. Vi si legge che, prima di diventare papa, era stato schiavo e frodatore. Fuggito in Portogallo, venne arrestato e ricondotto a Roma, dove subì una condanna ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna. Tornato a Roma in occasione di un’amnistia, venne inviato ad Anzio. Papa Zeffirino, però, lo richiamò a Roma, affidandogli la cura dei cimiteri della Chiesa. Iniziò così lo scavo del grande sepolcreto lungo la via Appia che porta il suo nome. Alla morte di Zeffirino, Callisto venne eletto papa. Ma il suo pontificato attirò le inimicizie di un’ala della comunità cristiana di Roma che lo accusò, falsamente, di eresia. Il riscatto definitivo su questa figura controversa venne dal suo martirio. Callisto, infatti, fu gettato in un pozzo di Trastevere, forse in una sommossa popolare contro i cristiani nel 222. (Avvenire)

Etimologia: Callisto = il più bello, bellissimo, dal greco

Martirologio Romano: San Callisto I, papa, martire: da diacono, dopo un lungo esilio in Sardegna, si prese cura del cimitero sulla via Appia noto sotto il suo nome, dove raccolse le vestigia dei martiri a futura venerazione dei posteri; eletto poi papa promosse la retta dottrina e riconciliò con benevolenza i lapsi, coronando infine il suo operoso episcopato con un luminoso martirio. In questo giorno si commemaora la deposizione del suo corpo nel cimitero di Calepodio a Roma sulla via Aurelia.

A Roma sono famose le Catacombe di San Callisto, lungo la via Appia. Tra i molti cimiteri sotterranei dell’Urbe, quelle di San Callisto sono le Catacombe più note e più frequentate, celebri soprattutto per la cosiddetta  » Cripta dei Papi « .
Ma tra i moltissimi Martiri e i Pontefici deposti ivi questo sepolcreto, inutilmente si cercherebbe il corpo del Santo dal quale le Catacombe lungo la via Appia hanno preso il nome, e che è segnato oggi sul Calendario universale della Chiesa, onorato come  » Martire « .
La sorte di questo Santo, Pontefice agli inizi del III secolo, è stata veramente strana. Egli ebbe, ai suoi tempi, molti avversari tra i cristiani dissidenti di Roma, e proprio da uno scritto del capo di questi cristiani separati, cioè di un Antipapa, abbiamo quasi tutte le notizie sul conto di San Callisto. Sono, naturalmente, notizie che tendono a farlo apparire riprovevole e quasi odioso.
San Callisto viene detto, per esempio,  » uomo industrioso per il male e pieno di risorse per l’errore « . Vi si legge che, prima di diventare Papa, era stato schiavo, frodatore di un padrone troppo ingenuo, finanziere improvvisato e bancarottiere più o meno fraudolento. Fuggito in Portogallo, venne arrestato e ricondotto a Roma, dove subì una condanna ai lavori forzati, nelle miniere della Sardegna. Tornato a Roma in occasione di un’amnistia, venne inviato ad Anzio perché – sempre secondo il racconto tendenzioso del suo avversario – il Papa non volle averlo d’intorno. Ma la lunga permanenza ad Anzio dovette riscattare l’antico schiavo dai suoi difetti, se mai ne ebbe, perché un altro Papa, Zeffirino, lo richiamò a Roma, affidando alla sua intraprendenza la cura dei cimiteri della Chiesa. Fu allora che Callisto iniziò lo scavo dei grande sepolcreto lungo la via Appia che doveva portare il suo nome.
Alla morte di Zeffirino, Callisto passò dalla cura dei morti a quella dei vivi, essendo eletto Papa egli stesso. E fu proprio allora, come Papa, che il reduce dalle miniere della Sardegna e dall’ » esilio  » di Anzio, si attirò le recriminazioni di certi cristiani troppo ligi alla tradizione, troppo rigidi nella morale, troppo retrivi alle novità.
Fu accusato di eresia, nella formulazione del mistero della Trinità, che invece Callisto sosteneva secondo la tradizione ortodossa, confermata poi dai concili. Venne incolpato, inoltre, di scarso zelo mentre, in tempi di rilassatezza, istituì il digiuno delle Quattro Tempora.
Gli fu rimproverato soprattutto il  » lassismo « , cioè la scarsa severità disciplinare. Accoglieva infatti nella Chiesa i peccatori pentiti e . cristiani che debolmente avevano difeso la loro fede in tempo di pericolo.
Ma qualsiasi ombra gravasse sulla vita di San Callisto, venne riscattata alla sua morte, che fu morte di Martire, nel 222. Gettato in un pozzo di Trastevere, forse in una sommossa popolare, il suo corpo venne deposto di là dal fiume, lungo la via Aurelia, lontano dalle Catacombe da lui aperte lungo la via Appia, che di San Callisto conservano il nome ma non le reliquie. 

Fonte: Archivio Parrocchia

Publié dans:Papi, Santi: memorie facoltative |on 14 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

I SANTI CONIUGI AQUILA E PRISCILLA – TESTIMONI DI TENEREZZA

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I SANTI CONIUGI AQUILA E PRISCILLA – TESTIMONI DI TENEREZZA

Fra i personaggi biblici forse poco conosciuti, troviamo proprio i Santi coniugi Aquila & Priscilla, una coppia giudeo-cristiana ferventi nello zelo per il Vangelo con le parole e con la testimonianza di vita.
Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all’apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo hanno più volte rischiato la testa (Rm 16,3).
Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è spesso chiamata, la loro storia, è una delle più moderne, attuali e stimolanti.
Peccato si sappia così poco di questi coniugi dalla vita così avventurosa, che viaggiò tra Roma, la Grecia e l’Asia minore, che visse persecuzioni, che mise a repentaglio la propria vita per salvare quella dell’Apostolo Paolo, e che svolse a sua volta un intenso apostolato.
Aquila & Priscilla, sono stati una coppia che ha dato tutto al Signore e che si è interamente consacrata alla diffusione del Vangelo, pur mantenendo attive le loro responsabilità coniugali e professionali.
Essi hanno aperto la loro casa a tutte le persone desiderose di conoscere il Signore Gesù.
Furono di esempio pratico per molti fratelli in Cristo e di grande testimonianza a molti non credenti ed attraverso loro il Signore Dio ha permesso che contribuissero (se non alla fondazione) alla crescita di tre comunità : Corinto, Efeso e Roma.
Cosa può fare il Signore con una coppia così unita spiritualmente, completamente consacrata e senza riserve ?
In che modo Aquila e Priscilla ci sono di incoraggiamento ?
E che cosa possiamo fare per seguire il loro esempio ?
Ciò che è importante è l’unione di Priscilla con suo marito Aquila in tutti gli aspetti della vita. Infatti la fede nel Signore Risorto è stato il loro punto di forza, che dopo averli salvati li ha sempre aiutati e protetti in ogni situazione, persecuzione, bisogno e nelle malattie.
Hanno praticato l’ospitalità aprendo la loro casa verso tutti credenti e non, soprattutto a coloro che annunciavano la Parola di Dio; ospitarono Paolo (At 18,3) che era solo, malato e perseguitato, e che era bisognoso di cure particolari.
L’ospitalità è un vero servizio al Vangelo, e il loro non era un semplice sentimento passeggero, ma un vero dono, esternando una vera amicizia frequentando persone moralmente sane e di sani principi, sempre mirate all’annuncio del Vangelo: Paolo, Apollo e i fratelli.
Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell’apostolo, nell’istruire « nella via del Signore », cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l’eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi dall’amore per Gesù, si presero cura di lui e con tenerezza completarono la sua istruzione e probabilmente lo battezzarono prima che egli partisse per Corinto.
Ma oltre a questi sani principi di cui erano in possesso, corre l’obbligo mettere in luce i tre punti fondamentali di questi coniugi della Chiesa nascente, punti che dovrebbero essere al centro della vita di ogni coppia cristiana, infatti : l’importanza della Parola di Dio, fu il centro di tutta la vita coniugale e familiare, il servizio alla Parola, la sua diffusione, sono stati per loro l’impegno principale.
L’importanza del servizio: Paolo stesso li chiama più volte “collaboratori” nel senso riferita alla prima lettera ai Corinzi (3,9) quindi nel senso profondo del termine, cioè di coloro che collaborano nella stessa opera come “non-lavoratori”, alle dipendenze dello stesso padrone, con ambiti e funzioni differenti, ma pur sempre preziosi, senza mai snaturare la vita coniugale e familiare;
La dedizione alla famiglia: non abbiamo notizie che Priscilla si sia mai lamentata con Aquila: prima di tutto per i continui spostamenti a causa di persecuzioni, poi per il duro lavoro (pulizia della casa, fabbricare tende, occuparsi del marito e di Paolo o dei credenti che frequentavano la loro casa). Il loro cammino di fede rese sempre più saldo il loro matrimonio!
Ancora oggi il Signore Gesù sta chiamando le famiglie, fidanzati e sposi, per iniziare un cammino di conversione permanente, per crescere nella fede e vivere pienamente il Sacramento del matrimonio, per essere annunciatori con la vita dell’Infinita Tenerezza di Dio.
Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull’Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria li fanno martiri, anzi, determinano il genere di martirio:
la decapitazione.
Un ultima considerazione da non trascurare. Abbiamo sin qui parlato di Aquila e Priscilla mettendo nell’ordine prima il marito Aquila, poi Priscilla la moglie.
Nei testi biblici considerati : (At 18,1-4; 18-20; 24-26; Rm 16,3-5; 1 Cor 16,9; 2 Tm 4,19) spesso è il nome di Priscilla che precede quello del marito, evidenziando forse come le qualità e i doni di Priscilla, fossero equivalenti a quelli di Aquila.
E’ bello pensare che in questo caso che non è vero quello che spesso si dice, cioè che dietro un “grande uomo, c’è sempre una grande donna”! In questo caso la Parola di Dio ce li presenta accanto ! Che meravigliosa benedizione per un uomo credente avere non “dietro” ma accanto una “grande donna”!

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 8 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

SAN PATRIZIO VESCOVO – 17 MARZO (m.f.)

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SAN PATRIZIO VESCOVO

17 MARZO – MEMORIA FACOLTATIVA

BRITANNIA (INGHILTERRA), 385 CA – DOWN (ULSTER), 461

«Arrivato in Irlanda, ogni giorno portavo al pascolo il bestiame, e pregavo spesso nella giornata; fu allora che l’amore e il timore di Dio invasero sempre più il mio cuore, la mia fede crebbe e il mio spirito era portato a far circa cento preghiere al giorno e quasi altrettanto durante la notte, perché allora il mio spirito era pieno di ardore». Patrizio nasce verso il 385 in Britannia da una famiglia cristiana. Verso i 16 anni viene rapito e condotto schiavo in Irlanda, dove rimane prigioniero per 6 anni durante i quali approfondisce la sua vita di fede secondo il brano della Confessione che abbiamo letto all’inizio. Fuggito dalla schiavitù, ritorna in patria. Trascorre qualche tempo con i genitori, poi si prepara per diventare diacono e prete. In questi anni raggiunge probabilmente il continente e fa delle esperienze monastiche in Francia. Ha ormai 40 anni e sente forse la nostalgia di ritornare nell’isola verde. Qui c’è bisogno di evangelizzatori e qualcuno fa il suo nome come vescovo missionario. Egli si prepara, ma la famiglia è restia a lasciarlo partire, mentre degli oppositori gli rimproverano una scarsa preparazione. Nel 432, tuttavia, egli è di nuovo sull’isola. Accompagnato da una scorta, predica, battezza, conferma, celebra l’Eucarestia, ordina presbiteri, consacra monaci e vergini. Il successo missionario è grande, ma non mancano gli assalti di nemici e predoni, e neppure le malignità dei cristiani. Patrizio scrive allora la Confessione per respingere le accuse e celebrare l’amore di Dio che l’ha protetto e guidato nei suoi viaggi così pericolosi. Muore verso il 461. È il patrono dell’Irlanda e degli irlandesi nel mondo.

Patronato: Irlanda
Etimologia: Patrizio = di nobile discendenza, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Trifoglio
Martirologio Romano: San Patrizio, vescovo: da giovane fu portato prigioniero dalla Britannia in Irlanda; recuperata poi la libertà, volle entrare tra i chierici; fatto ritorno nella stessa isola ed eletto vescovo, annunciò con impegno il Vangelo al popolo e diresse con rigore la sua Chiesa, finché presso la città di Down in Irlanda si addormentò nel Signore.

San Patrizio è il patrono e l’apostolo dell’Isola Verde e la sua opera diede tanto frutto; infatti in Irlanda la predicazione del Vangelo non ha avuto nessun martire, sebbene i nativi fossero forti guerrieri e i suoi abitanti sono da sempre fierissimi cristiani.
Patrizio nacque nella Britannia Romana nel 385 ca. da genitori cristiani appartenenti alla società romanizzata della provincia.
Il padre Calpurnio era diacono della comunità di Bannhaven Taberniae, loro città d’origine e possedeva anche un podere nei dintorni.
Il giovane Patrizio trascorse la sua fanciullezza e l’adolescenza in serenità, ricevendo un’educazione abbastanza elevata; a 16 anni villeggiando nel podere del padre, venne fatto prigioniero insieme a migliaia di vittime dai pirati irlandesi e trasferito sulle coste nordiche dell’isola, qui fu venduto come schiavo.
Il padrone gli affidò il pascolo delle pecore; la vita grama, la libertà persa, il ritrovarsi in terra straniera fra gente che parlava una lingua che non capiva, la solitudine con le bestie, resero a Patrizio lo stare in questa terra verde e bellissima, molto spiacevole, per cui tentò ben due volte la fuga ma inutilmente.
Dopo sei anni di servitù, aveva man mano conosciuto i costumi dei suoi padroni, imparandone la lingua e così si rendeva conto che gli irlandesi non erano così rozzi come era sembrato all’inizio.
Avevano un organizzazione tribale che si rivelava qualcosa di nobile e i rapporti tra le famiglie e le tribù erano densi di rispetto reciproco.
Certo non erano cristiani e adoravano ancora gli idoli, ma cosa poteva fare lui che era ancora uno schiavo; quindi era sempre più convinto che doveva fuggire e il terzo tentativo questa volta riuscì.
Si imbarcò su una nave in partenza con il permesso del capitano e dopo tre giorni di navigazione sbarcò su una costa deserta della Gallia, era la primavera del 407, l’equipaggio e lui camminarono per 28 giorni durante i quali le scorte finirono, allora gli uomini che erano pagani, spinsero Patrizio a pregare il suo Dio per tutti loro; il giovane acconsentì e dopo un poco comparve un gruppo di maiali, con cui si sfamarono.
Qui i biografi non narrano come lasciò la Gallia e raggiunse i suoi; ritornato in famiglia Patrizio sognò che gli irlandesi lo chiamavano, interpretò ciò come una vocazione all’apostolato fra quelle tribù ancora pagane e avendo ricevuto esperienze mistiche, decise di farsi chierico e di convertire gl’irlandesi.
Si recò di nuovo in Gallia (Francia) presso il santo vescovo di Auxerre Germano, per continuare gli studi, terminati i quali fu ordinato diacono; la sua aspirazione era di recarsi in Irlanda ma i suoi superiori non erano convinti delle sue qualità perché poco colto.
Nel 431 in Irlanda fu mandato il vescovo Palladio da papa Celestino I, con l’incarico di organizzare una diocesi per quanti già convertiti al cristianesimo.
Patrizio nel frattempo completati gli studi, si ritirò per un periodo nel famoso monastero di Lérins di fronte alla Provenza, per assimilare con tutta la sua volontà la vita monastica, convinto che con questo carisma poteva impiantare la Chiesa tra i popoli celti e scoti, come erano chiamati allora gli irlandesi.
Con lo stesso scopo si recò in Italia nelle isole di fronte alla Toscana, per visitare i piccoli monasteri e capire che metodo fosse usato dai monaci per convertire gli abitanti delle isole.
Non è certo che abbia incontrato il papa a Roma, comunque secondo recenti studi, Patrizio fu consacrato vescovo e nominato successore di Palladio intorno al 460, finora gli antichi testi dicevano nel 432, in tal caso Palladio primo vescovo d’Irlanda avrebbe operato un solo anno, invece è più probabile che sia arrivato nell’isola intorno al 432 e confuso dai cronisti con Patrizio, perché il cognome di Palladio o il suo secondo nome, era appunto Patrizio.
Il metodo di evangelizzazione fu adatto ed efficace, gli irlandesi (celti e scoti) erano raggruppati in un gran numero di tribù che formavano piccoli stati sovrani (tuatha), quindi occorreva il favore del re di ogni singolo territorio, per avere il permesso di predicare e la protezione nei viaggi missionari.
Per questo scopo Patrizio faceva molti doni ai personaggi della stirpe reale ed anche ai dignitari che l’accompagnavano. Il denaro era in buona parte suo, che attingeva dalla vendita dei poderi paterni che aveva ereditato, non chiedendo niente ai suoi fedeli convertiti per evitare rimproveri d’avarizia.
La conversione dei re e dei nobili a cui mirava per primo Patrizio, portava di conseguenza alla conversione dei sudditi. Introdusse in Irlanda il monachesimo che di recente era sorto in Occidente e un gran numero di giovani aderirono con entusiasmo facendo fiorire conventi di monaci e vergini.
Certo non tutto fu facile, le persone più anziane erano restie a lasciare il paganesimo e inoltre Patrizio e i suoi discepoli dovettero subire l’avversione dei druidi (casta sacerdotale pagana degli antichi popoli celtici, che praticavano i riti nelle foreste, anche con sacrifici umani), i quali lo perseguitarono tendendogli imboscate e una volta lo fecero prigioniero per 15 giorni.
Patrizio nella sua opera apostolica ed organizzativa della Chiesa, stabilì delle diocesi territoriali con vescovi dotati di piena giurisdizione, i territori diocesani in genere corrispondevano a quelli delle singole tribù.
Non essendoci città come nell’impero romano, Patrizio seguendo l’esempio di altri santi missionari dell’epoca, istituì nelle sue cattedrali Capitoli organizzati in modo monastico come centri pastorali della zona (Sinodo).
Predicò in modo itinerante per alcuni anni, sforzandosi di formare un clero locale, infatti le ordinazioni sacerdotali furono numerose e fra questi non pochi discepoli divennero vescovi.
Secondo gli “Annali d’Ulster” nel 444, Patrizio fondò la sua sede ad Armagh nella contea che oggi porta il suo nome; evangelizzò soprattutto il Nord e il Nord-Ovest dell’Irlanda, nel resto dell’Isola ebbe dal 439 l’aiuto di altri tre vescovi continentali, Secondino, Ausilio e Isernino, la cui venuta non è tanto chiaro se per aiuto a Patrizio o indipendentemente da lui e poi uniti nella collaborazione reciproca.
Benché il santo vescovo vivesse per carità di Cristo fra ‘stranieri e barbari’ da anni, in cuor suo si sentì sempre romano con il desiderio di rivedere la sua patria Britannia e quella spirituale la Gallia; ma la sua vocazione missionaria non gli permise mai di lasciare la Chiesa d’Irlanda che Dio gli aveva affidato, in quella che fu la terra della sua schiavitù.
Patrizio ebbe vita difficile con gli eretici pelagiani, che per ostacolare la sua opera ricorsero anche alla calunnia, egli per discolparsi scrisse una “Confessione” chiarendo che il suo lavoro missionario era volere di Dio e che la sua avversione al pelagianesimo scaturiva dall’assoluto valore teologico che egli attribuiva alla Grazia; dichiarandosi inoltre ‘peccatore rusticissimo’ ma convertito per grazia divina.
L’infaticabile apostolo concluse la sua vita nel 461 nell’Ulster a Down, che prenderà poi il nome di Downpatrick.
Durante il secolo VIII il santo vescovo fu riconosciuto come apostolo nazionale dell’Irlanda intera e la sua festa al 17 marzo, è ricordata per la prima volta nella ‘Vita’ di s. Geltrude di Nivelles del VII secolo.
Intorno al 650, s. Furseo portò alcune reliquie di s. Patrizio a Péronne in Francia da dove il culto si diffuse in varie regioni d’Europa; in tempi moderni il suo culto fu introdotto in America e in Australia dagli emigranti cattolici irlandesi.

Autore: Antonio Borrelli

IL BEATO GIOVANNI DA FIESOLE, 18 FEBBRAIO – “BEATO ANGELICO” – PONTIFICA COMMISSIONE BENI CULTURALI (2004)

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_20040218_beato-angelico_it.html

PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA

OMELIA DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA

Basilica di S. Marco a Firenze, 18 febbraio 2004

IL BEATO GIOVANNI DA FIESOLE – “BEATO ANGELICO” 18 FEBBRAIO

“Chi fa cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”. Vero discepolo del Santo Patriarca Domenico che o parlava con Dio o parlava di Dio. Questo è il motto che amava ripetere Fra Giovanni da Fiesole insignito dell’epiteto di “Beato Angelico” per la perfetta integrità di vita e per la bellezza quasi divina delle immagini dipinte, e in grado superlativo quelle della Beata Vergine Maria.
Queste parole non sono mie ma del Santo Padre, Giovanni Paolo II e accompagnano le Lettere apostoliche emanate di propria autorità quando concesse nel 1982 a tutto l’Ordine dei Frati Predicatori il culto liturgico con il titolo di “Beato” in onore di Fra Giovanni da Fiesole.
Onoriamo nella celebrazione liturgica di questa sera: Guido di Pietro di Dino, toscano di origine e dell’ordine domenicano, con il nome di Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto come Beato Angelico.
La Colletta di questa Santa Messa ci ha ricordato che il Beato Angelico, ispirato dalla paterna provvidenza divina, ha saputo raffigurarci la pace e la dolcezza del paradiso a cui tutti noi tendiamo, perché come dice San Paolo nella lettera ai Romani quelli che vivono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito.
“Pittore Angelico” si dirà del Beato Giovanni, l’Angelico, epiteto che gli rimarrà per sempre, formulato dal confratello Domenico da Corella.
Tale attributo del secolo XV è stato avvalorato da Giovanni Paolo II che, in sintonia con il vivissimo desiderio dei venerati predecessori Pio XII e di Paolo VI, avendo anch’egli “nutrito sempre grande simpatia per questo uomo eccellente in spiritualità e arte”, il 3 ottobre 1982 gli riconobbe il titolo, da secoli acquisito, di “Beato”. Inoltre, nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra la Minerva in Roma, il 18 febbraio 1984, lo proclamò Patrono universale dei cultori delle arti belle, particolarmente dei pittori. Era la prima volta che il Papa celebrava la Messa in onore del Beato, cui partecipavano cultori d’arte in concomitanza con il 1950º anno della redenzione.
Il vostro Patrono, carissimi fedeli, che sapete porre in evidenza il vero del bello e il bello del vero, è professore peritissimo (“pingendi arte. Peritissimus”) di grazia e bellezza umana e sovrumana: perché il Pittore Angelico con il pennello fatto penna del Dottore Angelico, insegna che “la grazia di Dio non distrugge, ma perfeziona la natura”.
Fra Giovanni, il cui nome significa “Dio fa grazia” è “maestro meraviglioso” (giudizio del fiorentino Antonio Manetti), che illustra i massimi momenti dell’azione della grazia riconciliante.
Nel Salmo 72 abbiamo pregato che il nostro bene è stare vicino a Dio, porre nel Signore Dio il nostro rifugio, per narrare tutte le sue opere. Il Beato Angelico ha mirabilmente narrato le opere del Signore attraverso le sue creazioni che muovono il nostro animo alla contemplazione dei divini misteri.
I suoi capolavori d’arte sono finalizzati ai capolavori della divina opera di salvezza.
Le Annunciazioni hanno nel registro interiore la grazia iniziale, di cui è autore il Figlio divino concepito; le Crocifissioni parlano della grazia effusa mediante il suo sangue, da dove scaturisce l’efficacia dei sacramenti; le Incoronazioni contemplano la grazia consumata o sublimata nella gloria.
In simbiosi, l’Angelico è pittore della bellezza divino-umana, seguendo lo stesso ritmo della storia della salvezza.
La preghiera sulle Offerte ci ricorderà che il Signore ha reso insigne il Beato Angelico nel commemorare la passione di Cristo, passione della quale facciamo in questa Santa Eucarestia memoria salvifica.
Nella Deposizione dalla Croce, che si ammira nel museo di San Marco, in un’atmosfera di pacata luce primaverile, Gesù viene accolto, contemplato, adorato nella sua bellezza d’amore, bellezza di sapienza.
Nell’Incoronazione della Vergine contempliamo invece la visione ultraterrena ed escatologica. Cristo “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmo 44), pieno di grazia e di soavità, depone un diadema finissimo sul capo della Madre: leggermente e delicatamente inchinata, in atteggiamento di umiltà, purezza, ubbidienza, come nel momento dell’Annunciazione. Tutta candida e tutta bella.
Con Gesù e Maria e con gli eletti che li attorniano, il pittore degli angeli apre la visione del paradiso. Beata pacis visio!
E’ dunque visione di paradiso e invito al paradiso: è la grazia consumata nella gloria che fa l’uomo santo e bello per sempre.
Pio XII nel discorso commemorativo del 50° centenario della morte di Fra Angelico, nota: “La sua opera diventa un messaggio perenne di cristianesimo vivo e, sotto un certo aspetto, altresì un messaggio altamente umano: fondato sul principio del potere trasumanante della religione, in virtù del quale ogni uomo, che viene a contatto diretto con Dio e i suoi misteri, torna ad essere simile a lui nella santità, nella bellezza, nella beatitudine… un tipo di uomo modello, non dissimile dagli angeli, in cui tutto è equilibrato, sereno e perfetto: modello di uomini e di cristiani forse rari nelle condizioni della vita terrena, ma da proporre all’imitazione del popolo”.
Oggi vogliamo proporre a noi stessi questo modello da imitare. Si possa dire di noi quanto Michelangelo ebbe a dire del Beato ammirando l’Annunciazione e l’Incoronazione in San Domenico di Fiesole: “Io credo che questo Frate vada in Cielo a considerare quei volti beati e poi li venga a dipingere qua in terra”. Contemplazione ed azione. Contemplata aliis tradere. Ecco la nostra azione missionaria; ecco perché i beni culturali della Chiesa non sono oggetti da museo, ma oggetti vivi, pregni di apostolicità.
Sembra quasi che il Beato Angelico si sia accostato alla Gerusalemme celeste e abbia contemplato “i primogeniti inscritti nei cieli”, come se avesse conversato con i Santi del cielo. Le sue pitture esprimono la profonda comunione spirituale che l’Angelico aveva con le realtà celesti. La sua pittura era testimonianza e preghiera, comunione profonda con i Santi Misteri che, anche questa sera, qui vengono celebrati.
Le sue pitture sono composizioni nella luce, non solo per tecnica, ma per principio di fede e di grazia; la fede è luce, la grazia è forza. Sono esse compagne nel nostro cammino sul quale ci è accanto l’artista.
“Religioso osservante e innamorato del divino, visse la religione trasfondendola nelle pitture, contemplando le quali la mente e il cuore sono tratti a pensieri e propositi santi. Per questo l’Angelico è un artista cristiano completo, è il modello insuperato di quell’armonia di vita e di arte che ogni artista cristiano, degno di questo nome, può proporsi” (cfr. S.E. Mons. Giovanni Fallani, in occasione della riapertura della Biblioteca d’arte “Beato Angelico”, presso il Convento di Santa Maria sopra la Minerva, 1963).

Mauro Piacenza
Presidente
Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa

Publié dans:Santi: memorie facoltative |on 18 février, 2015 |Pas de commentaires »

14 OTTOBRE: CALLISTO I PAPA

http://www.ecodelnulla.it/callisto-i-papa

14 OTTOBRE: CALLISTO I PAPA

Banchieri di Dio

di Emanuele Giusti,

Nella Vita del Sommo Pontefice San Callisto I Papa, don Giovanni Bosco ci parla di un uomo specchiato. Prodigo di miracoli, Callisto I dispensa guarigioni e converte frotte di pagani. Con la sagacia del nibbio si districa in un tempo ancora incerto per i cristiani, il regno dell’imperatore Alessandro, ultimo della dinastia dei Severi; ma si posa con la grazia della colomba sui personaggi in cui s’imbatte, riuscendo a seminare nei loro cuori i virgulti del Vangelo. Intorno al 222 la sua opera di proselitismo si fa troppo prorompente e passa il segno: ad un cenno dell’imperatore, Callisto viene incarcerato e martirizzato. Il suo corpo è gettato in un pozzo mentre la sua anima ascende al Regno dei Cieli. I suoi successori e i fedeli seguaci di Cristo, illuminati dal suo santo esempio di difensore dell’ortodossia e campione della fede, lo ricorderanno soprattutto per le maestose catacombe che da lui prendono il nome. Questo, almeno, è ciò che Don Bosco ci fa sapere.
Ma non fu Severo Alessandro a decretare il martirio di Callisto, dato che egli era salito al trono, tredicenne, solo in quell’anno. I suoi tutori erano occupati in ben altre beghe che non nel sedare un pontefice iperattivo e troppe erano state le assurdità del predecessore, l’incredibile Eliogabalo, per cominciare il nuovo regno massacrando cristiani. Probabilmente Callisto trovò la morte durante una sollevazione popolare. Don Bosco sbagliò per l’inevitabile pressappochismo storico di chi studiava su martirologi e storie ecclesiastiche, o volle glissare su dati che non hanno senso – quando non fanno danno – nell’economia di un’agiografia. In particolare non si servì, o non poté servirsi, di documenti che rendono in tinte ben diverse la figura di Callisto I. Sono le parole di un antipapa, Ippolito di Roma, che a Callisto si oppose con cieca e lunga determinazione.
Il cristianesimo era una religione giovane, priva di capi ma ricca di teste. La fragilità della Chiesa d’allora lasciava che chiunque avesse un minimo d’idee, d’eloquenza e d’autorità potesse dire la sua sulla natura del Cristo, di cui non era neppure chiaro da che parte venisse, se dall’indice di Dio o dal ventre di Maria (né se da qualche parte effettivamente venisse). Questa singolare libertà d’espressione generava una quantità innominabile di sette più o meno eterodosse il cui spettacolo, ai nostri occhi profani, è spesso motivo di confusione. La gerarchia di un’istituzione non ancora riconosciuta dalla legge non aveva speranze di emendare se stessa in modo efficace e tantomeno il vescovo di Roma aveva modo di dare concreto seguito al suo giudizio, quando condannava chicchessia per le sue idee in materia di fede. Alle scomuniche si rispondeva facilmente con gli scismi e le eresie fioccavano. È proprio nel seno di questo continuo e mutevole dibattito teologico e politico che s’inserisce la rancorosa descrizione che Ippolito ci fa di Callisto papa e uomo. Della sua opera in greco Refutatio omnium haeresium, meglio conosciuta come Philosophumena, il brillante Ippolito dedica un ampio capitolo del libro IX ad una filippica contro Callisto. Seguendo lo spirito dell’opera, attenta e capillare inquisizione di ogni eresia e superstizione presente e passata, Ippolito si scaglia contro dottrina teologica e politica penitenziale di questo papa indegno: oltre ad avallare e condividere l’eresia di Noeto (il cosiddetto monarchianismo modale) e tutti i suoi derivati, questo Callisto è lassista contro adulterio e fornicazione, favorevole al matrimonio del clero, nonché doppio, subdolo e manipolatore. Per rincarare la dose, dice Ippolito, quel papa Zefirino che lo designò suo successore era un asino ignorante, un avido imbecille. Ma per completare il quadro completamente negativo di un uomo che avversò fino allo scisma e che continuò ad odiare anche da morto, Ippolito riesuma da sotto la dignità papale la gioventù di Callisto. Il candido ritratto dipinto da Don Bosco, già qui sfregiato dalla dura critica dottrinale di Ippolito, trova adesso la sua ferita maggiore.
Al volgere del secondo secolo della nostra era, quando il figlio degenere di Marco Aurelio, Commodo, dava scandalo all’impero combattendo nell’arena, Callisto era uno degli schiavi di Carpoforo, famiglio dell’imperatore e seguace di Cristo. Secondo una consuetudine ben radicata negli usi del tempo, il ricco Carpoforo aveva concesso al suo schiavo una grossa somma di denaro da investire. Con questo cospicuo peculium Callisto avviò una banca di deposito e prestito, nel rione della Piscina Pubblica, sotto l’Aventino; volle dedicare i suoi servizi alle vedove e agli orfani e, naturalmente, a tutti i confratelli cristiani. I clienti accorrevano a versare il loro denaro nelle sue mani, rassicurati dal vigile Carpoforo, il cui nome era una garanzia. Ma ben presto, non è ben chiaro come, Callisto dilapidò il patrimonio ricevuto e perse anche il denaro dei depositi. Quando subodorò che qualcuno aveva spifferato a Carpoforo quanto male gli andassero gli affari, spaventato dall’ira del padrone che in lui aveva riposto fiducia e fama, Callisto si fece uccel di bosco. Fuggì fino a Porto, presso Ostia, e s’imbarcò sulla prima nave in partenza: sarebbe andato dovunque fosse diretta, pur di sfuggire alle grinfie dei creditori e del padrone. Ma Carpoforo, messo in guardia da quanto sapeva, gli aveva dato la caccia, indovinandone la meta. L’imbarcazione scelta dallo schiavo come estremo rifugio era ancorata in mezzo alla rada, e il suo nocchiere manovrava senza fretta; Callisto distinse chiaramente Carpoforo che si sbracciava sul molo e, sentendosi braccato, decise per il suicidio. Si diede al mare senza pensarci due volte, ma i marinai, messi in allarme da Carpoforo, si calarono in acqua e arpionarono il tentato suicida, così restituito al padrone. Questi lo spedì alle macine, ma ben presto si lasciò convincere a rilasciare Callisto. I creditori, convinti che lo schiavo avesse ancora i loro soldi, avevano interceduto per lui; ma sarebbero rimasti con un palmo di naso, perché Callisto era completamente al verde.
Ben sapendo di essere spacciato, il futuro papa cercò di nuovo la morte, stavolta con un’azione a dir poco spettacolare. Aspettò il sabato successivo, entrò in una sinagoga e cominciò a insultare pesantemente gli ebrei, disturbando le sacrosante letture talmudiche. I giudei lo fecero nero come un fico di Cartagine e lo trascinarono davanti al prefetto urbano, Fusciano. Quell’odioso Callisto, dicevano gli ebrei, aveva violato il loro diritto di culto, interrompendo i loro riti, perché cristiano. Carpoforo, di nuovo messo sul chi vive dai rapidi rumores dell’Urbe, si era precipitato ai ginocchi di Fusciano, implorandolo di non ascoltare i perfidi giudei. Callisto non era un cristiano, ma semplicemente un bancarottaro fraudolento, che cercava di non pagare i suoi debiti nella maniera più infida, morendo. Convinto più dalla rabbia degli ebrei che dalle ambigue parole di Carpoforo, che forse faceva i suoi interessi di padrone, Fusciano spedì Callisto nelle miniere di Sardegna, ad metalla. Con la condanna, Carpoforo aveva perso ogni diritto su di lui. Prigioniero dei lavori forzati, ora Callisto era un uomo libero. Ma la Sardegna non l’avrebbe visto a lungo. Presto il presbitero Giacinto avrebbe condotto là una spedizione salvifica per conto dell’amante di Commodo, la cristiana e dissoluta Marcia. La donna aveva chiesto al pontefice di allora, Vittore, di redigere una lista di cristiani da prelevare e restituire alla libertà; approfittando dell’eccezionale evento, Callisto riuscì a farsi passare per cristiano, o quantomeno a convincere Giacinto a salvarlo, nonostante Vittore avesse consapevolmente escluso il suo nome dalla lista. Vittore non fu contento dell’astuzia sfacciata di Callisto ma, uomo compassionevole, decise di dargli una pensione e di collocarlo ad Anzio. Morto Vittore, il suo successore, Zefirino – l’imbecille – richiamò Callisto e gli assegnò la gestione di quel che nell’opinione dell’uomo che lo riscoprì, Giovan Battista de Rossi, era il principale e più famoso cimitero della comunità paleocristiana di Roma, le catacombe presso la porta Appia – dette appunto di San Callisto. Il malandrino avrebbe poi scalato la gerarchia della Chiesa, certo facendo uso delle sue arti melliflue, fino al soglio pontificio. Questa è l’avvelenata versione dell’antipapa Ippolito.
Dal dibattito che sorse alla metà del XIX secolo sulla paternità del Philosophoumena emerse, nel 1853, la vincente opinione di Ignaz von Dollinger, eminente teologo e storico tedesco, che l’attribuiva appunto ad Ippolito, anche contro il parere del de Rossi, che lo voleva di Tertulliano, e di chi ne aveva curato la prima edizione critica, uscita dalle stampe di Oxford nel 1851. Il lavorio sul testo di Ippolito, inizialmente attribuito ad Origene, permise di discernere la realtà dei fatti, dietro il velo di astio steso dall’antipapa. Con ogni probabilità, Callisto non aveva perso il denaro per sua colpa, non tentò di suicidarsi né con l’acqua né con gli ebrei (da cui anzi forse doveva riscuotere dei debiti), non si finse mai cristiano ma sempre lo fu sinceramente e non poté non avere doti significative se, tra i molti altri dotti seguaci, Zefirino lo scelse come suo successore. Inoltre, aldilà dello scontro dottrinario, è possibile che i dissapori tra Callisto e Ippolito nascessero principalmente dal fatto che essi erano i capi romani di due comunità cristiane differenti per lingua, Callisto di quella latina e Ippolito di quella greca.
Ippolito non era in difetto di testi che predicassero contro l’usura. Senza azzardare un contatto decisivo con Aristotele, che la stigmatizza nell’Etica Nicomachea, già il Vangelo secondo Luca si esprime negativamente su di essa; colpisce e fa riflettere sulla mutabilità, nel tempo, della percezione morale delle attività umane da parte dell’uomo stesso – di quanto il giusto sia una categoria costruita culturalmente – il fatto che agli occhi di Ippolito, Callisto era un uomo malvagio perché falso, ipocrita, intrigante, dissimulatore ed eretico, perché l’accusava a sua volta di eresia, perché aveva il cuore riempito di veleno. Perché aveva perso tutto il denaro suo ed altrui, perché aveva tentato il suicidio per futili motivi e perché si era salvato con l’inganno. Ma non perché era stato banchiere, quando un banchiere era sempre anche un usuraio.

 

Publié dans:Papi, Santi, Santi: memorie facoltative |on 13 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

24 LUGLIO : SAN CHARBEL (GIUSEPPE) MAKHLUF SACERDOTE, EREMITA

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SAN CHARBEL (GIUSEPPE) MAKHLUF SACERDOTE, EREMITA

24 LUGLIO – MEMORIA FACOLTATIVA

1828 – 24 dicembre 1898

Martirologio Romano: San Charbel (Giuseppe) Makhluf, sacerdote dell’Ordine Libanese Maronita, che, alla ricerca di una vita di austera solitudine e di una più alta perfezione, si ritirò dal cenobio di Annaya in Libano in un eremo, dove servì Dio giorno e notte in somma sobrietà di vita con digiuni e preghiere, giungendo il 24 dicembre a riposare nel Signore.
(24 dicembre: Ad Annaya in Libano, anniversario della morte di san Charbel (Giuseppe) Makhluf, la cui memoria si celebra il 24 luglio).
Giuseppe Makhluf, nacque nel villaggio di Biqa ’Kafra il più alto del Libano nell’anno 1828. Rimasto orfano del padre a tre anni, passò sotto la tutela dello zio paterno. A 14 anni già si ritirava in una grotta appena fuori del paese a pregare per ore (oggi è chiamata “la grotta del santo”).
Egli pur sentendo di essere chiamato alla vita monastica, non poté farlo prima dei 23 anni, visto l’opposizione dello zio, quindi nel 1851 entrò come novizio nel monastero di ‘Annaya dell’Ordine Maronita Libanese. Cambiò il nome di battesimo Giuseppe in quello di Sarbel che è il nome di un martire antiocheno dell’epoca di Traiano.
Trascorso il primo anno di noviziato fu trasferito da ‘Annaya al monastero di Maifuq per il secondo anno di studi. Emessi i voti solenni il 1° novembre 1853 fu mandato al Collegio di Kfifan dove insegnava anche Ni’matallah Kassab la cui Causa di beatificazione è in corso.
Nel 1859 fu ordinato sacerdote e rimandato nel monastero da ‘Annaya dove stette per quindici anni; dietro sua richiesta ottenne di farsi eremita nel vicino eremo di ‘Annaya, situato a 1400 m. sul livello del mare, dove si sottopose alle più dure mortificazioni.
Mentre celebrava la s. Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino e recitando la bellissima preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché il 24 dicembre lasciò questo mondo.
A partire da alcuni mesi dopo la morte si verificarono fenomeni straordinari sulla sua tomba, questa fu aperta e il corpo fu trovato intatto e morbido, rimesso in un’altra cassa fu collocato in una cappella appositamente preparata, e dato che il suo corpo emetteva del sudore rossastro, le vesti venivano cambiate due volte la settimana. Nel 1927, essendo iniziato il processo di beatificazione, la bara fu di nuovo sotterrata. Nel 1950 a febbraio, monaci e fedeli videro che dal muro del sepolcro stillava un liquido viscido, e supponendo un’infiltrazione d’acqua, davanti a tutta la Comunità monastica fu riaperto il sepolcro; la bara era intatta, il corpo era ancora morbido e conservava la temperatura dei corpi viventi. Il superiore con un amitto asciugò il sudore rossastro dal viso del beato Sarbel e il volto rimase impresso sul panno.
Sempre nel 1950 ad aprile le superiori autorità religiose con una apposita commissione di tre noti medici riaprirono la cassa e stabilirono che il liquido emanato dal corpo era lo stesso di quello analizzato nel 1899 e nel 1927. Fuori la folla implorava con preghiere la guarigione di infermi lì portati da parenti e fedeli ed infatti molte guarigioni istantanee ebbero luogo in quell’occasione. Si sentiva da più parti gridare Miracolo! Miracolo! Fra la folla vi era chi chiedeva la grazia anche non essendo cristiano o non cattolico.
Il papa Paolo VI il 5 dicembre 1965 lo beatificò davanti a tutti i Padri Conciliari durante il Concilio Ecumenico Vaticano II, per canonizzarlo infine il 9 ottobre 1977.

PREGHIERA
O grande taumaturgo San Charbel, che hai trascorso la vita in solitudine in un eremo umile e nascosto, rinunciando al mondo e ai suoi vani piaceri, e ora regni nella gloria dei Santi, nello splendore della Santissima Trinità, intercedi per noi.
Illuminaci mente e cuore, aumenta la nostra fede e fortifica la nostra volontà. Accresci il nostro amore verso Dio e verso il prossimo. Aiutaci a fare il bene e ad evitare il male. Difendici dai nemici visibili e invisibili e soccorrici per tutta la nostra vita.
Tu che compi prodigi per chi ti invoca e ottieni la guarigione di innumerevoli mali e la soluzione di problemi senza umana speranza, guardaci con pietà e, se è conforme al divino volere e al nostro maggior bene, ottienici da Dio la grazia che imploriamo….., ma soprattutto aiutaci ad imitare la tua vita santa e virtuosa. Amen.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 24 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

SAN DEMETRIO DI TESSALONICA MARTIRE – 9 APRILE

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SAN DEMETRIO DI TESSALONICA MARTIRE

9 APRILE

Martirologio Romano: Presso Srijem in Pannonia, nell’odierna Croazia, san Demetrio, martire, che ovunque in Oriente, e in particolar modo a Salonicco, gode di pia venerazione.

“A Sirmio in Pannonia, ricordo di San Demetrio, martire”: così il nuovo Martyrologium Romanum ricorda al 9 aprile uno dei santi più venerati ma al contempo più controversi dell’Oriente cristiano. Quanto al culto tributatogli San Demetrio è innegabilmente secondo solo a San Giorgio, ma inesistenti sono invece purtroppo notizie storiche al suo riguardo. Molteplici sono sia i luoghi che le date in cui egli è ricordato. Le Chiese Ortodosse gli hanno conferito l’appellativo di “Megalomartire” e lo commemorano prevalentemente al 26 ottobre.
La nuova versione del martirologio cattolico non si sbilancia però verso nessuna delle leggende popolari nate nel corso dei secoli ed addirittura non cita la città di Tessalonica, assai legata al culto del santo. Sirmio, odierna Sremska Mitrovica nella Vojvodina serba, fu dunque assai probabilmente il luogo del martirio di Demetrio, forse diacono locale, prima del V secolo. Il culto del santo si diffuse oltre i confini della città forse quando Leonzio, prefetto dell’Illirico, trasferì la sede dell’autorità civile a Tessalonica, attuale Salonicco nella provincia greca della Macedonia. Pare che proprio lui fece edificare due grandi chiese in onore del santo nelle due città suddette. E’ fuori dubbio che Demetrio sia stato venerato a Sirmio prima ancora che la chiesa tessalonicese fosse costruita. Ma dopo la distruzione di Sirmio operata dagli unni nel 441, fu proprio Tessalonica a diventare il nuovo centro assoluto del culto del martire, divenendo fonte di attrazione per numerosi pellegrini. Si dice che le sue reliquie avrebbero potuto essere state qui trasferite verso il 418, ma non sussistono prove archeologicamente attendibili dell’esistenza di un reliquiario.
Nel corso dei secoli nacque una “passio” relativa alla presunta storia del martire, che lo volle cittadino di Tessalonica, arrestato per la sua attività di predicazione del Vangelo e giustiziato presso le terme locali senza lo svolgimento di alcun processo. La chiesa, edificata sulle terme, ne incorpora una parte come una cripta, e si narra che nel Medio Evo le reliquie del santo trasudassero un olio profumato e miracoloso.
Il più antico documento scritto ancora in nostro possesso risale solo al IX secolo ed attribuisce all’imperatore Massimiano l’ordine di procedere all’esecuzione. Racconti successivi, non meno leggendari, definirono Dimetri proconsole o guerriero, rendendolo in tal modo popolare tra i crociati che contribuirono ad espanderne il culto. Storicamente si può però solamente limitare ad affermare, come per San Giorgio, l’esistenza di un martire cristiano di nome Demetrio e nulla di più. Il giorno della sua festa è particolarmente solennizzato dalle Chiese orientali il 26 ottobre ed il suo nome è citato nella liturgia bizantina. L’originaria basilica macedone, distrutta da un incendio nel 1917 era adornata da preziosi mosaici risalenti al primo millennio, nei quali Demetrio era raffigurato in abiti diaconali, anche se tradizionalmente fu sempre raffigurato come soldato.
Quanto alla data della sua memoria, se i sinassari bizantini la menzionano 26 ottobre, il Martirologio Romano ha conservato la data del Martirologio Siriaco, cioè il 9 aprile, benchè la fonte sia un testo corrotto: « Romae natalis sanctorum Demetrii, Concessi. Hilarii et sociorum ». Una seconda volta la medesima fonte commemora all’8 ottobre, data di cui però non si comprende bene l’origine. La stessa fonte commemora, ma a Tessalonica, il martirio di Demetrio. Il Calendario Palestino-georgiano del Sinaiticus 34, infine, commemora Demetrio insieme con un altro martire, Foca, il 25 ottobre e da solo il giorno seguente.

Autore: Fabio Arduino

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