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LA NATIVITÀ SECONDO LUCA E MATTEO

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LA NATIVITÀ SECONDO LUCA E MATTEO

Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium ovvero recinto chiuso, mangiatoia. Si narra infatti della umile nascita di Gesù, come riporta Luca, « in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo » (Ev., 2,7); dell’annunzio dato ai pastori; dei magi venuti da oriente seguendo la stella per adorare il Bambino che i prodigi del cielo annunciano già re. Questo avvenimento così familiare e umano se da un lato colpisce la fantasia dei paleocristiani rendendo loro meno oscuro il mistero di un Dio che si fa uomo, dall’altro li sollecita a rimarcare gli aspetti trascendenti quali la divinità del bambino  e  verginità di Maria. Così si spiegano le effigi parietali del III secolo nel cimitero di S. Agnese e nelle catacombe di Pietro e Marcellino e di Domitilla in Roma che ci mostrano la Natività e l’adorazione dei Magi, ai quali il vangelo apocrifo armeno assegna i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma soprattutto si caricano di significati allegorici i personaggi dei quali si va arricchendo l’originale iconografia. Il bue e l’asino, aggiunti da Origene, interprete delle profezie di Abacuc e Isaia, divengono simboli del popolo ebreo e dei pagani. I Magi il cui numero di tre fu stabilito  da S. Leone Magno, consente  una duplice interpretazione quali rappresentanti delle tre età dell’uomo: gioventù, maturità e vecchiaia quali rappresentanti  delle tre razze in cui si divide l’umanità: la semita, la giapetica e la camita secondo il racconto biblico. Gli angeli, esempi di creature superiori. I pastori come l’umanità da redimere. Maria e Giuseppe rappresentati a partire dal XIII secolo, in atteggiamento di adorazione proprio per sottolineare la regalità dell’infante. Anche i doni dei Magi sono interpretati con riferimento alla duplice natura di Gesù e alla sua regalità: l’incenso, per la sua Divinità, la mirra, per il suo essere uomo, l’oro perché dono riservato ai re. A partire dal IV secolo la Natività diviene uno dei temi dominanti dell’arte religiosa e in questa produzione spiccano per valore artistico: la natività e l’adorazione dei magi del dittico a cinque parti in avorio e pietre preziose del V secolo che si ammira nel Duomo di Milano, i mosaici della Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di S. Maria a Venezia, a Roma quelli delle Basiliche di S. Maria in Trastevere e della Basilica di Santa Maria Maggiore, dove già nel 600 esisteva una riproduzione della grotta di Betlemme: «Sancta Maria ad Praesepem». Molti cristiani si recavano a visitarla con la stessa devozione con la quale i pellegrini confluivano a Betlemme, in Giudea, alla grotta considerata luogo di nascita di Gesù e dove per desiderio di Sant’Elena (madre dell’imperatore Costantino) sorse, nel 326, la Basilica della Natività. In queste opere dove si fa evidente l’influsso orientale, l’ambiente descritto è la grotta, che in quei tempi si utilizzava per il ricovero degli animali, con gli angeli annuncianti mentre Maria e Giuseppe sono raffigurati in atteggiamento ieratico simili a divinità o, in antitesi, come soggetti secondari quasi estranei all’evento rappresentato. Dal secolo XIV la Natività è affidata all’estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche, argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell’intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Zurbaran, Murillo, Correggio, Rubens e tanti altri.

Vangelo di Luca – capitolo 2 – vers 1-20 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirino. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea e alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perchè non c’era posto per loro nell’albergo. C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: ” Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angela una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: ”Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: ”andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”: Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte quelle cose meditandole nel suo cuore.

I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avano udito e visto, com’era stato detto loro.

SAN LUCA: A SCUOLA DI PREGHIERA DALLA MADONNA

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SAN LUCA: A SCUOLA DI PREGHIERA DALLA MADONNA

Benedetto XVI ha iniziato un nuovo ciclo della sua «scuola della preghiera», dedicato alla preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. San Luca, fa notare il Papa, tra l’Ascensione e la Pentecoste «menziona per l’ultima volta Maria, la Madre di Gesù, e i suoi familiari…

          All’udienza generale del 14 marzo Benedetto XVI ha iniziato un nuovo ciclo della sua «scuola della preghiera», dedicato alla preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. Cominciando dal grande testo di San Luca, «il primo libro sulla storia della Chiesa, cioè gli Atti degli Apostoli», il Papa ha osservato che qui il cammino della Chiesa nascente «è ritmato anzitutto dall’azione dello Spirito Santo, che trasforma gli Apostoli in testimoni del Risorto sino all’effusione del sangue, e dalla rapida diffusione della Parola di Dio verso Oriente e Occidente». Ma, prima di tutto questo, il libro ci presenta l’episodio dell’Ascensione di Gesù (cfr At 1,6-9).
          San Luca, fa notare il Papa, tra l’Ascensione e la Pentecoste «menziona per l’ultima volta Maria, la Madre di Gesù, e i suoi familiari (v. 14)». San Luca è l’evangelista mariano per eccellenza. «A Maria ha dedicato gli inizi del suo Vangelo, dall’annuncio dell’Angelo alla nascita e all’infanzia del Figlio di Dio fattosi uomo. Con Maria inizia la vita terrena di Gesù e con Maria iniziano anche i primi passi della Chiesa; in entrambi i momenti il clima è quello dell’ascolto di Dio, del raccoglimento». Anche noi oggi siamo chiamati a riflettere «su questa presenza orante della Vergine nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente. Maria ha seguito con discrezione tutto il cammino di suo Figlio durante la vita pubblica fino ai piedi della croce, e ora continua a seguire, con una preghiera silenziosa, il cammino della Chiesa».
          Di Maria San Luca vuole mettere in luce la piena disponibilità a orientare tutta la sua vita secondo la parola di Dio. E non solo Maria accetta la volontà di Dio, ma del conformarsi a questa volontà costantemente fa occasione di lode e di gioia. «In visita alla parente Elisabetta, Ella prorompe in una preghiera di lode e di gioia, di celebrazione della grazia divina, che ha colmato il suo cuore e la sua vita, rendendola Madre del Signore (cfr Lc 1,46-55)». E ancora «nell cantico del Magnificat, Maria non guarda solo a ciò che Dio ha operato in Lei, ma anche a ciò che ha compiuto e compie continuamente nella storia». Il Pontefice cita Sant’Ambrogio (339 o 340-397), che scrive: «Sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio».
          E San Luca continua a parlare della Madonna negli Atti degli Apostoli. Anche  «nel Cenacolo, Maria è presente, prima che si spalanchino le porte ed essi inizino ad annunciare Cristo Signore a tutti i popoli, insegnando ad osservare tutto ciò che Egli aveva comandato (cfr Mt 28,19-20)». Qui la Madonna è come alla conclusione di una vita fatta tutta di preghiera. «Le tappe del cammino di Maria, dalla casa di Nazaret a quella di Gerusalemme, attraverso la Croce dove il Figlio le affida l’apostolo Giovanni, sono segnate dalla capacità di mantenere un perseverante clima di raccoglimento, per meditare ogni avvenimento nel silenzio del suo cuore, davanti a Dio (cfr Lc 2,19-51) e nella meditazione davanti a Dio anche comprenderne la volontà di Dio e divenire capaci di accettarla interiormente». La presenza della Madre di Dio nel Cenacolo, dopo l’Ascensione, «non è allora una semplice annotazione storica di una cosa del passato, ma assume un significato di grande valore, perché con loro Ella condivide ciò che vi è di più prezioso: la memoria viva di Gesù, nella preghiera; condivide questa missione di Gesù: conservare la memoria di Gesù e così conservare la sua presenza».
          Infine, «l’ultimo accenno a Maria nei due scritti di san Luca è collocato nel giorno di sabato: il giorno del riposo di Dio dopo la Creazione, il giorno del silenzio dopo la Morte di Gesù e dell’attesa della sua Risurrezione. Ed è su questo episodio che si radica la tradizione di Santa Maria in Sabato». Tra l’Ascensione e la Pentecoste «gli Apostoli e la Chiesa si radunano con Maria per attendere con Lei il dono dello Spirito Santo, senza il quale non si può diventare testimoni. Lei che l’ha già ricevuto per generare il Verbo incarnato, condivide con tutta la Chiesa l’attesa dello stesso dono, perché nel cuore di ogni credente « sia formato Cristo » (cfr Gal 4,19)». Il Pontefice osserva che «se non c’è Chiesa senza Pentecoste, non c’è neanche Pentecoste senza la Madre di Gesù, perché Lei ha vissuto in modo unico ciò che la Chiesa sperimenta ogni giorno sotto l’azione dello Spirito Santo». Benedetto XVI lo spiega con un brano di San Cromazio di Aquileia (tra il 335 e il 340 – 407 o 408): «Si radunò dunque la Chiesa nella stanza al piano superiore insieme a Maria, la Madre di Gesù, e insieme ai suoi fratelli. Non si può dunque parlare di Chiesa se non è presente Maria, Madre del Signore… La Chiesa di Cristo è là dove viene predicata l’Incarnazione di Cristo dalla Vergine, e, dove predicano gli apostoli, che sono fratelli del Signore, là si ascolta il Vangelo».
          Da questo antico brano patristico il Papa passa poi a citare il Concilio Ecumenico Vaticano II, il quale  nella Costituzione dogmatica «Lumen gentium» afferma: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste « perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli » (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che all’Annunciazione l’aveva presa sotto la sua ombra» (n. 59). Il  luogo primo dove noi fedeli incontriamo Maria, prosegue il documento conciliare, è la Chiesa, dove è «riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro…, figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità» (n. 53).
          Dopo avere presentato in diverse udienze la preghiera di Gesù, il Papa in questa «scuola della preghiera» ci indica dunque come modello la preghiera della Madonna. «Spesso la preghiera è dettata da situazioni di difficoltà, da problemi personali che portano a rivolgersi al Signore per avere luce, conforto e aiuto. Maria invita ad aprire le dimensioni della preghiera, a rivolgersi a Dio non solamente nel bisogno e non solo per se stessi, ma in modo unanime, perseverante, fedele, con un « cuore solo e un’anima sola » (cfr At 4,32)». Una lezione molto attuale e importante per noi oggi: «la vita umana attraversa diverse fasi di passaggio, spesso difficili e impegnative, che richiedono scelte inderogabili, rinunce e sacrifici. La Madre di Gesù è stata posta dal Signore in momenti decisivi della storia della salvezza e ha saputo rispondere sempre con piena disponibilità, frutto di un legame profondo con Dio maturato nella preghiera assidua e intensa». Maria è madre della Chiesa che prega, ed «esercita questa sua maternità sino alla fine della storia. Affidiamo a Lei ogni fase di passaggio della nostra esistenza personale ed ecclesiale, non ultima quella del nostro transito finale. Maria ci insegna la necessità della preghiera e ci indica come solo con un legame costante, intimo, pieno di amore con suo Figlio possiamo uscire dalla « nostra casa », da noi stessi, con coraggio, per raggiungere i confini del mondo e annunciare ovunque il Signore Gesù, Salvatore del mondo».

Publié dans:Maria Vergine, Santi Evangelisti |on 17 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

LA DONNA VALORIZZATA NELL’OPERA DI S. LUCA PER MERITO DI GESÙ IL SIGNORE SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO

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 LA DONNA VALORIZZATA NELL’OPERA DI S. LUCA PER MERITO DI GESÙ IL SIGNORE SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO

MARIA LUISA RIGATO

Introduzione

L’evento della Pentecoste cristiana è uno dei temi più commentati e dipinti della cristianità. Essendo considerato l’evento originario della chiesa (At 11,15: «in principio»), è comunque sempre pieno di suggestione e oggetto di rinnovata interpretazione. Anziché definire le comunità cristiane delle origini come post-pasquali, in riferimento alla risurrezione del Signore Gesù, sarebbe più preciso definirle post-pentecostali, includendovi anche l’azione dello Spirito Santo, ossia dell’Inviato-dell’Apostolo da parte del Risorto che afferma[1]: «Io invio la Promessa del Padre mio su di voi» (Lc 24,49). Si noti l’enfatico «Io», grammaticalmente superfluo.
All’inizio del terzo millennio dalla venuta del Signore Gesù è forse (?) giunto il tempo di chiudere la fase della rivendicazione femminile[2], tipica dell’ultimo quarto del ventesimo secolo e frutto saporoso del concilio Vaticano II, per leggere e comprendere titoli e/o appellativi ministeriali presenti negli scritti del Nuovo Testamento – riferiti per secoli solamente agli uomini – finalmente e semplicemente in maniera inclusiva, ossia riferiti a discepoli donne e uomini, anche se grammaticalmente al maschile. Possa davvero adempiersi l’augurio-manifesto verosimilmente già pre-paolino: «né donna separatamente da uomo né uomo separatamente da donna, nel Signore» (1Cor 11,11), in un contesto non matrimoniale, ma liturgico. La prevaricazione dell’uno sull’altra e viceversa non è evangelica.
Le pagine seguenti sono una rilettura di alcuni dettagli della narrazione pentecostale lucana, per ri-scoprire una volta di più l’aspetto inclusivo – in questo caso nell’opera lucana (Vangelo secondo Luca e Atti degli Apostoli) –, ossia la graduale comprensione tra i discepoli del «Signore Gesù»[3] circa la pari dignità tra uomini e donne, capaci queste di pari responsabilità nella chiesa, anche a livello dei carismi di profezia, di invio (= apostolato), di testimonianza, di evangelizzazione (attiva), in seguito al battesimo in Spirito Santo e fuoco (Lc 3,16 = Mt 3,11; senza «fuoco»: Mc 1,8; Gv 1,33; At 1,5).
Procedo pertanto dalla precomprensione, fondata sullo studio dei testi, che nella chiesa delle origini, e già in embrione nella sequela di Gesù, si possa o si debba parlare di inclusività;detto diversamente, i titoli al maschile riguardano uomini e donne. Pensiamo ad esempio al ben noto passo di Rm 16,1, dove Paolo in prima istanza raccomanda «Febe, la nostra sorella, che è anche diacono della chiesa in Cencre» (il porto orientale di Corinto). «Diacono» – come il nostro «ministro» – è dunque un titolo maschile adoperato da Paolo qui per una donna, ossia in maniera inclusiva.
Tra i discepoli del Signore Gesù si possono distinguere «i Dodici», poi la cerchia larga dei discepoli-fratelli, donne e uomini, poi – per effetto speciale della Pentecoste – un gruppo più ristretto di discepoli-apostoli, donne e uomini. Quanto a «i Dodici», – in cima alla piramide o alla base della medesima – anch’essi discepoli-apostoli[4], ma solo uomini, rappresentano nella chiesa i capostipiti, ovviamente maschi, delle dodici tribù d’Israele. Essi «nel regno» di Gesù «siederanno su troni giudicando le dodici tribù d’Israele» (Lc 22,30).
È vero, oggi si tratta spesso di cercare puntigliosamente, tra le righe, affermazioni, indicazioni, indizi, che alla fine si trovano come delle perle preziose nascoste a conferma e supporto di una interpretazione inclusiva! Ritengo comunque che qui si tratti di un nostro problema, non di un problema per i primi lettori degli scritti del Nuovo Testamento. Per essi l’inclusività era presumibilmente ovvia, per cui quando si leggeva nel testo «discepoli» questo appellativo includeva donne e uomini. Prima della riforma liturgica del Vaticano II la proclamazione del Vangelo durante la Messa iniziava spesso con la frase: «Il Signore disse ai suoi discepoli». Nella comprensione dei cristiani e nelle prediche questa espressione era l’esatto equivalente di: «Il Signore disse ai suoi apostoli, cioè ai Dodici»! È difficile superare tanti secoli di lettura ideologica al maschile!
Le analisi lessicali del testo greco ed ebraico sono giustificate dal presupposto che il vocabolario e la forma letteraria del testo sono già il contenuto del testo stesso.

Il racconto di Pentecoste
Ecco una traduzione la più letterale possibile di At 2,1-4:
1E nel compiersi il giorno della Pentecoste, erano tutti insieme nello stesso posto. 2Improvvisamente ci fu un suono come di soffio irruento violento e riempì l’intera casa dove erano seduti. 3E apparvero ad essi lingue divise come di fuoco e sedette/stette sopra ciascuno di essi 4e tutti furono ricolmi di Spirito Santo e cominciarono a parlare con altre lingue così come lo Spirito dava ad essi di esprimersi.
Chi sono i «tutti» presenti all’effusione dello Spirito Santo? La prima domanda che esige una risposta è proprio questa: chi sono i «tutti» di At 2,1.4, beneficiari dell’effusione dello Spirito Santo? Nei commentari si trovano tre diverse posizioni:
-     sono soltanto i Dodici apostoli;
-     sono gli Undici assieme al gruppo di donne e dei fratelli di Gesù elencati in At 1,13, ma non i centoventi di At 1,15;
-     sono la totalità dei presenti dichiarata per ultima, e cioè i centoventi di At 1,15, inclusi i nominati in At 1,13:«Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone lo zelota, Giuda di Giacomo, insieme a[lle] donne e a Maria la Madre di Gesù e ai fratelli [consanguinei] di Lui».
Per motivi di spazio bisogna qui rinunciare ad un’analisi minuziosa[5] dei passi significativi per l’argomento in esame in cui troviamo in Luca il termine «tutti». Riassumo pertanto sinteticamente.
Siccome letterariamente e canonicamente gli Atti degli Apostoli sono la continuazione ideale del Vangelo secondo Luca, non possiamo prescindere da esso. Dunque le persone presenti nella duplice narrazione lucana dell’ascensione del Signore Gesù e nel contesto narrativo immediato sono le medesime, sia nel Vangelo (Lc 24,33-53) sia negli Atti (At 1,1-14). In Lc 24,33 si tratta dei «due» ritornati da Emmaus, tra cui Cleofa, e «gli Undici e quelli con essi»; chi sono «quelli con essi»? Sono le stesse persone, narrativamente parlando, nominate da Luca all’inizio del capitolo 24: le donne Maria Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo e le rimanenti con esse (Lc 24,10). Queste, avendo vissuta l’esperienza sconvolgente presso il sepolcro di uomini-angeli (Lc 24,4-23) che danno loro l’annuncio della risurrezione di Gesù, «annunziarono tutte queste cose agli Undici e a tutti i rimanenti» (Lc 24,9). Questa proposizione è letterariamente parallela con: «dicevano/ripetevano queste cose agli apostoli» (Lc 24,10), nel senso che anche «i rimanenti» sono apostoli accanto agli Undici. Anche in At 2,37 ricorre una formula analoga: «Pietro e i rimanenti apostoli» più ampia di «Pietro con gli Undici» (At 2,14). Nel capitolo 24 del Vangelo, Luca non nomina né la Madre di Gesù, né i parenti di lui: lo farà in At 1,14.
Nel prologo degli Atti, in prima battuta Gesù risorto dà disposizioni «agli apostoli [...] che si era scelto» (At 1,2). Siccome Luca fa un preciso riferimento al suo «primo libro» (At 1,1), e siccome in Lc 6,13 ricorre lo stesso termine riferito a Gesù che «di tra i discepoli si scelse dodici e li denominò anche apostoli», viene spontanea l’identificazione degli apostoli di At 1,2 con «i Dodici», rispettivamente «gli Undici» perché nel frattempo Giuda era morto. In At 1,3 «gli Undici» non sono più soli, anche se narrativamente Luca ce lo fa sapere soltanto in At 1,14 dove gli Undici sono «con donne e parenti stretti», e in occasione dell’elezione di Mattia (At 1,21-26). Nel primo caso si tratta di un numero relativamente ristretto di persone, comunque individuate e individuabili. L’aver ricordato esplicitamente la presenza di «donne», tra cui Maria la Madre di Gesù», è, a mio avviso, estremamente importante.
In At 1,24 Luca allarga l’idea di «tutti». È vero che il Signore è conoscitore del cuore di tutti in senso assoluto, ma qui si tratta del gruppo che a lui si rivolge in preghiera, ossia i «circa centoventi fratelli» (At 1,15). Per rimpiazzare Giuda, deve trattarsi di uno presente alle vicende «del Signore Gesù, incominciando dal battesimo di Giovanni fino» a quando «fu assunto di tra voi/noi» e vengono proposti due. Viene eletto tramite la sorte il dodicesimo. Deve comunque trattarsi di uno degli uomini (un essere maschile) del gruppo, «testimone della Sua risurrezione con noi uno di questi».
Mattia[6] viene annoverato «insieme agli Undici apostoli» dopo una preghiera rivolta al Signore di scegliere  tra i due (At 1,11.22.24).
In At 2,1 i «tutti» riuniti per l’evento della Pentecoste sono dunque in primo luogo il gruppo di At 1,14. In secondo luogo anche i circa centoventi fratelli (At 1,15), tenendo presente che «circa» non esprime un numero preciso, ma un gruppo ragguardevole multiplo dei Dodici. Se così non fosse, bisognerebbe escludere sia la Madre di Gesù sia il neoeletto Mattia! Questi «tutti» (At 2,4.11) furono ricolmi di Spirito Santo e incominciarono a parlare un linguaggio ispirato: «con altre lingue». Oggetto del parlare ispirato di tutti, non solo dei Dodici, sono «le grandi opere di Dio».
In At 2,7 «tutti questi che parlano» sono definiti «Galilei». Tra essi possiamo pensare ad una parte di «tutti i noti/conoscenti» a/di Gesù presenti alla crocifissione, uomini e donne, ma da lontano (Lc 23,49) e soprattutto «donne alla sequela (che seguono con) di lui dalla Galilea vedenti queste cose».
Non sarebbe giusto glissare sull’evidente enfasi lucana a proposito dei due participi al femminile «quelle che seguono con» e «quelle che hanno visto». Non soltanto queste donne vengono definite «seguaci» di Gesù, ma anche testimoni «oculari». Luca ritorna ancora sull’argomento con altri due participi al femminile e un verbo di visione al momento della sepoltura di Gesù. Rimane sempre la difficoltà di tradurre dal greco queste forme verbali: «Le donne seguaci però, le quali erano venute con lui dalla Galilea osservarono il sepolcro e come fu deposto il suo corpo» (Lc 23,55). Di queste donne i «due» sulla via verso Emmaus riferiranno a Gesù risorto – come se non lo sapesse! – «che esse vanno dicendo anche di aver visto una visone di angeli» (Lc 24,23). Difficile non pensare ad un richiamo a Lc 1,2: «come hanno trasmesso a noi coloro che fin dal principio hanno visto con i propri occhi e divennero ministri della parola».
Quanto ai «galilei» di At 2,7 – limitatamente ai sudditi della tetrarchia di Erode Antipa (Lc 3,1) – possiamo almeno pensare, quanto alle donne, a Maria di Magdala, a Giovanna moglie di Cusa amministratore di Erode, a Susanna (Lc 8,2-3; per le prime due anche Lc 24,10) e alle «molte altre le quali[7] li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). La struttura grammaticale di Lc 8,1.3 è particolarmente intrigante e permette la lettura seguente: Gesù proclama ed evangelizza il regno di Dio ««ed i Dodici con lui e alcune donne, che erano state guarite [...] e molte altre». Le «alcune donne» non sono le «molte altre». Così come tra i discepoli vi era un gruppo ristretto di dodici «con Gesù», analogamente tra le donne vi era un gruppetto ristretto di tre[8] (un quarto di dodici) «con Gesù», quasi a rappresentare le madri d’Israele – Sara (Rm 4,19; Rm 9,9; Eb 11,11; 1Pt 3,6), Rebecca (Rm 9,10), Rachele (Mt 2,18) –. L’imperativo «ricordatevi» (Lc 24,6c) riguarda le donne «galilee» in maniera del tutto particolare. I due messaggeri [angeli] ingiungono alle donne di ricordarsi la profezia di Gesù sulla sua morte-risurrezione che egli aveva fatto proprio a loro, nella Galilea. I riscontri letterari conducono alle predizioni fatte ai Dodici in particolare, e ai discepoli in generale (Lc 18,31-34; Lc 9,22). Per Luca dunque le donne erano presenti in entrambi i gruppi.
Altre seguaci galilee sono probabilmente la suocera di Simon Pietro che «li serviva» (Lc 4,39); Maria di (= moglie di) Giacomo [il piccolo cf. Mc 15,40] e «le rimanenti con esse» (Lc 24,10), definite dai «due di tra essi» (Lc 24,13) «alcune donne di tra noi» (Lc 24,22). Nella redazione lucana il villaggio di Marta e Maria è anonimo (Lc 10,38). Vuole Luca forse annoverare tra le donne «galilee» anche le due sorelle discepole?
Quanto ai fratelli-parenti possiamo pensare a Giacomo[9] consanguineo di Gesù (Mt 13,55; Mc 6,3; Gal 1,19), a Maria di (= moglie di) Joses (Mc 15,47), a Cleofa (Lc 24,18), verosimilmente il Clopa giovanneo (Gv 19,25) e ad altri della famiglia di Maria e/o di Giuseppe, non nomini esplicitamente da Luca.
Tra i non-Galilei possiamo annoverare i padroni di casa: «l’intera casa» (At 2,2) ed altri. Tra gli apostoli pentecostali – come mi piace chiamarli – vanno certamente annoverati Barnaba, Giovanni evangelista (distinto dal figlio di Zebedeo), che ho definito «ultimo dei prestigiosi Presbiteri di Gerusalemme, discepolo del Signore Gesù»[10], l’ex-cieco nato giovanneo (Gv 9,7.38), Maria di Magdala; Andronico e Giunia, e infine lo stesso Saulo-Paolo. Egli sembra voler fornire un identikit degli apostoli della prima generazione in due contesti diversi di autodifesa del suo essere apostolo: essere liberi (non schiavi), aver veduto Gesù il Signore risorto, essere ingaggiati da Lui e pere Lui, essere Ebrei (ossia di lingua ebraica), di stirpe israelitica, discendenti di Abramo (1Cor 9,1-2; 2Cor 11,22-23).
Quanto ad essere «testimoni» della risurrezione di Gesù e alla «missione» post-pentecostale, per motivi di spazio rimando al mio studio indicato nella Bibliografia.

Conclusione
Possiamo vedere un’analogia nella presentazione lucana di due eventi originari: l’inizio apostolico-profetico di Gesù e l’inizio apostolico-profetico della chiesa. Detto diversamente, «Gesù di Nazaret, come Dio lo unse di Spirito Santo e potenza» (At 10,37-38; At 4,27; Lc 4,18) e l’essere battezzati in Spirito Santo e fuoco dei discepoli (Lc 3,16) per essere apostoli-profeti-testimoni del Risorto. Per il primo evento Luca cita esplicitamente Isaia (Lc 4,18 = Is 61,1-2). Per il secondo Luca cita esplicitamente Gioele: «profeteranno i vostri figli e le vostre figlie [...] i miei servi e le mie serve» (At 2,17-18 = Gl 3,1-2). Non si può inoltre negare la vicinanza impressionante di Is 6,5-8 ad At 2,3-4. Alla luce di questi passi profetici e ad un’attenta rilettura del racconto lucano sulla Pentecoste emerge l’inclusività di tre titoli carismatico-ministeriali, nel senso che ne furono investiti uomini e donne presenti, i «tutti» di At 1,15, intimamente legati al Maestro e rappresentativi di tutta la chiesa di allora e di adesso. Nella comunità pentecostale non viene sminuito il ruolo dei Dodici ma si allarga la cerchia degli apostoli e dei testimoni, con caratteristiche ben precise. I presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza al/del Signore Gesù; sono cioè costituiti apostoli-profeti-testimoni pentecostali della sua risurrezione.
Aver rappresentato per secoli pittoricamente l’evento della Pentecoste come se riguardasse soltanto «gli Undici»/«i Dodici» e Maria la Madre di Gesù, con lo Spirito Santo discendente come una colomba, è dunque un duplice falso esegetico e teologico, perché secondo la narrazione lucana le persone presenti erano in numero maggiore e di «colomba» non c’è l’ombra. Se c’era Maria, c’erano anche gli altri «tutti»!
Possiamo allora chiederci come mai attraverso i secoli i carismi ministeriali ri-divennero sempre più esclusivi, riservati cioè al genere maschile. Mentre l’inclusività del titolo di «profeta» non ha creato problema perché si trova al femminile sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento, l’inclusività dei titoli ministeriali di apostoli e testimoni ha rappresentato un tabù nella chiesa dei secoli successivi a quello delle origini, forse per un fenomeno di normalizzazione restaurata. La comunità originaria, nonostante i condizionamenti culturali di diversa natura, fece uno sforzo enorme sotto l’azione dello Spirito Santo, assecondando una precisa volontà del Signore risorto.
Insieme a Luca, anche Giovanni, alla sua maniera, narra della promessa e dell’effusione dello Spirito Santo. Parafrasando Gv 14,26 con Gv 16,13 e Gv 20,22: il Consolatore, lo Spirito Santo, ripresentò alla memoria dei discepoli quanto il Signore aveva detto. Egli, «lo Spirito della Verità» ossia lo Spirito di Gesù rivelatore introdusse i discepoli ad una ulteriore verità che prima non erano neppure in grado di sopportare, dopo che il Signore risorto «alitò e disse loro ricevete Spirito Santo». Nel «discorso del congedo», quando Gesù prega non soltanto per «questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in» lui (Gv 17,20), chiede al Padre «che tutti siano una cosa sola come Noi» (Gv 17,11.21.22.23). In questa preghiera del Gesù giovanneo possiamo tranquillamente collocare anche, e forse prima di tutto, l’istanza dell’unità tra discepole e discepoli.

Maria-Luisa Rigato

Sommario
È giunto il tempo di comprendere finalmente e semplicemente tutti gli appellativi ministeriali del Nuovo Testamento in maniera inclusiva, ossia donne e uomini inclusi. Senza nulla togliere all’importanza dei «Dodici» apostoli, da tutta la narrazione lucana sulla Pentecoste (At 2,1-13, ­ messa anche a confronto con Is 6,5-8) ­ emerge che «gli altri» non costituiscono una cornice decorativa per i «Dodici», ma «tutti» i presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito Santo una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza per Gesù il Signore: tutti diventanoapostoli-profeti-testimonidella sua risurrezione.

NOTA BIBLIOGRAFICA
Cf. M.-L. Rigato, Il valore inclusivo di Pantes nella narrazione dell’evento di Pentecoste in Luca (At 2,3-4). Apostoli-Testimoni pentecostali, in «Rivista Biblica» 48 (2000), pp. 129-150, con molte note e ampia bibliografia. Collegato al precedente: Id., L’evento della Pentecoste secondo At 2,3-4 alla luce di Is 6,5-8, in «Rivista Biblica» 48 (2000), fasc. 4 [in fase di stampa]; Id., Maria di Nazaret di stirpe levitica sacerdotale, in «Theotokos. Ricerche interdisciplinari di Mariologia», 8 (2000), pp. 275-304.
[1] Altri appellativi dello Spirito Santo nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli: «Potenza da(ll’) alto» (Lc 24,49); «il Dono di Dio» (At 8,20); «il Dono dello Spirito Santo» (At 10,45); «Dio ha dato il Dono» (At 11,17); «il Consolatore» che Gesù «manderà» (Gv 14,26; Gv 15,26; Gv 16,7).
[2] Vorrei sintetizzare la fase della rivendicazione con le parole che nel suo delizioso volumetto L. Padovese, Piccoli dialoghi fra santi di marmo, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1999, mette sulle labbra di Tecla: «Proprio guardando a Gesù, al discepolo prediletto, e al mio grande maestro Paolo io dico che noi donne dobbiamo rivendicare il passato cristiano come passato appartenente anche a noi, non soltanto come un passato maschile cui le donne partecipavano solo ai margini, oppure non facevano nulla. Cristo ci ha liberati dalla situazione di emarginazione e di inferiorità in cui la cultura mediterranea, patricentrica e maschilista, ci vorrebbe lasciare. L’intensità del nostro amare ha fatto di noi donne libere, vere discepole del Maestro!» (p. 48).
[3] È questa la professione di fede più concentrata. Nei Vangeli troviamo generalmente il titolo «Signore» senza il nome di Gesù, fatta eccezione per Mc 16,19 «il Signore Gesù» e Lc 24,3 «il corpo del Signore Gesù». Negli Atti degli Apostoli è uno dei titoli preferiti: «il Signore Gesù» (At 1,21; At 4,33; At 6,59; At 8,16; At 9,17; At 11,20; At 15,11; At 16,31; At 19,5.13.17; At 20,21 + «nostro» At 24.35; At 21,13), tre volte accompagnato da «Cristo» (At 11,17; At 15,26 + «nostro»; At 28,31). È presente in tutti gli altri scritti del Nuovo Testamento.
[4] Lc 6,13: «Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e avendo scelto da essi Dodici li denominò anche apostoli». Questa traduzione del testo greco («e» con «anche») dal punto di vista grammaticale è del tutto plausibile e s’impone per via del versetto successivo: «Simone il quale denominò anche Pietro» (Lc 6,14). Se questo è vero, Luca fin dalla prima ricorrenza di «apostoli» nel suo vangelo farebbe intuire che «i Dodici» erano, sì, apostoli, ma non i soli apostoli., come emerge anche da altri passi del Nuovo Testamento.
[5] Rimando per questo al nostro articolo: Il valore inclusivo di Pantes nella narrazione dell’evento di Pentecoste in Luca (At 2,3-4). Apostoli-Testimoni pentecostali, in «Rivista Biblica» 48 (2000), pp. 129-150 (qui: pp. 134-141).
[6] Secondo 1Cor 15,5: «Cristo [...] apparve a Cefa indi ai Dodici». La tradizione ha incluso fin dal principio Mattia tra i Dodici.
[7] Grammaticalmente è possibile riferire «li servivano con i loro beni» soltanto alle «molte altre», senza includere il gruppo delle donne citate per nome.
[8] Gli evangelisti menzionano per nome al massimo tre donne alla volta (Mt 27,56; Mc 15,40; Mc 16,1; Lc 8,3; Lc 24,10).
[9] Per Giacomo rimandiamo al nostro articolo: Maria di Nazaret di stirpe levitica sacerdotale, in «Theotokos. Ricerche interdisciplinari di Mariologia», 8 (2000), pp. 275-304.
[10] Per Giovanni rimandiamo al nostro articolo: Maria di Nazaret di stirpe…, cit., excursus finale.

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BENEDETTO XVI: GIOVANNI, IL VEGGENTE DI PATMOS

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060823_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 23 AGOSTO 2006

GIOVANNI, IL VEGGENTE DI PATMOS

Cari fratelli e sorelle,

nell’ultima catechesi eravamo arrivati alla meditazione sulla figura dell’apostolo Giovanni. Avevamo dapprima cercato di vedere quanto si può sapere della sua vita. Poi, in una seconda catechesi, avevamo meditato il contenuto centrale del suo Vangelo, delle sue Lettere:  la carità, l’amore. E oggi siamo ancora impegnati con la figura di Giovanni, questa volta per considerare il Veggente dell’Apocalisse. E facciamo subito un’osservazione:  mentre né il Quarto Vangelo né le Lettere attribuite all’Apostolo recano mai il suo nome, l’Apocalisse fa riferimento al nome di Giovanni ben quattro volte (cfr 1, 1.4.9; 22, 8). È evidente che l’Autore, da una parte, non aveva alcun motivo per tacere il proprio nome e, dall’altra, sapeva che i suoi primi lettori potevano identificarlo con precisione. Sappiamo peraltro che, già nel III secolo, gli studiosi discutevano sulla vera identità anagrafica del Giovanni dell’Apocalisse. Ad ogni buon fine, lo potremmo anche chiamare « il Veggente di Patmos », perché la sua figura è legata al nome di questa isola del Mar Egeo, dove, secondo la sua stessa testimonianza autobiografica, egli si trovava come deportato « a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù » (Ap 1, 9). Proprio a Patmos, « rapito in estasi nel giorno del Signore » (Ap 1, 10), Giovanni ebbe delle visioni grandiose e udì messaggi straordinari, che influiranno non poco sulla storia della Chiesa e sull’intera cultura cristiana. Per esempio, dal titolo del suo libro – Apocalisse, Rivelazione – furono introdotte nel nostro linguaggio le parole « apocalisse, apocalittico », che evocano, anche se in modo improprio, l’idea di una catastrofe incombente.

Il libro va compreso sullo sfondo della drammatica esperienza delle sette Chiese d’Asia (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia, Laodicéa), che sul finire del I secolo dovettero affrontare difficoltà non lievi – persecuzioni e tensioni anche interne – nella loro testimonianza a Cristo. Ad esse Giovanni si rivolge mostrando viva sensibilità pastorale nei confronti dei cristiani perseguitati, che egli esorta a rimanere saldi nella fede e a non identificarsi con il mondo pagano, così forte. Il suo oggetto è costituito in definitiva dal disvelamento, a partire dalla morte e risurrezione di Cristo, del senso della storia umana. La prima e fondamentale visione di Giovanni, infatti, riguarda la figura dell’Agnello, che è sgozzato eppure sta ritto in piedi (cfr Ap 5, 6), collocato in mezzo al trono dove già è assiso Dio stesso. Con ciò, Giovanni vuol dirci innanzitutto due cose:  la prima è che Gesù, benché ucciso con un atto di violenza, invece di stramazzare a terra sta paradossalmente ben fermo sui suoi piedi, perché con la risurrezione ha definitivamente vinto la morte; l’altra è che lo stesso Gesù, proprio in quanto morto e risorto, è ormai pienamente partecipe del potere regale e salvifico del Padre. Questa è la visione fondamentale. Gesù, il Figlio di Dio, in questa terra è un Agnello indifeso, ferito, morto. E tuttavia sta dritto, sta in piedi, sta davanti al trono di Dio ed è partecipe del potere divino. Egli ha nelle sue mani la storia del mondo. E così il Veggente vuol dirci:  abbiate fiducia in Gesù, non abbiate paura dei poteri contrastanti, della persecuzione! L’Agnello ferito e morto vince! Seguite l’Agnello Gesù, affidatevi a Gesù, prendete la sua strada! Anche se in questo mondo è solo un Agnello che appare debole, è Lui il vincitore!

Una delle principali visioni dell’Apocalisse ha per oggetto questo Agnello nell’atto di aprire un libro, prima chiuso con sette sigilli che nessuno era in grado di sciogliere. Giovanni è addirittura presentato nell’atto di piangere, perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo (cfr Ap 5, 4). La storia rimane indecifrabile, incomprensibile. Nessuno può leggerla. Forse questo pianto di Giovanni davanti al mistero della storia così oscuro esprime lo sconcerto delle Chiese asiatiche per il silenzio di Dio di fronte alle persecuzioni a cui erano esposte in quel momento. È uno sconcerto nel quale può ben riflettersi il nostro sbigottimento di fronte alle gravi difficoltà, incomprensioni e ostilità che pure oggi la Chiesa soffre in varie parti del mondo. Sono sofferenze che la Chiesa certo non si merita, così come Gesù stesso non meritò il suo supplizio. Esse però rivelano sia la malvagità dell’uomo, quando si abbandona alle suggestioni del male, sia la superiore conduzione degli avvenimenti da parte di Dio. Ebbene, solo l’Agnello immolato è in grado di aprire il libro sigillato e di rivelarne il contenuto, di dare senso a questa storia apparentemente così spesso assurda. Egli solo può trarne indicazioni e ammaestramenti per la vita dei cristiani, ai quali la sua vittoria sulla morte reca l’annuncio e la garanzia della vittoria che anch’essi senza dubbio otterranno. A offrire questo conforto mira tutto il linguaggio fortemente immaginoso di cui Giovanni si serve.

Al centro delle visioni che l’Apocalisse espone ci sono anche quelle molto significative della Donna che partorisce un Figlio maschio, e quella complementare del Drago ormai precipitato dai cieli, ma ancora molto potente. Questa Donna rappresenta Maria, la Madre del Redentore, ma rappresenta allo stesso tempo tutta la Chiesa, il Popolo di Dio di tutti i tempi, la Chiesa che in tutti i tempi, con grande dolore, partorisce Cristo sempre di nuovo. Ed è sempre minacciata dal potere del Drago. Appare indifesa, debole. Ma mentre è minacciata, perseguitata dal Drago è anche protetta dalla consolazione di Dio. E questa Donna alla fine vince. Non vince il Drago. Ecco la grande profezia di questo libro, che ci dà fiducia! La Donna che soffre nella storia, la Chiesa che è perseguitata alla fine appare come Sposa splendida, figura della nuova Gerusalemme dove non ci sono più lacrime né pianto, immagine del mondo trasformato, del nuovo mondo la cui luce è Dio stesso, la cui lampada è l’Agnello.

Per questo motivo l’Apocalisse di Giovanni, benché pervasa da continui riferimenti a sofferenze, tribolazioni e pianto – la faccia oscura della storia -, è altrettanto permeata da frequenti canti di lode, che rappresentano quasi la faccia luminosa della storia. Così, per esempio, vi si legge di una folla immensa, che canta quasi gridando: « Alleluia! Ha preso possesso del suo Regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell’Agnello, e la sua sposa è pronta » (Ap 19, 6-7). Siamo qui di fronte al tipico paradosso cristiano, secondo cui la sofferenza non è mai percepita come l’ultima parola, ma è vista come punto di passaggio verso la felicità e, anzi, essa stessa è già misteriosamente intrisa della gioia che scaturisce dalla speranza. Proprio per questo Giovanni, il Veggente di Patmos, può chiudere il suo libro con un’ultima aspirazione, palpitante di trepida attesa. Egli invoca la venuta definitiva del Signore: « Vieni, Signore Gesù! » (Ap 22, 20). È una delle preghiere centrali della cristianità nascente, tradotta anche da san Paolo nella forma aramaica: « Marana tha ». E questa preghiera « Signore nostro, vieni! » (1 Cor 16, 22) ha diverse dimensioni. Naturalmente è anzitutto attesa della vittoria definitiva del Signore, della nuova Gerusalemme, del Signore che viene e trasforma il mondo. Ma, nello stesso tempo, è anche preghiera eucaristica: « Vieni Gesù, adesso! ». E Gesù viene, anticipa questo suo arrivo definitivo. Così con gioia diciamo nello stesso tempo: « Vieni adesso e vieni in modo definitivo! ». Questa preghiera ha anche un terzo significato: « Sei già venuto, Signore! Siamo sicuri della tua presenza tra di noi. È una nostra esperienza gioiosa. Ma vieni in modo definitivo! ». E così, con san Paolo, con il Veggente di Patmos, con la cristianità nascente, preghiamo anche noi: « Vieni, Gesù! Vieni e trasforma il mondo! Vieni già oggi e vinca la pace! ». Amen!

COMMENTO MARCO 16,15-20 – FESTA DI SAN MARCO EVANGELISTA

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COMMENTO MARCO 16,15-20  – FESTA DI SAN MARCO EVANGELISTA

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S. Marco (25/04/2009)
Vangelo: Mc 16,15-20  
1) Preghiera

O Dio, che hai glorificato il tuo evangelista Marco
con il dono della predicazione apostolica,
fa’ che, alla scuola del Vangelo,
impariamo anche noi
a seguire fedelmente il Cristo Signore.
Egli è Dio, e vive e regna con te…

2) Lettura del Vangelo
Dal Vangelo secondo Marco 16,15-20
In quel tempo, apparendo agli Undici, Gesù disse loro: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, e se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno ».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano.

3) Riflessione
• Il Vangelo di oggi fa parte dell’appendice del Vangelo di Marco (Mc 16,9-20) che presenta la lista di alcune apparizioni di Gesù: alla Maddalena (Mc 16,9-11), ai due discepoli che camminano per la campagna (Mc 16,12-13) e ai dodici apostoli (Mc 16,14-18). Questa ultima apparizione insieme alla descrizione dell’ascensione al cielo (Mc 16,19-20) costituisce il vangelo di oggi.
• Marco 16,14: I segni che accompagnano l’annuncio della Buona Novella. Gesù appare agli undici discepoli e li rimprovera per non aver creduto le persone che lo avevano visto risorto. Non credettero alla Maddalena (Mc 16,11), nemmeno ai due lungo il cammino della campagna (Mc 16,13). Varie volte, Marco si riferisce alla resistenza dei discepoli nel credere alla testimonianza di coloro che sperimentarono la risurrezione di Gesù. Perché Marco insiste tanto sulla mancanza di fede dei discepoli? Probabilmente, per insegnare due cose. Prima che la fede in Gesù passa per la fede nelle persone che ne danno testimonianza. Secondo, che nessuno deve scoraggiarsi quando nasce l’incredulità nel cuore. Perfino gli undici discepoli dubitarono!
• Marco 16,15-18: La missione di annunciare la Buona Novella a tutte le creature. Dopo aver criticato la mancanza di fede dei discepoli, Gesù conferisce loro la missione: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato ». A coloro che ebbero il coraggio di credere nella Buona Novella e che sono battezzati, Gesù promette i segni seguenti: scacceranno i demoni, parleranno nuove lingue, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno. Ciò avviene fino ad oggi:
- scacciare i demoni: è combattere la forza del male che distrugge la vita. La vita di molte persone migliora perché sono entrate nella comunità e hanno cominciato a vivere la Buona Novella della presenza di Dio nella loro vita.
- parlare nuove lingue: vuol dire cominciare a comunicare con gli altri in modo nuovo. A volte ci incontriamo con una persona che non abbiamo mai visto prima, ma sembra che l’abbiamo conosciuta da tempo. Questo avviene perché parliamo la stessa lingua, la lingua dell’amore.
- vincere il veleno: ci sono molte cose che avvelenano la convivenza. Molti pettegolezzi che distruggono la relazione tra le persone. Chi vive in presenza di Dio non fa caso a questo e riesce a non essere disturbato da questo terribile veleno.
- cureranno i malati: ovunque, dove appare una coscienza più chiara e più viva della presenza di Dio, appare anche una cura speciale verso le persone escluse ed emarginate, soprattutto verso i malati. Ciò che più favorisce la cura è che la persona si senta accolta ed amata.
• Marco 16,19-20: Attraverso la comunità Gesù continua la sua missione. Gesù stesso che visse in Palestina, e accolse i poveri del suo tempo, rivelando loro l’amore del Padre, questo stesso Gesù continua vivo in mezzo a noi, nelle nostre comunità. Attraverso di noi, lui vuole continuare la sua missione per rivelare la Buona Novella dell’amore di Dio ai poveri. Fino ad oggi, avviene la risurrezione. Ci spinge a cantare: « Chi ci separerà, chi ci separerà dall’amore di Cristo, chi ci separerà? » Nessun potere di questo mondo è capace di neutralizzare la forza che viene dalla fede nella risurrezione (Rom 8,35-39). Una comunità che voglia essere testimone della Risurrezione deve essere segno di vita, deve lottare contro le forze della morte, in modo che il mondo sia un luogo favorevole alla vita, dove credere che un altro mondo è possibile. Soprattutto in quei paesi dove la vita della gente è in pericolo a causa del sistema di morte che è stato imposto, le comunità devono essere una prova viva della speranza che vince il mondo, senza timore di essere felici!

4) Per un confronto personale
• Come avvengono nella mia vita questi segni della presenza di Gesù?
• Quali sono oggi i segni che più convincono le persone della presenza di Gesù in mezzo a noi?

5) Preghiera finale
Canterò senza fine le grazie del Signore,
con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nei secoli,
perché hai detto:
« La mia grazia rimane per sempre »;
la tua fedeltà è fondata nei cieli. (Sal 88)

Papa Paolo VI : San Marco, il secondo evangelista (1967)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1967/documents/hf_p-vi_aud_19670425_it.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Martedì, 25 aprile 1967

San Marco: il secondo evangelista

Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita coincide con la festa d’un santo, che Ci è molto caro: San Marco Evangelista. Perché molto caro? Perché, secondo un’antichissima testimonianza del secondo secolo, quella di Papia, riportata da Eusebio nella sua Storia della Chiesa (III, 39, 15), Marco «era stato l’interprete di Pietro». E così tutta la tradizione successiva (cf. Lagrange, Introdud. XXI, ss.), tanto che San Girolamo, nel suo libro sugli Scrittori ecclesiastici, scrive: «Marco, discepolo e interprete di Pietro, pregato dai fratelli (della comunità) di Roma, scrisse un breve Vangelo secondo quanto egli aveva ascoltato Pietro riferire» (c. 8). E che Pietro avesse particolare affezione a Marco ce lo dice, alla fine della sua prima lettera, Pietro stesso, che scrivendo da Roma ai cristiani dell’Asia Minore, verso gli anni 63-64, nomina solo Marco e gli dà il titolo di «figlio mio» (2 Petr. 5, 13); titolo che indica un’affezione di lunga data, spirituale, e forse anche fondata su qualche parentela familiare (cf. Hophan, Gli Apostoli, 314, ss.).

PROFONDA BENEVOLENZA DEI PRINCIPI DEGLI APOSTOLI
La storia. di Marco (di Giovanni, suo nome ebraico, detto Marco, nome latino; cf. Act. 12, 12) è interessantissima; s’intreccia forse con quella di Gesù, nell’episodio del ragazzo che, nella notte della cattura di Lui nell’orto degli ulivi, lo seguiva, dopo la fuga dei discepoli, coperto da un lenzuolo – per curiosità? per devozione? – ma quando coloro che avevano arrestato Gesù, fecero per afferrarlo, il ragazzo lasciò loro nelle mani il lenzuolo, e sgusciò via da loro (Marc. 14, 52). Ma soprattutto la storia di Marco si fonde con quella degli Apostoli: Paolo e Barnaba, specialmente, che egli segue a Cipro nella prima spedizione apostolica (era cugino di Barnaba), e che poi, forse stanco, forse impaurito, giunto a Perge, nella Pamfilia, egli abbandona per ritornarsene solo da sua madre, a Gerusalemme (Act. 13, 13). Paolo ne fu addolorato; tanto che non lo volle compagno, tre o quattro anni dopo, nel secondo viaggio, nonostante che Barnaba intercedesse; così che Barnaba e Marco lasciarono Paolo con Sila per navigare a Cipro (Act. 15, 37-40). Ma poi Paolo deve aver perdonato a Marco la sua prima infedeltà nella fatica apostolica, perché tre volte lo nomina amorevolmente nelle sue lettere (Philem. 24; Col. 4, 10; 2 Tim. 4, 11).
E dei rapporti fra l’apostolo Pietro e Marco, oltre a quelli accennati, poco sappiamo; ma ci basta qui far nostra la conclusione della tradizione e degli studi moderni: il Vangelo di San Marco è una riproduzione scritta della catechesi narrativa dell’apostolo Pietro a Roma; esso riflette, senza intenti letterari, ma con grande semplicità e vivezza di particolari, i racconti di S. Pietro circa le memorie di lui; la sua documentazione è principalmente, se non la sola, la parola stessa dell’Apostolo, riportata come la relazione genuina d’un testimonio oculare, che conserva di Gesù la più immediata impressione.

LA RIPRODUZIONE SCRITTA DELLA CATECHESI DI PIETRO
La figura di San Pietro, nel secondo Vangelo, quello appunto di Marco, appare con qualche particolare risalto, sebbene non mai adulata, ma meglio delineata, anche nella descrizione dei suoi falli; ma è la figura del Maestro, quella «di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marc. 1, 1), che campeggia umile e grande insieme, semplice e prodigiosa, meravigliosa, avvincente. Non è una figura idealizzata, descritta con fantasia d’artista; è una figura veduta, quella veduta da Pietro. «Raccontando la storia del Cristo, egli la viveva di nuovo. Egli udiva parlare il Signore, lo vedeva muoversi ed agire» (Huby, S. Marco, XXII).
Perciò San Marco ci ha lasciato in brevi pagine disadorne e non sempre ordinate, ma estremamente sincere e vive, l’immagine di Cristo, come San Pietro la ricordava e la portava scolpita nella semplicità fedele, umile ed entusiasta del suo cuore, realisticamente. Ecco perché Ci è caro San Marco: egli ci riporta il profilo di Cristo, nello sfondo del disegno sinottico primitivo (cf. Vannutelli), visto da San Pietro. E San Pietro, offrendoci la visione sensibile e scenica di Cristo, c’introduce alla conoscenza di Cristo quale veramente è; una conoscenza che solo la fede in qualche modo può afferrare e penetrare.

L’INSEGNAMENTO PER I FEDELI DI OGGI
Ed ecco anche perché a voi, diletti Figli e Figlie, che oggi vediamo in così grande numero ed in tanto fervore intorno alla tomba di San Pietro, raccomandiamo ciò che più preme, ciò che più vale: la conoscenza di quel Gesù, che Pietro qui a Roma, per il mondo intero, annunciò; l’adesione a quella fede in Cristo Signore, per amore del Quale egli fu apostolo e fu martire; fede che qui potete attingere, dove l’autenticità evangelica la sigilla, e dove essa si perpetua nella sua nativa e limpida veracità e nella sua coerente e secolare fecondità nel magistero della Chiesa ed è simboleggiata dalla stabilità della pietra, che da Cristo all’Apostolo fu data in nome e alla Chiesa per fondamento.
Poco altro sappiamo di San Marco; da Roma egli si recò in Egitto e fu il fondatore riconosciuto della Chiesa di Alessandria; le sue reliquie, Venezia gloriosa e devota le custodisce; ma il suo Vangelo di qua soprattutto rifulge, dove Pietro e Paolo, suoi maestri, fecero di Marco l’Evangelista contrassegnato dal simbolo del leone. Un atto di fede in Cristo, e un atto d’amore a Lui sono attesi da voi, Figli carissimi, per dare a questa Udienza il suo pieno significato ed il suo merito; ed è ciò che vi invitiamo a fare col Credo, che alla fine dell’udienza, prima di congedarvi con la Nostra Benedizione Apostolica, insieme noi canteremo.

25 APRILE: SAN MARCO EVANGELISTA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20850

SAN MARCO EVANGELISTA

25 APRILE

SEC. I

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l’apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l’ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L’evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un’altra come martire, ad Alessandria d’Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell’828 nella città della Venezia. (Avvenire)

Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino

Emblema: Leone
Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.
La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

Il Vangelo
Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

Le vicende delle sue reliquie – Patrono di Venezia
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi Evangelisti |on 24 avril, 2013 |Pas de commentaires »

San Giovanni Apostolo ed evangelista

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San Giovanni Apostolo ed evangelista

27 dicembre

Betsaida Iulia, I secolo – Efeso, 104 ca.

L’autore del quarto Vangelo e dell’Apocalisse, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo maggiore, venne considerato dal Sinedrio un «incolto». In realtà i suoi scritti sono una vetta della teologia cristiana. La sua propensione più alla contemplazione che all’azione non deve farlo credere, però, una figura « eterea ». Si pensi al soprannome con cui Gesù – di cui fu discepolo tra i Dodici – chiamò lui e il fratello: «figli del tuono». Lui si definisce semplicemente «il discepolo che Gesù amava». Assistette alla Passione con Maria. E con lei, dice la tradizione, visse a Efeso. Qui morì tra fine del I e inizio del II secolo, dopo l’esilio a Patmos. Per Paolo era una «colonna» della Chiesa, con Pietro e Giacomo. (Avvenire)

Patronato: Scrittori, Editori, Teologi
Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall’ebraico
Emblema: Aquila, Calderone d’olio bollente, Coppa

Martirologio Romano: Festa di san Giovanni, Apostolo ed Evangelista, che, figlio di Zebedeo, fu insieme al fratello Giacomo e a Pietro testimone della trasfigurazione e della passione del Signore, dal quale ricevette stando ai piedi della croce Maria come madre. Nel Vangelo e in altri scritti si dimostra teologo, che, ritenuto degno di contemplare la gloria del Verbo incarnato, annunciò ciò che vide con i propri occhi.
Il più giovane e il più longevo degli Apostoli; il discepolo più presente nei grandi avvenimenti della vita di Gesù; autore del quarto Vangelo, opera essenzialmente dottrinale e dell’Apocalisse, unico libro profetico del Nuovo Testamento.
Giovanni era originario della Galilea, di una zona sulle rive del lago di Tiberiade (forse Betsaida Iulia), figlio di Zebedeo e di Salome, fratello di Giacomo il Maggiore; la madre era nel gruppo di donne che seguivano ed assistevano Gesù salendo fino al Calvario, forse era cugina della Madonna; il padre aveva una piccola impresa di pesca sul lago anche con dipendenti.
Pur essendo benestante e con conoscenze nelle alte sfere sacerdotali, non era mai stato alla scuola dei rabbini e quindi era considerato come ‘illetterato e popolano’, tale che qualche studioso ha avanzato l’ipotesi che lui abbia solo dettato le sue opere, scritte da un suo discepolo.
Giovanni è da considerarsi in ordine temporale come il primo degli apostoli conosciuto da Gesù, come è l’ultimo degli Apostoli viventi, con cui si conclude la missione apostolica tesa ad illuminare la Rivelazione.
Infatti egli era già discepolo di s. Giovanni Battista, quando questi additò a lui ed Andrea Gesù che passava, dicendo “Ecco l’Agnello di Dio” e i due discepoli udito ciò presero a seguire Gesù, il quale accortosi di loro domandò: “Che cercate?” e loro risposero: “Rabbi dove abiti?” e Gesù li invitò a seguirlo fino al suo alloggio, dove si fermarono per quel giorno; “erano le quattro del pomeriggio”, specifica lui stesso, a conferma della forte impressione riportata da quell’incontro.
In seguito si unì agli altri apostoli, quando Gesù passando sulla riva del lago, secondo il Vangelo di Matteo, chiamò lui e il fratello Giacomo intenti a rammendare le reti, a seguirlo ed essi “subito, lasciata la barca e il padre loro, lo seguirono”.
Da allora ebbe uno speciale posto nel collegio apostolico, era il più giovane ma nell’elenco è sempre nominato fra i primi quattro, fu prediletto da Pietro, forse suo compaesano, ma soprattutto da Gesù al punto che Giovanni nel Vangelo chiama se stesso “il discepolo che Gesù amava”.
Fra i discepoli di Gesù fu infatti tra gli intimi con Pietro e il fratello Giacomo, che accompagnarono il Maestro nelle occasioni più importanti, come quando risuscitò la figlia di Giairo, nella Trasfigurazione sul Monte Tabor, nell’agonia del Getsemani.
Con Pietro si recò a preparare la cena pasquale e in questa ultima cena a Gerusalemme ebbe un posto d’onore alla destra di Gesù, e dietro richiesta di Pietro, Giovanni appoggiando con gesto di consolazione e affetto la testa sul petto di Gesù, gli chiese il nome del traditore fra loro.
Tale scena di alta drammaticità, è stata nei secoli raffigurata nell’ »Ultima Cena » di tanti celebri artisti. Dopo essere scappato con tutti gli altri, quando Gesù fu catturato, lo seguì con Pietro durante il processo e unico tra gli Apostoli si trovò ai piedi della croce accanto a Maria, della quale si prese cura, avendola Gesù affidatagliela dalla croce.
Fu insieme a Pietro, il primo a ricevere l’annunzio del sepolcro vuoto da parte della Maddalena e con Pietro corse al sepolcro giungendovi per primo perché più giovane, ma per rispetto a Pietro non entrò, fermandosi all’ingresso; entrato dopo di lui poté vedere per terra i panni in cui era avvolto Gesù, la vista di ciò gli illuminò la mente e credette nella Resurrezione forse anche prima di Pietro, che se ne tornava meravigliato dell’accaduto.
Giovanni fu presente alle successive apparizioni di Gesù agli apostoli riuniti e il primo a riconoscerlo quando avvenne la pesca miracolosa sul lago di Tiberiade; assistette al conferimento del primato a Pietro; insieme ad altri apostoli ricevette da Gesù la solenne missione apostolica e la promessa dello Spirito Santo, che ricevette nella Pentecoste insieme agli altri e Maria.
Seguì quasi sempre Pietro nel suo apostolato, era con lui quando operò il primo clamoroso miracolo della guarigione dello storpio alla porta del tempio chiamata “Bella”; insieme a Pietro fu più volte arrestato dal Sinedrio a causa della loro predicazione, fu flagellato insieme al gruppo degli arrestati.
Con Pietro, narrano gli Atti degli Apostoli, fu inviato in Samaria a consolidare la fede già diffusa da Filippo.
San Paolo verso l’anno 53, lo qualificò insieme a Pietro e Giacomo il Maggiore come ‘colonne’ della nascente Chiesa.
Il fratello Giacomo fu decapitato verso il 42 da Erode Agrippa I, protomartire fra gli Apostoli; Giovanni, secondo antiche tradizioni, lasciata definitivamente Gerusalemme (nel 57 già non c’era più) prese a diffondere il cristianesimo nell’Asia Minore, reggendo la Chiesa di Efeso e altre comunità della regione.
Anche Giovanni adempì la profezia di Gesù di imitarlo nella passione; anche se non subì il martirio come il fratello e gli altri apostoli, dovette patire la persecuzione di Domiziano (51-96) la seconda contro i cristiani, che negli ultimi anni del suo impero, 95 ca., conosciuta la fama dell’apostolo, lo convocò a Roma e dopo averlo fatto rasare i capelli in segno di scherno, lo fece immergere in una caldaia di olio bollente davanti alla porta Latina; ma Giovanni ne uscì incolume.
Ancora oggi un tempietto ottagonale disegnato dal Bramante e completato dal Borromini, ricorda il leggendario miracolo.
Fu poi esiliato nell’isola di Patmos (arcipelago delle Sporadi a circa 70 km da Efeso) a causa della sua predicazione e della testimonianza di Gesù. Dopo la morte di Domiziano, salì al trono l’imperatore Nerva (96-98) tollerante verso i cristiani; quindi Giovanni poté tornare ad Efeso dove continuò ad esortare i fedeli all’amore fraterno, finché ultracentenario morì verso il 104, cosicché il più giovane degli Apostoli, il vergine perché non si sposò, visse più a lungo di tutti portando con la sua testimonianza, l’insegnamento di Cristo fino ai cristiani del II secolo.
Sulla sua tomba ad Efeso, fu edificata nei secoli V e VI una magnifica basilica. In vita la tradizione e gli antichi scritti gli attribuiscono svariati prodigi, come di essersi salvato senza danno da un avvelenamento e dopo essere stato buttato in mare; ad Efeso risuscitò anche un morto.
Alle riunioni dei suoi discepoli, ormai vecchissimo, veniva trasportato a braccia, ripetendo soltanto “Figlioli, amatevi gli uni gli altri” e a chi gli domandava perché ripeteva sempre la stessa frase, rispose: “ Perché è precetto del Signore, se questo solo si compia, basta”.
Fra tutti gli apostoli e i discepoli, Giovanni fu la figura più luminosa e più completa, dalla sua giovinezza trasse l’ardore nel seguire Gesù e dalla sua longevità la saggezza della sua dottrina e della sua guida apostolica, indicando nella Grazia la base naturale del vivere cristiano.
La sua propensione più alla contemplazione che all’azione, non deve far credere ad una figura fantasiosa e delicata, anzi fu caldo e impetuoso, tanto da essere chiamato insieme al fratello Giacomo ‘figlio del tuono’, ma sempre zelante in tutto.
Teologo altissimo, specie nel mettere in risalto la divinità di Gesù, mistico sublime fu anche storico scrupoloso, sottolineando accuratamente l’umanità di Cristo, raccontando particolari umani che gli altri evangelisti non fanno, come la cacciata dei mercanti dal tempio, il sedersi stanco, il piangere per Lazzaro, la sete sulla croce, il proclamarsi uomo, ecc.
Giovanni è chiamato giustamente l’Evangelista della carità e il teologo della verità e luce, egli poté penetrare la verità, perché si era fatto penetrare dal divino amore.
Il suo Vangelo, il quarto, ebbe a partire dal II secolo la definizione di “Vangelo spirituale” che l’ha accompagnato nei secoli; Origene nel III secolo, per la sua alta qualità teologica lo chiamò ‘il fiore dei Vangeli’.
Gli studiosi affermano che l’opera ebbe una vicenda editoriale svolta in più tappe; essa parte nell’ambiente palestinese, da una tradizione orale legata all’apostolo Giovanni, datata negli anni successivi alla morte di Cristo e prima del 70, esprimendosi in aramaico; poi si ha un edizione del vangelo in greco, destinata all’Asia Minore con centro principale la bella città di Efeso e qui collabora alla stesura un ‘evangelista’, discepolo che raccoglie il messaggio dell’apostolo e lo adatta ai nuovi lettori.
Inizialmente il vangelo si concludeva con il capitolo 20, diviso in due grandi sezioni; dai capitoli 1 a 12 chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli scelti da Giovanni per illustrare la figura di Gesù, Figlio di Dio e dai capitoli 13 a 20 chiamato “Libro dell’ora”, cioè del momento supremo della sua vita offerta sulla croce, che contiene i mirabili “discorsi di addio” dell’ultima Cena. Alla fine del I secolo comparvero i capitoli finali da 21 a 23, dove si allude anche alla morte dell’apostolo.
All’inizio del Vangelo di Giovanni è posto un prologo con un inno di straordinaria bellezza, divenuto una delle pagine più celebri dell’intera Bibbia e che dal XIII secolo fino all’ultimo Concilio, chiudeva la celebrazione della Messa: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio….”.
L’Apocalisse come già detto è l’unico libro profetico del Nuovo Testamento e conclude il ciclo dei libri sacri e canonici riconosciuti dalla Chiesa, il suo titolo in greco vuol dire ‘Rivelazione’.
Denso di simbolismi, spesso si è creduto che fosse un infausto oracolo sulla fine del mondo, invece è un messaggio concreto di speranza, rivolto alle Chiese in crisi interna e colpite dalla persecuzione di Babilonia o della bestia, cioè la Roma imperiale, affinché ritrovino coraggio nella fede, dimostrandolo con la testimonianza.
È un’opera di grande potenza e suggestione e anche se il linguaggio e i simboli sono del genere ‘apocalittico’, corrente letteraria e teologica molto diffusa nel giudaismo, il libro si autodefinisce ‘profezia’, cioè lettura dell’azione di Dio all’interno della storia.
Colori, animali, sogni, visioni, numeri, segni cosmici, città, costellano il libro e sono gli elementi di questa interpretazione della storia alla luce della fede e della speranza.
Il libro inizia con la scena della corte divina con l’Agnello – Cristo e il libro della storia umana e alla fine dell’opera c’è il duello definitivo tra Bene e Male, cioè tra la Chiesa e la Prostituta (Roma) imperiale, con la rivelazione della Gerusalemme celeste, dove si attende la venuta finale del Cristo Salvatore.
Di Giovanni esistono anche tre ‘Epistole’ scritte probabilmente a Efeso, che hanno lo scopo di sottolineare e difendere presso determinati gruppi di fedeli (o uno solo, con la terza) alcune verità fondamentali, che erano attaccate da dottrine gnostiche.
San Giovanni ha come simbolo l’aquila, perché come si credeva che l’aquila potesse fissare il sole, anche lui nel suo Vangelo fissò la profondità della divinità.
È il patrono della Turchia e dell’Asia Minore, patronato confermato da papa Benedetto XV il 26 ottobre 1914; giacché Gesù gli affidò la Vergine Maria, è considerato patrono delle vergini e delle vedove; per i suoi grandi scritti è patrono dei teologi, scrittori, artisti; per il suo supplizio dell’olio bollente, protegge tutti coloro che sono esposti a bruciature oppure hanno a che fare con l’olio, quindi: proprietari di frantoi, produttori di olio per lampade, armaioli; patrono degli alchimisti, è invocato contro gli avvelenamenti e le intossicazioni alimentari.
Anche i “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” che rappresentano conquista, guerra, fame, morte, sono un suo simbolo. In Oriente il suo culto aveva per centro principale Efeso, dove visse e l’isola di Patmos nel Dodecanneso dove fu esiliato a dove nel secolo XI s. Cristodulo fondò un monastero a lui dedicato, inglobando la grotta dove l’apostolo ricevette le rivelazioni e scrisse l’Apocalisse.
In Occidente il suo culto si diffuse in tutta Europa e templi e chiese sono a lui dedicate un po’ dappertutto, ma la chiesa principale costruita in suo onore è S. Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma.
Inizialmente i grandi santi del primo cristianesimo Stefano, Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni, erano celebrati fra il Natale e la Circoncisione (1° gennaio); poi con lo spostamento in altre date di s. Pietro, s. Paolo e s. Giacomo, rimasero solo s. Stefano il 26 dicembre e s. Giovanni apostolo ed evangelista il 27 dicembre.

Autore: Antonio Borrelli

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Publié dans:Santi, SANTI APOSTOLI, Santi Evangelisti |on 27 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

18 Ottobre: San Luca Evangelista

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18 Ottobre: San Luca Evangelista 

Festa di san Luca, Evangelista, che, secondo la tradizione, nato ad Antiochia da famiglia pagana e medico di professione, si convertì alla fede in Cristo. Divenuto compagno carissimo di san Paolo Apostolo, sistemò con cura nel Vangelo tutte le opere e gli insegnamenti di Gesù, divenendo scriba della mansuetudine di Cristo, e narrò negli Atti degli Apostoli gli inizi della vita della Chiesa fino al primo soggiorno di Paolo a Roma. (Martirologio Romano)

La benignità del Salvatore.
San Paolo, nell’epistola a Tito, ricorda per due volte che è « apparsa sulla terra la benignità e l’umanità di Dio Salvatore ». Si direbbe che abbia ripetute spesso quelle parole al discepolo prediletto, san Luca, nelle conversazioni, nei viaggi, nella loro lunga intimità.
Se è cosa difficile stabilire differenze e anche soltanto fare confronti tra i Santi e più ancora fra gli Evangelisti, si può tuttavia notare che il Vangelo di san Luca ci presenta prima di tutto un Salvatore buono e misericordioso. San Luca era uomo di talento, conosceva in modo mirabile il greco, descriveva e dipingeva con garbo scene e paesaggi e aveva un’anima squisita per bontà e dolcezza che dava al talento un’attrattiva straordinaria.

Il medico.
San Luca aveva fatto studi di medicina e san Paolo lo chiama « medico carissimo ». Nelle narrazioni di guarigioni operate da Gesù rivela la sua qualità di medico sa dissimulare a perfezione quando qualcosa non giova alla buona fama dei medici, come nel caso dell’emorroissa, mentre gli altri evangelisti indugiano sulla incapacità della scienza umana quasi con compiacenza.

Il ritrattista.
L’abilità di narratore e di pittore gli ha fatto attribuire il ritratto della Vergine Maria, ma il ritratto più bello della Madre del Salvatore egli ce lo dà nel Vangelo e negli Atti e si pensa con ragione che egli abbia conosciuti i dettagli sull’infanzia del Signore da Maria stessa o dai suoi confidenti immediati.
Si può dire ancora che egli fu un pittore eccellente del salvatore Gesù. Nel suo racconto, non solo evitò qualsiasi anche apparente severità per le persone, ma notò pure appena di passaggio le crudeltà delle quali il Salvatore fu vittima durante la Passione. Si fermò invece con compiacenza a descrivere a lungo i primi tempi della vita di Gesù, presentandolo sempre con la Madre e parlando spesso della sua preghiera, della sua misericordia per i peccatori, della sua pazienza verso i nemici. Egli ci ha dato i racconti della donna peccatrice, del buon Samaritano, del figlio prodigo, del buon ladrone, dei discepoli di Emmaus e in tutta la narrazione appare preoccupato ispirarci confidenza nella « benignità e umanità del nostra Salvatore » venuto per salvare « tutti gli uomini ». Egli vuole persuaderci che tutte le miserie umane, fisiche e morali,  possono essere guarite dal Salvatore del quale l’Apostolo, i primi discepoli e la Vergine stessa gli hanno parlato; vuole che intendiamo come rivolte a noi le parole di tenerezza di Gesù: « Dico a voi, che siete miei amici… Non temete, piccolo gregge…  » e, leggendo si comprende che lo sguardo di Gesù durante la Passione non si ferma solo su Pietro, ma sopra ciascuno di noi.

La mortificazione della croce.
Tuttavia san Luca non pecca di omissione. Ci attira al Maestro, ma non esita a dirci che per seguirlo ed essere degni di Lui, bisogna prendere la croce, rinunciare totalmente a se stessi, abbandonare le proprie cose. Siccome questo non si fa senza sacrificio, egli ce lo dice con dolcezza, imitando la melodia gregoriana del Communio del Comune dei martiri, che si fa carezzevole, seducente, per portarci a prendere con Gesù la croce ogni giorno.
Egli pure prese la sua croce e la Chiesa nell’Orazione della Messa lo loda « per aver portato sempre nel suo corpo la mortificazione della croce, per la gloria di Dio ». Se la Chiesa usa il colore rosso dei martiri, per onorare colui che fra gli Apostoli e gli Evangelisti solo non versò il sangue per Cristo, bisogna che la sua mortificazione sia stata ben meritoria. Fu essa il suo martirio, martirio non di qualche giorno o di qualche ora, ma di tutta la vita, forse ignoto ai contemporanei, ma noto alla Chiesa che, guidata dallo Spirito Santo lo glorifica oggi nella Liturgia.

L’insegnamento.
Per noi c’è qui un insegnamento. Come san Luca, possiamo e dobbiamo essere martiri. Col battesimo ci siamo impegnati a preferire la morte al peccato mortale e avviene che noi dobbiamo scegliere tra la morte e il peccato. Bisogna allora scegliere senza esitazione, certi della ricompensa che seguirà alla scelta.
Ma d’ordinario non possiamo scegliere tra morte e peccato, e la coscienza ci impone soltanto di rinunciare al nostro egoismo e ce lo impone tutti i giorni e, siccome tutti i giorni lo sforzo si rinnova, noi qualche volta cediamo, rinunciando all’amicizia o per lo meno all’intimità divina, conservando nel cuore un poco di amor proprio. Se vi rinunciassimo, ci assicureremmo la gloria che riceve san Luca nella sua eternità beata. La sua intercessione e il suo esempio possano aiutarci a camminare sulle sue orme e su quelle del salvatore e della Madre sua dei quali il Vangelo ci presenta una così seducente figura.
VITA. – Luca nacque ad Antiochia da famiglia pagana e si convertì senza dubbio verso l’anno 40. Incontrandolo a Troade, san Paolo lo prese per compagno nel secondo viaggio a Filippi, nel 49. Più tardi Luca si unisce definitivamente all’Apostolo. Dopo la morte di san Paolo, Luca lascia Roma e da allora noi perdiamo le sue tracce e più nulla sappiamo di lui.
Luca è tutto bontà e dolcezza e sfrutta il suo talento letterario, scrivendo il suo Vangelo verso il 60 con lo scopo di attirare i gentili verso la bellezza e la misericordia del Signore. Più tardi scrive gli Atti degli Apostoli. Muore, senza versare il sangue per Cristo, ma la Chiesa l’onora come martire, per la mortificazione e le sofferenze sopportate in vita per la causa del Vangelo.

La mortificazione della croce.
Sii benedetto, o Evangelista dei gentili, per aver posto fine alla lunga notte, che ci teneva prigionieri e soffocava i nostri cuori.. Confidente nella Madre di Dio, l’anima tua risente del profumo verginale di queste relazioni e lo riverbera negli scritti e in tutta la vita. Nell’opera grandiosa in cui l’Apostolo delle genti, troppo spesso abbandonato e tradito, ti trovò ugualmente fedele nel momento del naufragio (At 27) e della prigionia (2Tm 4,11) come nei giorni migliori furono tua parte la tenerezza discreta e la silenziosa devozione. Perciò a buon diritto la Chiesa applica a te le parole che Paolo diceva di se stesso: sempre siamo tribolati, esitanti, perseguitati, abbattuti, portando nel nostro corpo la morte di Gesù, questa morte che manifesta senza fine la vita del Signore nella nostra carne mortale (2Cor 4,8-11). Il figlio dell’uomo, che la tua penna ispirata ci fece amare nel suo Vangelo, tu lo riproduci nella sua santità in te stesso.

Il pittore.
Custodisci in noi il frutto dei tuoi molteplici insegnamenti. Se i pittori cristiani ti onorano, se è bene che imparino da te che l’ideale di ogni bellezza risiede nel Figlio e nella Madre sua, vi è tuttavia un’arte, che sorpassa quella delle linee e dei colori: quella che produce in noi la rassomiglianza divina. In questa noi vogliamo eccellere alla tua scuola, perché sappiamo di san Paolo, il tuo maestro, che la conformità di immagine con il Figlio di Dio è l’unico titolo alla predestinazione degli eletti (Rm 8,29).

Il medico.
Proteggi i medici fedeli, che si onorano di camminare suoi tuoi passi e si appoggiano, nel loro ministero di sacrificio e di carità, alla fiducia di cui tu godi presso l’autore della vita. Aiutali nelle cure rivolte a guarire e a sollevare le sofferenze e ispira il loro zelo quando il momento di una temibile morte si approssima.
Purtroppo il mondo, nella sua senile debolezza, richiede la dedizione di chiunque sia in grado, con la preghiera e con l’azione di scongiurare la sua crisi. Quando il figlio dell’uomo ritornerà credete che troverà ancora la fede sulla terra? (Lc 18,8) così parla il Signore nel tuo Vangelo, ma aggiunge che bisogna pregare senza interruzione (ibidem), per la Chiesa dei tempi nostri e di tutti i tempi secondo la parabola della vedova importuna, che finisce per aver ragione del giudice iniquo, che ha in mano la sua causa.  Dio non renderà giustizia ai suoi eletti, se continuamente lo supplicheranno? tollererà che siano oppressi senza fine? Io vi dico: li vendicherà con prontezza (ivi, 2-8).

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1196-1199

Publié dans:Santi Evangelisti |on 17 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

25 APRILE SAN MARCO EVANGELISTA

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25 APRILE SAN MARCO EVANGELISTA

San Marco evangelista – Palestina, circa 20 – Alessandria, seconda metà del I secolo d.C.) fu discepolo dell’apostolo Paolo, e in seguito di Pietro ed è tradizionalmente ritenuto l’autore del vangelo secondo Marco. È venerato come santo da varie Chiese cristiane, tra cui quellacattolica, quella ortodossa e quella copta, che lo considera proprio patriarca.
Nacque in Palestina sotto l’imperatore Augusto. Poco o nulla si sa della sua giovinezza e della sua famiglia. Dal Nuovo Testamento, unica fonte di informazioni su di lui, sappiamo che era cugino di Barnaba (lettera ai Colossesi 4,10) e che quindi era ebreo di stirpe levitica.
Negli Atti degli Apostoli abbiamo un primo riferimento preciso su di lui nell’episodio in cui si descrive la liberazione « miracolosa » di Pietro dalla prigione:
  » Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera «    (Atti 12,12)

Secondo il brano sua madre si chiamava Maria e a quel tempo abitava a Gerusalemme. Si noti anche che Marco aveva due nomi, uno gentile e uno ebreo; quello ebreo era Giovanni. A quel tempo era un’usanza abbastanza comune tra gli israeliti: basti ricordare Paolo, che viene indicato anche con il nome di Saulo. In altri passi degli Atti viene chiamato o con il nome di Giovanni o con quello di Marco o con entrambi.
Non si sa se conobbe direttamente Gesù poiché questa informazione non ci è pervenuta da nessuna fonte. Ma se abitava a quel tempo a Gerusalemme deve aver perlomeno sentito parlare di lui. Di sicuro sappiamo che, pochi anni dopo la morte del Maestro, gli apostoli e i discepoli si riunivano a casa di sua madre.
Il fatto che sia l’unico evangelista a menzionare la fuga di un giovinetto che seguiva da lontano gli avvenimenti della cattura di Cristo nell’orto degli ulivi:
  » Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo «    (Marco 14,1.51.52)

fa supporre fondatamente che sia egli stesso questo giovinetto.
Dalla prima lettera di Pietro:
  » Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio « 
apprendiamo che si trovava a Babilonia, zona del Cairo, in Egitto, ove si trovava l’omonima fortezza e si sviluppò poi la Chiesa cristiana copta.
Il passo potrebbe però intendersi anche con la presenza di Marco a fianco di Pietro a Roma. Infatti, nel linguaggio dei primi cristiani, Babilonia indicava anche laRoma pagana ed idolatra[2]. A tutt’oggi la basilica romana di San Marco testimonia la presenza di Marco a Roma, visto che, secondo una tradizione, fu eretta sul luogo in cui sorgeva la casa in cui risiedette l’evangelista nel suo soggiorno nella Capitale dell’Impero. Essa si trova proprio di fronte al Campidoglio, nel centro dell’antica Roma, e non come l’abitazione di Paolo, nel ghetto ebraico sulla sponda del Tevere. Secondo Eusebio, Pietro e Marco giunsero a Roma per la prima volta « al principio del Regno di Claudio » (Hist. eccl., II, 14.6) e, quindi, nel 41 d.C. Il fatto che Pietro, nella sua lettera, chiami il nostro Evangelista come mio figlio fa pensare che debba aver ricevuto il battesimo dallo stesso Principe degli Apostoli.
Dagli Atti apprendiamo che partì insieme a Paolo e a suo cugino per Antiochia. Viene indicato come aiutante di Paolo quando egli predicava a Salamina (Cipro) (Atti 13,5). In seguito, lo stesso libro ci riferisce che abbandona Paolo, forse spaventato dalle tremende fatiche degli spostamenti dell’apostolo o dalla crescente ostilità che lo stesso incontrava.
  » Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme «    (Atti 13,13)

In seguito alla sua defezione Paolo, partendo per consolidare le chiese della Siria e della Cilicia, si scelse come compagno Sila mentre Marco partì con suo cugino per Cipro (Atti 15,37.41) Questo accadde nel 52. Negli Atti queste sono le ultime indicazioni che troviamo dell’evangelista. In seguito Paolo dovette dimenticare questi dissidi in quanto ritroviamo Marco a fianco dell’apostolo a Roma nel 62-64, ne abbiamo notizia da una lettera di Paolo:
  » Vi saluta Aristarco, il mio compagno di prigione, e Marco, il cugino di Barnaba (intorno al quale avete ricevuto ordini; qualora venisse da voi, ricevetelo), e Gesù detto il Giusto, i quali sono della circoncisione; fra questi sono i soli miei collaboratori per il regno di Dio, in quanto mi sono stati di consolazione «   (Colossesi 4,10ss)

Qualche anno più tardi lo ritroviamo in compagnia di Pietro, che lo cita nella sua prima lettera come indicato in precedenza. Questo dimostra la sua grande attività svolta negli anni cinquanta non solo a Cipro. Forse rientrato in oriente prima della persecuzione scatenata da Nerone nel 64, ma Paolo nel 66 lo rivuole con sé. Come indicato nella sua lettera a Timoteo:
  » Affrettati a venire da me al più presto… Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero «    (2Tim 4,9-11)

Dopo la morte a Roma del principe degli Apostoli, non vi sono più notizie certe su Marco. La tradizione lo vuole evangelizzatore in Egitto e fondatore della chiesa di Alessandria che lo vuole come suo primo vescovo. Altra tradizione vuole che Marco – prima di rientrare in Egitto – fosse stato inviato da Pietro nella metropoli alto-adriatica di Aquileia – capoluogo della Regione Venetia et Histria – per curare l’evangelizzazione dell’area nord-est. A Marco si deve la scelta del primo Vescovo della Chiesa-madre di Aquileia (Ermagora, associato sempre al suo diacono Fortunato) dalla quale deriverà, in tempi e per complesse vicende successive, il titolo del Patriarcato di Grado poi assorbito da Venezia. Nella Basilica di Aquileia (la cui cripta è affrescata con il ciclo della Predicazione di San Marco) e poi nella sede patriarcale di Cividale del Friuli si conservava il « Vangelo di San Marco », attribuito dalla tradizione alla stessa mano dell’Evangelista. Il testo (in realtà tardivo) è denominato « Evangelarium Forojuliense » ed è oggi ripartito in tre parti: una conservata nel Museo archeologico nazionale di Cividale; la seconda nell’Archivio Capitolare del Duomo di Praga (dono del Patriarca di Aquileia Nicola di Lussemburgo al fratellastro Carlo IV, Sacro Romano Imperatore nel XIV secolo); la terza nella Biblioteca Marciana di Venezia (ambita preda di guerra dopo la conquista del Friuli da parte della Serenissima nel 1420).
Non vi sono notizie certe su dove, come e quando Marco morì. Eusebio sostiene che la sua morte sia avvenuta ad Alessandria, dove venne ucciso facendo trascinare il suo corpo per la città, questa versione dei fatti viene riportata anche nella Legenda Aurea.
Le sue spoglie vengono trafugate con uno stratagemma da due mercanti veneziani nell’anno 828 e trasportate, dopo averle nascoste in una cesta di ortaggi e di carne di maiale[3], a Venezia, dove pochi anni dopo verrà dato inizio alla costruzione della Basilica che ancora oggi ospita le sue reliquie (è stato però anche ipotizzato che i resti conservati nella basilica veneziana possano invece essere quelli di Alessandro Magno[4]). Un frammento di esse è pure conservato nellachiesa di San Marco in Città a Cortona, in Toscana, che condivide con Venezia lo stemma comunale del leone alato ed il patronato.
Culto [modifica]
Il culto di San Marco, per l’importanza religiosa rivestita dalla condizione di Evangelista, è estremamente diffuso e capillare tra le Chiese cristiane. Centrale per le chiese orientali d’ Egitto, derivate dall’antico patriarcato di Alessandria, per i patriarcati italiani, oggi soppressi, di Aquileia e di Grado e per il patriarcato di Venezia, nella cui chiesa cattedrale, la basilica di San Marco, è tuttora conservato il corpo del Santo.
La memoria religiosa è il 25 aprile, in occasione della ricorrenza del martirio. Nell’antica Repubblica di Venezia, tuttavia erano dedicati a San Marco anche il 31 gennaio, ricordo della traslazione a Venezia delle reliquie, e il 25 giugno, data del rinvenimento, nel 1094, del luogo in cui esse erano state occultate.[5]

Publié dans:Santi Evangelisti |on 25 avril, 2012 |Pas de commentaires »
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