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27 Agosto: Santa Monica Madre di S. Agostino

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http://www.pastoralespiritualita.it/Articoli-Rubriche/Vita-di-Santi-e-Beati/27-Agosto-Santa-Monica-Madre-di-S.-Agostino.html

27 Agosto: Santa Monica Madre di S. Agostino
 
Oggi la Chiesa fà memoria di santa Monica, che, data ancora giovinetta in matrimonio a Patrizio, generò dei figli, tra i quali Agostino, per la cui conversione molte lacrime versò e molte preghiere rivolse a Dio, e, anelando profondamente al cielo, lasciò questa vita a Ostia nel Lazio, mentre era sulla via del ritorno in Africa.
 
Visse per Agostino
Non è facile esagerare l’importanza che il rapporto con sua madre Monica ha avuto nel percorso esistenziale di Agostino. Senza la sua costanza, le sue lacrime, le sue preghiere, la sua passione per il figlio, la Chiesa e l’umanità oggi non avrebbero quel genio e quel santo che è il figlio. Monica era una donna semplice, ma dotata di una grande fede e di un carattere estremamente volitivo e tenace. Nata nel 331 in una famiglia profondamente cattolica e andata sposa a Patrizio, che era pagano, si trovò a vivere i problemi e le gioie quotidiane, i momenti più esaltanti e quelli più angoscianti di una donna: l’amore e la maternità (ebbe due figli e una figlia); le ansie connesse al sublime e difficile della loro educazione; le infedeltà coniugali del marito, uomo tenero e sensibile, ma volubile e facile all’ira; la fierezza e la preoccupazione per la « carriera » del figlio Agostino; la morte del marito (Patrizio muore nel 371, un anno dopo essersi convertito al cristianesimo); il dovere di sostenere con il suo lavoro la famiglia; gli interrogativi della fede personale e della fede da trasmettere ai propri figli; la constatazione amara del proprio fallimento di mamma cristiana, quando si vede ritornare a casa il figlio Agostino, professore sì, ma che ha rinunciato alla fede cristiana… Agostino traccia un ritratto della vita vedovile di Monica: un’esistenza sobria e austera, caratterizzata da un’intensa preghiera e da attività caritative. Alle preghiere e alle lacrime, Monica aggiunse l’impegno costante di restare vicino al figlio. In un primo momento, in verità, il suo atteggiamento fu diverso. Quando lo vide tornare da Cartagine laureato – il sogno lungamente vagheggiato da Monica e dal defunto Patrizio – la sua gioia fu distrutta dal saperlo lontano dalla Chiesa cattolica e manicheo. In più aveva con sé una donna che non era la sua legittima moglie. Monica ebbe uno scatto di fierezza e lo cacciò di casa. Il giovane professore dovette rifugiarsi presso l’amico e mecenate Romaniano. Non si pensi che il gesto fosse dettato dalla presenza della donna: la società di allora non era così puritana, e del resto, una volta che Agostino avesse ricevuto il Battesimo, la situazione poteva essere sanata. Il vero motivo era l’eresia. Ora che in casa tutti erano cattolici, il figlio maggiore, su cui riponeva tante speranze, la deludeva così profondamente. Ma un sogno contribuì a farle cambiar decisione. Un giovane sorridente le si avvicina chiedendole il motivo della mestizia e delle sue lacrime. Alla spiegazione del suo pianto per la perdizione del figlio, il giovane le dice: “Perché piangi? Non vedi che dove sei tu, là c’è anche lui?” e così scorge il figlio vicino a lei. Di fatto decise di riprenderlo in casa e di dividere con lui la sua mensa. Si era convinta, in altre parole, che il metodo della contrapposizione aperta non serviva. Con quel figlio – ma forse vale per tutti i figli – l’amore sarebbe stato più efficace della fierezza, al metodo della severità era preferibile quello della dolcezza, della persuasione, della pazienza. E da quel momento non si separò più da lui. Lo seguì a Cartagine e poi ovunque, appena poté, senza temere, lei umile donna, i pericoli del mare, le fatiche e i disagi di lunghi viaggi, le incognite di terre e persone straniere. Il momento più doloroso per Monica fu quando Agostino, con l’inganno, non le permise di seguirlo alla sua partenza per Roma. Tuttavia lo raggiunse a Milano nel 385, fece parte del gruppo che con il figlio si ritirò in una villa in Brianza, in una località chiamata Cassiciacum, per riflettere e meditare. In questo luogo Agostino scrisse le sue prime opere: i dialoghi. Monica assistette pure al battesimo del figlio e con lui si diresse poi verso Roma per tornare in Africa.

L’estasi di Ostia Tiberina
In attesa dell’imbarco si fermarono ad Ostia. Di questo soggiorno Agostino racconta nelle Confessioni l’episodio noto come estasi di Ostia.

“… Accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d’uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta. Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea, non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d’amore verso l’Essere stesso, percorremmo su su tutte le cose corporee e il cielo medesimo, onde il sole e la luna e le stelle brillano sulla terra. E ancora ascendendo in noi stessi con la considerazione, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue opere, giungemmo alle nostre anime e anch’esse superammo per attingere la plaga dell’abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità, ove la vita è la Sapienza, per cui si fanno tutte le cose presenti e che furono e che saranno, mentre essa non si fa, ma tale è oggi quale fu e quale sempre sarà; o meglio, l’essere passato e l’essere futuro non sono in lei, ma solo l’essere, in quanto eterna, poiché l’essere passato e l’essere futuro non è l’eterno. E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito, per ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine. E cos’è simile alla tua Parola, il nostro Signore, stabile in se stesso senza vecchiaia e rinnovatore di ogni cosa? Si diceva dunque: « Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell’acqua e dell’aria, tacessero i cieli, e l’anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: « Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente »; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l’orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne o voce d’angelo o fragore di nube o enigma di parabola, ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose, come or ora protesi con un pensiero fulmineo cogliemmo l’eterna Sapienza stabile sopra ogni cosa, e tale condizione si prolungasse, e le altre visioni, di qualità grandemente inferiore, scomparissero, e quest’unica nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque la vita eterna somigliasse a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare: non sarebbe questo l’ »entra nel gaudio del tuo Signore »? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati? ». Così dicevo, sebbene in modo e parole diverse. Fu comunque, Signore, tu sai, il giorno in cui avvenne questa conversazione, e questo mondo con tutte le sue attrattive si svilì ai nostri occhi nel parlare, che mia madre disse: « Figlio mio, per quanto mi riguarda, questa vita ormai non ha più nessuna attrattiva per me. Cosa faccio ancora qui e perché sono qui, lo ignoro. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c’era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui? », (Conf IX, 10.23-26).

La morte di Monica
Monica morì pochi giorni dopo questo colloqui con il figlio, che così ci racconta gli ultimi istanti della vita della madre. Era l’autunno del 387: “… Entro cinque giorni o non molto più, si mise a letto febbricitante e nel corso della malattia un giorno cadde in deliquio e perdette la conoscenza per qualche tempo. Noi accorremmo, ma in breve riprese i sensi, ci guardò, mio fratello e me, che le stavamo accanto in piedi, e ci domandò, quasi cercando qualcosa: « Dov’ero? »; poi, vedendo il nostro afflitto stupore: « Seppellirete qui, soggiunse, vostra madre ». Io rimasi muto, frenando le lacrime; mio fratello invece pronunziò qualche parola, esprimendo l’augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma in patria, che sarebbe stata migliore fortuna. All’udirlo, col volto divenuto ansioso gli lanciò un’occhiata severa per quei suoi pensieri, poi, fissando lo sguardo su di me, esclamò: « Vedi cosa dice », e subito dopo, rivolgendosi a entrambi: « Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore » (Conf. IX, 11.27).
 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 26 août, 2011 |Pas de commentaires »

20 agosto – San Bernardo

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/248.html

20 agosto – San Bernardo

Abate e Dottore della chiesa

BIOGRAFIA
Nacque nel 1090 presso Digione in Francia. Educato piamente, nel 1111 si associò ai monaci Cistercensi e poco dopo, eletto abate del monastero di Chiaravalle, guidò egregiamente i monaci alla pratica delle virtù con l’azione e con l’esempio. A causa degli scismi sorti nella Chiesa, percorse l’Europa per ristabilire la pace e l’unità. Scrisse molte opere riguardanti la teologia e l’ascetica. Morì nel 1153.

MARTIROLOGIO
Memoria di san Bernardo, abate e dottore della Chiesa, che entrato insieme a trenta compagni nel nuovo monastero di Citeaux e divenuto poi fondatore e primo abate del monastero di Chiaravalle, diresse sapientamente con la vita, la dottrina e l’esempio i monaci sulla via dei precetti di Dio; percorse l’Europa per stabilirvi la pace e l’unità e illuminò tutta la Chiesa con i suoi scritti e le sue ardenti esortazioni, finchè nel territorio di Langres in Francia riposò nel Signore.

DAGLI SCRITTI…
Dai «Discorsi sul Cantico dei Cantici» di san Bernardo, abate
L’amore é sufficiente per se stesso, piace per se stesso e in ragione di sé. E’ se stesso merito e premio. L’amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi all’infuori di Sé. Il suo vantaggio sta nell’esistere. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa é l’amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere. L’amore é il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se non alla pari; l’unico con il quale possa contraccambiare il prossimo e, in questo caso, certo alla pari. Quando Dio ama, altro non desidera che essere amato. Non per altro ama, se non per essere amato, sapendo che coloro che l’ameranno si beeranno di questo stesso amore. L’amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore cerca soltanto il ricambio dell’amore e la fedeltà. Sia perciò lecito all’amata di riamare. Perché la sposa, e la sposa dell’Amore non dovrebbe amare? Perché non dovrebbe essere amato l’Amore? Giustamente, rinunziando a tutti gli altri suoi affetti, attende tutta e solo all’Amore, ella che nel ricambiare l’amore mira a uguagliarlo. Si obietterà, però, che, anche se la sposa si sarà tutta trasformata nell’Amore, non potrà mai raggiungere il livello della fonte perenne dell’amore. E’ certo che non potranno mai essere equiparati l’amante e l’Amore, l’anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura. La sorgente, infatti, dà sempre molto più di quanto basti all’assetato. Ma che importa tutto questo? Cesserà forse e svanirà del tutto il desiderio della sposa che attende il momento delle nozze, cesserà la brama di chi sospira, l’ardore di chi ama, la fiducia di chi pregusta, perché non é capace di correre alla pari con un gigante, gareggiare in dolcezza col miele, in mitezza con l’agnello, in candore con il giglio, in splendore con il sole, in carità con colui che é l’Amore? No certo. Sebbene infatti la creatura ami meno, perché é inferiore, se tuttavia ama con tutta se stessa, non le resta nulla da aggiungere. Nulla manca dove c’é tutto. Perciò per lei amare così é aver celebrato le nozze, poiché non può amare così ed essere poco amata. Il matrimonio completo e perfetto sta nel consenso dei due, a meno che uno dubiti che l’anima sia amata dal Verbo, e prima e di più.

SAN GIOVANNI MARIA VIANNEY (Curato d’Ars)

dal sito:

http://www.enrosadira.it/santi/g/vianney.htm

SAN GIOVANNI MARIA VIANNEY

CURATO D’ARS sacerdote

Nacque a Dardilly, presso Lione nel 1786. Fin da piccolo ama la solitudine ed è timorato di Dio, ma a Parigi a causa della rivoluzione non si può pregare, così i suoi genitori lo portano ad ascoltare Messa in un granaio fuori città. La pena per i preti sorpresi a celebrare Messa è la ghigliottina. Ciò nonostante il desiderio di Giovanni Maria è quello di diventare prete. A dicciasette anni riesce per la prima volta ad andare a scuola, dove con l’aiuto di un prete amico che crede nella sua vocazione, prova a seguire gli studi, ma con scarsi risultati. Le difficoltà divengono insormontabili quando si tratta di affrontare, in seminario, gli studi di filosofia e di teologia. A Grenoble, nel 1815, a ventinove anni, viene finalmente ordinato. Fu parroco di Ars nella diocesi di Belley, per circa quarantadue anni e il suo ascendente è ancora vivo nella parrocchia che ha santificato con il suo apostolato. Là fece rifiorire mirabilmente con l’efficace predicazione, con la mortificazione, la preghiera, la carità. Numerose furono le anime che si rivolsero al santo sacerdote, il quale giunse a trascorrere ore e ore in confessionale. Fu ammirabile nella devozione a Maria, al rosario, all’eucaristia. Estenuato dalle fatiche, macerato dai digiuni e dalle penitenze, nel 1859 terminò i suoi giorni nel bacio del Signore. Prima ancora che Pio XI lo iscrivesse nell’albo dei santi e lo proclamò patrono del clero, Ars era diventata meta di pellegrinaggi.

Dal « Catechismo » di san Giovanni Maria Vianney sacerdote Fate bene attenzione, miei figlioli: il tesoro del cristiano non è sulla terra, ma in cielo. Il nostro pensiero perciò deve volgersi dov’è il nostro tesoro. Questo è il bel compito dell’uomo: pregare ed amare. Se voi pregate ed amate, ecco, questa è la felicità dell’uomo sulla terra. La preghiera nient’altro è che l’unione con Dio Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, preso da una certa soavità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme che nessuno può più separare. Come è bella questa unione di Dio con la sua piccola creatura! E’ una felicità questa che non si può comprendere. Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però, nella sua bontà, ci ha permesso di parlare con lui. La nostra preghiera è incenso a lui quanto mai gradito. Figlioli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che discende a noi dal paradiso. Non ci lascia mai senza dolcezza. Infatti è miele che stilla nel l’anima e fa che tutto sia dolce. Nella preghiera ben fatta i dolori si sciolgono come neve al sole. Anche questo ci dà la preghiera: che il tempo scorra con tanta velocità e tanta felicità dell’uomo che non si avverte più la su lunghezza. Ascoltate: quando ero parroco di Bresse dovendo per un certo tempo sostituire i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso percorrere lunghi tratti di strada; allora pregava il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva mai lungo. Ci sono alcune persone che si sprofondano completamente `nella preghiera come un pesce ne l’onda, perché sono tutte dedite al buon Dio. No c’è divisione alcuna nel loro cuore

26 luglio – Sant’Anna e San Gioacchino (m)

dal sito:

http://digilander.libero.it/giardinodegliangeli/Devozioni/NonniGesu.html

Sant’Anna e San Gioacchino
 
I Nonni di Gesù
Sant’Anna e San Gioacchino, rappresentano un pezzo fondamentale della storia della salvezza. Davvero preziosa è la loro eredità, se essa è costituita dalla persona stessa del Verbo incarnato! Il loro nipote è Gesù Cristo, Dio generato nella carne umana da Maria. Gesù dice “Dai frutti  conoscerete la pianta”. Dalla santità del frutto, cioè di Maria, Immacolata fin dal concepimento, colei che doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino.
Celebrare la festa dei “nonni” di Cristo, significa per la Chiesa prendere sul serio, fino in fondo, l’inserzione di Dio stesso nelle generazioni umane.

***
Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia), Gioacchino in ebraico significa Dio rende forti.
Sant’Anna, madre della Beata Vergine Maria, è patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, viene spesso ritratta con un mantello verde, il colore delle gemme a primavera, perchè dal suo seno è germogliata la Speranza del mondo. Mancando nei Vangeli ogni accenno ai genitori della Vergine, i nomi dei genitori di Maria si conoscono dall’apocrifo ‘Protovangelo di Giacomo’ (II Sec.) dal quale emergono due biografie dense di fede e di tenerezza. Il Protovangelo inizia la sua narrazione con gli eventi che cambiarono la vita di Gioacchino e Anna. Gioacchino era un uomo molto ricco, che faceva le sue offerte al Tempio in misura doppia, dicendo: “Quello che do in più sia per tutto il popolo”». Ma quest’uomo ricco e pio viveva il grande dolore di non aver avuto figli in vent’anni di matrimonio con la sua pia sposa Anna. Egli si ricordò del patriarca Abramo, al quale Dio, nella vecchiaia aveva concesso un figlio, Isacco. Profondamente afflitto Gioacchino si ritirò nel deserto per quaranta giorni: «Non scenderò di qui né per mangiare né per bere, finché il Signore mio Dio non mi avrà guardato benignamente, e la preghiera sarà per me cibo e bevanda». Anna intanto viveva un duplice dolore: «Piangerò la mia vedovanza, e piangerò la mia sterilità», e implorava il Signore dicendo: «Benedicimi ed esaudisci la mia preghiera, come hai benedetto il ventre di Sara». Ed ecco che l’angelo del Signore le si presentò davanti: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai, e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”. E Anna rispose: “Se io metterò al mondo un figlio lo darò come offerta al Signore mio Dio e starà al suo servizio per tutti i giorni della sua vita”. Gioacchino, avvertito da un angelo, ritornò a casa da sua moglie, che appena lo vide arrivare gli si appese al collo piena d’emozione  «Ora so che il Signore Iddio mi ha grandemente benedetta». Dopo nove mesi Anna diede alla luce una bambina, alla quale mise il nome Maria. Quando la bambina ebbe compiuto tre anni fu portata al Tempio, dove venne accolta dal sacerdote che, la benedisse dicendo: «Il Signore ha glorificato il tuo nome per tutte le generazioni, in te alla fine dei tempi il Signore manifesterà la sua redenzione per i figli d’Israele». Pur nella discordante letteratura apocrifa, il fondamento storico, è probabilmente arricchito da elementi secondari, copiati dalla vicenda della madre di Samuele. La tradizione cristiana ha comunque, accolto e venerato Gioacchino e Anna come i genitori della Vergine. Il culto di Gioacchino e di Anna è molto antico, si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente
Il culto di Sant’Anna è documentato in Oriente nel VI Sec., in Occidente nel X Sec., quello di San Gioacchino nel XIV Sec.

La Chiesa li festeggia il 26 Luglio.

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 25 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

22 luglio : Santa Maria Maddalena (di Magdala)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23600

Santa Maria Maddalena (di Magdala)

22 luglio

Magdala, sec. I

La Chiesa latina era solita accomunare nella liturgia le tre distinte donne di cui parla il Vangelo e che la liturgia greca commemora separatamente: Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, la peccatrice «cui molto è stato perdonato perché molto ha amato», e Maria Maddalena o di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesù, che ella seguì e assistette con le altre donne fino alla crocifissione ed ebbe il privilegio di vedere risorto. L’identificazione delle tre donne è stata facilitata dal nome Maria comune almeno a due e dalla sentenza di San Gregorio Magno che vide indicata in tutti i passi evangelici una sola e medesima donna. I redattori del nuovo calendario, riconfermando la memoria di una sola Maria Maddalena senz’altra indicazione, come l’aggettivo « penitente », hanno inteso celebrare la santa donna cui Gesù apparve dopo la Risurrezione. È questa la Maddalena che la Chiesa oggi commemora e che, secondo un’antica tradizione greca, sarebbe andata a vivere a Efeso, dove sarebbe morta. In questa città avevano preso dimora anche Giovanni, l’apostolo prediletto, e Maria, Madre di Gesù. (Avvenire)

Patronato: Prostitute pentite, Penitenti, Parrucchieri
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall’egiziano; signora, dall’ebraico

Emblema: Ampolla d’unguento

Martirologio Romano: Memoria di santa Maria Maddalena, che, liberata dal Signore da sette demòni, divenne sua discepola, seguendolo fino al monte Calvario, e la mattina di Pasqua meritò di vedere per prima il Salvatore risorto dai morti e portare agli altri discepoli l’annuncio della risurrezione.
Maria di Magdala, risanata dal Signore Gesù, seguendolo lo serviva con grande affetto (Lc. 8,3). Alla fine, quando i discepoli erano fuggiti, Maria Maddalena era là in piedi presso la croce del Signore con Maria, Giovanni ed alcune donne (Gv. 19,25). Il giorno di Pasqua Gesù apparve a lei e la mandò ad annunciare la sua risurrezione ai discepoli (Mc. 16,9; Gv 20,11-18).
La Chiesa latina era solita accomunare nella liturgia le tre distinte donne di cui parla il Vangelo e che la liturgia greca commemora separatamente: Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, l’innominata peccatrice « cui molto è stato perdonato perché molto ha amato », e Maria Maddalena o di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesù, che ella seguì e assistette con le altre donne fino alla crocifissione ed ebbe il privilegio di vedere risorto. L’identificazione delle tre donne è stata facilitata dal nome Maria comune almeno a due e dalla sentenza di S. Gregorio Magno che vide indicata in tutti i passi evangelici una sola e medesima donna.
I redattori del nuovo calendario, riconfermando la memoria di una sola Maria Maddalena senz’altra indicazione, come l’aggettivo « penitente », hanno inteso celebrare la santa donna cui Gesù apparve dopo la Risurrezione. Al capitolo settimo S. Luca, dopo aver descritto l’unzione della peccatrice che irrompe improvvisamente nella sala del banchetto e versa sui piedi di Gesù profumati unguenti che poi asciuga coi propri capelli, prosegue così il suo racconto: « In seguito Gesù passava di città in città, di villaggio in villaggio… e con lui andavano i dodici, ed anche alcune donne, le quali erano state guarite da spiriti maligni e da infermità: Maria, detta Maddalena, da cui erano stati cacciati sette demoni, Giovanna… e molte altre donne, le quali somministravano ad essi i loro averi ».
L’ignota peccatrice, che per la contrizione perfetta ha meritato il perdono dei peccati, è distinta dalla Maddalena, ben conosciuta, che segue costantemente il Maestro dalla Galilea alla Giudea, fino ai piedi della croce e il cui ardente amore Gesù premia nel giorno della Risurrezione. Ella è inconfondibilmente « presso la croce di Gesù », poi in veglia amorosa « seduta di fronte al sepolcro », infine, all’alba del nuovo giorno è la prima a recarsi di nuovo al sepolcro, dove ella rivede e riconosce il Cristo risorto da morte. Alla Maddalena, in lacrime per aver scorto il sepolcro vuoto e la grossa pietra ribaltata, Gesù si rivolge chiamandola semplicemente per nome: « Maria! » e a lei affida l’annuncio del grande mistero: « Va’ a dire ai miei fratelli: io salgo al Padre mio e Padre vostro, al mio Dio e vostro Dio ». E’ questa la Maddalena che la Chiesa oggi commemora e che, secondo un’antica tradizione greca, sarebbe andata a vivere a Efeso, dove sarebbe morta. In questa città avevano preso dimora anche Giovanni, l’apostolo prediletto, e Maria, Madre di Gesù.
L’Ordine dei Predicatori l’annoverò nel numero dei suoi Patroni. Frati e Suore la onorarono in ogni tempo col titolo di “Apostola degli Apostoli”, come viene celebrata nella Liturgia Bizantina, e paragonarono la missione della Maddalena, di annunciare la risurrezione, col loro ufficio apostolico.

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Aggiunto il 2002-04-11

Publié dans:santi: biografia |on 21 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

15 luglio: San Bonaventura da Bagnoregio (1217 – 1274)

dal sito:

http://www.verginemontecarmelo.org/lettura-spirituale-figure.asp?id=29

San Bonaventura da Bagnoregio (1217 – 1274)

Profilo biografico

Nato a Civita di Bagnoregio probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.

La guarigione per intercessione di s. Francesco e la vocazione francescana
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì. La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: « Che cosa devo fare della mia vita? ». Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura.

Gli studi a parigi
Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di « baccelliere biblico » e di « baccelliere sentenziario ». Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.

La polemica contro gli ordini mendicanti
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione. Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV.

Ministro generale dell’ordine e Cardinale
Nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni.
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale.

La morte
Nel 1274 partecipò al Concilio di Lione. preparare, che aveva come scopo il ristabilmento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca, divenendone anima ed oracolo Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica. Per l’eccessiva fatica o per la cagionevole salute morì nella notte tra il 14 ed il 15 luglio 1274. Al suo funerale parteciparono tutti i padri conciliari. Fu canonizzato il 14 aprile 1482 da Sisto IV. Nel 1588 Sisto V lo dichiara «Dottore Serafico». Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: « Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini. [...] Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare ».

La dottrina.

Gioacchino da Fiore e i Frati minori « spirituali »
San Bonaventura, tra i vari meriti, ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi, da lui venerato e studiato con grande amore. In particolar modo, ai tempi di san Bonaventura una corrente di Frati minori, detti « spirituali », sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il « Vangelo eterno », del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. Questo gruppo affermava che la Chiesa aveva ormai esaurito il proprio ruolo storico, e al suo posto subentrava una comunità carismatica di uomini liberi guidati interiormente dallo Spirito, cioè i « Francescani spirituali ». Alla base delle idee di tale gruppo vi erano gli scritti di un abate cistercense, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Nelle sue opere, egli affermava un ritmo trinitario della storia. Considerava l’Antico Testamento come età del Padre, seguita dal tempo del Figlio, il tempo della Chiesa. Vi sarebbe stata ancora da aspettare la terza età, quella dello Spirito Santo. Tutta la storia andava così interpretata come una storia di progresso: dalla severità dell’Antico Testamento alla relativa libertà del tempo del Figlio, nella Chiesa, fino alla piena libertà dei Figli di Dio, nel periodo dello Spirito Santo, che sarebbe stato anche, finalmente, il periodo della pace tra gli uomini, della riconciliazione dei popoli e delle religioni. Gioacchino da Fiore aveva suscitato la speranza che l’inizio del nuovo tempo sarebbe venuto da un nuovo monachesimo. Così è comprensibile che un gruppo di Francescani pensasse di riconoscere in san Francesco d’Assisi l’iniziatore del tempo nuovo e nel suo Ordine la comunità del periodo nuovo – la comunità del tempo dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa gerarchica, per iniziare la nuova Chiesa dello Spirito, non più legata alle vecchie strutture.
Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del Cristianesimo nel suo insieme.

La biografia di Francesco d’Assisi
Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, « Legenda » significa un testo autorevole, « da leggersi » ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco.

La tensione all’interno dell’ordine
San Bonaventura, eletto nel 1257 Ministro Generale dell’Ordine Francescano, si trovò di fronte ad una grave tensione all’interno del suo stesso Ordine a causa appunto di chi sosteneva la menzionata corrente dei « Francescani spirituali », che si rifaceva a Gioacchino da Fiore. Proprio per rispondere a questo gruppo e ridare unità all’Ordine, san Bonaventura studiò con cura gli scritti autentici di Gioacchino da Fiore e quelli a lui attribuiti e, tenendo conto della necessità di presentare correttamente la figura e il messaggio del suo amato san Francesco, volle esporre una giusta visione della teologia della storia. San Bonaventura affrontò il problema proprio nell’ultima sua opera, una raccolta di conferenze ai monaci dello studio parigino, rimasta incompiuta e giuntaci attraverso le trascrizioni degli uditori, intitolata Hexaëmeron, cioè una spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione
Da Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, san Bonaventura aveva visto subito che con la concezione spiritualistica, ispirata da Gioacchino da Fiore, l’Ordine non era governabile, ma andava logicamente verso l’anarchia. Due erano per lui le conseguenze: La prima: la necessità pratica di strutture e di inserimento nella realtà della Chiesa gerarchica, della Chiesa reale, aveva bisogno di un fondamento teologico. La seconda: pur tenendo conto del realismo necessario, non bisognava perdere la novità della figura di san Francesco.

La teologia della storia
San Bonaventura respinge l’idea del ritmo trinitario della storia. Dio è uno per tutta la storia e non si divide in tre divinità. Di conseguenza, la storia è una, anche se è un cammino e – secondo san Bonaventura – un cammino di progresso.
Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se stesso, Dio non può dire, né dare. Lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio. Cristo stesso dice dello Spirito Santo: « …vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14, 26), « prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà » (Gv 16, 15). Quindi non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un’altra Chiesa da aspettare. Perciò anche l’Ordine di san Francesco deve inserirsi in questa Chiesa, nella sua fede, nel suo ordinamento gerarchico.
Questo non significa che la Chiesa sia immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa. « Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt », le opere di Cristo non vanno indietro, non vengono meno, ma progrediscono, dice il Santo nella lettera De tribus quaestionibus. Così san Bonaventura formula esplicitamente l’idea del progresso, e questa è una novità in confronto ai Padri della Chiesa e a gran parte dei suoi contemporanei. Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine, ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo. Un’altra conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia.

Il dinamismo missionario francescano
Certo, l’Ordine Francescano appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di tale Ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura ha difeso questa novità contro gli attacchi del Clero secolare di Parigi: i Francescani non hanno un monastero fisso, possono essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.
In questo senso, san Bonaventura, come Ministro Generale dei Francescani, prese una linea di governo nella quale era ben chiaro che il nuovo Ordine non poteva, come comunità, vivere alla stessa « altezza escatologica » di san Francesco, nel quale egli vede anticipato il mondo futuro, ma – guidato, allo stesso tempo, da sano realismo e dal coraggio spirituale – doveva avvicinarsi il più possibile alla realizzazione massima del Sermone della montagna, che per san Francesco fu « la regola », pur tenendo conto dei limiti dell’uomo, segnato dal peccato originale.

Il governo orante
Vediamo così che per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo. (Liberamente tratto dalla Catechesi all’Udienza generale del mercoledì 3 marzo 2010 di S. S. Benedetto VI).

Opere
Itinerarium mentis in Deum
Manuale di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: « Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce » Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore. (Liberamente tratto dalla Catechesi all’Udienza generale del mercoledì 3 marzo 2010 di S. S. Benedetto VI).

Legenda Maior
Biografia storicamente ben fondata, del santo di Assisi, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor.
Questioni sulla conoscenza di Cristo
Titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura

Citazioni
Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescator, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo » (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Sulla terra [...] possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi [...] entreremo nel gaudio di Dio (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).
Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti [...]  Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta. (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).

Publié dans:santi: biografia |on 14 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Sant’ Andrea Rublev Monaco russo, Iconografo (biografia)

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Sant’ Andrea Rublev Monaco russo, Iconografo

4 luglio (Chiese Orientali)

1360 circa – Mosca, 1430

Andrej Rublev, pittore russo, considerato il più celebre iconografo, fu il rappresentante dello stile idealista. Accanto a Prochor di Gorodec e a Teofane il Greco, decorò la cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino a Mosca (1405) ed eseguì alcuni dipinti dell’iconostasi, poi trasferita nella nuova cattedrale (1484). In queste opere, come nei precedenti affreschi della cattedrale di Zvenigorod, affiorò, all’interno dell’ancor salda tradizione figurativa bizantina, la tendenza ad un’espressione più naturalistica. Gli affreschi nella cattedrale della Dormizione di Vladimir, alcune tavole dell’iconostasi della stessa chiesa e la celebre icona della “Trinità angelica” per l’omonima chiesa moscovita segnarono l’apice nello stile dell’artista. Nel 1988 Rublev fu canonizzato dalla Chiesa Ortodossa Russa.

Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco
Emblema: Icona

Per lunghi secoli San Luca fu tradizionalmente considerato dalla Chiesa quale patrono degli artisti, ma sul finire del secondo millennio è stata riconosciuta ufficialmente la santità di due grandi pittori: nel 1982 papa Giovanni Paolo II confermò il culto del Beato Angelico, che due anni dopo proclamò patrono degli artisti, mentre nel 1988 un concilio locale della Chiesa Ortodossa Russa canonizzò il monaco Andrej Rublev, autore della celeberrima icona della Santissima Trinità, divenuta uno dei simboli della Chiesa d’Oriente, oggi ormai diffusa in tutto il mondo cristiano.
Sono purtroppo assai scarse le notizie sulla vita di questo santo, rintracciabili nelle cronache e nelle biografie dei santi Sergio e Nicone di Radonez, nonché negli scritti di San Giuseppe Volockij. Andrei nacque in Russia verso il 1360, dunque contemporaneo del Beato Angelico. Sin dalla più giovane età nutrì il desiderio di farsi monaco ed a tal scopo raggiunse la Laura della Santissima Trinità-San Sergio di Radonez, dove fu indirizzato al monastero di Serpuchov. Qui emise la professione religiosa e, una volta maggiorenne, ricevette l’ordinazione presbiterale. Face poi ritorno nella Laura di Radonez. Qui tra gli anni ’70 e ’90 del XIV secolo apprese l’arte dell’iconografia e conobbe il suo migliore amico, il bulgaro San Daniele il Nero. I due furono inseparabile nel lavoro e nella vita sino alla morte, che sopraggiunse per entrambi nello stesso anno.
Uomo di preghiera, Andrej non trascorreva tuttavia tutto il suo tempo rinchiuso in cella, ma eseguiva fedelmente anche tutti quei compiti che gli venivano affidati. Accanto a Prochor di Gorodec e a Teofane il Greco, decorò nel 1405 la cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino a Mosca ed eseguì alcuni dipinti dell’iconostasi, poi trasferita nella nuova cattedrale nel 1484. In queste opere, come nei precedenti affreschi della cattedrale di Zvenigorod, affiorò, all’interno dell’ancor salda tradizione figurativa bizantina, la tendenza ad un’espressione più naturalistica. Gli affreschi nella cattedrale della Dormizione di Vladimir, alcune tavole dell’iconostasi della stessa chiesa e la famosa icona della “Trinità angelica” per l’omonima chiesa moscovita segnarono l’apice nello stile dell’artista. Fu inoltre uno degli affrescatori della cattedrale del Salvatore nel monastero di Andronik.
Dal punto di vista della vita spirituale, è stato appurato incontestabilmente che Andrej fu un esicasta, cioè praticava l’antica disciplina di preghiera monastica tipica dell’Oriente cristiano. In tal senso è dunque evidenziabile un netto legame spirituale fra Sant’Andrea Rublev e San Sergio di Radonez.
Già tra i secoli XV e XVI le icone del Rublev erano considerate modelli di perfezione e lo stesso autore fu oggetto di venerazione a livello locale, fenomeno poi quasi scomparso a partire dal XVII secolo. Solo dal 1900, quando i restauratori liberarono le sue opere dai rifacimenti più tardi, si tornò ad apprezzare i suoi capolavori ed il nome del santo tornò alla ribalta tanto da giungere ala canonizzazione ufficiale nel 1988. Per tale occasione la monaca Giuliana Sokolova dipinse la prima icona del santo, intento a tenere in mano un’icona, divenuta ormai la sua rappresentazione più diffusa.

Autore: Fabio Arduino

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 19 juin, 2011 |Pas de commentaires »

25 maggio (mf) : San Beda detto il Venerabile Sacerdote e dottore della Chiesa

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San Beda detto il Venerabile Sacerdote e dottore della Chiesa

25 maggio – Memoria Facoltativa

Monkton in Jarrow (Inghilterra) 672-673 – Jarrow, 25 maggio 735

Fu seguace di San Benedetto Biscop e di S. Ceolfrido, dedicandosi solo alla preghiera, allo studio e all’insegnamento del monastero di Jarrow. Fu anche amanuense e il Codex Amiatinus, uno dei più preziosi e antichi codici della Volgata, conservato nella biblioteca Laurenziana di Firenze, sarebbe stato eseguito sotto la sua guida. Della sua vasta produzione letteraria restano opere esegetiche, ascetiche, scientifiche e storiche. Tra queste c’è L’Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, un monumento letterario universalmente riconosciuto da cui emerge la Romanità (universalità) della Chiesa. Studioso di tempra eccezionale e gran lavoratore, ha lasciato nei suoi scritti l’impronta del suo spirito umile sincero, del suo discernimento sicuro e della sua saggezza.

Patronato: Studiosi

Martirologio Romano: San Beda il Venerabile, sacerdote e dottore della Chiesa, che, servo di Cristo dall’età di otto anni, trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow nella Northumbria in Inghilterra, dedito alla meditazione e alla spiegazione delle Scritture; tra l’osservanza della disciplina monastica e l’esercizio quotidiano del canto in chiesa, sempre gli fu dolce imparare, insegnare e scrivere.  

Beda e basta. Le sue generalità cominciano e finiscono lì. Non conosciamo i suoi genitori. La data di nascita è incerta. Sappiamo soltanto che a sette anni viene affidato per l’istruzione ai benedettini del monastero di San Pietro a Wearmouth (oggi Sunderland) e che passerà poi a quello di San Paolo di Jarrow, contea di Durham, centri monastici fondati entrambi dal futuro san Benedetto Biscop, che è il primo a prendersi cura di lui.
E tra i benedettini Beda rimane, facendosi monaco e ricevendo, verso i trent’anni, l’ordinazione sacerdotale. Dopodiché basta: non diventa vescovo né abate: tutta la sua vita si concentra sullo studio e sull’insegnamento. Unici suoi momenti di “ricreazione” sono la preghiera e il canto corale.
La sua materia è la Bibbia. E il metodo è del tutto insolito per il tempo, ma ricco d’interesse per gli scolari, mentre i suoi libri raggiungeranno presto le biblioteche monastiche del continente europeo. In breve, Beda insegna la Sacra Scrittura mettendo a frutto tutta la sapienza dei Padri della Chiesa, ma non si ferma lì. Inventa una sorta di personale didattica interdisciplinare, che spiega la Bibbia ricorrendo pure agli autori dell’antichità pagana (Beda conosce il greco) e utilizzando le conoscenze scientifiche del suo tempo.
Gran parte di questo insegnamento si tramanda, perché Beda scrive, scrive moltissimo e di argomenti diversi, anche modesti; come il libretto De orthographia. E anche insoliti, come il Liber de loquela per gestum digitorum, famoso in tutto il Medioevo perché insegna a fare i conti con le dita. Si dedica ai calcoli astronomici per il computo della data pasquale, indicandola fino all’anno 1063. E ai suoi compatrioti il monaco benedettino offre la storia ecclesiastica d’Inghilterra, molto informata anche sulla vita civile, e soprattutto non semplicemente riferita, ma anche esaminata con attenzione critica.
Già da vivo lo chiamano “Venerabile”. E l’appellativo gli rimarrà per sempre, sebbene nel 1899 papa Leone XIII lo abbia proclamato santo e dottore della Chiesa. È stato uno dei più grandi comunicatori di conoscenza dell’alto Medioevo. E un maestro di probità, col suo costante scrupolo di edificare senza mai venire meno alla verità, col grande rispetto per chi ascoltava la sua voce o leggeva i suoi libri. A più di dodici secoli dalla morte, il Concilio Vaticano II attingerà anche al suo pensiero, che viene citato nella Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa e nel decreto Ad gentes sull’attività missionaria. Beda muore a Jarrow, dove ha per tanto tempo insegnato, e lì viene sepolto. Ma il re Edoardo il Confessore (10021066) farà poi trasferire il corpo nella cattedrale di Durham.

Autore: Domenico Agasso

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 24 mai, 2011 |Pas de commentaires »

20 MAGGIO: S. BERNARDINO DA SIENA (1380-1444)

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San Bernardino da Siena Sacerdote

20 maggio – Memoria Facoltativa

Massa Marittima, Grosseto, 8 settembre – L’Aquila, 20 maggio 1444

Canonizzato nel 1450, cioè a soli sei anni dalla morte, era nato nel 1380 a Massa Marittima, dalla nobile famiglia senese degli Albizzeschi. Rimasto orfano dei genitori in giovane età fu allevato a Siena da due zie. Frequentò lo Studio senese fino a ventidue anni, quando vestì l’abito francescano. In seno all’ordine divenne uno dei principali propugnatori della riforma dei francescani osservanti. Banditore della devozione al santo nome di Gesù, ne faceva incidere il monogramma «YHS» su tavolette di legno, che dava a baciare al pubblico al termine delle prediche. Stenografati con un metodo di sua invenzione da un discepolo, i discorsi in volgare di Bernardino sono giunte fino a noi. Aveva parole durissime per quanti «rinnegano Iddio per un capo d’aglio» e per «le belve dalle zanne lunghe che rodono le ossa del povero». Anche dopo la sua morte, avvenuta alla città dell’Aquila, nel 1444, Bernardino continuò la sua opera di pacificazione. Era infatti giunto morente in questa città e non poté tenervi il corso di prediche che si era prefisso. Persistendo le lotte tra le opposte fazioni, il suo corpo dentro la bara cominciò a versare sangue e il flusso si arrestò soltanto quando i cittadini dell’Aquila si rappacificarono. (Avvenire)

Patronato: Pubblicitari, Preghiere

Etimologia: Bernardino = ardito come orso, dal tedesco

Emblema: IHS (monogramma di Cristo)
Martirologio Romano: San Bernardino da Siena, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che per i paesi e le città d’Italia evangelizzò le folle con la parola e con l’esempio e diffuse la devozione al santissimo nome di Gesù, esercitando instancabilmente il ministero della predicazione con grande frutto per le anime fino alla morte avvenuta all’Aquila in Abruzzo.    

Per ascoltare le prediche efficacissime di questo frate francescano di fine Medioevo, si radunavano folle di fedeli nelle piazze delle città, non potendoli contenere le chiese; e mancando allora mezzi tecnici di amplificazione della voce, venivano issati i palchi da cui parlava, studiando con banderuole la direzione del vento, per poterli così posizionare in modo favorevole all’ascolto dalle folle attente e silenziose.

Origini e formazione
San Bernardino nacque l’8 settembre 1380 a Massa Marittima (Grosseto) da Albertollo degli Albizzeschi e da Raniera degli Avveduti; il padre nobile senese era governatore della città fortificata posta sulle colline della Maremma.
A sei anni divenne orfano dei genitori, per cui crebbe allevato da parenti, prima dalla zia materna che lo tenne con sé fino agli undici anni, poi a Siena a casa dello zio paterno, ma fino all’età adulta furono soprattutto le donne della famiglia ad educarlo, come la cugina Tobia terziaria francescana e la zia Bartolomea terziaria domenicana.
Ricevette un’ottima educazione cristiana ma senza bigottismo, crebbe sano, con un carattere schietto e deciso, amante della libertà ma altrettanto conscio della propria responsabilità.
Studiò grammatica, retorica e lettura di Dante, dal 1396 al 1399 si applicò allo studio della Giurisprudenza nella Università di Siena, dove conseguì il dottorato in filosofia e diritto; non era propenso alla vita religiosa, tanto che alle letture bibliche preferiva la poesia profana.
Verso i 18 anni, pur seguitando a vivere come i coetanei, entrò nella Confraternita dei Disciplinati di Santa Maria della Scala, una compagnia di giovani flagellanti, che teneva riunioni a mezzanotte nei sotterranei del grande ospedale posto di fronte al celebre Duomo di Siena.
Aveva 20 anni quando Siena nel 1400 fu colpita dalla peste; e anche molti medici e infermieri dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, morirono contagiati, per cui il priore chiese pubblicamente aiuto.
Bernardino insieme ai compagni della Confraternita si offrì volontario, la sua opera nell’assistenza agli appestati durò per quattro mesi, fino all’inizio dell’inverno, quando la pestilenza cominciò a scemare.
Trascorsero poi altri quattro mesi, tra la vita e la morte, essendosi anch’egli contagiato; guarito assisté poi per un anno la zia Bartolomea diventata cieca e sorda.

La scelta Francescana
In quel periodo cominciò a pensare seriamente di scegliere per la sua vita un Ordine religioso, colpito anche dall’ispirata parola di s. Vincenzo Ferrer, domenicano, incontrato ad Alessandria.
Alla fine scelse di entrare nell’Ordine Francescano e liberatosi di quanto possedeva, l’8 settembre 1402 entrò come novizio nel Convento di San Francesco a Siena; per completare il noviziato, fu mandato sulle pendici meridionali del Monte Amiata, al convento sopra Seggiano, un villaggio di poche capanne intorno ad una chiesetta, detto il Colombaio.
Il convento apparteneva alla Regola dell’Osservanza, sorta in seno al francescanesimo 33 anni prima, osservando appunto assoluta povertà e austerità, prescritte dal fondatore san Francesco; e con la loro moderazione, che li distingueva dagli Spirituali più combattivi nei decenni precedenti, gli Osservanti si opponevano al rilassamento dei Conventuali, con discrezione e senza eccessi.
Frate Bernardino visse al Colombaio per tre anni, facendo la professione religiosa nel 1403 e diventando sacerdote nel 1404, celebrò la prima Messa e tenne la prima predica nella vicina Seggiano e come gli altri frati del piccolo convento, prese a girare scalzo per la questua nei dintorni. Nel 1405 fu nominato predicatore dal Vicario dell’Ordine e tornò a Siena.

La sua formazione, studi, prime predicazioni
Dopo un po’, da Siena andò con qualche compagno nel piccolo romitorio di Sant’Onofrio sul colle della Capriola di fronte alla città; da tempo questo conventino era abitato da frati dell’Osservanza, qui fra’ Bernardino volle costruire un nuovo convento più grande, esso apparteneva all’Ospedale della Scala ed egli riuscì ad ottenerlo in dono, ma giacché i Frati Minori non potevano accettare donazioni, si impegnò a versare in cambio una libbra di cera all’anno.
Aveva circa 25 anni e restò alla Capriola per 12 anni, dedicandosi allo studio dei grandi dottori e teologi specie francescani; raccogliendo e studiando materiale ascetico, mistico e teologico.
In quel periodo, fu a contatto col mondo contadino ed artigiano delle cittadine dei dintorni, imparando a predicare per farsi comprendere da loro, con espressioni, immagini vivaci e aneddoti che colpissero l’attenzione di quella gente semplice, a cui affibbiava soprannomi nelle loro attività e stile popolano di vivere, per farli divertire; così la massaia disordinata era “madama Arrufola” e la giovane che ‘balestrava’ con occhiate languide i giovani dalla sua finestra, era “monna Finestraiola”.
Per una malattia alle corde vocali che per qualche anno lo colpì, rendendo la sua voce molto fioca, Bernardino da Siena, stava per chiedere di essere esonerato dalla predicazione. Ma inaspettatamente un giorno la voce ritornò non soltanto limpida, ma anche musicale e penetrante, ricca di modulazioni.
Sul colle della Capriola tornava spesso dopo i suoi lunghi viaggi di predicatore, per ritrovare li spirito di meditazione e per scrivere i “Sermoni latini”; formò molti discepoli fra i quali san Giacomo della Marca, san Giovanni da Capestrano, i beati Matteo da Agrigento, Michele Cercano, Bernardino da Feltre e Bernardino da l’Aquila.

Il grande predicatore popolare
Nel 1417 padre Bernardino da Siena fu nominato Vicario della provincia di Toscana e si trasferì a Fiesole, dando un forte impulso alla riforma in atto nell’Ordine Francescano.
Contemporaneamente iniziò la sua straordinaria predicazione per le città italiane, dove si verificava un grande afflusso di fedeli che faceva riempire le piazze; tutta la cittadinanza partecipava con le autorità in testa, e i fedeli affluivano anche dai paesi vicini per ascoltarlo.
Dal 1417 iniziò a Genova la sua prodigiosa predicazione apostolica, allargandola dopo i primi strepitosi successi, a tutta l’Italia del Nord e del Centro.
A Milano espose per la prima volta alla venerazione dei fedeli, la tavoletta con il trigramma; da Venezia a Belluno, a Ferrara, girando sempre a piedi, e per tutta la sua Toscana, dove ritornava spesso, predicò incessantemente; nel 1427 tenne nella sua Siena un ciclo di sermoni che ci sono pervenuti grazie alla fedele trascrizione di un ascoltatore, che li annotava a modo suo con velocità, senza perdere nemmeno una parola.
Da queste trascrizioni, si conosce il motivo dello straordinario successo che otteneva Bernardino; sceglieva argomenti che potevano interessare i fedeli di una città ed evitava le formulazioni astruse o troppo elaborate, tipiche dei predicatori scolastici dell’epoca. Per lui il “dire chiaro e breve” non andava disgiunto dal “dire bello”, e per farsi comprendere usava racconti, parabole, aneddoti; canzonando superstizioni, mode, vizi.
Sapeva comprendere le debolezze umane, ma era intransigente con gli usurai, considerati da lui le creature più abbiette della terra. Le conversioni spesso clamorose, le riconciliazioni ai Sacramenti di peccatori incalliti, erano così numerosi, che spesso i sacerdoti erano insufficienti per le confessioni e per distribuire l’Eucaristia.
Quando le leggi che reggevano un Comune, una Signoria, una Repubblica, erano ingiuste e osservarle significava continuare l’ingiustizia, Bernardino da Siena, in questi casi dichiarava sciolti dal giuramento i pubblici ufficiali e invitava la città a darsi nuove leggi ispirate al vangelo; e le città facevano a gara per ascoltarlo e ne accettavano le direttive.

Il trigramma del Nome di Gesù
Affinché la sua predicazione non fosse dimenticata facilmente, Bernardino con profondo intuito psicologico, la riassumeva nella devozione al Nome di Gesù e per questo inventò un simbolo dai colori vivaci che veniva posto in tutti i locali pubblici e privati, sostituendo blasoni e stemmi delle famiglie e delle varie corporazioni spesso in lotta tra loro.
Il trigramma del nome di Gesù, divenne un emblema celebre e diffuso in ogni luogo, sulla facciata del Palazzo Pubblico di Siena campeggia enorme e solenne, opera dell’orafo senese Tuccio di Sano e di suo figlio Pietro, ma lo si ritrova in ogni posto dove Bernardino e i suoi discepoli abbiano predicato o soggiornato.
Qualche volta il trigramma figurava sugli stendardi che precedevano Bernardino, quando arrivava in una nuova città per predicare e sulle tavolette di legno che il santo francescano poggiava sull’altare, dove celebrava la Messa prima dell’attesa omelia, e con la tavoletta al termine benediceva i fedeli.
Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso, per questo è considerato patrono dei pubblicitari; il simbolo consiste in un sole raggiante in campo azzurro, sopra vi sono le lettere IHS che sono le prime tre del nome Gesù in greco (ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)”, il motto costantiniano, oppure di “Iesus Hominum Salvator”.
Ad ogni elemento del simbolo, Bernardino applicò un significato; il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita come fa il sole, e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità.
Il calore del sole è diffuso dai raggi, ed ecco allora i dodici raggi serpeggianti cioè i dodici Apostoli e poi da otto raggi diretti che rappresentano le beatitudini; la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è simbolo della fede; l’oro dell’amore.
Bernardino allungò anche l’asta sinistra dell’H, tagliandola in alto per farne una croce, in alcuni casi la croce è poggiata sulla linea mediana dell’H.
Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania: 1° rifugio dei penitenti; 2° vessillo dei combattenti; 3° rimedio degli infermi; 4° conforto dei sofferenti; 5° onore dei credenti; 6° gioia dei predicanti; 7° merito degli operanti; 8° aiuto dei deficienti; 9° sospiro dei meditanti; 10° suffragio degli oranti; 11° gusto dei contemplanti; 12° gloria dei trionfanti.
Tutto il simbolo è circondato da una cerchia esterna con le parole in latino tratte dalla Lettera ai Filippesi di San Paolo: “Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, sia degli esseri celesti, che dei terrestri e degli inferi”.
Il trigramma bernardiniano ebbe un gran successo, diffondendosi in tutta Europa, anche s. Giovanna d’Arco volle ricamarlo sul suo stendardo e più tardi fu adottato anche dai Gesuiti.
Diceva s. Bernardino: “Questa è mia intenzione, di rinnovare e chiarificare il nome di Gesù, come fu nella primitiva Chiesa”, spiegando che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo nome rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e dell’Ascensione.
In effetti ribadiva la devozione già presente in san Paolo e durante il Medioevo in alcuni Dottori della Chiesa e in s. Francesco d’Assisi, inoltre tale devozione era praticata in tutto il Senese, pochi decenni prima dai Gesuati, congregazione religiosa fondata nel 1360 dal senese beato Giovanni Colombini, dedita all’assistenza degli infermi e così detti per il loro ripetere frequente del nome di Gesù.
Quindi la novità di s. Bernardino fu di offrire come oggetto di devozione le iniziali del nome di Gesù, attorniato da efficaci simbolismi, secondo il gusto dell’epoca, amante di stemmi, armi, simboli.
L’uso del trigramma, comunque gli procurò accuse di eresie e idolatria, specie dagli Agostiniani e Domenicani, e Bernardino da Siena subì ben tre processi, nel 1426, 1431, e 1438, dove il francescano poté dimostrare la sua limpida ortodossia, venendo ogni volta assolto con il favore speciale di papa Eugenio IV, che lo definì “il più illustre predicatore e il più irreprensibile maestro, fra tutti quelli che al presente evangelizzano i popoli in Italia e fuori”.

Riformatore dell’Ordine Francescano
Bernardino, che fin dal 1421 era Vicario dei Frati Osservanti di Toscana e Umbria, nel 1438 venne nominato dal Ministro Generale dell’Ordine Francescano, Vicario Generale di tutti i conventi dell’Osservanza in Italia.
Nella sua opera di riforma, portò il numero dei conventi da 20 a 200; proibì ai frati analfabeti o poco istruiti, di confessare e assolvere i penitenti; istituì nel convento di Monteripido presso Perugia, corsi di teologia scolastica e di diritto canonico; s’impegnò a fare rinascere lo spirito della Regola di s. Francesco, adattandola alle esigenze dei nuovi tempi.
Rifiutò per tre volte di essere vescovo di diocesi, che gli furono offerte.

Gli ultimi anni, la morte
Nel 1442, sentendosi oltremodo stanco, soffriva di renella, infiammazione ai reni, emorroidi e dissenteria, rassegnò le sue dimissioni dalla carica, che aveva accettato per spirito di servizio verso l’Ordine.
Nel fisico sembrava più vecchio dei suoi 62 anni, aveva perso tutti i denti, tranne uno e quindi le gote gli si erano incavate, ma quell’aspetto emaciato l’aveva già a 46 anni, quando posò per un quadro dal vivo, oggi conservato alla Pinacoteca di Siena.
Libero da responsabilità riprese a predicare, nonostante il cattivo stato di salute; i senesi gli chiesero di recarsi a Milano per rinsaldare l’alleanza con il duca Filippo Maria Visconti contro i fiorentini; da lì proseguì poi per il Veneto, predicando a Vicenza, Verona, Padova, Venezia, scendendo poi a Bologna e Firenze, nella natia Massa Marittima predicò nel 1444 per 40 giorni.
Ritornato a Siena si trattenne per poco tempo, perché voleva ancora compiere una missione di predicazione nel Regno di Napoli, dove non si era mai recato, con l’intenzione di predicare anche lungo il percorso; accompagnato da alcuni frati senesi, toccò il Trasimeno, Perugia, Assisi, Foligno, Spoleto, Rieti, ma già in prossimità de L’Aquila, il suo fisico cedette allo sforzo e il 20 maggio 1444 fu portato in lettiga al convento di San Francesco, dentro la città, dove morì quel giorno stesso a 64 anni, posto sulla nuda terra come s. Francesco, dietro sua richiesta.
Dopo morto, il suo corpo esposto alla venerazione degli aquilani, grondò di sangue prodigiosamente e a tale fenomeno i rissosi abitanti in lotta fra loro, ritrovarono la via della pace.
I frati che l’accompagnavano, volevano riportare la salma a Siena, ma gli aquilani, accorsi in massa lo impedirono, concedendo solo gli indumenti indossati dal frate, oggi conservati nel convento della Capriola a Siena.
Nelle città dov’era vissuto, furono costruiti celebri oratori, chiese, mausolei, come quello di S. Bernardino nella omonima chiesa dell’Aquila, dove riposa.
Sei anni dopo la morte, il 24 maggio 1450, festa di Pentecoste, papa Niccolò V lo proclamò santo nella Basilica di S. Pietro a Roma. San Bernardino è compatrono di Siena, della nativa Massa Marittima, di Perugia e dell’Aquila.
Una città in California porta il suo nome. È invocato contro le emorragie, la raucedine, le malattie polmonari. La sua festa si celebra il 20 maggio.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 20 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Nessuno spaventava le galline (su Don Bosco)

dal sito:

http://gesu.altervista.org/doc/sangiovannibosco/sogni/40.html

Nessuno spaventava le galline

(Don Bosco)

Il 23 gennaio 1876, dopo le preghiere della sera, Don Bosco salì sulla piccola cattedra dalla quale soleva dare la «buona notte» ai suoi giovani. Il suo volto, raggiante di gioia, manifestava, come sempre, la sua contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un pò di silenzio, prese a raccontare questo sogno.
Gli parve di trovarsi in piena campagna e di avere davanti una grande estensione di terreno, situato in una vasta e bella pianura. In essa vide molti che lavoravano con vanghe, zappe, rastrelli e altri strumenti. Chi arava, chi spianava la terra, chi seminava il grano. C’era qua e là chi dirigeva i lavori; a Don Bosco parve di essere uno di questi. Ed era una meraviglia vedere come quei buoni lavoratori non desistessero un istante dal loro lavoro. In altra parte cori di contadini stavano cantando.
Mentre Don Bosco contemplava quella piacevole scena, si vide attorniato da alcuni suoi preti e da molti chierici. Comparve an che la Guida misteriosa dei suoi sogni, a cui chiese:
— Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
La Guida rispose:
— Ella ha studiato latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha imparato?
— E dominus — rispose Don Bosco.
— E come fa al genitivo?
— Domini.
— Bravo, bene! Questo campo è Domini, cioè del Signore.
Intanto Don Bosco vide varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, mentre un gruppo di contadini cantava: Exiit qui seminat seminare semen suum (Il seminatore è uscito a semi nare il suo seme). In quel mentre vede uscire da ogni parte una moltitudine di galline che, spargendosi per il campo, beccavano tutto il grano che veniva seminato.
E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves coeli, sustuleruntfrumentum el reliquerunt zizaniam (Vennero gli uccelli del cielo, si portarono via il frumento e lasciarono la zizzania).
Don Bosco continua: «Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno con le mani conserte stava guardando con fredda indifferenza, un altro chiacchierava con i com pagni, alcuni si stringevano nelle spalle, altri proseguivano tranquillamente la ricreazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando cia scuno per nome, dico: — Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano, facendo svanire le speranze di questi buoni contadini? Ma i chierici si stringono nelle spalle, mi guardano e non dicono niente.
— Stolti che siete! — io continuavo —, le galline hanno già il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così?
Allora alcuni si misero a fugare le galline, mentre io ripetevo tra me: “Eh, sì, ora che tutto il grano è mangiato, si scacciano le galline!”.
In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di con tadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (Cani muti che non sanno abbaiare).
Allora io mi rivolsi alla Guida e, tra stupefatto e sdegnato, le dissi:
— Orsù, mi dia una spiegazione di quanto vedo. Che cos’è quel seme che si getta per terra?
— Oh, bella! Semen est Verbum Dei (Il seme è la Parola di Dio).
— Ma che cosa vuol dire che le galline se lo mangiano?
La Guida, cambiando tono di voce, rispose:
— Il campo è la vigna del Signore di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici che, specialmente con la predicazione, seminano la Parola di Dio. Questa Parola produrrebbe molto frutto in quel cuore ben disposto, ma vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
— Che cosa indicano questi uccelli?
— Vuol che glielo dica? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica, uno fa la chiosa a un gesto, alla voce, alla parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica; un altro accusa il predicatore di qualche difetto fisico o intellettuale; un terzo ride del suo italiano; e così tutto il frutto della predica è por tato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura. Il grano, sebbene il campo non sia tanto fertile, tuttavia nasce, cresce e produce frutto; se in un campo di fresco seminato viene un temporale, la terra resta pesta e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta; se la semente non è tanto bella, porterà poco frut to, ma pure ne porta; ma se le galline o gli uccelli si beccano la semente, il campo non porta più frutto di sorta. Così se alle predi che, alle esortazioni, ai buoni propositi segue qualche distrazione o tentazione, faranno meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simile, non c’è poco che tenga, ma c’è subi to il tutto che viene portato via. E a chi tocca battere le mani, insi stere, gridare perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa.
Lei che è prete insista su questo: predichi, esorti, parli, non abbia paura di dire mai troppo, e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente se uno può e deve impedirlo, è ren dersi complice del male degli altri.
Io, impressionato da queste parole, volevo rimproverare i chie rici, infiammarli a compiere il proprio dovere; ma, fatti pochi passi, inciampai in un rastrello destinato a spianare la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai».
Parlando di questo sogno, Don Bosco affermò: « Io nel sogno ho visto tutti e ho visto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che, avvisati, si mi sero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo, confessando, esortando in pubblico e in privato, finché vedo che producono del bene… ».
Presa quindi un ‘aria più grave, e quasi conturbato, proseguì: Il Papa al Colle Don Bosco « Quando penso alla mia responsabilita nella posizione in cui mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Con gregazione!» .
La trama esile di questo sogno ci avrebbe suggerito di ometterlo, ma la notizia che Giovanni Paolo II ha promesso all’Arcivescovo di Torino e al Rettor Maggiore dei Salesiani che nel 1988, per il centenario della morte di Don Bosco, sarà presente al Colle Don Bosco per le celebrazioni centenarie, ci fa scorgere in questo sogno, molto singolare, quasi un significato profetico.

Publié dans:santi: biografia |on 23 février, 2011 |Pas de commentaires »
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