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27 agosto – Santa Monica Madre di S. Agostino

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24200

Santa Monica Madre di S. Agostino

27 agosto
 
Tagaste, attuale Song-Ahras, Algeria, c. 331 – Ostia, Roma, 27 agosto 387

Nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332. Da giovane studiò e meditò la Sacra Scrittura. Madre di Agostino d’Ippona, fu determinante nei confronti del figlio per la sua conversione al cristianesimo. A 39 anni rimase vedova e si dovette occupare di tutta la famiglia. Nella notte di Pasqua del 387 poté vedere Agostino, nel frattempo trasferitosi a Milano, battezzato insieme a tutti i familiari, ormai cristiano convinto profondamente. Poi Agostino decise di trasferirsi in Africa e dedicarsi alla vita monastica. Nelle «Confessioni» Agostino narra dei colloqui spirituali con sua madre, che si svolgevano nella quiete della casa di Ostia, tappa intermedia verso la destinazione africana, ricevendone conforto ed edificazione; ormai più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo. Monica morì, a seguito di febbri molto alte (forse per malaria), a 56 anni, il 27 agosto del 387. Ai figli disse di seppellire il suo corpo dove volevano, senza darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all’altare del Signore. (Avvenire)

Patronato: Donne sposate, Madri, Vedove

Etimologia: Monica = la solitaria, dal greco

Martirologio Romano: Memoria di santa Monica, che, data ancora giovinetta in matrimonio a Patrizio, generò dei figli, tra i quali Agostino, per la cui conversione molte lacrime versò e molte preghiere rivolse a Dio, e, anelando profondamente al cielo, lasciò questa vita a Ostia nel Lazio, mentre era sulla via del ritorno in Africa.

A Monica si adatta alla perfezione, la definizione che Chiara Lubich fa di Maria nei “Scritti spirituali” (Città Nuova ed.) chiamandola ‘sede della sapienza, madre di casa’; perché Monica fu il tipo di donna che seppe appunto imitare Maria in queste virtù, riuscendo ad instillare la sapienza nel cuore dei figli, donando al mondo quel genio che fu Aurelio Agostino, vescovo e Dottore della Chiesa.
Nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332 in una famiglia di buone condizioni economiche e profondamente cristiana; contrariamente al costume del tempo, le fu permesso di studiare e lei ne approfittò per leggere la Sacra Scrittura e meditarla.
Nel pieno della giovinezza fu data in sposa a Patrizio, un modesto proprietario di Tagaste, membro del Consiglio Municipale, non ancora cristiano, buono ed affettuoso ma facile all’ira ed autoritario.
Per il suo carattere, pur amando intensamente Monica, non le risparmiò asprezze e infedeltà; tuttavia Monica riuscì a vincere, con la bontà e la mansuetudine, sia il caratteraccio del marito, sia i pettegolezzi delle ancelle, sia la suscettibilità della suocera.
A 22 anni le nacque il primogenito Agostino, in seguito nascerà un secondo figlio, Navigio ed una figlia di cui s’ignora il nome, ma si sa che si sposò, poi rimasta vedova divenne la badessa del monastero femminile di Ippona.
Le notizie che riportiamo sono tratte dal grande libro, sempre attuale e ricercato anche nei nostri tempi, le “Confessioni”, scritto dal figlio Agostino, che divenne così anche il suo autorevole biografo. Da buona madre diede a tutti con efficacia, una profonda educazione cristiana; dice s. Agostino che egli bevve il nome di Gesù con il latte materno; il bambino appena nato fu iscritto fra i catecumeni, anche se secondo l’usanza del tempo non fu battezzato, in attesa di un’età più adulta; crebbe con l’insegnamento materno della religione cristiana, i cui principi saranno impressi nel suo animo, anche quando era in preda all’errore.
Monica aveva tanto pregato per il marito affinché si ammansisse ed ebbe la consolazione, un anno prima che morisse, di vederlo diventare catecumeno e poi battezzato sul letto di morte nel 369.
Monica aveva 39 anni e dové prendere in mano la direzione della casa e l’amministrazione dei beni, ma la sua preoccupazione maggiore era il figlio Agostino, che se da piccolo era stato un bravo ragazzo, da giovane correva in modo sfrenato dietro i piaceri del mondo, mettendo in dubbio persino la fede cristiana, così radicata in lui dall’infanzia; anzi egli aveva tentato, ma senza successo, di convincere la madre ad abbandonare il cristianesimo per il manicheismo, riuscendoci poi con il fratello Navigio.
Il Manicheismo era una religione orientale fondata nel III secolo d.C. da Mani, che fondeva elementi del cristianesimo e della religione di Zoroastro, suo principio fondamentale era il dualismo, cioè l’opposizione continua di due principi egualmente divini, uno buono e uno cattivo, che dominano il mondo e anche l’animo dell’uomo.
Le vicende della vita di Monica sono strettamente legate a quelle di Agostino, così come le racconta lui stesso; lei rimasta a Tagaste continuò a seguire con trepidazione e con le preghiere il figlio, trasferitosi a Cartagine per gli studi, e che contemporaneamente si dava alla bella vita, convivendo poi con un’ancella cartaginese, dalla quale nel 372, ebbe anche un figlio, Adeodato.
Dopo aver tentato tutti i mezzi per riportarlo sulla buona strada, Monica per ultimo gli proibì di ritornare nella sua casa. Pur amando profondamente sua madre, Agostino non si sentì di cambiare vita, ed essendo terminati con successo gli studi a Cartagine, decise di spostarsi con tutta la famiglia a Roma, capitale dell’impero, di cui la Numidia era una provincia; anche Monica decise di seguirlo, ma lui con uno stratagemma la lasciò a terra a Cartagine, mentre s’imbarcavano per Roma.
Quella notte Monica la passò in lagrime sulla tomba di s. Cipriano; pur essendo stata ingannata, ella non si arrese ed eroicamente continuò la sua opera per la conversione del figlio; nel 385 s’imbarcò anche lei e lo raggiunse a Milano, dove nel frattempo Agostino, disgustato dall’agire contraddittorio dei manichei di Roma, si era trasferito per ricoprire la cattedra di retorica.
Qui Monica ebbe la consolazione di vederlo frequentare la scuola di s. Ambrogio, vescovo di Milano e poi il prepararsi al battesimo con tutta la famiglia, compreso il fratello Navigio e l’amico Alipio; dunque le sue preghiere erano state esaudite; il vescovo di Tagaste le aveva detto: “È impossibile che un figlio di tante lagrime vada perduto”.
Restò al fianco del figlio consigliandolo nei suoi dubbi e infine, nella notte di Pasqua del 387, poté vederlo battezzato insieme a tutti i familiari; ormai cristiano convinto profondamente, Agostino non poteva rimanere nella situazione coniugale esistente; secondo la legge romana, egli non poteva sposare la sua ancella convivente, perché di ceto inferiore e alla fine con il consiglio di Monica, ormai anziana e desiderosa di una sistemazione del figlio, si decise di rimandare, con il suo consenso, l’ancella in Africa, mentre Agostino avrebbe provveduto per lei e per il figlio Adeodato, rimasto con lui a Milano.
A questo punto Monica pensava di poter trovare una sposa cristiana adatta al ruolo, ma Agostino, con sua grande e gradita sorpresa, decise di non sposarsi più, ma di ritornare anche lui in Africa per vivere una vita monastica, anzi fondando un monastero.
Ci fu un periodo di riflessione, fatto in un ritiro a Cassiciaco presso Milano, con i suoi familiari ed amici, discutendo di filosofia e cose spirituali, sempre presente Monica, la quale partecipava con sapienza ai discorsi, al punto che il figlio volle trascrivere nei suoi scritti le parole sapienti della madre, con gran meraviglia di tutti, perché alle donne non era permesso interloquire.
Presa la decisione, partirono insieme con il resto della famiglia, lasciando Milano e diretti a Roma, poi ad Ostia Tiberina, dove affittarono un alloggio, in attesa di una nave in partenza per l’Africa.
Nelle sue ‘Confessioni,’ Agostino narra dei colloqui spirituali con sua madre, che si svolgevano nella quiete della casa di Ostia, ricevendone conforto ed edificazione; ormai più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo; Monica però gli disse anche che non provava più attrattiva per questo mondo, l’unica cosa che desiderava era che il figlio divenisse cristiano, ciò era avvenuto, ma non solo, lo vedeva impegnato verso una vita addirittura di consacrato al servizio di Dio, quindi poteva morire contenta.
Nel giro di cinque-sei giorni, si mise a letto con la febbre, perdendo a volte anche la conoscenza; ai figli costernati, disse di seppellire quel suo corpo dove volevano, senza darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all’altare del Signore. Agostino con le lagrime agli occhi le dava il suo affetto, ripetendo “Tu mi hai generato due volte”.
La malattia (forse malaria) durò nove giorni e il 27 agosto del 387, Monica morì a 56 anni. Donna di grande intuizione e di straordinarie virtù naturali e soprannaturali, si ammirano in lei una particolare forza d’animo, un’acuta intelligenza, una grande sensibilità, raggiungendo nelle riunioni di Cassiciaco l’apice della filosofia.
Rispettosa e paziente con tutti, resisté solo al figlio tanto amato, che voleva condurla al manicheismo; era spesso sostenuta da visioni, che con sicuro istinto, sapeva distinguere quelle celesti da quelle di pura fantasia.
Il suo corpo rimase per secoli, venerato nella chiesa di S. Aurea di Ostia, fino al 9 aprile del 1430, quando le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di S. Trifone, oggi di S. Agostino, poste in un artistico sarcofago, scolpito da Isaia da Pisa, sempre nel sec. XV.
Santa Monica, considerata modello e patrona delle madri cristiane, è molto venerata; il suo nome è fra i più diffusi fra le donne. La sua festa si celebra il 27 agosto, il giorno prima di quella del suo grande figlio il vescovo di Ippona s. Agostino, che per una singolare coincidenza, morì il 28 agosto 430.

Autore: Antonio Borrelli 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 26 août, 2009 |Pas de commentaires »

24 AGOSTO:SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

dal sito:

http://scuole.provincia.so.it/smsassitorelli/vita.htm

SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

Vita del santo

Apostolo martire nato nel I secolo a Cana, Galilea; morì verso la metà del I secolo probabilmente in Siria.La passione dell’apostolo Bartolomeo contiene molte incertezze: la storia della vita, delle opere e del martirio del santo è inframmezzata da numerosi eventi leggendari.Il vero nome dell’apostolo è Natanaele. Il nome Bartolomeo deriva probabilmente dall’aramaico « bar », figlio e « talmai » cioè agricoltore.Bartolomeo giunse a Cristo tramite l’apostolo Filippo. Dopo la resurrezione di Cristo, Bartolomeo fu predicatore itinerante(in Armenia, India e Mesopotamia). Divenne famoso per la sua facoltà di guarire i malati e gli ossessi. Bartolomeo fu condannato alla morte Persiana: fu scorticato vivo e poi crocefisso dai pagani. La calotta cranica del martire Bartolomeo si trova dal 1238 nel duomo di San Bartolomeo, a Francoforte.

Culto

Una delle usanze più note legate alla festa di San Bartolomeo é il pellegrinaggio di Alm: la domenica prima o dopo San Bartolomeo, gli abitanti della località austriaca di Alm si recano in pellegrinaggio a St. Bartholoma, sul Konigssee, nel Berchtesgaden. I primi pellegrinaggi risalgono al XV secolo e sono legati allo scioglimento di un voto: pare che un’epidemia di peste sia cessata quando gli abitanti di Alm fecero voto di recarsi tutti gli anni in pellegrinaggio a Bartholoma.In Francia esiste ancora oggi l’usanza delle candele San Bartolomeo, ma per i francesi il nome del santo è legato a brutti ricordi: la notte di San Bartolomeo,nel1572, furono uccisi 2000 ugonotti protestanti, per ordine di Caterina de’ Medici. La festa di San Bartolomeo è stata accolta nel calendario romano nel 1568, ed è ricordata il 24 agosto.

Iconografia

Bartolomeo è uno dei santi che più hanno ispirato gli artisti. E’ ritratto per lo più con la barba nera e ricciuta; talvolta essa è piuttosto corta. L’apostolo indossa spesso un mantello bianco, porta i sandali o è scalzo. I suoi attributi sono: libro, rotolo delle Scrittore, bandiera, coltello per scuoiare, bastone da pellegrino oppure terminante a forma di croce; accanto a lui si vede spesso un demonio domato. Talvolta tiene in mano la pelle che gli è stata tolta o la testa che gli è stata mozzata. Con la pelle che gli è stata tolta lo ritraggono il famoso reliquiario dei Re Magi nella cattedrale di Colonia e un affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina del Vaticano. I preparativi per il martirio sono stati fissati sulla tela da Rivera, in un dipinto del 1630 oggi esposto al Prado di Madrid.

Publié dans:SANTI APOSTOLI, santi: biografia |on 24 août, 2009 |Pas de commentaires »

San Massimiliano Maria Kolbe Sacerdote e martire – 14 agosto

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/34050

San Massimiliano Maria Kolbe Sacerdote e martire – 14 agosto
 
Zdunska-Wola, Polonia, 8 gennaio 1894 – Auschwitz, 14 agosto 1941

Massimiliano Maria Kolbe nasce nel 1894 a Zdunska-Wola, in Polonia. Entra nell’ordine dei francescani e, mentre l’Europa si avvia a un secondo conflitto mondiale, svolge un intenso apostolato missionario in Europa e in Asia. Ammalato di tubercolosi, Kolbe dà vita al «Cavaliere dell’Immacolata», periodico che raggiunge in una decina d’anni una tiratura di milioni di copie. Nel 1941 è deportato ad Auschwitz. Qui è destinato ai lavori più umilianti, come il trasporto dei cadaveri al crematorio. Nel campo di sterminio Kolbe offre la sua vita di sacerdote in cambio di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Muore pronunciando «Ave Maria». Sono le sue ultime parole, è il 14 agosto 1941. Giovanni Paolo II lo ha chiamato «patrono del nostro difficile secolo». La sua figura si pone al crocevia dei problemi emergenti del nostro tempo: la fame, la pace tra i popoli, la riconciliazione, il bisogno di dare senso alla vita e alla morte. (Avvenire)

Etimologia: Massimiliano = composto di Massimo e Emiliano (dal latino)

Emblema: Palma

Martirologio Romano: Memoria di san Massimiliano Maria (Raimondo) Kolbe, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e martire, che, fondatore della Milizia di Maria Immacolata, fu deportato in diversi luoghi di prigionia e, giunto infine nel campo di sterminio di Auschwitz vicino a Cracovia in Polonia, si consegnò ai carnefici al posto di un compagno di prigionia, offrendo il suo ministero come olocausto di carità e modello di fedeltà a Dio e agli uomini.

Se non è il primo è senz’altro fra i primi ad essere stato beatificato e poi canonizzato fra le vittime dei campi di concentramento tedeschi. Il papa Giovanni Paolo II ha detto di lui, che con il suo martirio egli ha riportato “la vittoria mediante l’amore e la fede, in un luogo costruito per la negazione della fede in Dio e nell’uomo”.
Massimiliano Kolbe nacque il 7 gennaio 1894 a Zdunska-Wola in Polonia, da genitori ferventi cristiani; il suo nome al battesimo fu quello di Raimondo. Papà Giulio, operaio tessile era un patriota che non sopportava
la divisione della Polonia di allora in tre parti, dominate da Russia, Germania ed Austria; dei cinque figli avuti, rimasero in vita ai Kolbe solo tre, Francesco, Raimondo e Giuseppe.
A causa delle scarse risorse finanziarie solo il primogenito poté frequentare la scuola, mentre Raimondo cercò di imparare qualcosa tramite un prete e poi con il farmacista del paese; nella zona austriaca, a Leopoli, si stabilirono i francescani, i quali conosciuti i Kolbe, proposero ai genitori di accogliere nel loro collegio i primi due fratelli più grandi; essi consci che nella zona russa dove risiedevano non avrebbero potuto dare un indirizzo e una formazione intellettuale e cristiana ai propri figli, a causa del regime imperante, accondiscesero; anzi liberi ormai della cura dei figli, il 9 luglio 1908, decisero di entrare loro stessi in convento, Giulio nei Terziari francescani di Cracovia, ma morì ucciso non si sa bene se dai tedeschi o dai russi, per il suo patriottismo, mentre la madre Maria divenne francescana a Leopoli.
Anche il terzo figlio Giuseppe dopo un periodo in un pensionamento benedettino, entrò fra i francescani. I due fratelli Francesco e Raimondo dal collegio passarono entrambi nel noviziato francescano, ma il primo, in seguito ne uscì dedicandosi alla carriera militare, prendendo parte alla Prima Guerra Mondiale e scomparendo in un campo di concentramento.
Raimondo divenuto Massimiliano, dopo il noviziato fu inviato a Roma, dove restò sei anni, laureandosi in filosofia all’Università Gregoriana e in teologia al Collegio Serafico, venendo ordinato sacerdote il 28 aprile 1918. Nel suo soggiorno romano avvennero due fatti particolari, uno riguardo la sua salute, un giorno mentre giocava a palla in aperta campagna, cominciò a perdere sangue dalla bocca, fu l’inizio di una malattia che con alti e bassi l’accompagnò per tutta la vita.
Poi in quei tempi influenzati dal Modernismo e forieri di totalitarismi sia di destra che di sinistra, che avanzavano a grandi passi, mentre l’Europa si avviava ad un secondo conflitto mondiale, Massimiliano Kolbe non ancora sacerdote, fondava con il permesso dei superiori la “Milizia dell’Immacolata”, associazione religiosa per la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria.
Ritornato in Polonia a Cracovia, pur essendo laureato a pieni voti, a causa della malferma salute, era praticamente inutilizzabile nell’insegnamento o nella predicazione, non potendo parlare a lungo; per cui con i permessi dei superiori e del vescovo, si dedicò a quella sua invenzione di devozione mariana, la “Milizia dell’Immacolata”, raccogliendo numerose adesioni fra i religiosi del suo Ordine, professori e studenti dell’Università, professionisti e contadini.
Alternando periodi di riposo a causa della tubercolosi che avanzava, padre Kolbe fondò a Cracovia verso il Natale del 1921, un giornale di poche pagine “Il Cavaliere dell’Immacolata” per alimentare lo spirito e la diffusione della “Milizia”.
A Grodno a 600 km da Cracovia, dove era stato trasferito, impiantò l’officina per la stampa del giornale, con vecchi macchinari, ma che con stupore attirava molti giovani, desiderosi di condividere quella vita francescana e nel contempo la tiratura della stampa aumentava sempre più. A Varsavia con la donazione di un terreno da parte del conte Lubecki, fondò “Niepokalanow”, la ‘Città di Maria’; quello che avvenne negli anni successivi, ha del miracoloso, dalle prime capanne si passò ad edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice, si passò alle moderne tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai ai 762 religiosi di dieci anni dopo, il “Cavaliere dell’Immacolata” raggiunse la tiratura di milioni di copie, a cui si aggiunsero altri sette periodici.
Con il suo ardente desiderio di espandere il suo Movimento mariano oltre i confini polacchi, sempre con il permesso dei superiori si recò in Giappone, dove dopo le prime incertezze, poté fondare la “Città di Maria” a Nagasaki; il 24 maggio 1930 aveva già una tipografia e si spedivano le prime diecimila copie de “Il Cavaliere” in lingua giapponese.
In questa città si rifugeranno gli orfani di Nagasaki, dopo l’esplosione della prima bomba atomica; collaborando con ebrei, protestanti, buddisti, era alla ricerca del fondo di verità esistente in ogni religione; aprì una Casa anche ad Ernakulam in India sulla costa occidentale. Per poterlo curare della malattia, fu richiamato in Polonia a Niepokalanow, che era diventata nel frattempo una vera cittadina operosa intorno alla stampa dei vari periodici, tutti di elevata tiratura, con i 762 religiosi, vi erano anche 127 seminaristi.
Ma ormai la Seconda Guerra Mondiale era alle porte e padre Kolbe, presagiva la sua fine e quella della sua Opera, preparando per questo i suoi confratelli; infatti dopo l’invasione del 1° settembre 1939, i nazisti ordinarono lo scioglimento di Niepokalanow; a tutti i religiosi che partivano spargendosi per il mondo, egli raccomandava “Non dimenticate l’amore”, rimasero circa 40 frati, che trasformarono la ‘Città’ in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi.
Il 19 settembre 1939, i tedeschi prelevarono padre Kolbe e gli altri frati, portandoli in un campo di concentramento, da dove furono inaspettatamente liberati l’8 dicembre; ritornati a Niepokalanow, ripresero la loro attività di assistenza per circa 3500 rifugiati di cui 1500 erano ebrei, ma durò solo qualche mese, poi i rifugiati furono dispersi o catturati e lo stesso Kolbe, dopo un rifiuto di prendere la cittadinanza tedesca per salvarsi, visto l’origine del suo cognome, il 17 febbraio 1941 insieme a quattro frati, venne imprigionato.
Dopo aver subito maltrattamenti dalle guardie del carcere, indossò un abito civile, perché il saio francescano li adirava moltissimo. Il 28 maggio fu trasferito ad Auschwitz, tristemente famoso come campo di sterminio, i suoi quattro confratelli l’avevano preceduto un mese prima; fu messo insieme agli ebrei perché sacerdote, con il numero 16670 e addetto ai lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri al crematorio.
La sua dignità di sacerdote e uomo retto primeggiava fra i prigionieri, un testimone disse: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio fu trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri erano addetti alla mietitura nei campi; uno di loro riuscì a fuggire e secondo l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri vennero destinati al bunker della morte.
La disperazione che s’impadronì di quei poveri disgraziati, venne attenuata e trasformata in preghiera comune, guidata da padre Kolbe e un po’ alla volta essi si rassegnarono alla loro sorte; morirono man mano e le loro voci oranti si ridussero ad un sussurro; dopo 14 giorni non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui padre Massimiliano, allora le SS decisero, che giacché la cosa andava troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico; il francescano martire volontario, tese il braccio dicendo “Ave Maria”, furono le sue ultime parole, era il 14 agosto 1941.
Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio; così finiva la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo della Chiesa polacca. Il suo fulgido martirio gli ha aperto la strada della beatificazione, avvenuta il 17 ottobre 1971 con papa Paolo VI e poi è stato canonizzato il 10 ottobre 1982 da papa Giovanni Paolo II, suo concittadino. 

Publié dans:santi martiri, santi: biografia |on 13 août, 2009 |Pas de commentaires »

Santa Giovanna Francesca de Chantal, 12 agosto (mf)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=saintfeast&localdate=20090812&id=487&fd=0

Santa Giovanna Francesca de Chantal, 12 agosto (mf)

Religiosa e cofondatrice

(memoria facoltativa)

Giovanna Francesca Frémiot nacque a Digione, in Francia, il 23 gennaio 1572, in una famiglia dell’alta nobiltà della Borgogna. Rimasta presto orfana di madre, Giovanna Francesca ebbe in suo padre, Benigno, un sicuro punto di riferimento, sia per l’educazione sia per la crescita nella fede. Oggi spesso si parla di “una società senza padre”, di famiglie con padri assenti, distratti, deboli, demotivati nel loro ruolo. Non fu così nella vita di Giovanna Francesca. Ella stessa disse di essere stata una “giovane pazzerella”, con le solite piccole pazzie proprie dell’età. Ma su di lei vigilava il padre: dal carattere forte, un po’ militare, ma sempre saggio e ponderato. Dal sangue nobile ma anche dalla pietà sincera e dalla fede tutta d’un pezzo. Ella non poté non risentirne l’influsso forte, benefico e duraturo. Giovanna alla sua scuola maturò una fede solida, e insieme un grande amore ai poveri.

Era diventata ormai una giovane donna che non poteva passare inosservata anche per il prestigio e la fama del padre. In un primo tempo lasciò cadere con garbo, ma con risolutezza, alcune proposte di matrimonio, finché accettò “con gioia spontanea” il “partito” propostole dal padre: Cristoforo II, barone de Chantal. Aveva 20 anni quando si sposò il 29 dicembre 1592. Fu un “matrimonio felice”. La neo baronessa si diede anima e corpo all’amministrazione della casa, trasfondendo in questa nuova mansione intelligenza e capacità. La tenuta dei De Chantal rifiorì, ed il barone non ebbe mai a pentirsi della fiducia accordata alla moglie. I due sposi erano veramente “un cuor solo ed un’anima sola”, procedevano di comune accordo, nella stima, fiducia, amore e confidenza reciproche. Dalla loro unione nacquero sei figli, due dei quali però morirono alla nascita. Il dolore di questa perdita fu colmato dagli altri quattro rimasti, voluti e accolti come veri “doni di Dio”.

Questi figli allietavano l’atmosfera della casa, e nello stesso tempo lenivano la sofferenza del suo cuore per le frequenti assenze del marito per gli impegni a corte. Un particolare importante: quando il barone non era al castello ella deponeva gli abiti nobili ed eleganti, e si dedicava maggiormente alle pratiche di pietà. Da questa preghiera traeva la forza per essere sempre dolce, serena, affabile con tutti, compresa la servitù, con gli amici e con gli ospiti del castello. L’amore ai poveri, insegnatole dal padre, era sempre una delle sue priorità. Non solo dava loro il necessario ma spesso li serviva lei stessa.

Durante la carestia dell’inverno del 1600 Giovanna, incurante delle dicerie e incoraggiata solamente da suo marito, aprì le porte del suo castello trasformandolo in “ospedale” per alloggiare mamme e bambini in difficoltà, distribuendo loro il suo pane. Cresceva nella fede e nella carità, aiutata dalla frequenza alla Messa quotidiana e dalla confessione. Dopo alcuni anni questa fede così robusta venne messa a dura prova con una serie di lutti in famiglia. Dopo i due figli morti dopo la nascita, nel 1601 perse il marito, che la lasciò sola a 29 anni, con quattro figli da mantenere. Decise di non risposarsi anche se non le mancarono le occasioni.

Alla figura di questa grande Santa francese non si può non avvicinare quella di San Francesco di Sales, che fu suo direttore e guida spirituale, e di cui ella fu seguace e al tempo stesso ispiratrice, penitente e insieme collaboratrice. Così, Santa Giovanna di Chantal e San Francesco di Sales formano una delle due coppie più celebri e più alte nella spiritualità francese del ’600. Il grande predicatore e direttore d’anime, Vescovo di Ginevra, l’aveva vista la prima volta quando predicava la Quaresima del 1604, a Digione. Giovanna era sulla trentina, e indossava severi abiti vedovili. Al primo colloquio, il modestissimo abbigliamento della vedova non parve abbastanza modesto a San Francesco di Sales, il quale le domandò: « Lei ha intenzione di rimaritarsi, Signora? » . «No», rispose Giovanna. « Bene – soggiunse il Santo, con un rapido cenno degli occhi – Allora sarà meglio ammainare le insegne ». La rinunzia interiore, che formava il nocciolo dell’insegnamento del Vescovo di Ginevra, doveva essere accompagnata e sottolineata anche dalla rinuncia esteriore.

Dopo il primo incontro, San Francesco di Sales ne assunse la direzione spirituale, con quella leggerezza di tatto che era il carattere distintivo del grande Santo savoiardo. Ella avvertiva sempre di più il desiderio di ritirarsi dal mondo, e di vivere soprattutto per Dio. Fino all’ultimo, il direttore spirituale volle metterla alla prova.  « Ascoltate – le disse un giorno – bisogna che voi entriate a Santa Chiara ».  « Padre mio – ella rispose – sono prontissima ». « No – riprese il Santo. – Non siete abbastanza robusta. Dovrete farvi suora nell’ospedale di Beaune ».  « Tutto ciò che vi parrà » accondiscese Giovanna. E Francesco:  « Non è ancora ciò che voglio: dovrete essere Carmelitana ».  « Sono pronta ad obbedire »  ripeté la vedova. Dopo aver così saggiato a lungo lo zelo e l’obbedienza della donna, il Santo le espose il suo progetto di una nuova fondazione intitolata alla Visitazione : “Ordo Visitationis Beatissimae Mariae Virginis” (Ordine della Visitazione di Santa Maria) e destinata all’assistenza dei malati.

Di questa nuova fondazione lei doveva essere cofondatrice e prima direttrice. Giovanna di Chantal si disse di nuovo pronta, ma questa volta con maggior fervore, con un sussulto del cuore. Ma occorsero alcuni anni, prima che la figlia del Presidente di Digione, sistemati i figli e disposto dei suoi beni terreni, potesse diventare la prima suora della Visitazione. L’Istituto che ebbe ad Annecy la prima sede, conobbe una rapida e vasta fortuna nella Savoia e nella Francia. Attorno a Giovanna, diventata Suor Francesca, si moltiplicarono le caritatevoli Visitandine (V.S.M.), come le sue suore erano chiamate e presto universalmente note e amate. Nel 1622 moriva Francesco di Sales. Giovanna pianse a lungo quella perdita ma non si sgomentò: le sofferenze e i molti lutti l’avevano ben temprata. Intanto affidava la sua anima ad un altro santo: Vincenzo de Paul che sarà sua guida illuminata e saggia fino alla morte che avvenne, nel monastero di Moulins, il 13 dicembre 1641. Giovanna aveva sessantanove anni e lasciava l’ordine in piena fioritura (ben 75 case della Visitazione). 

Fu beatificata da Pp Benedetto XIV il 13 novembre 1751 e canonizzata da Pp Clemente XIII il 16 luglio 1767.

Il significato del nome Giovanni (a) : « il Signore è benefico, dono del Signore » (ebraico).

Fonti: santiebeati.it; donbosco-torino.it; wikipendia.org («RIV.»).

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 12 août, 2009 |Pas de commentaires »

Santa Chiara Vergine, 11 agosto, biografia

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24000

Santa Chiara Vergine

11 agosto
 
Assisi, 1193/1194 – Assisi, 11 agosto 1253

Ha appena dodici anni Chiara, nata nel 1194 dalla nobile e ricca famiglia degli Offreducci, quando Francesco d’Assisi compie il gesto di spogliarsi di tutti i vestiti per restituirli al padre Bernardone. Conquistata dall’esempio di Francesco, la giovane Chiara sette anni dopo fugge da casa per raggiungerlo alla Porziuncola. Il santo le taglia i capelli e le fa indossare il saio francescano, per poi condurla al monastero benedettino di S.Paolo, a Bastia Umbra, dove il padre tenta invano di persuaderla a ritornare a casa. Si rifugia allora nella Chiesa di San Damiano, in cui fonda l’Ordine femminile delle «povere recluse» (chiamate in seguito Clarisse) di cui è nominata badessa e dove Francesco detta una prima Regola. Chiara scrive successivamente la Regola definitiva chiedendo ed ottenendo da Gregorio IX il «privilegio della povertà». Per aver contemplato, in una Notte di Natale, sulle pareti della sua cella il presepe e i riti delle funzioni solenni che si svolgevano a Santa Maria degli Angeli, è scelta da Pio XII quale protettrice della televisione. Erede dello spirito francescano, si preoccupa di diffonderlo, distinguendosi per il culto verso il SS. Sacramento che salva il convento dai Saraceni nel 1243. (Avvenire)

Patronato: Televisione

Etimologia: Chiara = trasparente, illustre, dal latino

Emblema: Giglio, Ostia

Martirologio Romano: Memoria di santa Chiara, vergine, che, primo virgulto delle Povere Signore dell’Ordine dei Minori, seguì san Francesco, conducendo ad Assisi in Umbria una vita aspra, ma ricca di opere di carità e di pietà; insigne amante della povertà, da essa mai, neppure nell’estrema indigenza e infermità, permise di essere separata.

La sera della domenica delle Palme (1211 o 1212) una bella ragazza diciottenne fugge dalla sua casa in Assisi e corre alla Porziuncola, dove l’attendono Francesco e il gruppo dei suoi frati minori. Le fanno indossare un saio da penitente, le tagliano i capelli e poi la ricoverano in due successivi monasteri benedettini, a Bastia e a Sant’Angelo.
Infine Chiara prende dimora nel piccolo fabbricato annesso alla chiesa di San Damiano, che era stata restaurata da Francesco. Qui Chiara è stata raggiunta dalla sorella Agnese; poi dall’altra, Beatrice, e da gruppi di ragazze e donne: saranno presto una cinquantina.
Così incomincia, sotto la spinta di Francesco d’Assisi, l’avventura di Chiara, figlia di nobili che si oppongono anche con la forza alla sua scelta di vita, ma invano. Anzi, dopo alcuni anni andrà con lei anche sua madre, Ortolana. Chiara però non è fuggita “per andare dalle monache”, ossia per entrare in una comunità nota e stabilita. Affascinata dalla predicazione e dall’esempio di Francesco, la ragazza vuole dare vita a una famiglia di claustrali radicalmente povere, come singole e come monastero, viventi del loro lavoro e di qualche aiuto dei frati minori, immerse nella preghiera per sé e per gli altri, al servizio di tutti, preoccupate per tutti. Chiamate popolarmente “Damianite” e da Francesco “Povere Dame”, saranno poi per sempre note come “Clarisse”.
Da Francesco, lei ottiene una prima regola fondata sulla povertà. Francesco consiglia, Francesco ispira sempre, fino alla morte (1226), ma lei è per parte sua una protagonista, anche se sarà faticoso farle accettare l’incarico di abbadessa. In un certo modo essa preannuncia la forte iniziativa femminile che il suo secolo e il successivo vedranno svilupparsi nella Chiesa.
Il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e protettore dei Minori, le dà una nuova regola che attenua la povertà, ma lei non accetta sconti: così Ugolino, diventato papa Gregorio IX (1227-41) le concede il “privilegio della povertà”, poi confermato da Innocenzo IV con una solenne bolla del 1253, presentata a Chiara pochi giorni prima della morte.
Austerità sempre. Però « non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito ». Così dice una delle lettere (qui in traduzione moderna) ad Agnese di Praga, figlia del re di Boemia, severa badessa di un monastero ispirato all’ideale francescano.
Chiara le manda consigli affettuosi ed espliciti: « Ti supplico di moderarti con saggia discrezione nell’austerità quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata ». Agnese dovrebbe vedere come Chiara sa rendere alle consorelle malate i servizi anche più umili e sgradevoli, senza perdere il sorriso e senza farlo perdere. A soli due anni dalla morte, papa Alessandro IV la proclama santa.
Chiara si distinse per il culto verso l’Eucarestia. Per due volte Assisi venne minacciata dall’esercito dell’imperatore Federico II che contava, tra i suoi soldati, anche saraceni. Chiara, in quel tempo malata, fu portata alle mura della città con in mano la pisside contenente il Santissimo Sacramento: i suoi biografi raccontano che l’esercito, a quella vista, si dette alla fuga.

Autore: Domenico Agasso 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 10 août, 2009 |Pas de commentaires »

10 agosto – San Lorenzo -Diacono e Martire – Patronato: Città di Roma

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/240.html

San Lorenzo -Diacono e Martire – Patronato: Città di Roma

BIOGRAFIA
Morto nel 258. La «Passione di san Lorenzo» fu scritta almeno un secolo dopo la sua morte, e di conseguenza non è attendibile. Essa afferma che san Lorenzo, uno dei diaconi di Sisto II, fu messo a morte tre giorni dopo il martirio del papa venendo arrostito su una graticola; la maggioranza degli studiosi moderni sostiene invece che fu decapitato come Sisto II. Lorenzo è però sempre stato tra i più celebri fra i numerosi martiri romani, sia in Oriente che in Occidente. Il suo martirio deve avere prodotto una profonda impressione nei cristiani romani; la sua morte, dice Prudenzio, fu la morte dell’idolatria a Roma, perché da allora essa cominciò a scomparire. Lorenzo fu sepolto sulla Via Tiburtina nel «Campus Veranus» dove sorge la omonima basilica.

MARTIROLOGIO
A Roma, sulla via Tiburtina, il natale del beato Lorenzo Arcidiacono, il quale, nella persecuzione di Valeriano, dopo moltissimi tormenti di prigionia, diverse verghe, bastoni, flagelli piombati e lastre infuocate, alla fine, arrostito su una graticola di ferro, compì il martirio; il suo corpo dal beato Ippolito e dal Prete Giustino fu sepolto nel cimitero di Ciriaca, al campo Verano.

DAGLI SCRITTI…
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
Fu ministro del sangue di Cristo

Oggi la chiesa di Roma celebra il giorno del trionfo di Lorenzo, giorno in cui egli rigettò il mondo del male. Lo calpestò quando incrudeliva rabbiosamente contro di lui e lo disprezzò quando lo allettava con le sue lusinghe. In un caso e nell’altro sconfisse satana che gli suscitava contro la persecuzione. San Lorenzo era diacono della chiesa di Roma. Ivi era ministro del sangue di Cristo e là, per il nome di Cristo, versò il suo sangue. Il beato apostolo Giovanni espose chiaramente il mistero della Cena del Signore, dicendo: «Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16). Lorenzo, fratelli, ha compreso tutto questo. L’ha compreso e messo in pratica. E davvero contraccambio quanto aveva ricevuto in tale mensa. Amò Cristo nella sua vita, lo imitò nella sua morte.
Anche noi, fratelli, se davvero amiamo, imitiamo. Non potremmo, infatti, dare in cambio un frutto più squisito del nostro amore di quello consistente nell’imitazione del Cristo, che «patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme» (1 Pt 2, 21). Con questa frase sembra quasi che l’apostolo Pietro abbia voluto dire che Cristo patì solamente per coloro che seguono le sue orme, e che la passione di Cristo giova solo a coloro che lo seguono. I santi martiri lo hanno seguito fino all’effusione del sangue, fino a rassomigliarli nella passione. Lo hanno seguito i martiri, ma non essi soli. Infatti, dopo che essi passarono, non fu interrotto il ponte; né si é inaridita la sorgente, dopo che essi hanno bevuto.
Il bel giardino del Signore, o fratelli, possiede non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, l’edera di quelli che vivono nel matrimonio, le viole delle vedove. Nessuna categoria di persone deve dubitare della propria chiamata: Cristo ha sofferto per tutti. Con tutta verità fu scritto di lui: «Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati, e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4). Dunque cerchiamo di capire in che modo, oltre all’effusione del sangue, oltre alla prova della passione, il cristiano debba seguire il Maestro. L’Apostolo, parlando di Cristo Signore, dice: «Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Quale sublimità!
«Ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso» (Fil 2, 7-8). Quale abbassamento! Cristo si é umiliato: eccoti, o cristiano l’esempio da imitare. Cristo si é fatto ubbidiente: perché tu ti insuperbisci? Dopo aver percorso tutti i gradi di questo abbassamento, dopo aver vinto la morte, Cristo ascese al cielo: seguiamolo. Ascoltiamo l’Apostolo che dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 3, 1).(Disc. 304, 14; PL 38, 1395-1397).

Santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, Vergine e Martire, Patrona

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santi/2009-08-09.html

Santa Teresa Benedetta della Croce

Edith Stein, Vergine e Martire, Patrona

BIOGRAFIA
 Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce (1891-1942)
Edith Stein nasce a Breslavia, nella Slesia tedesca, il 12 ottobre 1891, undicesima figlia di una coppia di ebrei molto religiosa. Fin dall’infanzia Edith manifesta un’intelligenza vivace e brillante. Subito dopo gli esami di maturità, nel 1911, s’iscrive alla facoltà di Germanistica, Storia e Psicologia dell’università di Breslavia. In questo periodo scopre la corrente fenomenologica di Edmund Husserl (1859-1938) e nel 1913 si trasferisce all’università di Gottinga per seguirne le lezioni. Dopo la conversione, segue l’invito di padre Przywara a occuparsi in modo sistematico della dottrina e dell’opera di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), di cui tradurrà in tedesco le Questioni sulla verità. L’incontro con i mistici l’orienta verso la vita contemplativa nell’ordine carmelitano; potrà tuttavia realizzare la propria vocazione solo nel 1933 quando, allontanata dall’insegnamento dall’introduzione delle leggi razziali di Norimberga, non sarà più trattenuta dal suo padre spirituale, dom Raphael Walzer O.S.B. (1886-1966), arciabate di Beuron, che aveva voluto mettesse a frutto, come docente, le sue grandi capacità intellettuali.. Alle cinque pomeridiane del 2 agosto 1942, Edith Stein viene prelevata insieme alla sorella Rosa dal convento, e una testimone la sente dire alla sorella: “Vieni, andiamo per il nostro popolo”. Il 7 agosto sono assegnate a un trasporto in partenza quel giorno stesso per Auschwitz-Birkenau, che giunge a destinazione due giorni dopo. Non è stato possibile stabilire con certezza il momento della morte di Edith dopo l’arrivo ad Auschwitz, ma è probabile che sia stata subito destinata alla camera a gas. Papa Giovanni Paolo II nel motu proprio del 1° ottobre 1999 l’ha proclamata compatrona d’Europa insieme a santa Brigida di Svezia (1303 ca.-1373) e a santa Caterina da Siena (1347-1380).

DAGLI SCRITTI…
Dagli scritti spirituali di Santa Teresa Benedetta della Croce.
“Ave Crux, Spes unica”

“Ti salutiamo, Croce santa, nostra unica speranza!” Così la Chiesa ci fa dire nel tempo di passione dedicato alla contemplazione delle amare sofferenze di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il mondo è in fiamme: la lotta tra Cristo e anticristo si è accanita apertamente, perciò se ti decidi per Cristo può esserti chiesto anche il sacrificio della vita.
Contempla il Signore che pende davanti a te sul legno, perché è stato obbediente fino alla morte di Croce. Egli venne nel mondo non per fare la sua volontà, ma quella del Padre. Se vuoi essere la sposa del Crocifisso devi rinunciare totalmente alla tua volontà e non avere altra aspirazione che quella di adempiere la volontà di Dio.
Di fronte a te il Redentore pende dalla Croce spogliato e nudo, perché ha scelto la povertà. Chi vuole seguirlo deve rinunciare ad ogni possesso terreno. Stai davanti al Signore che pende dalla Croce con il cuore squarciato: Egli ha versato il sangue del suo Cuore per guadagnare il tuo cuore. Per poterlo seguire in santa castità, il tuo cuore dev’essere libero da ogni aspirazione terrena; Gesù Crocifisso dev’essere l’oggetto di ogni tua brama, di ogni tuo desiderio, di ogni tuo pensiero.
Il mondo è in fiamme: l’incendio potrebbe appiccarsi anche alla nostra casa, ma al di sopra di tutte le fiamme si erge la Croce che non può essere bruciata. La Croce è la via che dalla terra conduce al cielo. Chi l’abbraccia con fede, amore. speranza viene portato in alto, fino al seno della Trinità.
Il mondo è in fiamme: desideri spegnerle? Contempla la Croce: dal Cuore aperto sgorga il sangue del Redentore, sangue capace di spegnere anche le fiamme dell’inferno. Attraverso la fedele osservanza dei voti rendi il tuo cuore libero e aperto; allora si potranno riversare in esso i flutti dell’amore divino, sì da farlo traboccare e renderlo fecondo fino ai confini della terra.
Attraverso la potenza della Croce puoi essere presente su tutti i luoghi del dolore, dovunque ti porta la tua compassionevole carità, quella carità che attingi dal Cuore divino e che ti rende capace di spargere ovunque il suo preziosissimo sangue per lenire, salvare, redimere.
Gli occhi del Crocifisso ti fissano interrogandoti, interpellandoti. Vuoi stringere di nuovo con ogni serietà l’alleanza con Lui? Quale sarà la tua risposta? “Signore, dove andare? Tu solo hai parole di vita”. Ave Crux, spes unica!(Edith Stein, Vita, Dottrina, Testi inediti. Roma, pp. 127-130.)

Dal Messale
Edith Stein nacque a Breslavia il 12 ottobre 1891 da una famiglia ebrea. Appassionata ricercatrice della verità, attraverso approfonditi studi di filosofia, la trovò mediante la lettura dell’autobiografia di Santa Teresa di Gesù (S.Teresa d’Avila). Nel 1922 ricevette il battesimo nella Chiesa cattolica e nel 1933 entrò nel Carmelo di Colonia. Morì martire per la fede cristiana ad Auschwitz, nei forni crematori, il 9 agosto 1942, durante la persecuzione nazista, offrendo il suo olocausto per il popolo d’Israele. Donna di singolare intelligenza e cultura, ha lasciato molti scritti di alta dottrina e di profonda spiritualità, è stata beatificata da Giovanni Paolo II a Colonia il l° maggio 1987, canonizzata a Roma da Giovanni Paolo II il 12 Ottobre 1998 e dichiarata Patrona di Europa – con S Brigida di Svezia e S.Caterina da Siena – il 3 ottobre 1999.

Una preghiera
«Mi ha rivestita delle vesti della salvezza» (Is 61). Così preghiamo nella festa della Regina del Carmelo, la più grande solennità del nostro Ordine. Noi che possiamo chiamarci sue figlie e sorelle, riceviamo da lei un abito particolare di salvezza, il suo stesso abito. Come segno della sua materna predilezione, Ella ci dona il santo Scapolare, questa “armatura di Dio”. Nel ricevere il santo Abito assumiamo l’impegno di dare un’eccezionale testimonianza di amore non solo al nostro divino Sposo, ma anche alla sua santissima Madre. Non possiamo rendere migliore servizio alla Regina del Carmelo e dimostrarle la nostra riconoscenza, che considerandola nostro modello e seguendola nella “via della perfezione” (16 luglio 1940).

San Domenico di Guzmàn (biografia da EAQ)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=FR&module=saintfeast&localdate=20090808&id=5801&fd=0

San Domenico di Guzmàn

Sac. e fond. : “Ordo prædicatorum” (O.P.)

(memoria)
 
Domenico nacque nel 1170 a Caleruega, un villaggio montano della vecchia Castiglia (Spagna) da Felice di Guzmàn e da Giovanna d’Aza; venne battezzato con il nome del santo patrono dell’abbazia benedettina di San Domingo de Silos, situata a pochi chilometri a nord del suo paese natale. Fanciullo, è affidato allo zio arciprete perché venga iniziato alle verità della fede e ai primi elementi del sapere. Domenico, fin da giovane, aveva il sentimento di compassione che gli ispirava la sofferenza altrui. Si racconta, ad esempio, che, ancora studente a Palencia, dove si era trasferito all’età di 15 anni per frequentare corsi regolari di arti liberali e teologia, vendette quanto in suo possesso, incluse le sue preziose pergamene (un grande sacrificio in un’epoca in cui non era stata ancora inventata la stampa), per dar da mangiare ai poveri affermando: « Come posso studiare su pelli morte, mentre tanti miei fratelli muoiono di fame? » Terminati gli studi (1196-97), decise di assecondare la chiamata di Dio al sacerdozio ed entrò nel capitolo canonicale di El Burgo de Osma dietro invito dello stesso priore Diego de Acebes. Quando Diego, da poco eletto vescovo (1201), deve partire per una delicata missione diplomatica in Danimarca, si sceglie Domenico come compagno di viaggio, dal quale non si separerà più Il contatto vivo con i fedeli della Francia meridionale, dove era diffusa l’eresia dei càtari e l’entusiasmo delle cristianità nordiche per le imprese missionarie verso l’Est, costituirono per Diego e Domenico una rivelazione: anch’essi saranno missionari.
Di ritorno da un secondo viaggio in Danimarca scesero a Roma (1206) e chiesero al Pp Innocenzo III di potersi dedicare all’evangelizzazione dei pagani. Innocenzo III, invece, orientò il loro zelo missionario verso quella predicazione nella Francia meridionale, la regione dove erano più attivi i càtari, da lui ardentemente e autorevolmente promossa fin dal 1203. I due accettarono e Domenico continuò anche quando si dissolse la legazione pontificia e dopo l’improvvisa morte di Diego (30 dicembre 1207).
La sua attività di apostolato era imperniata su dibattiti pubblici, colloqui personali, trattative, predicazione, opera di persuasione, preghiera e penitenza, appoggiato in questa sua opera da Folco, vescovo di Tolosa, che lo nominò predicatore della sua diocesi.
Pian piano maturò anche l’idea di un ordine religioso. Iniziò con l’istituzione di una comunità femminile che accoglieva donne che avevano abbandonato il catarismo e questa comunità di domenicane esiste ancora. A Domenico si avvicinavano anche uomini, ma resistevano poco al rigoroso stile di vita da lui preteso per testimoniare, con l’esempio, la fede cattolica tra i càtari. Alla fine però riuscì a riunire un certo numero di uomini capaci che condividevano i suoi stessi ideali, istituendo un primo nucleo stabile ed organizzato di predicatori.
Il passo successivo fu, in occasione di un viaggio a Roma, nell’ottobre 1215, per accompagnare il vescovo Folco, che doveva partecipare al Concilio Laterano IV, la proposizione a Pp Innocenzo III di un nuovo ordine monastico dedicato alla predicazione; Domenico trovò grande disponibilità nel papa che l’approvò.
L’anno successivo, il 22 dicembre 1215, Pp Onorio III diede l’approvazione ufficiale e definitiva. Ottenuto il riconoscimento ufficiale, l’ordine crebbe e, già dal 1217, fu in condizione di inviare monaci un po’ in tutta l’Europa, soprattutto a Parigi e a Bologna, principali centri universitari del tempo. Nel 1220 e nel 1221 Domenico presiedette personalmente a Bologna ai primi due Capitoli Generali destinati a redigere la «magna carta» e a precisare gli elementi fondamentali dell’ordine.
Sfinito dal lavoro apostolico ed estenuato dalle grandi penitenze, Domenico morì il 6 agosto 1221, circondato dai suoi frati, nel suo amatissimo convento di Bologna (Basilica di San Domenico), in una cella non sua, perché lui, il fondatore, non l’aveva.
Pp Gregorio IX canonizzò Domenico il 13 luglio 1234: si festeggia l’8 agosto.
Il suo corpo dal 5 giugno 1267 è custodito in una preziosa arca marmorea. A Roma, nel chiostro del convento di Santa Sabina all’Aventino è presente una pianta di arancio dolce che, secondo la tradizione domenicana, san Domenico portò dalla Spagna.
La notorietà delle numerose leggende miracolistiche legate alle sue intercessioni fanno accorrere al suo sepolcro fedeli da ogni parte d’Italia e d’Europa, mentre i fedeli bolognesi lo proclamano «Patrono e Difensore perpetuo della città».
La fisionomia spirituale di Domenico è inconfondibile: egli stesso nei duri anni dell’apostolato albigese si era definito « umile servo della predicazione ». Alla base della sua vita sta questo preciso programma apostolico: testimoniare amorosamente Dio dinanzi ai fratelli, donando loro, nella povertà evangelica, la verità.
Il suo genio si rivela anzitutto nell’aver armonizzato in una superiore sintesi gli elementi tradizionali fra loro più opposti e apparentemente irriducibili. Ardito e prudente, risoluto e rispettoso verso l’altrui giudizio, geniale e obbediente alle direttive della Chiesa, Domenico apostolo che non conosce compromessi né irrigidimenti, il predicatore schivo da ogni retorica: il magnanimo, alieno da ogni ombra di grettezza «Tenero come una mamma, forte come il diamante» (H. Lacordaire), concilia la soda formazione teologica all’acuto senso pratico.
Egli concepisce il primo Ordine canonicale i cui membri faranno della predicazione (intesa come contemplazione ad alta voce) la loro divisa. La sua personalità ricca si rifrangerà inesauribilmente nella fioritura di santi che lungo i secoli ne abbracceranno l’ideale e guarderanno filialmente a lui come ad un vero uomo di Dio, all’apostolo che – secondo l’impareggiabile elogio comunicato da Dio a santa Caterina – « prese l’ufficio del Verbo ».

Significato del nome Domenico: « consacrato al Signore » (latino).

Fonti: domenicani.net ; santiebeati.it ; wikipendia.org (« RIV. »).

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 7 août, 2009 |Pas de commentaires »

Il racconto del pellegrino (Autobiografia di S. Ignazio)

dal sito:

http://www.gesuiti.it/linguaggi/129/190/191/schedabase.asp

Il racconto del pellegrino (Autobiografia di S. Ignazio)

(solo la prima parte, il resto dell’autobiografia sul sito)

[1] Fino a 26 anni fu uomo di mondo, assorbito dalle vanità. Amava soprattutto esercitarsi nell’uso delle armi, attratto da un immenso desiderio di acquistare l’onore vano. Con questo spirito si comportò quando venne a trovarsi in una fortezza assediata dai francesi: tutti erano del parere di arrendersi, alla sola condizione di avere salva la vita, poiché era evidente che non potevano difendersi; egli invece presentò al comandante argomenti così persuasivi che lo convinse a resistere. Tutti gli altri cavalieri erano di parere contrario, ma trascinati dal suo ardimento e dalla sua decisione, ripresero coraggio. Il giorno in cui si prevedeva l’attacco egli si confessò a uno di quei suoi compagni d’arme. Si combatteva già da parecchio tempo quando un proiettile lo colpì a una gamba e gliela spezzò, rompendogliela tutta; e poiché l’ordigno era passato tra le gambe, anche l’altra restò malconcia.

[2] Caduto lui, tutta la guarnigione della fortezza si arrese subito ai francesi; essi, entrando a prenderne possesso, trattarono con ogni riguardo il ferito, e furono con lui cortesi e benevoli. Rimase a Pamplona dodici o quindici giorni; poi, in lettiga, fu trasportato nel suo castello. Là si aggravò; medici e chirurghi furono chiamati da varie parti: diagnosticarono che le ossa erano fuori posto; o erano state ricomposte male la prima volta, o si erano spostate durante il viaggio e questo impediva la guarigione. Per rimettere le ossa a posto bisognava rompere di nuovo la gamba. Si ripeté quella carneficina. In questa, come in tutti gli interventi prima subiti o che avrebbe affrontato poi, non gli sfuggì mai un lamento, e non diede altro segno di dolore che stringere forte i pugni.

[3] Ma continuava a peggiorare: non poteva nutrirsi e manifestava gli altri sintomi che di solito preannunziano la fine.
Il giorno di San Giovanni, poiché i medici disperavano di salvarlo, gli fu suggerito di confessarsi. Ricevette dunque i sacramenti e, la vigilia dei Santi Pietro e Paolo, i medici dichiararono che se entro la mezzanotte non migliorava, lo si poteva dare per morto. L’infermo era sempre stato devoto di san Pietro: nostro Signore volle che proprio da quella mezzanotte cominciasse a riprendersi; e andò così migliorando che di lì a qualche giorno fu dichiarato fuori pericolo.

[4] Le ossa andavano ormai saldandosi, ma sotto il ginocchio un osso rimase sovrapposto all’altro di modo che la gamba rimaneva più corta. Per di più quell’osso sporgeva tanto da apparire una deformità: e questo lui non lo poteva sopportare; intendeva continuare a seguire il mondo e quel difetto sarebbe apparso sconveniente; per questo interrogò i medici se si poteva tagliare quell’osso. Risposero che lo si poteva certo tagliare, ma il dolore sarebbe stato più atroce di tutti quelli già sofferti: perché l’osso ormai si era saldato e perché l’intervento era lungo. Nonostante tutto, per suo capriccio, decise di sottoporsi a quel martirio. Suo fratello maggiore, spaventato, diceva che non avrebbe mai avuto il coraggio di sottoporsi a tale atrocità: ma l’infermo la sopportò con la consueta forza d’animo.

[5] Fu incisa la carne e l’osso sporgente fu segato. Perché la gamba non rimanesse più corta, i medici adottarono vari rimedi: applicarono vari unguenti e la tennero continuamente in trazione; furono giorni e giorni di martirio. Ma nostro Signore gli ridava salute; andò migliorando a tal punto che si trovò completamente ristabilito. Solo che non poteva reggersi bene sulla gamba e doveva per forza stare a letto. Poiché era un appassionato lettore di quei libri mondani e frivoli, comunemente chiamati romanzi di cavalleria, sentendosi ormai in forze ne chiese qualcuno per passare il tempo. Ma di quelli che era solito leggere, in quella casa non se ne trovarono. Così gli diedero una Vita Christi e un libro di vite di santi in volgare.

[6] Percorrendo più volte quelle pagine restava preso da ciò che vi si narrava. Ma quando smetteva di leggere talora si soffermava a pensare alle cose che aveva letto, altre volte ritornava ai pensieri del mondo che prima gli erano abituali. Tra le molte vanità che gli si presentavano alla mente, un pensiero dominava il suo animo a tal punto che ne restava subito assorbito, indugiandovi come trasognato per due, tre o quattro ore: andava escogitando cosa potesse fare in servizio di una certa dama, di quali mezzi servirsi per raggiungere la città dove risiedeva; pensava le frasi cortesi, le parole che le avrebbe rivolto; sognava i fatti d’arme che avrebbe compiuto a suo servizio. In questi sogni restava così rapito che non badava all’impossibilità dell’impresa: perché quella dama non era una nobile qualunque; non era una contessa o una duchessa; il suo rango era ben più elevato di questi.

[7] Ma nostro Signore lo assisteva e operava in lui. A questi pensieri ne succedevano altri, suggeriti dalle cose che leggeva. Così leggendo la vita di nostro Signore e dei santi si soffermava a pensare e a riflettere tra sé: « E se anch’io facessi quel che ha fatto san Francesco o san Domenico? ». In questo modo passava in rassegna molte iniziative che trovava buone, e sempre proponeva a se stesso imprese difficili e grandi; e mentre se le proponeva gli sembrava di trovare dentro di sé le energie per poterle attuare con facilità. Tutto il suo ragionare era un ripetere a se stesso: san Domenico ha fatto questo, devo farlo anch’io; san Francesco ha fatto questo, devo farlo anch’io. Anche queste riflessioni lo tenevano occupato molto tempo. Ma quando lo distraevano altre cose, riaffioravano i pensieri di mondo già ricordati, e pure in essi indugiava molto. L’alternarsi di pensieri così diversi durò a lungo. Si trattasse di quelle gesta mondane che sognava di compiere, o di queste altre a servizio di Dio che gli si presentavano all’immaginazione, si tratteneva sempre sul pensiero ricorrente fino a tanto che, per stanchezza, lo abbandonava e s’applicava ad altro.

[8] C’era però una differenza: pensando alle cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono un poco gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi: dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demonio, l’altro di Dio.

Questa fu la prima riflessione che egli fece sulle cose di Dio. In seguito, quando si applicò agli Esercizi, proprio di qui cominciò a prendere luce sull’argomento della diversità degli spiriti.

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 31 juillet, 2009 |Pas de commentaires »

Sant’ Ignazio di Loyola Sacerdote – 31 luglio

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23800

Sant’ Ignazio di Loyola Sacerdote – 31 luglio
 
Azpeitia, Spagna, c. 1491 – Roma, 31 luglio 1556

Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All’abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri Esercizi Spirituali. L’attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po’in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesù. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morì. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. (Avvenire)

Etimologia: Ignazio = di fuoco, igneo, dal latino

Emblema: IHS (monogramma di Cristo)

Martirologio Romano: Memoria di sant’Ignazio di Loyola, sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio.

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Il primo scritto che racconta la vita, la vocazione e la missione di s. Ignazio, è stato redatto proprio da lui, in Italia è conosciuto come “Autobiografia”, ed egli racconta la sua chiamata e la sua missione, presentandosi in terza persona, per lo più designato con il nome di “pellegrino”; apparentemente è la descrizione di lunghi viaggi o di esperienze curiose e aneddotiche, ma in realtà è la descrizione di un pellegrinaggio spirituale ed interiore.
Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia un paese basco, nell’estate del 1491, il suo nome era Iñigo Lopez de Loyola, settimo ed ultimo figlio maschio di Beltran Ibañez de Oñaz e di Marina Sanchez de Licona, genitori appartenenti al casato dei Loyola, uno dei più potenti della provincia di Guipúzcoa, che possedevano una fortezza padronale con vasti campi, prati e ferriere.
Iñigo perse la madre subito dopo la nascita, ed era destinato alla carriera sacerdotale secondo il modo di pensare dell’epoca, nell’infanzia ricevé per questo anche la tonsura.
Ma egli ben presto dimostrò di preferire la vita del cavaliere come già per due suoi fratelli; il padre prima di morire, nel 1506 lo mandò ad Arévalo in Castiglia, da don Juan Velázquez de Cuellar, ministro dei Beni del re Ferdinando il Cattolico, affinché ricevesse un’educazione adeguata; accompagnò don Juan come paggio, nelle cittadine dove si trasferiva la corte allora itinerante, acquisendo buone maniere che tanto influiranno sulla sua futura opera.
Nel 1515 Iñigo venne accusato di eccessi d’esuberanza e di misfatti accaduti durante il carnevale ad Azpeitia e insieme al fratello don Piero, subì un processo che non sfociò in sentenza, forse per l’intervento di alti personaggi; questo per comprendere che era di temperamento focoso, corteggiava le dame, si divertiva come i cavalieri dell’epoca.
Morto nel 1517 don Velázquez, il giovane Iñigo si trasferì presso don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, al cui servizio si trovò a combattere varie volte, fra cui nell’assedio del castello di Pamplona ad opera dei francesi; era il 20 maggio 1521, quando una palla di cannone degli assedianti lo ferì ad una gamba.
Trasportato nella sua casa di Loyola, subì due dolorose operazioni alla gamba, che comunque rimase più corta dell’altra, costringendolo a zoppicare per tutta la vita.
Ma il Signore stava operando nel plasmare l’anima di quell’irrequieto giovane; durante la lunga convalescenza, non trovando in casa libri cavallereschi e poemi a lui graditi, prese a leggere, prima svogliatamente e poi con attenzione, due libri ingialliti fornitagli dalla cognata.
Si trattava della “Vita di Cristo” di Lodolfo Cartusiano e la “Leggenda Aurea” (vita di santi) di Jacopo da Varagine (1230-1298), dalla meditazione di queste letture, si convinse che l’unico vero Signore al quale si poteva dedicare la fedeltà di cavaliere era Gesù stesso.
Per iniziare questa sua conversione di vita, decise appena ristabilito, di andare pellegrino a Gerusalemme dove era certo, sarebbe stato illuminato sul suo futuro; partì nel febbraio 1522 da Loyola diretto a Barcellona, fermandosi all’abbazia benedettina di Monserrat dove fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi vestendo quelli di un povero e fece il primo passo verso una vita religiosa con il voto di castità perpetua.
Un’epidemia di peste, cosa ricorrente in quei tempi, gl’impedì di raggiungere Barcellona che ne era colpita, per cui si fermò nella cittadina di Manresa e per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo poveramente presso il fiume Cardoner “ricevé una grande illuminazione”, sulla possibilità di fondare una Compagnia di consacrati e che lo trasformò completamente.
In una grotta dei dintorni, in piena solitudine prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri “Esercizi Spirituali”, i quali costituiscono ancora oggi, la vera fonte di energia dei Gesuiti e dei loro allievi.
Arrivato nel 1523 a Barcellona, Iñigo di Loyola, invece di imbarcarsi per Gerusalemme s’imbarcò per Gaeta e da qui arrivò a Roma la Domenica delle Palme, fu ricevuto e benedetto dall’olandese Adriano VI, ultimo papa non italiano fino a Giovanni Paolo II.
Imbarcatosi a Venezia arrivò in Terrasanta visitando tutti i luoghi santificati dalla presenza di Gesù; avrebbe voluto rimanere lì ma il Superiore dei Francescani, responsabile apostolico dei Luoghi Santi, glielo proibì e quindi ritornò nel 1524 in Spagna.
Intuì che per svolgere adeguatamente l’apostolato, occorreva approfondire le sue scarse conoscenze teologiche, cominciando dalla base e a 33 anni prese a studiare grammatica latina a Barcellona e poi gli studi universitari ad Alcalà e a Salamanca.
Per delle incomprensioni ed equivoci, non poté completare gli studi in Spagna, per cui nel 1528 si trasferì a Parigi rimanendovi fino al 1535, ottenendo il dottorato in filosofia.
Ma già nel 1534 con i primi compagni, i giovani maestri Pietro Favre, Francesco Xavier, Lainez, Salmerón, Rodrigues, Bobadilla, fecero voto nella Cappella di Montmartre di vivere in povertà e castità, era il 15 agosto, inoltre promisero di recarsi a Gerusalemme e se ciò non fosse stato possibile, si sarebbero messi a disposizione del papa, che avrebbe deciso il loro genere di vita apostolica e il luogo dove esercitarla; nel contempo Iñigo latinizzò il suo nome in Ignazio, ricordando il santo vescovo martire s. Ignazio d’Antiochia.
A causa della guerra fra Venezia e i Turchi, il viaggio in Terrasanta sfumò, per cui si presentarono dal papa Paolo III (1534-1549), il quale disse: “Perché desiderate tanto andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa di Dio l’Italia è una buona Gerusalemme”; e tre anni dopo si cominciò ad inviare in tutta Europa e poi in Asia e altri Continenti, quelli che inizialmente furono chiamati “Preti Pellegrini” o “Preti Riformati” in seguito chiamati Gesuiti.
Ignazio di Loyola nel 1537 si trasferì in Italia prima a Bologna e poi a Venezia, dove fu ordinato sacerdote; insieme a due compagni si avvicinò a Roma e a 14 km a nord della città, in località ‘La Storta’ ebbe una visione che lo confermò nell’idea di fondare una “Compagnia” che portasse il nome di Gesù.
Il 27 settembre 1540 papa Polo III approvò la Compagnia di Gesù con la bolla “Regimini militantis Ecclesiae”.
L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto all’unanimità Preposito Generale e il 22 aprile fece con i suoi sei compagni, la professione nella Basilica di S. Paolo; nel 1544 padre Ignazio, divenuto l’apostolo di Roma, prese a redigere le “Costituzioni” del suo Ordine, completate nel 1550, mentre i suoi figli si sparpagliavano per il mondo.
Rimasto a Roma per volere del papa, coordinava l’attività dell’Ordine, nonostante soffrisse dolori lancinanti allo stomaco, dovuti ad una calcolosi biliare e a una cirrosi epatica mal curate, limitava a quattro ore il sonno per adempiere a tutti i suoi impegni e per dedicarsi alla preghiera e alla celebrazione della Messa.
Il male fu progressivo limitandolo man mano nelle attività, finché il 31 luglio 1556, il soldato di Cristo, morì in una modestissima camera della Casa situata vicina alla Cappella di Santa Maria della Strada a Roma.
Fu proclamato beato il 27 luglio 1609 da papa Paolo V e proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV.
Si completa la scheda sul Santo Fondatore, colonna della Chiesa e iniziatore di quella riforma coronata dal Concilio di Trento, con una panoramica di notizie sul suo Ordine, la “Compagnia di Gesù”.

Le “Costituzioni” redatte da s. Ignazio fissano lo spirito della Compagnia, essa è un Ordine di “chierici regolari” analogo a quelli sorti nello stesso periodo, ma accentuante anche nella denominazione scelta dal suo Fondatore, l’aspetto dell’azione militante al servizio della Chiesa.
La Compagnia adattò lo spirito del monachesimo, al necessario dinamismo di un apostolato da svolgersi in un mondo in rapida trasformazione spirituale e sociale, com’era quello del XVI secolo; alla stabilità della vita monastica sostituì una grande mobilità dei suoi membri, legati però a particolari obblighi di obbedienza ai superiori e al papa; alle preghiere del coro sostituì l’orazione mentale.
Considerò inoltre essenziale la preparazione e l’aggiornamento culturale dei suoi membri. È governata da un “Preposito generale”.
I gradi della formazione dei sacerdoti gesuiti, comprendono due anni di noviziato, gli aspiranti sono detti ‘scolastici’, gli studi approfonditi sono inframezzati dall’ordinazione sacerdotale (solitamente dopo il terzo anno di filosofia), il giovane gesuita verso i 30 anni diventa professo ed emette i tre voti solenni di povertà, castità e obbedienza, più in quarto voto di obbedienza speciale al papa; accanto ai ‘professi’ vi sono i “coadiutori spirituali” che emettono soltanto i tre voti semplici.
Non c’è un ramo femminile né un Terz’Ordine. La spiritualità della Compagnia si basa sugli ‘Esercizi Spirituali’ di s. Ignazio e si contraddistingue per l’abbandono alla volontà di Dio espresso nell’assoluta obbedienza ai superiori; in una profonda vita interiore alimentata da costanti pratiche spirituali, nella mortificazione dell’egoismo e dell’orgoglio; nello zelo apostolico; nella totale fedeltà alla Santa Sede.
I Gesuiti non possono possedere personalmente rendite fisse, consentite solo ai Collegi e alle Case di formazione; i professi fanno anche il voto speciale di non aspirare a cariche e dignità ecclesiastiche.
Come attività, in origine la Compagnia si presentava come un gruppo missionario a disposizione del pontefice e pronto a svolgere qualsiasi compito questi volesse affidargli per la “maggior gloria di Dio”.
Quindi svolsero attività prevalentemente itinerante, facendo fronte alle più urgenti necessità di predicazione, di catechesi, di cura di anime, di missioni speciali, di riforma del clero, operante nella Controriforma e nell’evangelizzazione dei nuovi Paesi (Oriente, Africa, America).
Nel 1547, s. Ignazio affidò alla sua Compagnia, un ministero inizialmente non previsto, quello dell’insegnamento, che diventò una delle attività principali dell’Ordine e uno dei principali strumenti della sua diffusione e della sua forza, lo testimoniano i prestigiosi Collegi sparsi per il mondo.
Alla morte di s. Ignazio, avvenuta come già detto nel 1556, la Compagnia contava già mille membri e nel 1615, con la guida dei vari Generali succedutisi era a 13.000 membri, diffondendosi in tutta Europa, subendo anche i primi martiri (Campion, Ogilvie, in Inghilterra).
Ma soprattutto ebbe un’attività missionaria di rilievo iniziata nel 1541 con s. Francesco Xavier, inviato in India e nel Giappone, dove i successivi gesuiti subirono come gli altri missionari, sanguinose persecuzioni.
Più duratura fu la loro opera in Cina con padre Matteo Ricci (1552-1610) e in America Meridionale, specie in Brasile, con le famose ‘riduzioni’. Più sfortunata fu l’opera dei Gesuiti in America Settentrionale, in cui furono martiri i santi Giovanni de Brebeuf, Isacco Jogues, Carlo Garnier e altri cinque missionari.
Col passare del tempo, nei secoli XVII e XVIII i Gesuiti con la loro accresciuta potenza furono al centro di dispute dottrinarie e di violenti conflitti politico-ecclesiatici, troppo lunghi e numerosi da descrivere in questa sede; che alimentarono l’odio di tanti movimenti antireligiosi e l’astio dei Domenicani, dei sovrani dell’epoca e dei parlamentari e governi di vari Stati.
Si arrivò così allo scioglimento prima negli Stati di Portogallo, Spagna, Napoli, Parma e Piacenza e infine sotto la pressione dei sovrani europei, anche allo scioglimento totale della Compagnia di Gesù nel 1773, da parte di papa Clemente XIV.
I Gesuiti però sopravvissero in Russia sotto la protezione dell’imperatrice Caterina II; nel 1814 papa Pio VII diede il via alla restaurazione della Compagnia.
Da allora i suoi membri sono stati sempre presenti nelle dispute morali, dottrinarie, filosofiche, teologiche e ideologiche, che hanno interessato la vita morale e istituzionale della società non solo cattolica.
Nel 1850 sorse la prestigiosa e diffusa rivista “La Civiltà Cattolica”, voce autorevole del pensiero della Compagnia; altre espulsioni si ebbero nel 1880 e 1901 interessanti molti Stati europei e sud americani.
Nell’annuario del 1966 i Gesuiti erano 36.000, divisi in 79 province nel mondo e 77 territori di missione. In una statistica aggiornata al 2002, la Compagnia di Gesù annovera tra i suoi figli 49 Santi di cui 34 martiri e 147 Beati di cui 139 martiri; a loro si aggiungono centinaia di Servi di Dio e Venerabili, avviati sulla strada di un riconoscimento ufficiale della loro santità o del loro martirio.
L’alto numero di martiri, testimonia la vocazione missionaria dei Gesuiti, votati all’affermazione della ‘maggior gloria di Dio’, nonostante i pericoli e le persecuzioni a cui sono andati incontro, sin dalla loro fondazione.

Autore: Antonio Borrelli 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 31 juillet, 2009 |Pas de commentaires »
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