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segue da sopra: di Sandro Magister…

Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto « sì »? Che cosa è questo « essere sacerdote di Gesù Cristo »? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: astare coram te et tibi ministrare. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo « stare davanti al Signore ». Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era « stare davanti al Signore » – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: arctius perstemus in custodia – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come « coloro che stanno in piedi »; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano « lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù » (5, 41).Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento – « stare davanti a te e a te servire ». Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della parola « servire » nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola « servire » comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. « Servire il Signore » – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida.

Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso « servire » significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: « Non sia fatta la mia, ma la tua volontà! » (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini: un essere non da sé e solo per se stessi, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: « Sarai portato dove non volevi ». Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.

« Stare davanti a Lui e servirLo »: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera « elevazione » dell’uomo. « Stare davanti a Lui e servirLo » – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro « sì » alla sua chiamata: « Eccomi. Manda me, Signore » (Is 6, 8). Amen.

3. Giovedì Santo. Messa « in coena Domini »

20 marzo 2008

Cari fratelli e sorelle, san Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1). È arrivata l’“ora” di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metabainein, metabasis) ed « agape » – amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Non è come se Gesù, dopo una breve visita nel mondo, ora semplicemente ripartisse e tornasse al Padre. Il passaggio è una trasformazione. Egli porta con sé la sua carne, il suo essere uomo. Sulla Croce, nel donare se stesso, Egli viene come fuso e trasformato in un nuovo modo d’essere, nel quale ora è sempre col Padre e contemporaneamente con gli uomini. Trasforma la Croce, l’atto dell’uccisione, in un atto di donazione, di amore sino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla Croce: tutto è portato a termine, “è compiuto” (19, 30). Mediante il suo amore la Croce diventa « metabasis », trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione Egli coinvolge tutti noi, trascinandoci dentro la forza trasformatrice del suo amore al punto che, nel nostro essere con Lui, la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione. Così riceviamo la redenzione – l’essere partecipi dell’amore eterno, una condizione a cui tendiamo con l’intera nostra esistenza.

Questo processo essenziale dell’ora di Gesù viene rappresentato nella lavanda dei piedi in una specie di profetico atto simbolico. In essa Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col “panno” dell’umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo: Egli ci rende puri mediante la sua parola e il suo amore, mediante il dono di se stesso. “Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato”, dirà ai discepoli nel discorso sulla vite (Gv 15, 3). Sempre di nuovo ci lava con la sua parola. Sì, se accogliamo le parole di Gesù in atteggiamento di meditazione, di preghiera e di fede, esse sviluppano in noi la loro forza purificatrice. Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice semifalsità o falsità aperta s’infiltra continuamente nel nostro intimo. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell’anima, dell’uomo interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi: lasciarci sempre di nuovo lavare da quest’acqua pura, lasciarci rendere capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche sangue (Gv 19, 34; cfr1 Gv 5, 6. 8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del suo sangue, cioè con il suo donarsi “sino alla fine”, sino alla Croce. La sua parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue “per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati!

Se ascoltiamo il Vangelo con attenzione, possiamo scorgere nell’avvenimento della lavanda dei piedi due aspetti diversi. La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della “capacità per Dio” offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. I Padri hanno qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole « sacramentum » ed « exemplum ». « Sacramentum » significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione fino alla croce e alla risurrezione: questo insieme diventa la forza risanatrice e santificatrice, la forza trasformatrice per gli uomini, diventa la nostra « metabasis », la nostra trasformazione in una nuova forma di essere, nell’apertura per Dio e nella comunione con Lui. Ma questo nuovo essere che Egli, senza nostro merito, semplicemente ci dà deve poi trasformarsi in noi nella dinamica di una nuova vita. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa. All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.

Con ciò, tuttavia, non restiamo destinatari passivi della bontà divina. Dio ci gratifica come partner personali e vivi. L’amore donato è la dinamica dell’“amare insieme”, vuol essere in noi vita nuova a partire da Dio. Così comprendiamo la parola che, al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Il “comandamento nuovo” non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. Così dobbiamo comprendere anche il Discorso della montagna. Esso non significa che Gesù abbia allora dato precetti nuovi, che rappresentavano esigenze di un umanesimo più sublime di quello precedente. Il Discorso della montagna è un cammino di allenamento nell’immedesimarsi con i sentimenti di Cristo (cfr Fil 2, 5), un cammino di purificazione interiore che ci conduce a un vivere insieme con Lui. La cosa nuova è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo. Se consideriamo ciò, percepiamo quanto lontani siamo spesso con la nostra vita da questa novità del Nuovo Testamento; quanto poco diamo all’umanità l’esempio dell’amare in comunione col suo amore. Così le restiamo debitori della prova di credibilità della verità cristiana, che si dimostra nell’amore. Proprio per questo vogliamo tanto maggiormente pregare il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento.

Nel Vangelo della lavanda dei piedi il colloquio di Gesù con Pietro presenta ancora un altro particolare della prassi di vita cristiana, a cui vogliamo alla fine rivolgere la nostra attenzione. In un primo momento, Pietro non aveva voluto lasciarsi lavare i piedi dal Signore: questo capovolgimento dell’ordine, che cioè il maestro – Gesù – lavasse i piedi, che il padrone assumesse il servizio dello schiavo, contrastava totalmente con il suo timor riverenziale verso Gesù, con il suo concetto del rapporto tra maestro e discepolo. “Non mi laverai mai i piedi”, dice a Gesù con la sua consueta passionalità (Gv 13, 8). È la stessa mentalità che, dopo la professione di fede in Gesù, Figlio di Dio, a Cesarea di Filippo, lo aveva spinto ad opporsi a Lui, quando aveva predetto la riprovazione e la croce: “Questo non ti accadrà mai!”, aveva dichiarato Pietro categoricamente (Mt 16, 22). Il suo concetto di Messia comportava un’immagine di maestà, di grandezza divina. Doveva apprendere sempre di nuovo che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra idea di grandezza; che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale auto-spoliazione. E anche noi dobbiamo apprenderlo sempre di nuovo, perché sistematicamente desideriamo un Dio del successo e non della Passione; perché non siamo in grado di accorgerci che il Pastore viene come Agnello che si dona e così ci conduce al pascolo giusto.

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Publié dans:Sandro Magister |on 25 mars, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Esclusivo. Le parole che Benedetto XVI aggiunge a braccio, quando predica ai fedeli

Sandro Magister ha fatto questo bellissimo « studio » di cercare le parole che il Papa pronuncia a braccio nelle catechesi del mercoledì, io metto solo il testo di Magister e le due prime catechesi sulle quali  mette in rilevo le aggiunte a braccio del Papa, in realtà ha esaminato cinque catechesi, le altre, che io non metto, naturalmente sono sul sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/193422

Esclusivo. Le parole che Benedetto XVI aggiunge a braccio, quando predica ai fedeli 

Analisi testuale di cinque delle sue ultime catechesi del mercoledì, quelle su sant’Agostino. Con sottolineate le frasi dette dal papa in aggiunta al testo scritto. Sui temi che gli stanno più a cuore

di Sandro Magister

ROMA, 11 marzo 2008 – Mercoledì scorso Benedetto XVI ha dedicato la sua settimanale udienza con i fedeli e i pellegrini a una catechesi su papa san Leone Magno.

Di lui, Joseph Ratzinger ha ricordato che non solo fu « nello stesso tempo teologo e pastore », ma fu « anche il primo papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni ». Una predicazione fatta di « bellissimi sermoni » e « in uno splendido e chiaro latino ».

Ed ha aggiunto:

« È spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo ».

Bastano queste parole per capire come Benedetto XVI riconosca in sé molti tratti di quel suo grande predecessore, che fu rispettato assertore del primato di Pietro e dei vescovi di Roma – un primato « necessario allora come lo è oggi » –, maestro sicuro della fede in Cristo vero Dio e vero uomo, in un’epoca di grandi contrasti cristologici, e autorevole celebrante di una liturgia cristiana che « non è il ricordo di avvenimenti passati ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno ».

Prima che a san Leone Magno, Benedetto XVI ha dedicato le sue udienze del mercoledì ad altri Padri della Chiesa, dopo aver dedicato un precedente ciclo di udienze agli Apostoli e ad altri personaggi del Nuovo Testamento.

Il papa farà seguire, dopo le settimane pasquali, catechesi dedicate ad altre grandi figure patristiche come Gregorio Magno e poi, man mano, a protagonisti della teologia medioevale d’occidente e d’oriente, come Anselmo, Bernardo, Tommaso d’Aquino, Bonaventura, Gregorio Palamas.

Per queste catechesi, Benedetto XVI si avvale dell’aiuto di studiosi, ai quali chiede di preparargli una traccia. Poi lavora su questa traccia, chiede eventualmente dei rifacimenti ed apporta lui stesso delle modifiche. Il testo che il papa leggerà ai fedeli esce da questo lavoro preparatorio. Ma non è finita. Rivolgendosi ai fedeli, il papa alza spesso gli occhi dal testo scritto e improvvisa.

Il testo finale che poi compare su « L’Osservatore Romano » ed è diffuso dalla sala stampa vaticana corrisponde quindi a quello effettivamente pronunciato dal papa, comprese le frasi aggiunte a braccio.

Riconoscere tali aggiunte non è difficile. Basta essere presenti all’udienza e seguire con attenzione come Benedetto XVI si rivolge agli astanti, se leggendo o se alzando lo sguardo. Così, almeno, per le catechesi del mercoledì. Perché per le omelie è diverso. In molti casi esse sono integralmente opera personale del papa, talora pronunciate senza l’aiuto di un testo scritto.

Nelle catechesi, individuare le parole aggiunte a braccio da Benedetto XVI è un esercizio di grande interesse. Consente infatti di cogliere i temi che gli stanno più a cuore, che ritiene più importante evidenziare e comunicare.

Qui sotto sono riprodotte integralmente le cinque catechesi che, tra gennaio e febbraio, Benedetto XVI ha dedicato a sant’Agostino, il Padre della Chiesa che da sempre è il suo faro.

Ma nei testi il lettore troverà una novità.

Vedrà che molte parole sono sottolineate. E sono proprio le parole che il papa ha aggiunto a braccio, distaccandosi dal testo scritto. Sono le parole sgorgate direttamente dalla sua mente e dal suo cuore.

Un rivelatore delle linee maestre di questo papa « teologo e pastore ».

1. « Capì che la chiamata di Dio era quella di offrire il dono della verità agli altri… »

Mercoledì 9 gennaio 2008

Cari fratelli e sorelle, dopo le grandi festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande santo e dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché ha lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annaba, sulla costa algerina), il luogo dove era vescovo e, dall’altra, che da questa città dell’Africa romana, di cui Agostino fu vescovo dal 395 fino alla morte nel 430, si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.

Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: « Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi” (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle « Confessiones », la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le « Confessiones » agostiniane, con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale, e non solo occidentale, anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell’io, al mistero di Dio che si nasconde nell’io, è una cosa straordinaria senza precedenti e rimane per sempre, per così dire, un « vertice » spirituale.

Ma, per venire alla vita, Agostino nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell’accoglienza nel catecumenato. Ed è rimasto sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo; egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.

Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile. Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell’Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina, non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l’ »Hortensius », uno scritto di Cicerone poi andato perduto che si colloca all’inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l’amore per la sapienza, come scriverà, ormai vescovo, nelle « Confessiones »: « Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire”, tanto che « all’improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l’immortalità della sapienza” (III, 4, 7).

Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l’altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù. Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant’Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e per chi come lui vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l’adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera. Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di continuare la relazione intrecciata con una donna e di andare avanti nella sua carriera. Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei « Dialoghi » che sant’Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente. Insegnante di grammatica a circa vent’anni nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, Agostino iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma, e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all’interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al vescovo di Milano sant’Ambrogio.

A Milano Agostino prese l’abitudine di ascoltare – inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime prediche del vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell’imperatore per l’Italia settentrionale, e dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato; e non soltanto dalla sua retorica, soprattutto il contenuto toccò sempre più il suo cuore. Il grande problema dell’Antico Testamento, della mancanza di bellezza retorica, di altezza filosofica si risolse, nelle prediche di sant’Ambrogio, grazie all’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento: Agostino capì che tutto l’Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità anche filosofica dell’Antico Testamento e capì tutta l’unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.

In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica praticate dal vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.

Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un’altra catechesi, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano presso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la veglia pasquale, nella cattedrale di Milano.

Dopo il battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.

E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all’estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai vandali invasori, il vescovo – racconta l’amico Possidio nella « Vita Augustini » – chiese di trascrivere a grandi caratteri i salmi penitenziali « e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime” (31,2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.

2. « Sant’Agostino lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo… »

Mercoledì 16 gennaio 2008

Cari fratelli e sorelle, oggi, come mercoledì scorso, vorrei parlare del grande vescovo di Ippona, sant’Agostino. Quattro anni prima di morire, egli volle designare il successore. Per questo, il 26 settembre 426, radunò il popolo nella Basilica della Pace, ad Ippona, per presentare ai fedeli colui che aveva designato per tale compito. Disse: « In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno di questa vita è per ogni individuo sempre incerto. Tuttavia nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza; nell’adolescenza alla giovinezza; nella giovinezza all’età adulta; nell’età adulta all’età matura; nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da poter sperare; la sua stessa durata è incerta… Io per volontà di Dio giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio” (Ep 213,1). A questo punto Agostino fece il nome del successore designato, il prete Eraclio. L’assemblea scoppiò in un applauso di approvazione ripetendo per ventitré volte: « Sia ringraziato Dio! Sia lodato Cristo!”. Con altre acclamazioni i fedeli approvarono, inoltre, quanto Agostino disse poi circa i propositi per il suo futuro: voleva dedicare gli anni che gli restavano a un più intenso studio delle Sacre Scritture (cfr Ep 213, 6).

Di fatto, quelli che seguirono furono quattro anni di straordinaria attività intellettuale: portò a termine opere importanti, ne intraprese altre non meno impegnative, intrattenne pubblici dibattiti con gli eretici – cercava sempre il dialogo – intervenne per promuovere la pace nelle province africane insidiate dalle tribù barbare del sud. In questo senso scrisse al conte Dario, venuto in Africa per comporre il dissidio tra il conte Bonifacio e la corte imperiale, di cui stavano profittando le tribù dei Mauri per le loro scorrerie: « Titolo più grande di gloria – affermava nella lettera – è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se sono buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di spargere il sangue. Tu, al contrario, sei stato inviato proprio per impedire che si cerchi di spargere il sangue di alcuno” (Ep 229, 2). Purtroppo, la speranza di una pacificazione dei territori africani andò delusa: nel maggio del 429 i Vandali, invitati in Africa per ripicca dallo stesso Bonifacio, passarono lo stretto di Gibilterra e si riversarono nella Mauritania. L’invasione raggiunse rapidamente le altre ricche province africane. Nel maggio o nel giugno del 430 « i distruttori dell’impero romano”, come Possidio qualifica quei barbari (Vita, 30,1), erano attorno ad Ippona, che strinsero d’assedio.

In città aveva cercato rifugio anche Bonifacio, il quale, riconciliatosi troppo tardi con la corte, tentava ora invano di sbarrare il passo agli invasori. Il biografo Possidio descrive il dolore di Agostino: « Le lacrime erano, più del consueto, il suo pane notte e giorno e, giunto ormai all’estremo della sua vita, più degli altri trascinava nell’amarezza e nel lutto la sua vecchiaia” (Vita, 28,6). E spiega: « Vedeva infatti, quell’uomo di Dio, gli eccidi e le distruzioni delle città; abbattute le case nelle campagne e gli abitanti uccisi dai nemici o messi in fuga e sbandati; le chiese private dei sacerdoti e dei ministri, le vergini sacre e i religiosi dispersi da ogni parte; tra essi, altri venuti meno sotto le torture, altri uccisi di spada, altri fatti prigionieri, perduta l’integrità dell’anima e del corpo e anche la fede, ridotti in dolorosa e lunga schiavitù dai nemici” (ibid., 28,8).

Anche se vecchio e stanco, Agostino restò tuttavia sulla breccia, confortando se stesso e gli altri con la preghiera e con la meditazione sui misteriosi disegni della Provvidenza. Parlava, al riguardo, della « vecchiaia del mondo” – e davvero era vecchio questo mondo romano –, parlava di questa vecchiaia come già aveva fatto anni prima per consolare i profughi provenienti dall’Italia, quando nel 410 i Goti di Alarico avevano invaso la città di Roma. Nella vecchiaia, diceva, i malanni abbondano: tosse, catarro, cisposità, ansietà, sfinimento. Ma se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane. E allora l’invito: « Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, anche nel mondo vecchio. Egli ti dice: Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila” (cfr Serm. 81,8). Il cristiano quindi non deve abbattersi anche in situazioni difficili, ma adoperarsi per aiutare chi è nel bisogno. È quanto il grande Dottore suggerisce rispondendo al vescovo di Tiabe, Onorato, che gli aveva chiesto se, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche, un vescovo o un prete o un qualsiasi uomo di Chiesa potesse fuggire per salvare la vita: « Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno. In questo caso si trasferiscano pure tutti in luoghi sicuri; ma se alcuni hanno bisogno di rimanere, non siano abbandonati da quelli che hanno il dovere di assisterli col sacro ministero, di modo che o si salvino insieme o insieme sopportino le calamità che il Padre di famiglia vorrà che soffrano” (Ep 228, 2). E concludeva: « Questa è la prova suprema della carità” (ibid., 3). Come non riconoscere, in queste parole, l’eroico messaggio che tanti sacerdoti, nel corso dei secoli, hanno accolto e fatto proprio?

Intanto la città di Ippona resisteva. La casa-monastero di Agostino aveva aperto le sue porte ad accogliere i colleghi nell’episcopato che chiedevano ospitalità. Tra questi vi era anche Possidio, già suo discepolo, il quale poté così lasciarci la testimonianza diretta di quegli ultimi, drammatici giorni. « Nel terzo mese di quell’assedio – egli racconta – si pose a letto con la febbre: era l’ultima sua malattia” (Vita, 29,3). Il santo Vegliardo profittò di quel tempo finalmente libero per dedicarsi con più intensità alla preghiera. Era solito affermare che nessuno, vescovo, religioso o laico, per quanto irreprensibile possa sembrare la sua condotta, può affrontare la morte senza un’adeguata penitenza. Per questo egli continuamente ripeteva tra le lacrime i salmi penitenziali, che tante volte aveva recitato col popolo (cfr ibid., 31,2).

Più il male si aggravava, più il vescovo morente sentiva il bisogno di solitudine e di preghiera: « Per non essere disturbato da nessuno nel suo raccoglimento, circa dieci giorni prima d’uscire dal corpo pregò noi presenti di non lasciar entrare nessuno nella sua camera fuori delle ore in cui i medici venivano a visitarlo o quando gli si portavano i pasti. Il suo volere fu adempiuto esattamente e in tutto quel tempo egli attendeva all’orazione” (ibid.,31,3). Cessò di vivere il 28 agosto del 430: il suo grande cuore finalmente si era placato in Dio.

« Per la deposizione del suo corpo – informa Possidio – fu offerto a Dio il sacrificio, al quale noi assistemmo, e poi fu sepolto” (Vita, 31,5). Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove anche oggi riposa. Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: « Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo” (Possidio, Vita, 31, 8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti anche noi lo « ritroviamo vivo”. Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da Cristo, Verbo Eterno Incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. E possiamo vedere che questa fede non è di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri oggi e per sempre. Egli è la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a trovare così la strada della vita.

 

Publié dans:Sandro Magister |on 14 mars, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister, 30 gennaio 2006: Le chiavi del perdono. L’amorevole potere del successore di Pietro

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/45257

Le chiavi del perdono. L’amorevole potere del successore di Pietro

La basilica di San Pietro compie 500 anni. Lo storico dell’arte Timothy Verdon spiega quale messaggio trasmettono le pietre e le immagini della Roma dei papi

di Sandro Magister 

ROMA, 30 gennaio 2006 – La pubblicazione della prima enciclica di Benedetto XVI, “Deus Caritas Est”, è coincisa con la giornata finale della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si tiene ogni anno in gennaio.

Il papa ha chiamato “dono della Provvidenza” tale coincidenza, dovuta a un ritardo nella preparazione e traduzione del testo.

Ma questa non è stata l’unica delle coincidenze.

Il 25 gennaio – celebrando i vespri nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura assieme a rappresentanti di Chiese e comunità non cattoliche – Benedetto XVI ha fatto notare che quello era anche il giorno della conversione dell’apostolo Paolo.

Paolo e Pietro – la roccia – sono i due apostoli su cui è fondata la Chiesa di Roma.

E il papa, citando le prime parole e il tema della sua enciclica, ha detto:

“‘Deus caritas est’ (1 Gv 4,8.16), Dio è amore. Su questa solida roccia poggia tutta intera la fede della Chiesa. Si basa su di essa la paziente ricerca della piena comunione tra tutti i discepoli di Cristo. [...] Al servizio di tale unità d’amore è posta la Chiesa di Roma che, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia, ‘presiede alla carità’. Davanti a voi, cari fratelli e sorelle, desidero oggi rinnovare l’affidamento a Dio del mio peculiare ministero petrino, invocando su di esso la luce e la forza dello Spirito Santo, affinché favorisca sempre la fraterna comunione tra tutti i cristiani”. 

* * * 
Come è noto, però, è proprio il “ministero petrino” uno degli ostacoli maggiori all’unità tra i cristiani.

Il potere dei papi è respinto dalle Chiese e dalle comunità cristiane non cattoliche proprio in quanto potere, nella forma in cui s’è concretamente configurato nei secoli.

Questa configurazione non è solo dottrinale e teologica. È anche architettonica, artistica.

Si riflette massimamente in quell’insieme di chiese, palazzi, mosaici, sculture, pitture che danno il volto alla Roma dei papi, il cui primo emblema è la basilica di San Pietro.

La basilica di San Pietro – quella che oggi si ammira e ha sostituito la precedente basilica edificata sulla tomba dell’apostolo dall’imperatore Costantino – compie quest’anno cinquecento anni di vita. Era il 1506 quando papa Giulio II diede il via alla sua costruzione.

Ed è questa un’altra coincidenza dell’avvio di pontificato di Benedetto XVI. 

* * * 
Ma in che senso la basilica di San Pietro e la Roma dei papi sono immagini di potere?

In realtà il messaggio che esse trasmettono è di potere e perdono, indissolubilmente congiunti.

Potere e perdono: è questa la lettura che dà della Roma dei papi uno dei maggiori storici dell’arte cristiana, Timothy Verdon, in un magnifico libro su “La basilica di San Pietro” dalle origini a oggi, uscito in Italia alla fine dello scorso anno.

Timothy Verdon, nato in New Jersey nel 1946, è sacerdote a Firenze. Formatosi come storico dell’arte alla Yale University, vive da trent’anni in Italia e dirige l’ufficio dell’arcidiocesi di Firenze per la catechesi attraverso l’arte. È inoltre consultore della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, fellow del Center for Renaissance Studies della Harvard University, docente alla Stanford University e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Benedetto XVI l’ha invitato al sinodo sull’eucaristia come esperto.

Il brano che segue è tratto dal primo capitolo di “La basilica di San Pietro”. Esso mostra come il potere petrino incarnato nei secoli dai capolavori della Roma cristiana fa tutt’uno con il “Deus caritas est” predicato dall’attuale papa.

Dalla Roma dei Cesari a quella dei papi

di Timothy Verdon

Il Vaticano è un luogo di paradossi. Questo leggero rialzo nel terreno sulla riva destra del fiume Tevere, che ospita i resti di un pescatore quasi analfabeta, ha per baluardo e ingresso il mausoleo del più colto dei Cesari, Adriano, che regnò sull’impero romano dal 117 al 136 dopo Cristo.

Ad ovest del mausoleo, l’immensa piazza che oggi accoglie pellegrini e turisti ricopre in parte un circo costruito da altri imperatori, Caligola e Nerone, a partire dal 37 dopo Cristo.

E al centro della piazza – in cima all’obelisco trasportato dall’Egitto ed eretto dai romani in segno della loro conquista dell’impero dei faraoni – vi è un’urna con frammenti della croce di quel Cristo, giustiziato intorno all’anno 30, per seguire il quale il pescatore fu crocifisso in questo circo 34 anni dopo.

Le parole chiave sono “dopo” e “Cristo”. Il Vaticano si pone come segno di un mondo “dopo Cristo” in cui il paradosso diventa norma – un mondo capovolto. L’umile pescatore che ora trionfa là dove morì da criminale è egli stesso figura di capovolgimento. Simone chiamato Cefa o Pietro, il più importante dei primi seguaci di Gesù, condannato a morire come il suo maestro, in croce, chiese di essere posizionato con la testa all’ingiù, capovolto. Non si ritenne degno di uscire da questo mondo a testa alta, perché in un momento di terribile debolezza aveva negato di conoscere Cristo. Malgrado il suo tradimento, però, Cristo l’aveva perdonato, confermando ed allargando il potere già datogli, ed anche questo fu una sorta di capovolgimento.

Sono questi, infatti, i principali messaggi comunicati dal luogo: perdono e potere.

Il Vaticano esprime il perdono mediante segni di potere, come Gesù rimetteva i peccati e poi dimostrava di averne la potenza mediante miracoli. In Vaticano il perdono è potere, secondo le parole di Gesù al pescatore Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Matteo 16, 19).

Nel linguaggio arcaico usato da Gesù, avere le “chiavi del regno” significa avere il potere su di esso, e “legare” e “sciogliere” significano praticamente “condannare” e “assolvere”. Il potere che Cristo ha dato a Pietro, e che il grandioso complesso di chiese e palazzi costruito intorno alla tomba del pescatore vuole comunicare, è precisamente il potere di rimettere i peccati, di perdonare.

Può sembrare strano insistere sul potere in un sistema religioso che, nei suoi scritti sacri, privilegia invece la mitezza, l’offrire l’altra guancia e l’andare al sacrificio senza porre resistenza. Eppure, trattandosi del Vaticano, l’argomento “potere” è inevitabile, anzi centrale, perché tutto in Vaticano ne parla: le titaniche dimensioni degli edifici, lo sfarzo degli arredi, la ieratica solennità dei riti.

Dal momento poi che proprio in Vaticano e al servizio dei papi sono stati ravvivati i linguaggi dell’architettura e dell’arte antiche – nella mole colossale della basilica, nella forza sovrumana delle figure affrescate nella Sistina e nella “grazia divina” di quelle nelle Stanze (gli appartamenti di stato rinascimentali) – bisogna dire che la stessa idea del potere nella cultura europea, nonché la sua rappresentazione per immagini, nascono qui. Qui le più importanti opere dei più innovativi artisti dell’alba dell’era moderna – i capolavori di Bramante e Michelangelo, Raffaello e Bernini – definiscono il senso della civiltà cristiana in termini di inequivocabile potere. 

* * * 
Il Vaticano si trova a Roma, capitale del più esteso impero che la storia abbia conosciuto: città il cui stesso nome era sinonimo di potere universale. Nei primi quattro secoli di vita della comunità cristiana, la frase di Gesù che conclude il Vangelo di Matteo – “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” – doveva suonare come una sfida ai rappresentanti del potere romano, gli imperatori, considerati non solo reggenti del mondo ma semi-dei.

Nello stesso modo, la continuazione di quella frase di Gesù – “Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni” – doveva evocare una missione civilizzatrice paragonabile, nella sua universalità, solo a quella dell’impero romano. E ancora, in una Roma che era ritenuta “città eterna”, la promessa “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” doveva sembrare una profezia che s’incarnava nella storia: l’eternità di Roma e dei suoi monumenti inabitata ormai dall’Eterno in persona.

Ancor oggi il pellegrino o turista in piazza San Pietro è portato a collegare il Vaticano con la Roma antica.

Arrivando in Vaticano dopo aver già visto il Colosseo e i Fori Imperiali, il Circo Massimo e il Pantheon, ritrova il medesimo splendore e la stessa titanica grandezzza nella basilica con la sua piazza e nel Palazzo Apostolico con le sue aule affrescate e logge chilometriche. Ha l’impressione che i ruderi della capitale antica siano rinati a vita nuova sotto l’egida del Cristo Risorto che si erge sulla piazza, colui che nella visione di Giovanni annunciava: “Ecco io faccio nuove tutte le cose” (Apocalisse 21, 5).

Tale impressione non è dovuta solo all’ammodernamento del complesso vaticanense nel Rinascimento, ma risale ai primi del IV secolo, alla colossale basilica fatta erigere sulla tomba di Pietro dall’imperatore Costantino. Le quattro file di colonne marmoree della basilica, a definizione di cinque navate interne, nonché la lunghezza di 118 metri e l’altezza di 32 dell’aula centrale illuminata da undici grandi finestre per parte: il tutto ricordava ai visitatori del IV secolo le grandi aule civiche della Roma imperiale. Rafforzava il senso di un’ininterrotta continuità tra la città dei Cesari e quella dei papi.

Sin dall’era patristica i papi hanno coltivato l’immagine di ininterrotta continuità con l’impero, in base a una visione della storia che ritiene provvidenziale la nascita e prima diffusione della Chiesa in un epoca culturalmente omogenea e all’interno di un sistema geopolitico universale. La lingua comune, il comune codice di leggi e comportamenti, la mirabile rete viaria che facilitava le comunicazioni e gli spostamenti, e l’attribuzione al potere centrale di una missione civilizzatrice sono elementi costituitivi di questa visione, di cui i papi sono i principali architetti e il Vaticano il luogo emblematico. 

* * * 
L’arte cristiana della Roma del IV-V secolo illustra questa interpenetrazione di “romanitas” e cristianesimo.

Ad esempio, il grande mosaico in una chiesa ricavata da una preesistente aula termale, Santa Pudenziana, colloca Cristo sul trono imperiale nell’esedra di un palazzo oltre le cui mura sono visibili i monumenti dell’antica capitale. Questo “Christus imperator” troneggia tra apostoli togati, con ai lati del trono i santi Pietro e Paolo incoronati da figure femminili che rappresentano, rispettivamente, la “Ecclesia ex circumcisione” (i cristiani venuti dall’ebraismo, perché la missione di Pietro era stata in primo luogo agli ebrei) e la “Ecclesia ex gentibus” (i credenti venuti dal paganesimo: Paolo era inviato ai pagani). Sopra le figure e la città, vediamo poi – tra i simboli dei quattro evangelisti – una grande croce gemmata che riassume il senso delle trasformazioni che l’immagine attesta: là dove il potere dei Cesari aveva cercato di crocifiggere la nuova fede, ora emergono concrete espressioni storiche, politiche e sociali del potere di Cristo risorto. Gli apostoli, presentati come senatori romani, diventano i nuovi “patrizi”, e la città – l’antica capitale di un impero che abbracciava il mondo conosciuto – rivela alfine il significato della sua vocazione universalista, offrendo il suo splendore come sfondo per il trionfo di Gesù Cristo.

Un’altra immagine suggestiva in questo senso è il mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano, dove il Cristo dell’Ascensione si staglia contro un drammatico cielo crepuscolare. Eseguito in un’aula ricavata dal complesso voluto da Vespasiano a commemorazione della guerra giudaica, il mosaico esprime la sovrapposizione della Chiesa, nuovo Isarele vittorioso, all’impero ormai tramontato. A pochi passi dall’Arco di Tito, con le sue raffigurazioni di prigionieri giudaici dietro il carro trionfale del figlio adottivo di Vespasiano e conquistatore di Gerusalemme, ecco Cristo che “ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Efesini 4, 8; cfr. Salmo 68, 19). La posa di Cristo mentre ascende al cielo riprende quella attribuita agli imperatori stessi: ad Augusto, ad esempio, nella celebre statua conservata nei Musei Vaticani.

Nel mosaico della basilica dei Santi Cosma e Damiano come in quello di Santa Pudenziana, il trionfo romano di Gesù coinvolge poi la comunità da lui fondata. Nei due mosaici, infatti, vediamo rappresentanti della Chiesa vicini a Cristo ed associati al suo potere, perché, tra i doni che il Risorto distribuisce agli uomini sono anche i ruoli ecclesiali: “È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo” (Efesini 4, 11-12).

In entrambi i mosaici, poi, in prima posizione tra quelli che Cristo ha stabilito con un ruolo a servizio degli altri, vi sono Pietro e Paolo, figure dell’autorità trasmessa dal Risorto alla Chiesa istituzionale. 

* * * 
Sin dai primi secoli, insomma, la Chiesa romana s’identifica con colui che, immolato, è ora “degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Apocalisse 5, 12). Ha occupato, trasformandoli, gli spazi non solo topografici e architettonici ma soprattutto concettuali dell’antico impero, riconoscendo in questo stesso processo una forma di rivelazione divina – come se Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, si fosse manifestato anche nello splendore materiale di Roma. Anzi, la marmorea magnificenza della capitale dell’impero è finita per divenire immagine della Gerusalemme celeste, le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose (Isaia 54, 11-12; Apocalisse 21, 18-21) – come se Cristo, venuto non per abolire ma adempire la legge ebraica (Matteo 5, 17-19), avesse inteso similmente adempire la gloria di Roma, purificandone il senso storico, completandone la missione culturale.

Infatti, Roma è per antonomasia la città della “apocalisse” – cioè dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in poi i programmi iconografici delle più importanti chiese romane hanno collocato messaggi apocalittici davanti agli occhi dei credenti. Cristo nella toga dorata rivelato come “Dominus dominantium”, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, bruciando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini dominanti le absidi delle chiese prima accennate e successivamente di San Pietro, San Paolo fuori le Mura e San Giovanni in Laterano.

In diverse basiliche, poi, queste scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come compimento della storia terrestre. A San Pietro, nel Medioevo, questo messaggio sarà rappresentato anche all’esterno, con un monumentale mosaico sulla facciata della basilica, mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (Apocalisse 7, 9). 

* * * 
Anche questa caratteristica dell’antica capitale dell’impero, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana. La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventa la Roma papale che regolarmente accoglie moltitudini di uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Apocalisse 7, 9). Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di vasti spazi capaci di accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo: uno sforzo plurisecolare che si risolve dal XVI secolo in poi con la nuova basilica vaticana coronata dalla cupola, con il colonnato del Bernini e, nel XX secolo, con l’aula delle udienze ideata da Pierluigi Nervi; anche questo rientra nel senso di continuità con l’antico impero e ne costituisce l’elemento forse più impressionante. Oggi come in passato, chiunque visiti Roma, contemplando prima la maestosità degli spazi di vita collettiva della città antica – i fori, gli anfiteatri, le terme – e poi piazza San Pietro gremita nell’occasione di qualche celebrazione liturgica, non può sfuggire dall’impressione di qualcosa d’eterno: qualcosa che, nonostante epocali mutamenti di cultura e fede religiosa, in questo luogo continua nel tempo.

Tale impressione viene poi rafforzata da altri fattori che condizionano l’esperienza dei visitatori del Vaticano. Il primo deriva dal carattere stesso della moltitudine che riempie la basilica e la piazza in determinate occasioni: è un carattere liturgico, e più che di moltitudine dovremmo parlare di assemblea. Le ordinate file di cardinali e vescovi attorno al papa, assieme alle novemila persone che possono trovare posto nella basilica e alle duecentomila nella piazza, tutte hanno scelto di partecipare a riti che esprimono la loro fede. Una tale confluenza di autonomie personali – un tale convergere di aspirazioni individuali – eleva lo spirito oltre il presente e lo svincola da ogni dimensione solamente locale: i partecipanti hanno così tante provenienze e tante storie distinte che l’assemblea sembra affondare le sue radici nel mondo intero.

Il fatto poi che l’assemblea qui radunata celebri un rito, e specificamente un rito liturgico cristiano, rafforza al massimo tale senso di continuità. La liturgia cattolica – in cui Cristo è creduto realmente presente ed operante nella persona dell’officiante come nella sostanza dell’azione compiuta – abolisce il limite temporale, aprendo il presente al passato remoto come al futuro ultimo. E sul piano della “traditio” – sul piano cioè di un modo di strutturare la vita religiosa trasmesso da padre a figlio attraverso molti secoli – la liturgia specificamente papale, il cui celebrante è considerato successore lineare dell’apostolo Pietro, mette quasi tangibilmente a contatto con il passato in cui Pietro ricevette potere da Cristo, come anche con il futuro che tale potere di legare o sciogliere dal peccato determina. 

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Simili intuizioni, che al non credente possono sembrare laboriose ed astruse, ai fedeli appaiono semplici e chiare. Come avvenne il giorno della prima Pentecoste, quando, ascoltando la predicazione di san Pietro sul perdono dei peccati, molti si sentirono trafiggere il cuore (Atti 2, 37), così i cattolici davanti al successore di Pietro: la ricerca di perdono schiarisce lo sguardo di chi partecipa con fede alle grandi liturgie nella basilica vaticana e nella piazza. Solo Dio può perdonare, ma in Cristo Dio ha fatto entrare il suo perdono nella storia, e in Pietro Cristo ha esteso tale potere, che perdura nei suoi successori, i vescovi di Roma o papi. Prendere parte ai riti celebrati dal successore di Pietro, nel luogo dove l’impero che l’aveva messo a morte ha esso stesso trovato perdono, ha pertanto un impatto profondo sulle persone. È come se fossero le stesse pietre dell’antica capitale a parlare.

Quando a Pasqua, dalla facciata della Basilica il successore di Pietro pronuncia sulla folla in Piazza le parole “urbi et orbi – la benedizione papale “alla città e al mondo” – tutti gli elementi s’intrecciano e si sovrappongono: è benedetta la città nell’intera gamma della sua vita pagana e cristiana, da una vocazione unificatrice a servizio di tutte le razze e tutti i popoli; ed è benedetto il mondo – non solo quello geografico un tempo retto dai Cesari, ma il mondo interiore d’ogni uomo che col perdono rinasce alla speranza. 

Publié dans:Sandro Magister |on 25 février, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Tutti a vedere il « sacro teatro dei cieli ». Un teologo fa da guida

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Tutti a vedere il « sacro teatro dei cieli ». Un teologo fa da guida

Il teologo è Enrico Maria Radaelli. Il suo ultimo libro dal titolo « Ingresso alla bellezza » è la prova che una grande teologia cattolica continua a essere viva, negli anni di Joseph Ratzinger teologo e papa

di Sandro Magister 

ROMA, 15 febbraio 2008 – A predicare in curia gli esercizi spirituali di Quaresima, Benedetto XVI ha chiamato quest’anno il biblista Albert Vanhoye, da lui definito « grande esegeta » e fatto cardinale.

Lo scorso anno aveva chiamato a predicare gli esercizi il cardinale Giacomo Biffi, altro teologo da lui grandemente stimato.

Uno dei più importanti libri di teologia degli ultimi anni, pubblicato di recente in più lingue, è quello di Leo Scheffczyk, « Il mondo della fede cattolica. Verità e forma ». Anche Scheffczyk, scomparso nel 2005, fu fatto cardinale. Il libro è introdotto da un’intervista a Benedetto XVI.

Sono i segni che una grande teologia cattolica continua a essere viva, negli anni di Joseph Ratzinger teologo e papa.

È una teologia tanto profonda e solida quanto poco rumorosa. Il rumore circonda opere più eccitanti ma confuse, come il libro di Vito Mancuso « L’anima e il suo destino », di cui ha dato conto www.chiesa una settimana fa.

Al riparo da simili rumori ma con grande lungimiranza, ad esempio, in Italia l’editrice Jaca Book sta pubblicando gli imponenti « opera omnia » del più insigne studioso al mondo di teologia medievale, Inos Biffi, professore emerito alle facoltà teologiche di Milano e di Lugano. Nessuna parentela tra lui e l’omonimo cardinale, che lo ha amico e lo ritiene senza ombra di dubbio il più grande teologo italiano vivente.

Editorialmente, Inos Biffi è in buona e sceltissima compagnia. Prima di lui la Jaca Book ha pubblicato le opere complete di due altri giganti della teologia cattolica del XX secolo: Henri De Lubac e Hans Urs von Balthasar.

Un’altra editrice, Città Nuova, ha in corso la pubblicazione degli « opera omnia » di un terzo grande teologo della seconda metà del Novecento, Bernard J. F. Lonergan.

Ma c’è di più. La teologia cattolica sta segnando al suo attivo anche nuovi autori e nuovi libri di prima grandezza.

È il caso di Enrico Maria Radaelli, col saggio « Ingresso alla bellezza ». 

* * * 
La tesi portante di « Ingresso alla bellezza » è che il Figlio di Dio non ha solo un « nome » ma due, inscindibilmente connessi. È « Logos » ma anche « Imago ». È verbo ma anche immagine, volto, specchio del divino pensiero. È verità ma anche bellezza del vero.

« Ingresso alla bellezza » è dunque una via maestra per entrare nel mistero del Dio trinitario e incarnato. La bellezza è l’apparire dell’invisibile verità. E, viceversa, l’indicibile dei divini misteri si manifesta negli splendori della liturgia, dell’arte, della musica, della poesia. Sulla copertina del libro c’è un un dipinto di Lorenzo Lotto con un giovane Apollo dormiente ai confini dell’arcano, con le Muse che mimano le sublimi realtà.

L’illustrazione in alto a questa pagina è invece di un pittore del Seicento, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia. È un particolare degli affreschi della cupola e della volta della chiesa di Roma dedicata al Santissimo Nome di Gesù, ossia, teologicamente, proprio al duplice nome di « Logos » e « Imago ». Dalla visione di questo « sacro teatro dei cieli » prende il via un articolo dell’autore di « Ingresso alla bellezza », Enrico Maria Radaelli, pubblicato su « L’Osservatore Romano » del 4-5 febbraio 2008.

L’articolo è riprodotto integralmente più sotto e sintetizza con molta efficacia lo spirito e i contenuti del libro. Il quale spazia dalla teologia propriamente detta alla filosofia, dalla Sacra Scrittura alla liturgia, dalla storia alla linguistica, dall’arte alla musica. Memorabili, ad esempio, le pagine sul pittore Michelangelo da Caravaggio e sul musicista Claudio Monteverdi.

Radaelli non è un teologo d’accademia né ha ricevuto gli ordini sacri. Non appartiene all’organico delle università pontificie. È però discepolo di uno dei più acuti intelletti cattolici del Novecento, anche lui semplice laico senza cattedre, lo svizzero Romano Amerio. L’uno e l’altro hanno rivolto e rivolgono critiche severe alle derive secolarizzanti della Chiesa nell’ultimo secolo, alle confusioni nel campo dell’ecumenismo e del rapporto tra le religioni, alle « devastazioni » in campo liturgico. Sempre però in obbedienza al magistero gerarchico e a quella Grande Tradizione senza il cui respiro – insegna Benedetto XVI – non c’è teologia cattolica degna di questo nome.

Quanto alla prossimità tra l’insegnamento di Joseph Ratzinger e le tesi di « Ingresso alla bellezza », è rivelatore quanto ha detto il papa pochi giorni fa, nell’incontro del 7 febbraio col clero di Roma.

Rispondendo alla domanda di un prete che è anche pittore, Benedetto XVI ha detto:

« L’Antico Testamento vietava ogni immagine e doveva vietarlo in un mondo pieno di divinità. Esso viveva nel grande vuoto che era anche rappresentato dall’interno del tempio, dove, in contrasto con altri templi, non c’era nessuna immagine, ma solo il trono vuoto della Parola, la presenza misteriosa del Dio invisibile, non circoscritto da nostre immagini.

« Ma poi questo Dio misterioso [si fa carne in Gesù,] appare con un volto, con un corpo, con una storia umana che, nello stesso tempo, è una storia divina. Una storia che continua nella storia dei santi, dei martiri, dei santi della carità e della parola, che sono sempre esplicazione, continuazione nel Corpo di Cristo di questa sua vita divina e umana, e ci dà le immagini fondamentali nelle quali – al di là di quelle superficiali che nascondono la realtà – possiamo aprire lo sguardo verso la Verità stessa. In questo senso mi sembra eccessivo il periodo iconoclastico del dopo Concilio [Vaticano II], che aveva tuttavia un suo senso, perchè era forse necessario liberarsi da una superficialità delle troppe immagini.

« Adesso torniamo alla conoscenza del Dio che si è fatto uomo. Come ci dice la lettera agli Efesini, Lui è la vera immagine. E in questa vera immagine vediamo – oltre le apparenze che nascondono la verità – la Verità stessa: ‘Chi vede me vede il Padre’. In questo senso possiamo ritrovare un’arte cristiana e anche ritrovare le essenziali e grandi rappresentazioni del mistero di Dio nella tradizione iconografica della Chiesa. E così potremo riscoprire l’immagine vera, [...] la presenza di Dio nella carne ».

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Come scoprire nell’edificio sacro il volto dell’Eterno

Da « L’Osservatore Romano » del 4-5 febbraio 2008

di Enrico Maria Radaelli

Alzare lo sguardo e trovarmi come in paradiso fu un tutt’uno: santi e sante, angeli, potenti arcangeli, cherubini, serafini giocosi, rosei, veloci; una festa radiosa, schiere lontane e vicine; tra le nubi papi eccelsi, giovani martiri, severi dottori, estatiche vergini, austeri eremiti; tutti lì, uomini e angeli innumerevoli, sparsi nell’aere dei cieli fino a salire ai cerchi più alti: ecco i patriarchi antichi, il Battista, la Maddalena, gli Apostoli, lo splendore della Vergine, e, al centro, il cuore abbagliante della vita: l’eterna Trinità.

Non ero « fuori di me », ma sotto la volta della cupola della chiesa del Gesù a Roma, a rimirare il grande affresco del Baciccia a nome appunto « La visione del Cielo », uno tra i più belli e ricchi tra tutti quelli disseminati nella Città dei Papi.

Non ero in mistico rapimento dunque, ma in quella mirabile estasi di massa alla quale accedono adoranti i fedeli da duemila anni, allorché, durante i divini misteri, un Dio davvero discende e – come dice Romano Amerio – quel Dio davvero si prende. Da mille e mille anni, siano catacombe o cattedrali, la liturgia trinitaria che si svolge nei cieli discende tra le sue greggi sotto le forme delle sacre Specie. Discende la liturgia e si sostanzia il Cristo, liturgo e vittima. E la Chiesa, con la saggezza di sposa sua e di madre dei chiamati ai sacrosanti misteri, procura di rendere queste greggi sempre edotte della cosa: non solo ammaestrandole con la più veritiera dottrina, ma anche conducendo i loro sensi quasi a toccare la realtà procurata, a metterle, come diceva suor Elisabetta della Trinità, « faccia a faccia pur nelle tenebre » con la Gloria di Dio.

È per tale intima e religiosa necessità, infatti, che ben presto le pareti e le volte delle sacre stanze destinate all’Eucaristia — a partire da quelle nascoste nelle catacombe, poi dei templi pagani convertiti alla Trinità, poi di tutti gli edifici sacri di ogni dimensione e fattezza, sparsi ovunque si diffondesse la cristianità — si dilatano facendo largo ai santi, si dissolvono e trapuntano di stelle, si squarciano dando posto non solo al glorioso passato della Chiesa militante, come coi cortei di vergini e di martiri delle basiliche di Ravenna, ma pure al futuro, già arcanamente presente, della Chiesa trionfante, ai festosi cieli delle cupole che stiamo vedendo, a significare, nella rappresentazione pittorica, la loro effettiva se pur nascosta discesa.

Quanto era stato realmente ricevuto nei cuori era ciò da cui i cuori erano circondati; la realtà invisibile sull’altare era visibile intorno all’altare, e i fedeli perdonavano il dolce inganno suggerito dagli artisti, ben sapendo che gli occhi vedevano cieli « finti » — che ispiravano realtà arcanamente già vive — ma non « falsi », ossia che non sbagliavano realtà. Dunque cieli « profetici » di realtà a venire, mentre le loro bocche ricevevano cieli « veri » e i loro cuori si allargavano a una realtà già presente in tutta la sua divinità e in tutta la sua umanità.

La realtà eucaristica, intorno alla quale si radunano i popoli facendo Ekklesia, adunanza di chiamati, Chiesa, sollecita da subito il suo insegnamento e al tempo stesso la sua visibilità. Se fosse necessario, la Chiesa vergherebbe in oro zecchino, come già faceva a suo tempo nei codici medievali, i caratteri delle pagine di dottrina, in modo da far risaltare la nobiltà, la somma superiorità, anzi la divinità che esse sottendono.

In qualche modo, Verità e Bellezza sono accompagnate dalla stessa premura: la Verità di irrompere in pienezza nei cuori, la Bellezza di rifulgere nel suo splendore sui muri.

L’ispirazione di dare agli edifici sacri la forma di croce nasce direttamente dalla sacralità dell’Eucaristia, sicché ai fedeli pare quasi di introdursi direttamente nel legno della croce e nel corpo stesso di Cristo — al quale davvero accederanno — quasi potesse verosimilmente avvenire quel mistico inserimento nel sacramento ecclesiale, anticipo d’eternità.

Nel Quattrocento Filippo Brunelleschi aggiunge ai muri che con la loro disposizione cruciforme rimandano fisicamente al mistero dell’incarnazione, la figurazione architettonica dell’altro e più alto mistero, la Trinità, e reinventa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze la cupola quale « luogo cosmico » per incrociare adeguatamente i bracci longitudinale e trasversale della basilica cristiana proprio lì dove batte il cuore di Cristo, lì dove si compie il Sacrificio, dando così modo alla chiesa di trasfondere nei suoi fedeli altri necessari ed eccelsi pensieri: lì dove l’Alto discende sull’altare, « alzate gli occhi », o fedeli, e « vedrete » tutto ciò che attraverso l’altare vi è entrato nel cuore.

Con il ricorso alla cupola il geniale architetto — come poi tutti i grandi e meno grandi architetti rinascimentali e barocchi — dà modo alla chiesa di poter suggerire alla cristianità forse la più compiuta e profonda metafora della Trinità che si possa avere sotto le vestigia dell’arte, almeno da come ci viene descritta nelle pagine specialmente di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, per illustrare con la massima verosimiglianza l’indicibile e sommo arcano dove batte il cuore di Cristo. Il cuore di Cristo batte infatti per il Padre, quel Padre che l’ha generato « prima dell’aurora » (Salmo 109, 3), quel Padre a cui offre il proprio sacrificio per aprirne le cateratte di misericordia — che sono poi in realtà egli stesso: il Cristo.

Che cosa dicono infatti della Trinità quei grandi dottori della Chiesa? San Tommaso, in specie, raccogliendo nel « De Trinitate » della sua « Summa Theologiæ » (I, 27-43) la più compiuta formulazione di tutte le verità scritte dai santi teologi sull’argomento, ci offre la sintesi più esauriente e in qualche modo a noi più comprensibile, per concludere che la santissima Trinità è simile a una mente che con le sue operazioni pensa e ama.

Anche sant’Agostino accenna alla stessa analogia, in particolare nel suo « De Trinitate », X, 10, 18, che infatti sarà d’ispirazione agli sviluppi dell’altro dottore, l’Angelico. Naturalmente il mistero trinitario si eleva al di là di ogni figura, almeno per il fatto che quanto viene assimilato a una mente è in realtà una Persona, cosa valevole anche per un pensiero, altra Persona, e per la stessa loro « spirazione », che è la Terza. Ma l’analogia proposta dai due dottori resta utile almeno « per chiarire — riassume bene Battista Mondin nel suo ‘Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino’ — come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza di tre individui distinti e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo ».

Si potrà apprezzare ancor più l’opera materna della Chiesa allorché essa, dopo aver sviluppato adeguatamente la similitudine in teologia, mettendo al lavoro le sue menti più alte e sante, la traslocherà dai libri ai muri nell’influsso che avrà sui suoi artisti, di modo che la Chiesa parrà quasi una sconfinata Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, dove libri e quadri sono accostati in un unico insieme, e la Trinità potrà essere adorata sia sui libri, sia poi quando gli uomini alzeranno gli sguardi sul gran cupolaio romano, verso le potenti curve della cupola di San Pietro, sia quando un parroco di paese alzerà gli occhi verso l’umile cupoletta della sua chiesuola di campagna.

Ma cerchiamo di capire la relazione tra la cupola e il mistero trinitario e, ancor prima, di capire come questo sia stato spiegato da san Tommaso.

Una mente che intende — dice l’Aquinate — genera o emana un pensiero, che è il « logos », il « verbum ». La mente è il principio — prima del quale altro non c’è — del pensiero che spira da essa, e questo è il motivo per cui la Persona divina da cui è generato l’Unigenito si chiama « Padre »: perché una mente ha la paternità del pensiero che ne viene generato.

Ma ciò nasce dalla mente — il pensiero — non sarebbe di per sé un pensiero ma un nulla se non rispecchiasse in sé la mente da cui procede, se non riflettesse la sua natura. Non si avrebbe il pensiero, se esso non fosse la perfetta immagine della mente da cui spira.

È così che accanto al « Logos », o « Verbum », emerge con forza il concetto di « Imago »: il nome, lo specchio, il volto, solo grazie al quale è perfettamente sorretta la somiglianza tra Figlio e Padre. Come spiega san Tommaso: « Il Figlio procede come Verbo, e il concetto di verbo implica somiglianza di specie con il soggetto da cui procede [e che è il Padre] » (« Summa Theologiae » I, 35, 2).

Nel caso della Trinità il pensiero generato dalla mente del Padre è il pensiero che dice tutto della mente da cui nasce e di cui è lo specchio fedele e completo. È il pensiero dell’ »essere », in conformità a ciò che Dio dice di sé quando alla domanda su chi Egli sia, quale sia il suo Nome, Egli risponde: « Io sono Colui che sono » (Esodo 3, 14). La mente è la realtà forte dell’essere; e il pensiero generato dalla mente esprime l’ »essere », ossia ne è il Verbo, è la Parola infinita, positiva, forte, di « Io sono Colui che sono ».

La cosa si capisce meglio se torniamo alla nostra cupola, che, tra l’altro, possiamo riscontrare anche piuttosto somigliante alla testa di un uomo. La cupola si erge alta nel cielo, incurvandosi verso il centro, verso la lanterna da dove riceve la luce. Le sue pietre scaricano le loro forze lungo i costoloni, e questi le scaricano potentemente verso il basso, in modo tale che, ricevendo più giù, sotto il tiburio, le spinte contrarie dei bracci delle navate su cui poggia, esse vengano corrette nella loro traiettoria e restino all’interno dell’area di appoggio, e ciò va notato, perché tutto questo potente costrutto viene così a costituire in qualche modo il corrispettivo architettonico di quello che nella Trinità è dato dalla persona del Padre: la potente stanzialità dell’ »Essere », e ciò non a caso, poiché da sempre la pietra è stata chiamata dall’uomo a testimoniare la solida fermezza dell’eternità; si pensi per esempio a tutte le volte che Giacobbe alza grandi pietre per stabilire che lì, in quei certi luoghi, « per sempre » sarà ricordato il Signore che gli ha parlato.

La volta della cupola è, dunque, nella sua possanza il Padre, e come il Padre essa è. E potentemente è, voltando il cielo in una larga immensità tenuta in piedi da pilastri immani. Ed ecco che, ancora come il Padre, la volta della cupola spira dalla potenza delle pietre l’affresco dei cieli, emana cioè il Figlio, genera sull’infinita superficie del suo « essere » il Pensiero che rispecchia il Padre e la sua potenza. Come lo genera? Con la più esaustiva illustrazione della sua essenza, cioè di tutto ciò che il Padre rimira in sé. Quello che vediamo, quasi fossimo nella Mente del Padre, è il Logos, è la visione della Gloria di Dio come la vede in sé Dio, e ciò per via quasi di una trasudazione di figure e colori dalle pietre della cupola — ecco l’azione dello Spirito Santo — perché le pietre della cupola « parlano », e rivelano in cosa consista la beatitudine del proprio celestiale firmamento.

Struttura architettonica e affresco sono tutt’uno. Sicché la cupola quasi spira ed emana l’affresco e l’affresco esprime e manifesta la volta della cupola. L’affresco si vede, la cupola non si vede, come quando Gesù dice: « Chi vede Me vede il Padre » (Giovanni 14, 9). Chi vede il « Logos », « Imago » e Affresco del Padre, vede il Padre che l’ha generato, vede la divina Cupola che l’Essere dà a sé e alla sua intellettuale spirazione.

L’analogia della cupola mette in campo con forza quella che senza dubbio si presenta come una delle più significative scoperte teologiche di san Tommaso d’Aquino, non mai però successivamente scavata nei notevolissimi suoi risvolti scientifici e filosofici. Parlo del secondo Nome del Figlio, « Imago », che, sulla base qualificata delle Sacre Scritture (Giovanni 14, 9; Colosses, 1, 15; Ebrei 1, 3), l’Angelico pone con autorità accanto al primo nome, « Logos », tanto quanto la rappresentazione di un pensiero va posta accanto al pensiero, il volto di un concetto accanto al concetto, l’espressione di una nozione accanto alla nozione. Come potrebbe infatti un pensiero esprimersi – ossia, dall’etimo, « premersi fuori di sé » – se non attraverso il suo volto, la sua effigie, la sua immagine? Anzi, si deduce da san Tommaso, un pensiero neanche esisterebbe se non si formulasse in un suo volto: sarebbe un nerume, uno sgorbio, un rumore.

Nell’epoca che stiamo passando — di relativismo, di debolezza e scoordinamento dell’arte dalla religione — l’avere il Figlio due Nomi e non uno, ossia essere il Figlio tanto la « Imago » quanto il « Verbum » del Padre, permette di ristabilire un legame forte, soprannaturale, tra Bellezza e Verità.

La similitudine della cupola non può ovviamente soddisfare in tutto, ma sembra la più riuscita raffigurazione associabile alla Trinità in architettura, e, non a caso, segnala con ineguagliata forza icastica la cattolicità di un edificio.

Sarebbe dunque anche un atto notevolmente religioso reinventare la cupola in termini attuali, ricchi come siamo oggi di materiali elastici quasi fatti apposta per piegarsi alle esigenze, diciamo così, « trinitarie ». L’importante è che ne sia preservato il carattere di sacro « teatro dei Cieli », rispettata la proporzione aurea — misura quasi sacra, per la sua stretta attinenza al « Logos » —, esaltato il mistero aureo della Trinità, dalla cui sublime liturgia può discendere la più superba arte. Davvero una « trinoliturgica » arte, per rendere alla Verità la più adeguata divina Bellezza. 

Publié dans:Sandro Magister |on 18 février, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Benedetto XVI invoca il giudizio di Dio su questo mondo. Per amor di giustizia

sono interessanti i link proposti da Magister, dal sito: 

 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/189547

 

  

Benedetto XVI invoca il giudizio di Dio su questo mondo. Per amor di giustizia

 

 In un botta e risposta con i preti di Roma, il papa rilancia una tesi capitale della sua enciclica sulla speranza. In antitesi alle moderne utopie. E poi rimette in discussione le messe celebrate con grandi folle

di Sandro Magister  

ROMA, 11 febbraio 2008 – Anche quest’anno papa Benedetto XVI ha incontrato i preti e i diaconi di Roma per il tradizionale appuntamento d’inizio Quaresima.

E anche questa volta ha risposto, improvvisando, alle loro domande.

L’incontro è avvenuto a porte chiuse la mattina di giovedì 7 febbraio nell’Aula delle Benedizioni, che si trova sopra l’ingresso della basilica di San Pietro. Le domande sono state dieci, su altrettanti argomenti.

Ad esempio, un prete dell’India che tornerà presto in patria ha chiesto al papa perché e come evangelizzerà gli induisti se già « il Concilio Vaticano II dice che c’è un seme di luce anche nelle altre fedi ».

Un altro sacerdote ha chiesto: « Come educare alla ricerca e alla contemplazione di quella vera bellezza che, come scriveva Dostoevskij, salverà il mondo? ».

Un altro ha denunciato il silenzio caduto sulle verità ultime: giudizio, inferno, paradiso. Ha lamentato che « nei catechismi della conferenza episcopale italiana usati per l’insegnamento della nostra fede ai ragazzi non si parla mai di inferno, mai di purgatorio, una sola volta di paradiso, una sola volta di peccato e soltanto del peccato originale ». E ha chiesto: « Mancando queste parti essenziali del credo, non Le sembra che crolli la redenzione di Cristo? ».

Un altro ancora, che si era recato a Loreto con i giovani della sua parrocchia per la veglia e la messa con Benedetto XVI, ha detto d’aver riscontrato « una certa distanza tra il papa e i giovani » e uno stacco ancor più forte tra la solennità della messa e il sentimento di partecipazione delle centinaia di migliaia di giovani là convenuti. Finendo con la domanda: « Come conciliare il tesoro della liturgia in tutta la sua solennità con il sentimento, l’affetto e l’emotività delle masse dei giovani chiamati a parteciparvi? ».

Qui di seguito sono riportate due delle dieci risposte del papa.

Quella sulle verità dimenticate del giudizio, dell’inferno, del paradiso.

E quella sui problemi posti dalle messe celebrate con grandi folle.

Come già in precedenti occasioni simili, improvvisando le sue risposte Benedetto XVI fa trapelare nel modo più trasparente i suoi personali pensieri e sentimenti.

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Giudizio, inferno, paradiso. Le verità da ritrovare

D. – Mancando queste parti essenziali del credo, non Le sembra che crolli la redenzione di Cristo?

R. – Lei ha parlato, giustamente, di temi fondamentali della fede che purtroppo appaiono raramente nella nostra predicazione. Nell’enciclica « Spe salvi » ho voluto proprio parlare anche del giudizio ultimo, universale, e in questo contesto anche di purgatorio, inferno e paradiso. Penso che noi tutti siamo ancora sempre colpiti dall’obiezione dei marxisti, secondo cui i cristiani hanno solo parlato dell’aldilà e hanno trascurato la terra. Così noi vogliamo dimostrare che realmente ci impegniamo per la terra e non siamo persone che parlano di realtà lontane, che non aiutano la terra.

Ora, benché sia giusto mostrare che i cristiani lavorano per la terra — e noi tutti siamo chiamati a lavorare perché questa terra sia realmente una città per Dio e di Dio — non dobbiamo dimenticare l’altra dimensione. Senza tenerne conto, non lavoriamo bene per la terra.

Mostrare questo è stato uno degli scopi fondamentali per me nello scrivere l’enciclica. Quando non si conosce il giudizio di Dio, quando non si conosce la possibilità dell’inferno, del fallimento radicale e definitivo della vita, non si conosce la possibilità e la necessità della purificazione. Allora l’uomo non lavora bene per la terra perché perde alla fine i criteri, non conosce più se stesso, non conoscendo Dio, e distrugge la terra. Tutte le grandi ideologie hanno promesso: noi prenderemo in mano le cose, non trascureremo più la terra, creeremo il mondo nuovo, giusto, corretto, fraterno. Invece, hanno distrutto il mondo. Lo vediamo con il nazismo, lo vediamo anche con il comunismo, che hanno promesso di costruire il mondo così come avrebbe dovuto essere e, invece, hanno distrutto il mondo.

Nelle visite « ad limina » dei vescovi di paesi ex comunisti, vedo sempre di nuovo come in quelle terre siano rimasti distrutti non solo il pianeta, l’ecologia, ma soprattutto e più gravemente le anime. Ritrovare la coscienza veramente umana, illuminata dalla presenza di Dio, è il primo lavoro di riedificazione della terra. Questa è l’esperienza comune di quei paesi. La riedificazione della terra, rispettando il grido di sofferenza di questo pianeta, si può realizzare soltanto ritrovando nell’anima Dio, con gli occhi aperti verso Dio.

Perciò lei ha ragione: dobbiamo parlare di tutto questo proprio per responsabilità verso la terra, verso gli uomini che oggi vivono. Dobbiamo parlare anche e proprio del peccato come possibilità di distruggere se stessi e così anche altre parti della terra.

Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che proprio il giudizio ultimo di Dio garantisce la giustizia. Tutti vogliamo un mondo giusto. Ma non possiamo riparare tutte le distruzioni del passato, tutte le persone ingiustamente tormentate e uccise. Solo Dio stesso può creare la giustizia, che deve essere giustizia per tutti, anche per i morti. E, come dice Adorno, un grande marxista, solo la risurrezione della carne, che lui ritiene irreale, potrebbe creare giustizia. Noi crediamo in questa risurrezione della carne, nella quale non tutti saranno uguali.

Oggi si è abituati a pensare: che cosa è il peccato? Dio è grande, ci conosce, quindi il peccato non conta, alla fine Dio sarà buono con tutti. È una bella speranza. Ma c’è la giustizia e c’è la vera colpa. Coloro che hanno distrutto l’uomo e la terra non possono sedere subito alla tavola di Dio insieme con le loro vittime.

Dio crea giustizia. Dobbiamo tenerlo presente. Perciò mi sembrava importante scrivere nell’enciclica anche sul purgatorio, che per me è una verità così ovvia, così evidente e anche così necessaria e consolante, che non può mancare.

Ho cercato di dire: forse non sono tanti coloro che si sono distrutti così, che sono insanabili per sempre, che non hanno più alcun elemento sul quale possa poggiare l’amore di Dio, non hanno più in se stessi un minimo di capacità di amare. Questo sarebbe l’inferno.

D’altra parte, sono certamente pochi – o comunque non troppi – coloro che sono così puri da poter entrare immediatamente nella comunione di Dio.

Moltissimi di noi sperano che ci sia qualcosa di sanabile in noi, che ci sia una finale volontà di servire Dio e di servire gli uomini, di vivere secondo Dio. Ma ci sono tante e tante ferite, tanta sporcizia. Abbiamo bisogno di essere preparati, di essere purificati. Questa è la nostra speranza: anche con tante sporcizie nella nostra anima, alla fine il Signore ci dà la possibilità, ci lava finalmente con la sua bontà che viene dalla sua croce. Ci rende così capaci di essere in eterno per Lui.

E così il paradiso è la speranza, è la giustizia finalmente realizzata. E ci dà anche i criteri per vivere, perché questo tempo sia in qualche modo paradiso, sia una prima luce del paradiso. Dove gli uomini vivono secondo questi criteri, appare un po’ di paradiso nel mondo, e questo è visibile.

Mi sembra anche una dimostrazione della verità della fede, della necessità di seguire la strada dei comandamenti, di cui dobbiamo parlare di più. Questi sono realmente indicatori di strada e ci mostrano come vivere bene, come scegliere la vita. Perciò dobbiamo anche parlare del peccato e del sacramento del perdono e della riconciliazione. Un uomo sincero sa che è colpevole, che dovrebbe ricominciare, che dovrebbe essere purificato. E questa è la meravigliosa realtà che ci offre il Signore: c’è una possibilità di rinnovamento, di essere nuovi. Il Signore comincia con noi di nuovo e noi possiamo ricominciare così anche con gli altri nella nostra vita.

Questo aspetto del rinnovamento, della restituzione del nostro essere dopo tante cose sbagliate, dopo tanti peccati, è la grande promessa, il grande dono che la Chiesa offre. E che, per esempio, la psicoterapia non può offrire. La psicoterapia oggi è così diffusa e anche necessaria di fronte a tante psichi distrutte o gravemente ferite. Ma le possibilità della psicoterapia sono molto limitate: può solo cercare un po’ di riequilibrare un’anima squilibrata. Ma non può dare un vero rinnovamento, un superamento di queste gravi malattie dell’anima. E perciò rimane sempre provvisoria e mai definitiva.

Il sacramento della penitenza ci dà l’occasione di rinnovarci fino in fondo con la potenza di Dio — « ego te absolvo » — che è possibile perché Cristo ha preso su di sé questi peccati, queste colpe. Mi sembra che questa sia proprio oggi una grande necessità. Possiamo essere risanati. Le anime che sono ferite e malate, come è l’esperienza di tutti, hanno bisogno non solo di consigli ma di un vero rinnovamento, che può venire solo dal potere di Dio, dal potere dell’Amore crocifisso. Mi sembra questo il grande nesso dei misteri che alla fine incidono realmente nella nostra vita. Dobbiamo noi stessi rimeditarli e così farli arrivare di nuovo alla nostra gente.

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Le messe celebrate con grandi folle. I pro e i contro

D. – Come conciliare il tesoro della liturgia in tutta la sua solennità con il sentimento, l’affetto e l’emotività delle masse di giovani chiamati a parteciparvi?

R. – È un grande problema quello delle liturgie alle quali partecipano masse di persone. Ricordo che nel 1960, durante il grande congresso eucaristico internazionale di Monaco, si cercava di dare una nuova fisionomia ai congressi eucaristici, che sino ad allora erano stati soltanto atti di adorazione. Si voleva mettere al centro la celebrazione dell’Eucaristia come atto della presenza del mistero celebrato.

Ma subito nacque la domanda su come fosse possibile. Per adorare, si diceva, lo si può fare anche a distanza; ma per celebrare è necessaria una comunità limitata che possa interagire con il mistero, dunque una comunità che deve essere assemblea attorno alla celebrazione del mistero.

Erano molti quelli contrari alla celebrazione dell’Eucaristia all’aperto con centomila persone. Dicevano che non era possibile proprio per la struttura stessa dell’Eucaristia, che esige la comunità per la comunione. Erano anche grandi personalità, molto rispettabili, quelle contrarie a questa soluzione.

Ma poi il professor Jungmann, grande liturgista, uno dei grandi architetti della riforma liturgica, ha creato il concetto di « statio orbis », cioè è tornato alla « statio Romae » dove proprio nel tempo della Quaresima i fedeli si raccolgono in un punto, la « statio », come i soldati per Cristo, e poi vanno insieme all’Eucaristia. Se questa, ha detto, era la « statio » della città di Roma, il luogo dove la città di Roma si riunisce, allora questa è la « statio orbis », il luogo di raccolta del mondo.

È da quel momento che abbiamo le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione delle masse. Per me, devo dire, rimane un problema, perché la comunione concreta nella celebrazione è fondamentale e quindi non trovo che la risposta definitiva sia stata realmente trovata. Anche nel Sinodo scorso ho fatto emergere questa domanda, che però non ha trovato risposta.

Anche un’altra domanda ho fatto, sulla concelebrazione in massa: perché se concelebrano, per esempio, mille sacerdoti, non si sa se c’è ancora la struttura voluta dal Signore. Sono domande. E così si è presentata a lei, a Loreto, la difficoltà nel partecipare a una celebrazione di massa durante la quale non è possibile che tutti siano ugualmente coinvolti. Si deve dunque scegliere un certo stile per conservare quella dignità che è sempre necessaria per l’Eucaristia; la comunità non è uniforme e l’esperienza della partecipazione all’avvenimento è diversa; per alcuni è certamente insufficiente. Ma a Loreto la cosa non è dipesa da me, piuttosto da quanti si sono occupati della preparazione.

Si deve dunque riflettere bene su cosa fare in queste situazioni [...]. Rimane il problema fondamentale, ma mi sembra che, sapendo che cosa è l’Eucaristia, anche se non si ha la possibilità di un’attività esteriore come si desidererebbe per sentirsi compartecipi, vi si entra con il cuore, come dice l’antico imperativo nella Chiesa, creato forse proprio per quelli che stavano dietro nella basilica: « In alto i cuori! Adesso tutti usciamo da noi stessi, così tutti siamo con il Signore e siamo insieme ». Non nego il problema, ma se seguiamo realmente questa parola « In alto i nostri cuori » troveremo tutti, anche in situazioni difficili ed a volte discutibili, la vera partecipazione attiva. 

Publié dans:Sandro Magister |on 11 février, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Cinque musulmani in Vaticano. A preparare l’udienza col papa

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/188961

  

Cinque musulmani in Vaticano. A preparare l’udienza col papa

 

 Sono i rappresentanti della « lettera dei 138″ scritta a Benedetto XVI lo scorso ottobre. Ecco chi sono e da dove vengono. Uno di essi, Yahya Pallavicini, racconta in un libro come si può vivere da musulmani in un paese cristiano, in pace tra le due religioni

di Sandro Magister  

ROMA, 6 febbraio 2008 – Nei due giorni che hanno preceduto questo mercoledì delle ceneri si sono tenuti a Roma i primi incontri preparatori dell’annunciata visita in Vaticano di una rappresentanza delle 138 personalità musulmane che nell’ottobre del 2007 hanno indirizzato al papa e ai capi di altre confessioni cristiane una lettera con una offerta di dialogo, dal titolo: « Una parola comune tra noi e voi ».

Le riunioni si sono svolte presso il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran. L’agenda prevede che, a partire dalla prossima primavera, i rappresentanti dell’islam incontreranno Benedetto XVI e altre autorità della Chiesa. E terranno sessioni di studio in istituti come la Pontificia Università Gregoriana e il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, in sigla PISAI, presieduto da padre Miguel Angel Ayuso Guixot.

La delegazione musulmana era composta da cinque studiosi di altrettante nazioni:

– Ibrahim Kalin, turco, direttore ad Ankara della Fondazione SETA e professore a Washington alla Georgetown University;

– Abd al-Hakim Murad Winter, inglese, professore di studi islamici alla Shaykh Zayed Divinity School dell’università di Cambridge e direttore del Muslim Academic Trust del Regno Unito;

– Sohail Nakhooda, giordano, direttore di « Islamica Magazine », rivista internazionale edita negli Stati Uniti;

– Aref Ali Nayed, libico, membro dell’Interfaith Program della Faculty of Divinity dell’università di Cambridge, già docente all’International Institute for Islamic Thought and Civilization della Malesia e al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma;

– Yahya Sergio Yahe Pallavicini, italiano, imam della moschea al-Wahid di Milano, presidente del Consiglio ISESCO per l’educazione e la cultura in Occidente e vicepresidente della Comunità Religiosa Islamica d’Italia, in sigla COREIS.

Tutti fanno parte del gruppo di esperti coordinato, ad Amman, dal principe di Giordania Ghazi bin Muhammad bin Talal, presidente dell’al-Bayt Institute for Islamic Thought, primo promotore della lettera dei 138 e protagonista dello scambio di lettere avvenuto in novembre e in dicembre con Benedetto XVI, tramite il cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone., in preparazione dei futuri incontri.

Dei cinque, quelli più conosciuti dalle autorità e dagli esperti vaticani sono Aref Ali Nayed e Yahya Pallavicini.

Nayed – ben noto anche ai lettori di www.chiesa che ha pubblicato diversi suoi testi in anteprima – è in campo islamico uno dei massimi esperti della filosofia occidentale e della teologia cristiana. Ha studiato alla Gregoriana, oltre che in università degli Stati Uniti e del Canada, e conosce come pochi la « Summa Theologiae » di san Tommaso d’Aquino. Della lettera dei 138 è uno dei principali estensori. Ed è l’autore di una lettera anch’essa importante con la quale ha risposto al messaggio rivolto ai musulmani dal cardinale Tauran in occasione dell’ultimo ramadan.

Ma anche Yahya Pallavicini è da tempo un interlocutore di rilievo, per le autorità e gli esperti vaticani.

Suo padre, Abd al-Wahid Pallavicini, abbracciò la fede musulmana nel 1951, al pari di altri intellettuali europei passati in quegli anni all’islam nella scia del metafisico francese René Guénon. Nel corso di un lungo viaggio in Oriente entrò a far parte della confraternita sufi Ahamadiyyah Idrissiyyah Shadhiliyyah, contrapposta all’islamismo settario wahabita che tuttora impera in Arabia Saudita, confraternita di cui divenne poi maestro in Italia. Ad Assisi, nel 1986, Abd al-Wahid Pallavicini prese parte all’incontro di preghiera tra i leader delle religioni convocato da Giovanni Paolo II. Il suo sogno è di edificare a Milano « una piccola Gerusalemme che veda uniti nella preghiera i figli di Abramo: ebrei, cristiani e musulmani ». La sua fede incrollabile è che l’islam sia « l’ultima e definitiva espressione di quella tradizione primordiale che ha fondato, conferma e vivifica le precedenti rivelazioni ».

Yahya Pallavicini, 43 anni, è nato musulmano ed è oggi conosciuto in Italia tra i principali esponenti dell’islam colto, democratico, « moderato », assieme all’algerino Khaled Fouad Allam e alla marocchina Souad Sbai. Da altre personalità musulmane con i quali si trova spesso in sintonia – il più noto in Italia è l’egiziano Magdi Allam – si distingue sotto il profilo religioso. A differenza di Magdi Allam, che non pratica la religione in cui è nato ed esprime un islam decisamente secolarizzato, Yahya Pallavicini è musulmano osservante e fervente, anzi, è imam di una moschea a Milano, è leader di una comunità di italiani convertiti all’islam, attivi in varie città, ed è impegnato in corsi di formazione di nuovi imam.

Dal 2006 è consigliere del ministero dell’interno italiano per la Consulta dell’islam. È critico inflessibile delle derive violente del pensiero e della pratica musulmana. Ha scritto e detto più volte in pubblico – cosa rara e spesso rischiosa da parte di un musulmano – che « gli atti di violenza non trovano legittimazione alcuna negli insegnamenti del profeta Muhammad o dei sapienti ». Ha più volte fermamente condannato « la strumentalizzazione della shari’ah, la legge islamica, per creare un mondo parallelo e alternativo, che rifiuta di integrarsi col sistema occidentale ». Ha denunciato « la cultura dell’odio » che trasuda dalla predicazione fatta in molte moschee d’Italia e d’Europa da parte di imam « che sono in realtà dei sobillatori politici che non hanno nulla di autenticamente islamico ».

Viceversa, egli è convinto assertore di un dialogo positivo con l’ebraismo e il cristianesimo. Nel 2005 ha contestato pubblicamente la fatwa, la disposizione giuridica emessa dagli schermi della tv al-Jazeera da uno dei più influenti leader mondiali dell’islam fondamentalista, lo Shaykh Yusuf al-Qaradawi, che vietava ogni dialogo con gli ebrei. La questione si è riproposta nei giorni scorsi in Italia, quando all’improvviso, per un ordine venuto dall’università egiziana di al-Azhar, i rappresentanti della Grande Moschea di Roma hanno dovuto cancellare una loro visita – la prima – in programma il 23 gennaio nella sinagoga ebraica della stessa città.

Queste critiche sono tutte ribadite in un libro che Yahya Pallavicini ha pubblicato di recente in Italia, dal titolo: « Dentro la moschea ».

Ma in questo stesso libro c’è moltissimo di più. C’è, in positivo, il racconto di una comunità musulmana in Italia accompagnata nei luoghi e nei tempi della sua vita religiosa: la moschea, chi la frequenta, come e quando si prega, il ramadan, il matrimonio, il velo, la scuola, la nascita, la morte, il pellegrinaggio alla Mecca. È la comunità sufi alla quale Yahya Pallavicini appartiene, molto distante dall’immagine dell’islam che domina i media, anzi, spesso ostacolata e avversata, in lotte fratricide, dagli esponenti di questo islam fondamentalista e aggressivo.

Nel suo libro, Yahya Pallavicini dà voce a molti suoi fratelli di fede. Un’intera sezione raccoglie le prediche pronunciate in moschea il venerdì da venticinque imam italiani. Un’altra sezione allinea delle storie di vita: di un imprenditore, di un violinista, di un pittore, di uomini e donne convertiti all’islam nel cuore dell’Occidente. Uno di questi convertiti, Ahmad Abd al-Wahliyy Vincenzo, ha inaugurato una cattedra di storia della civiltà e del diritto islamico all’Università Federico II di Napoli. Conclude così il suo racconto: « Una volta, dopo un esame, uno studente mi disse una cosa di cui vado fiero: Caro professore, deve sapere che ieri ho ricevuto la cresima. E studiare con lei l’islam è stata la più bella preparazione che potessi fare ». 

Publié dans:Sandro Magister |on 6 février, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : La curia romana si sveglia e batte tre colpi

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/187701

 

 

La curia romana si sveglia e batte tre colpi

 

 Grazie a pochi e oculati cambiamenti negli uffici vaticani Benedetto XVI sta ottenendo ciò che desiderava. Lo provano tre recenti decisioni dei responsabili del clero, delle cause dei santi, della liturgia

di Sandro Magister 

 

ROMA, 28 gennaio 2008 – Quella riforma generale della curia romana che molti si aspettavano come uno « tsunami » non c’è stata né ci sarà. Ma procedendo a piccoli passi e con nomine dosate e oculate, Benedetto XVI è andato ugualmente dritto allo scopo. Oggi la curia corrisponde alle attese del papa e ne mette in pratica le indicazioni più efficacemente che uno o due anni fa.

Nuovo è anche lo strumento con cui la curia dice e spiega quello che fa. Questo strumento è « L’Osservatore Romano ». Da tre mesi, da quando il giornale del papa ha come direttore il professor Giovanni Maria Vian e ha cambiato radicalmente faccia, quasi ogni giorno esso pubblica un’intervista con l’uno o l’altro dirigente vaticano. Da queste interviste non solo si apprende ciò che un determinato ufficio ha fatto, ma anche, talvolta, si ha l’annuncio in anteprima di ciò che farà. E perché.

In questo inizio d’anno sono almeno tre i segnali di efficace rilancio delle indicazioni papali che la curia ha dato. Provengono uno dalla congregazione per il clero, un altro dalla congregazione delle cause dei santi e un altro ancora dai responsabili della liturgia. 

* * * 


1. Su « L’Osservatore Romano » del 5 gennaio il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della congregazione per il clero, ha annunciato di aver inviato a vescovi, parroci, superiori religiosi e rettori di seminari di tutto il mondo una lettera per sollecitare che in ogni diocesi nascano dei « cenacoli » di adorazione perpetua dell’eucaristia finalizzati a « santificare » i sacerdoti con la preghiera.

Nel motivare l’iniziativa, Hummes ha fatto esplicito riferimento ai « peccati » sessuali commessi da una parte « minima » ma pur sempre incidente del clero:

« Chiediamo a tutti di fare l’adorazione eucaristica per riparare davanti a Dio quello che di grave è stato fatto e per accogliere di nuovo la dignità delle vittime. Sì, abbiamo voluto pensare alle vittime affinché esse ci sentano vicini. Ci riferiamo soprattutto a loro, è importante dirlo ».

C’è in questo l’eco del memorabile mea culpa per la « sporcizia nella Chiesa e proprio tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Gesù » incluso dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella Via Crucis papale del Venerdì Santo del 2005.

Ma c’è anche un’applicazione pratica di quel ritorno all’adorazione dell’eucaristia incoraggiato da Benedetto XVI in più occasioni, la prima volta con la sua silenziosa preghiera in ginocchio davanti all’ostia consacrata nella Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia dell’agosto 2005, un’altra volta assieme ai bambini della Prima Comunione di Roma e del Lazio riuniti in piazza San Pietro e da ultimo nella basilica di San Pietro lo scorso 31 dicembre, quando aggiunse per la prima volta al Te Deum di fine anno l’adorazione e la benedizione eucaristica.

La lettera del cardinale Hummes ha trovato una fattiva risposta in molti luoghi. In Italia, le diocesi che per prime hanno istituito dei cenacoli di adorazione eucaristica « per la santificazione dei sacerdoti » sono state, oltre a Roma, quelle di Macerata, Torino, Siracusa, Ragusa, Oristano.

« Avvenire », il quotidiano della conferenza episcopale italiana, ha dedicato all’iniziativa di Hummes l’editoriale di prima pagina del giorno dell’Epifania, scritto dal teologo PierAngelo Sequeri:

« È l’ora, finalmente, di un cristianesimo adorante. È l’ora di un cristianesimo che crede nel corpo del Signore e punta tutto sull’appassionata potenza del Figlio, che proprio nel suo Corpo regge le impotenze della storia. [...] Quando il ministero ecclesiastico, essenzialmente ordinato al corpo del Signore, perde colpevolmente rispetto del corpo dei figli affidati alla custodia della sua fede, è giusto che si riconosca lo scandalo e che si invochi, accettando la responsabilità della ferita e la debolezza del nostro limite, la cura del Signore ». 

* * * 


2. In un’intervista a « L’Osservatore Romano » del 9 gennaio e in una nota non firmata di quattro giorni dopo sullo stesso giornale, il cardinale José Saraiva Martins, prefetto della congregazione delle cause dei santi, ha annunciato che sarà presto presentata al pubblico, nella seconda metà di febbraio, l’istruzione « Sanctorum Mater » sull’avvio delle cause di beatificazione, istruzione finora nota solo agli addetti ai lavori.

Il documento – datato 17 maggio 2007 e il cui testo italiano è stato stampato nel n. 6 del 1 giugno 2007 degli « Acta Apostolicae Sedis », pp. 465-510 – traduce in norme precise le indicazioni date da Benedetto XVI alla congregazione delle cause dei santi in un messaggio del 27 aprile 2006.

Cautela ed accuratezza: sono questi i criteri che il papa e la congregazione vogliono siano più osservati.

In particolare, l’istruzione esige che « sia salvaguardata la serietà delle inchieste » riguardo ai presunti miracoli, « le cui procedure di esame hanno fatto emergere negli ultimi vent’anni elementi problematici ».

Maggiori garanzie sono fissate anche riguardo la « fama di santità ». Senza di essa, cioè senza un’esemplarità di vita cristiana già riconosciuta come tale da un gran numero di fedeli, non sarà più avviato nessun processo di beatificazione. In altre parole: non bastano l’orgoglio e l’intraprendenza di una famiglia religiosa nei confronti di un fondatore o di un confratello.

Altre norme stringenti riguardano la raccolta dei documenti e delle testimonianze. Le domande andranno rivolte ai testi in modo semplice e puntuale, così « da sollecitare risposte che evidenzino la conoscenza di fatti concreti e le fonti della sua conoscenza ». Saranno perciò da evitare formulazioni « capziose, subdole, suggerenti le risposte ».

Fermo restando che perché la causa proceda « deve risultare l’assoluta assenza di elementi contro la fede e i buoni costumi », è fatto obbligo di mettere nel giusto rilievo « eventuali ritrovamenti contrari alla fama di santità ».

Il documento raccomanda inoltre ai vescovi di evitare « qualsiasi atto che possa indurre i fedeli a ritenere a torto » che l’inchiesta intrapresa comporti necessariamente la beatificazione o la canonizzazione. Prima della chiusura della causa diocesana, anzi, va assicurato e certificato che il servo di Dio « non sia già oggetto di culto indebito ».

È facile leggere in queste norme una correzione rispetto a una prassi tendenzialmente « inflazionistica » di beatificazioni e canonizzazioni invalsa negli ultimi decenni.

Una delle primissime decisioni di Joseph Ratzinger, dopo la sua elezione a papa, fu quella di riservare a sé solo le canonizzazioni e di delegare ad altri le beatificazioni, generalmente nei paesi d’origine del nuovo beato. 

* * * 


3. « L’Osservatore Romano » di lunedì 14 gennaio, nel riferire della messa e dei battesimi celebrati da Benedetto XVI nella Cappella Sistina la domenica precedente, festa del Battesimo del Signore, ha sottolineato che « per la prima volta dall’inizio del suo pontificato » il papa « ha celebrato la messa in pubblico dall’altare tradizionale » (vedi foto in alto).

E ha spiegato:

« Si è ritenuto di celebrare dall’antico altare per non alterare la bellezza e l’armonia di questo gioiello architettonico, preservando la sua struttura dal punto di vista celebrativo e usando una possibilità contemplata dalla normativa liturgica. In alcuni momenti il papa si è così trovato con le spalle rivolte ai fedeli e con lo sguardo alla Croce, orientando in questo modo l’atteggiamento di tutta l’assemblea ».

Pochi giorni dopo, in un’intervista del 20 gennaio alla Radio Vaticana, il nuovo maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, Guido Marini, ha dato queste ulteriori spiegazioni:

« Credo sia importante, anzitutto, considerare l’orientamento che la celebrazione liturgica è chiamata sempre ad avere: mi riferisco alla centralità del Signore, il Salvatore crocifisso e risorto da morte. Tale orientamento deve determinare la disposizione interiore di tutta l’assemblea e, di conseguenza, anche la modalità celebrativa esteriore. La collocazione della croce sull’altare al centro dell’assemblea ha la capacità di trasmettere questo fondamentale contenuto di teologia liturgica. Si possono, poi, verificare particolari circostanze nelle quali, a motivo delle condizioni artistiche del luogo sacro e della sua singolare bellezza e armonia, divenga auspicabile celebrare all’altare antico, dove tra l’altro si conserva l’esatto orientamento della celebrazione liturgica. Nella Cappella Sistina è avvenuto esattamente questo. Si tratta di una prassi consentita dalla normativa liturgica, in sintonia con la riforma conciliare ».

Quanto al « voltare le spalle ai fedeli »:

« Nelle circostanze in cui la celebrazione avviene secondo questa modalità, non si tratta tanto di volgere le spalle ai fedeli, quanto piuttosto di orientarsi insieme ai fedeli verso il Signore. Da questo punto di vista non si chiude ma si apre la porta all’assemblea, conducendola al Signore. Nella liturgia eucaristica non ci si guarda, ma si guarda a Colui che è il nostro Oriente, il Salvatore ».

E a proposito del motu proprio « Summorum Pontificum » che ha liberalizzato l’uso del rito antico della messa:

« La liturgia della Chiesa, come d’altronde tutta la sua vita, è fatta di continuità: parlerei di sviluppo nella continuità. Ciò significa che la Chiesa procede nel suo cammino storico senza perdere di vista le proprie radici e la propria viva tradizione: questo può esigere, in alcuni casi, anche il recupero di elementi preziosi e importanti che lungo il percorso sono stati smarriti, dimenticati e che il trascorrere del tempo ha reso meno luminosi nel loro significato autentico. Mi pare che il Motu proprio vada proprio in questa direzione: riaffermando con molta chiarezza che nella vita liturgica della Chiesa c’è continuità, senza rottura. Non si deve parlare, dunque, di un ritorno al passato, ma di un vero arricchimento per il presente, in vista del domani ».

Del motu proprio è comunque in preparazione un’istruzione « che ne fissi bene i criteri di applicazione »: così ha annunciato il cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone in un’intervista a « Famiglia Cristiana » del 6 gennaio.

Inoltre, sarà presto pubblicata una nuova formulazione della preghiera per gli ebrei contenuta nel rito del Venerdì Santo del messale « tridentino » del 1962 liberalizzato dal motu proprio. Scomparirà il riferimento alla condizione di « tenebre » e di « accecamento » del popolo ebraico, pur restando ferma la preghiera per la loro conversione. « Perché nella liturgia preghiamo sempre per la conversione, di noi stessi per primi e poi di tutti i cristiani e di tutti i non cristiani », ha spiegato in un’intervista ad « Avvenire » l’arcivescovo Angelo Amato, segretario della congregazione per la dottrina della fede.

Tornando all’orientamento della celebrazione, per capire quanto le parole del maestro delle celebrazioni pontificie Guido Marini riflettano il pensiero di Benedetto XVI, basti notare quanto ha detto il papa in questo passaggio della sua ultima udienza generale del mercoledì, lo scorso 23 gennaio:

« Nella liturgia della Chiesa antica, dopo l’omelia, il vescovo o il presidente della celebrazione, il celebrante principale, diceva: ‘Conversi ad Dominum’. Quindi egli stesso e tutti si alzavano e si volgevano verso Oriente. Tutti volevano guardare verso Cristo ». 

Publié dans:Sandro Magister |on 2 février, 2008 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI – 6 aprile 2006, risposta ad uno studente: « IL GRANDE GALILEO HA DETTO CHE DIO… »

questi due post, quello precedente e questo non riportano tutto quello che ha scritto Sandro Magister, questo è una parte del seguito di quanto a scritto e riportato Magister nel suo articolo – postato in precedenza: « L’università di Roma chiude le porte al papa. Ecco la lezione che non ha voluto ascoltare »; 

sul sito altri scritti ed il link al testo integrale del discorso del Papa: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/186421

di Sandro Magister

Benedetto XVI – 6 aprile 2006, risposta ad uno studente 

Da papa, Benedetto XVI non è mai intervenuto direttamente sul tema. Ma resta di straordinario interesse, per capire il suo pensiero, la risposta che egli diede in piazza San Pietro, il 6 aprile 2006, a uno studente liceale di 17 anni che gli aveva chiesto « come armonizzare scienza e fede ».

Ecco la risposta del papa:

« IL GRANDE GALILEO HA DETTO CHE DIO… »

di Benedetto XVI

Il grande Galileo ha detto che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico. Lui era convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura. E il linguaggio della natura – questa era la sua convinzione – è la matematica, quindi essa è un linguaggio di Dio, del Creatore.

Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste. È sempre realizzato approssimativamente, ma – come tale – è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano. La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.

Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma e una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è “una” ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest’altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue.

In questo senso mi sembra proprio che la matematica – nella quale come tale Dio non può apparire – ci mostri la struttura intelligente dell’universo. Adesso ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile. Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile. La nostra scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia. E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare – come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.

Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale: la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente “provare” l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.

Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio. 

Publié dans:Sandro Magister |on 18 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: L’università di Roma chiude le porte al papa. Ecco la lezione che non ha voluto ascoltare

du site: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/186421

  

L’università di Roma chiude le porte al papa. Ecco la lezione che non ha voluto ascoltare

 Un manipolo di docenti e studenti ha costretto Benedetto XVI a cancellare la sua visita a « La Sapienza ». Ma il papa professore non si è arreso: ha reso pubblico con un giorno d’anticipo il discorso che aveva scritto per l’occasione. Che è il seguito della memorabile lezione di Ratisbona, sulle questioni ultime della fede e della ragione

di Sandro Magister 

ROMA, 17 gennaio 2008 – L’hanno accolto nella Moschea Blu di Istanbul. Gli hanno offerto la cattedra nell’università di Ratisbona. Lo attendono a New York per un discorso alle Nazioni Unite.

Ma l’università di Roma « La Sapienza » no. Gli è preclusa. Benedetto XVI ha dovuto rinunciare a leggere un discorso, giovedì 17 gennaio, nella principale università della diocesi di cui è vescovo. L’università che già aveva accolto le visite di Paolo VI nel 1964 e di Giovanni Paolo II nel 1991.

L’inaudita revoca della visita del papa è stata annunciata alle 5 della sera di martedì 15 gennaio da uno scarno comunicato della sala stampa vaticana

Il giorno dopo, mercoledì 16, il cardinale segretario di stato ha così scritto al rettore dell’università che aveva invitato Benedetto XVI, il professor Renato Guarino:

« Essendo purtroppo venuti meno, per iniziativa di un gruppo decisamente minoritario di professori e di alunni, i presupposti per un’accoglienza dignitosa e tranquilla, è stato giudicato opportuno soprassedere alla prevista visita per togliere ogni pretesto a manifestazioni che si sarebbero rivelate incresciose per tutti.

« Nella consapevolezza tuttavia del desiderio sincero coltivato dalla grande maggioranza di professori e studenti di una parola culturalmente significativa, da cui trarre indicazioni stimolanti nel personale cammino di ricerca della verità, il Santo Padre ha disposto che le sia inviato il testo da lui personalmente preparato per l’occasione, [...] con l’auspicio che in esso tutti possano trovare spunti per arricchenti riflessioni ed approfondimenti ».

E nel pomeriggio di quello stesso giorno « L’Osservatore Romano » è uscito con il testo completo della lezione che il papa avrebbe dovuto leggere il giorno dopo all’università « La Sapienza ».

È una lezione che si ricollega a quella pronunciata da Benedetto XVI nell’università di Ratisbona il 12 settembre 2005. Sulla natura i compiti di una università, sul rapporto tra verità e libertà, tra fede e ragione, tra la filosofia, la teologia e gli altri rami del sapere, tra la Chiesa e il mondo contemporaneo.

Una lezione d’importanza capitale per comprendere il pensiero di papa Joseph Ratzinger. il suo incessante invito alla ragione « a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana ».

Il testo originale del discorso, in lingua italiana, è nel sito del Vaticano:

> « È per me motivo di profonda gioia incontrare… »

Qui di seguito ne è riportato un ampio estratto, seguito da alcune informazioni sugli antefatti della mancata visita del papa all’università di Roma:

« Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità »

di Benedetto XVI

[...] Che cosa può e deve dire il papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? [...]

Il papa è anzitutto vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. [...] Ma questa comunità della quale il vescovo di Roma si prende cura — grande o piccola che sia — vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. [...] Così il papa parla come rappresentante di una comunità credente nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita. Parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità. In questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? [...] Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità.

In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio — per menzionare soltanto un testo — alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: « Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero? » (6 b-c). In questa domanda apparentemente poco devota — che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino — i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi, doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere, vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra « scientia » e « tristitia »: il semplice sapere, dice, rende tristi. E, di fatto, chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire — una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro facoltà presenta questa correlazione.

Cominciamo con la facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina.

Anche se era considerata più come « arte » che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio.

Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire, anche nella facoltà di giurisprudenza.

Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo?

A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità.

Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti.

Riguardo a questa « forma ragionevole » egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un « processo di argomentazione sensibile alla verità » (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico « processo di argomentazione » sono — lo sappiamo — prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla « ragione pubblica », come fa John Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, in base a ciò si rende evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità, della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza.

Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità.

Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda — in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità.

È merito storico di san Tommaso d’Aquino — di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico — di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze.

Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il « sì » alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita delle università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede.

Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La facoltà di filosofia che, come cosiddetta « facoltà degli artisti », fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa.

Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro « senza confusione e senza separazione ».

« Senza confusione » vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero.

Insieme al « senza confusione » vige anche il « senza separazione »: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa. Ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni e in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.

Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una « comprehensive religious doctrine » nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere di più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso.

In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere. Ssono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati.

Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale — per parlare solo di questo — è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo.

Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia, col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione — sollecita della sua presunta purezza — diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.

Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e — preoccupata della sua laicità — si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.

Publié dans:Sandro Magister |on 18 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : La diplomazia della Chiesa ha una stella fissa: quella dei Magi

 dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/185212

  

La diplomazia della Chiesa ha una stella fissa: quella dei Magi

Nel discorso d’inizio d’anno al corpo diplomatico Benedetto XVI ha fatto il punto sulla politica vaticana nel mondo. Ma ai fedeli, nella messa dell’Epifania, ha detto molto di più. Ha predicato la sua teologia della storia. Eccola

di Sandro Magister 

ROMA, 8 gennaio 2008 – Il lunedì dopo l’Epifania, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano, papa Benedetto XVI ha rivolto al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il tradizionale discorso augurale per il nuovo anno.

In discorsi come questo gli osservatori trovano una sintesi della geopolitica della Chiesa. E, in effetti, il testo che il papa ha letto ai diplomatici era il diligente prodotto degli uffici vaticani che si occupano dei rapporti con gli stati e con gli organismi internazionali.

Nel finale del discorso, però, il tocco personale di Benedetto XVI è arrivato inconfondibile. Con queste parole:

« La diplomazia è, in un certo modo, l’arte della speranza. Essa vive della speranza e cerca di discernerne persino i segni più tenui. La diplomazia deve dare speranza. La celebrazione del Natale viene ogni anno a ricordarci che, quando Dio si è fatto piccolo bambino, la Speranza è venuta ad abitare nel mondo, al cuore della famiglia umana ».

Dalle arti della diplomazia a quel « piccolo bambino » che è Gesù il salto è vertiginoso. Eppure è tutta qui – secondo Benedetto XVI – la missione originale della Chiesa, la sua visione del mondo, la sua teologia della storia.

Di questa visione grandiosa il papa ha fatto balenare ai diplomatici solo un lampo.

Ma ventiquattr’ore prima, predicando ai fedeli nell’omelia della messa dell’Epifania da lui celebrata nella basilica di San Pietro, Benedetto XVI ha dispiegato tale visione nella sua interezza, con una forza sintetica e immaginifica che non ha forse uguali nella precedente sua predicazione.

I Magi che arrivano a Gesù seguendo la stella – ha detto il papa – hanno fatto l’opposto di quello che accadde a Babele. L’Epifania è già Pentecoste. È la benedizione di Dio che salva e rappacifica gli uomini e le nazioni. Nel bambino di Betlemme sono iniziati gli « ultimi tempi ». La Chiesa « assolve appieno la sua missione solo quando riflette in se stessa la luce di Cristo Signore, e così è di aiuto ai popoli del mondo sulla via della pace e dell’autentico progresso ».

Il papa ha pronunciato l’omelia in italiano e gli uffici vaticani non hanno fornito nessuna traduzione in altra lingua. Eppure si tratta di un testo di capitale importanza per capire questo pontificato, un testo senza il quale il discorso al corpo diplomatico di lunedì 7 gennaio risulta monco e incomprensibile.

Ecco dalla prima parola all’ultima l’omelia di Benedetto XVI nella messa celebrata in San Pietro il 6 gennaio 2008, festa dell’Epifania:

« Abbiamo tutti bisogno del coraggio dei Magi… »

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, celebriamo oggi Cristo, luce del mondo, e la sua manifestazione alle genti. Nel giorno di Natale il messaggio della liturgia suonava così: “Hodie descendit lux magna super terram », oggi una grande luce discende sulla terra (Messale Romano). A Betlemme, questa “grande luce” apparve a un piccolo nucleo di persone, un minuscolo “resto d’Israele”: la Vergine Maria, il suo sposo Giuseppe e alcuni pastori. Una luce umile, come è nello stile del vero Dio; una fiammella accesa nella notte: un fragile neonato, che vagisce nel silenzio del mondo… Ma accompagnava quella nascita nascosta e sconosciuta l’inno di lode delle schiere celesti, che cantavano gloria e pace (cfr Luca 2,13-14).

Così quella luce, pur modesta nel suo apparire sulla terra, si proiettava con potenza nei cieli: la nascita del Re dei Giudei era stata annunciata dal sorgere di una stella, visibile da molto lontano. Fu questa la testimonianza di “alcuni Magi”, giunti da oriente a Gerusalemme poco dopo la nascita di Gesù, al tempo del re Erode (cfr Matteo 2,1-2).

Ancora una volta si richiamano e si rispondono il cielo e la terra, il cosmo e la storia. Le antiche profezie trovano riscontro nel linguaggio degli astri. “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24,17), aveva annunciato il veggente pagano Balaam, chiamato a maledire il popolo d’Israele, e che invece lo benedisse perché – gli rivelò Dio – “quel popolo è benedetto” (Numeri 22,12).

Cromazio di Aquileia, nel suo commento al Vangelo di Matteo, mettendo in relazione Balaam con i Magi; scrive: “Quegli profetizzò che Cristo sarebbe venuto; costoro lo scorsero con gli occhi della fede”. E aggiunge un’osservazione importante: “La stella era scorta da tutti, ma non tutti ne compresero il senso. Allo stesso modo il Signore e Salvatore nostro è nato per tutti, ma non tutti lo hanno accolto” (ivi, 4,1-2). Appare qui il significato, nella prospettiva storica, del simbolo della luce applicato alla nascita di Cristo: esso esprime la speciale benedizione di Dio sulla discendenza di Abramo, destinata ad estendersi a tutti i popoli della terra.

L’avvenimento evangelico che ricordiamo nell’Epifania – la visita dei Magi al Bambino Gesù a Betlemme – ci rimanda così alle origini della storia del popolo di Dio, cioè alla chiamata di Abramo.

Siamo al capitolo 12 del Libro della Genesi. I primi 11 capitoli sono come grandi affreschi che rispondono ad alcune domande fondamentali dell’umanità: qual è l’origine dell’universo e del genere umano? Da dove viene il male? Perché ci sono diverse lingue e civiltà?

Tra i racconti iniziali della Bibbia, compare una prima “alleanza”, stabilita da Dio con Noè, dopo il diluvio. Si tratta di un’alleanza universale, che riguarda tutta l’umanità: il nuovo patto con la famiglia di Noè è insieme patto con “ogni carne” .

Poi, prima della chiamata di Abramo, si trova un altro grande affresco molto importante per capire il senso dell’Epifania: quello della torre di Babele. Afferma il testo sacro che in origine “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Genesi 11,1). Poi gli uomini dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11,4). La conseguenza di questa colpa di orgoglio, analoga a quella di Adamo ed Eva, fu la confusione delle lingue e la dispersione dell’umanità su tutta la terra (cfr Genesi 11,7-8). Questo significa “Babele”, e fu una sorta di maledizione, simile alla cacciata dal paradiso terrestre.

A questo punto inizia la storia della benedizione, con la chiamata di Abramo: incomincia il grande disegno di Dio per fare dell’umanità una famiglia, mediante l’alleanza con un popolo nuovo, da Lui scelto perché sia una benedizione in mezzo a tutte le genti (cfr Genesi 12,1-3).

Questo piano divino è tuttora in corso e ha avuto il suo momento culminante nel mistero di Cristo.

Da allora sono iniziati gli “ultimi tempi”, nel senso che il disegno è stato pienamente rivelato e realizzato in Cristo, ma chiede di essere accolto dalla storia umana, che rimane sempre storia di fedeltà da parte di Dio e purtroppo anche di infedeltà da parte di noi uomini. La stessa Chiesa, depositaria della benedizione, è santa e composta di peccatori, segnata dalla tensione tra il “già” e il “non ancora”. Nella pienezza dei tempi Gesù Cristo è venuto a portare a compimento l’alleanza: Lui stesso, vero Dio e vero uomo, è il Sacramento della fedeltà di Dio al suo disegno di salvezza per l’intera umanità, per tutti noi.

L’arrivo dei Magi dall’Oriente a Betlemme, per adorare il neonato Messia, è il segno della manifestazione del Re universale ai popoli e a tutti gli uomini che cercano la verità.

È l’inizio di un movimento opposto a quello di Babele: dalla confusione alla comprensione, dalla dispersione alla riconciliazione. Scorgiamo così un legame tra l’Epifania e la Pentecoste: se il Natale di Cristo, che è il Capo, è anche il Natale della Chiesa, suo corpo, noi vediamo nei Magi i popoli che si aggregano al resto d’Israele, preannunciando il grande segno della “Chiesa poliglotta”, attuato dallo Spirito Santo cinquanta giorni dopo la Pasqua. L’amore fedele e tenace di Dio, che mai viene meno alla sua alleanza di generazione in generazione, è il “mistero” di cui parla san Paolo nelle sue lettere, anche nel brano della Lettera agli Efesini poc’anzi proclamato nella messa. L’Apostolo afferma che tale mistero “gli è stato fatto conoscere per rivelazione” (Efesini 3,2) e lui è incaricato di farlo conoscere.

Questo “mistero” della fedeltà di Dio costituisce la speranza della storia. Certo, esso è contrastato da spinte di divisione e di sopraffazione, che lacerano l’umanità a causa del peccato e del conflitto di egoismi. La Chiesa è, nella storia, al servizio di questo “mistero” di benedizione per l’intera umanità. In questo mistero della fedeltà di Dio, la Chiesa assolve appieno la sua missione solo quando riflette in se stessa la luce di Cristo Signore, e così è di aiuto ai popoli del mondo sulla via della pace e dell’autentico progresso.

Infatti resta sempre valida la parola di Dio rivelata per mezzo del profeta Isaia: “Le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te” (Isaia 60,2). Quanto il profeta annuncia a Gerusalemme, si compie nella Chiesa di Cristo: “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Isaia 60,3).

Con Gesù Cristo la benedizione di Abramo si è estesa a tutti i popoli, alla Chiesa universale come nuovo Israele che accoglie nel suo seno l’intera umanità.

Anche oggi, tuttavia, resta in molti sensi vero quanto diceva il profeta: “nebbia fitta avvolge le nazioni” e la nostra storia. Non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro. I conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale.

C’è bisogno di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti. “Questa grande speranza può essere solo Dio… Non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano” (« Spe salvi », n. 31): il Dio che si è manifestato nel Bambino di Betlemme e nel Crocifisso-Risorto.

Se c’è una grande speranza, si può perseverare nella sobrietà. Se manca la vera speranza, si cerca la felicità nell’ebbrezza, nel superfluo, negli eccessi, e si rovina se stessi e il mondo. La moderazione non è allora solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità. È ormai evidente che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile.

Per questo c’è bisogno di uomini che nutrano una grande speranza e possiedano perciò molto coraggio: il coraggio dei Magi, che intrapresero un lungo viaggio seguendo una stella, e che seppero inginocchiarsi davanti a un Bambino e offrirgli i loro doni preziosi. Abbiamo tutti bisogno di questo coraggio, ancorato a una salda speranza. Ce lo ottenga Maria, accompagnandoci nel nostro pellegrinaggio terreno con la sua materna protezione. Amen!

__________

E ai diplomatici il papa ha detto…

Nel discorso letto il 7 gennaio da Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede i passaggi più significativi sono quelli dedicati al dialogo interculturale e interreligioso e ai « diritti fondati su ciò che è permanente ed essenziale alla persona umana ».

Quanto al dialogo interreligioso, il papa ha rinnovato la sua gratitudine per la lettera indirizzatagli lo scorso ottobre da 138 personalità musulmane e ha auspicato che possa nascerne una « collaborazione su temi di interesse reciproco, come la dignità della persona umana, la ricerca del bene comune, la costruzione della pace e lo sviluppo ».

Quanto ai diritti essenziali della persona, Benedetto XVI ha denunciato le violazioni della libertà religiosa, le insidie « all’integrità della famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna » e « gli attacchi continui perpetrati in tutti i continenti contro la vita umana »:

« Vorrei richiamare, insieme con tanti ricercatori e scienziati, che le nuove frontiere della bioetica non impongono una scelta fra la scienza e la morale, ma esigono piuttosto un uso morale della scienza. Ricordando l’appello del papa Giovanni Paolo II in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, mi rallegro che lo scorso 18 dicembre l’assemblea generale delle Nazioni Unite abbia adottato una risoluzione chiamando gli stati ad istituire una moratoria sull’applicazione della pena di morte ed io faccio voti che tale iniziativa stimoli il dibattito pubblico sul carattere sacro della vita umana ».

In queste ultime parole è facile leggere un riferimento anche alla « moratoria mondiale sull’aborto » invocata da un numero crescente di voci di diverso orientamento culturale e religioso. 

__________ 

seguono altri riferimenti sul sito 

Publié dans:Sandro Magister |on 9 janvier, 2008 |Pas de commentaires »
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