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di Sandro Magister: Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451

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Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451

Un libro accusa la Chiesa d’aver paura del Vaticano II. Ma c’è chi obietta che c’è un pericolo ancor più grave: quello di offuscare la dottrina su Cristo dei Concili dei primi secoli. Dialogo immaginario tra un teologo e un suo allievo

di Sandro Magister

ROMA, 19 febbraio 2009 – Chi ha paura del Vaticano II? Con questa domanda il teologo Giuseppe Ruggieri e lo storico del cristianesimo Alberto Melloni intitolano un volumetto a più voci da loro curato, uscito pochi giorni fa in Italia.

Il libro non è una novità. È la ristampa del fascicolo 2 del 2007 di « Cristianesimo nella Storia », la rivista dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, cioè del cenacolo di studiosi che – assieme a collaboratori di vari paesi – ha pubblicato la « Storia del Concilio Vaticano II » più letta al mondo, in cinque volumi completati nel 2001 ed editi in sette lingue. Una « Storia » d’orientamento molto marcato, che interpreta il Concilio più come « evento epocale » che per i suoi documenti, più nello « spirito » che nella lettera, più come « nuovo inizio » che in continuità con la Chiesa precedente.

Oltre che Ruggieri e Melloni – l’unico ad aggiungere un nuovo capitolo ai testi già noti – gli altri autori del libro sono il francese Christoph Theobald, l’americano Joseph A. Komonchak e il tedesco Peter Hünermann.

Nella prefazione, Ruggieri e Melloni negano che il libro sia un’apologia della « Storia » bolognese del Concilio Vaticano II. Ma leggendolo si ricava proprio questo: che sono essi le eroiche sentinelle della giusta interpretazione del Concilio stesso; sono essi quelli che non ne hanno « paura » e ne preservano la vera « novità »; sono essi a fare ciò che neppure Benedetto XVI fa più: troppo cambiato rispetto al giovane Ratzinger che scriveva i discorsi esplosivi letti in Concilio dal cardinale Frings.

Per un’analisi dettagliata dei saggi contenuti nel volume, basta riandare al servizio che vi dedicò www.chiesa dopo che essi erano usciti sulla rivista « Cristianesimo nella Storia »:

> Confermato: il Concilio fu « svolta epocale ». La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007)

Mentre l’interpretazione di papa Joseph Ratzinger del Concilio Vaticano II è quella da lui esposta nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005:

> « Svegliati, uomo… »

* * *

Il testo che segue non è una recensione del libro « Chi ha paura del Vaticano II? ». Prende però spunto dalla sua pubblicazione per esporre – nella forma di un dialogo – le questioni che la Chiesa di oggi si trova ad affrontare.

Come si vedrà, sono questioni di importanza capitale, che arrivano a toccare le fondamenta del Credo cristiano. Questioni alle quali hanno dato risposta non solo il Vaticano II ma prima di esso i Concili cristologici dei primi secoli, di Nicea, di Efeso, di Calcedonia.

L’autore, Francesco Arzillo, 49 anni, romano, è magistrato amministrativo di rara competenza in filosofia e teologia.

Breve dialogo sul Concilio, tra un maestro e un allievo

di Francesco Arzillo

Il maestro (M.) è un professore di teologia sessantenne, moderatamente progressista, disposto a dialogare con tutti; si innervosisce solo con chi appare poco propenso a valorizzare appieno il Concilio della sua giovinezza, che gli ricorda, tra l’altro, i tumultuosi anni del seminario.

L’allievo (A.) è più giovane e non è un chierico; è un po’ irriverente, mai però verso il magistero ecclesiale; molti lo considerano un ultraconservatore; ma anche i tradizionalisti lo criticano perché consulta – anche se con cautela – gli scritti teologici di Henri de Lubac e difende sempre Giovanni XXIII e Paolo VI.

–––––

M. – Ciao! Sempre con un libro in mano. Vediamo un po’ il tuo ultimo acquisto.

A. – Eccolo: « Chi ha paura del Vaticano II? », a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri.

M. – Mi sorprendi. Leggi Melloni e i teologi cattolico-progressisti da te sempre criticati. Ho capito: il titolo del libro ha fatto leva sul tuo senso di colpa e vuoi espiare.

A. – Maestro, vedo che non hai perso l’abitudine di sovrapporre la psicoanalisi alla teologia. Io sensi di colpa non ne ho, almeno su questo punto. Tu sai che ho sempre accettato con tutto il cuore il Vaticano II. Come si può parlare oggi della Chiesa senza la « Lumen gentium »? O della Rivelazione divina senza la « Dei Verbum »? O della liturgia senza la « Sacrosanctum Concilium »?

M. – Allora dov’è il problema?

A. – Il problema è in questa interminabile disputa sul Concilio, in questo intricatissimo conflitto delle interpretazioni. Certo, i saggi contenuti in questo libro sono assai raffinati, contengono spunti interessanti, si confrontano con le indicazioni di Benedetto XVI. Però…

M. – Però?

A. – Essi mi richiamano alla mente – almeno in parte – ambienti, climi e luoghi comuni di quell’area cattolico-progressista che tende a fare del Concilio un mito. Ma bada, non voglio etichettare gli autori, uso un indicatore idealtipico e orientativo.

M. – La verità è che tu dici di accettare il Concilio, ma con una riserva mentale, perché critichi chi si batte per il Concilio.

A. – Vedi che parli di una battaglia? Ecco, proprio questo è il punto, questa sovraeccitazione di alcuni durante e dopo il Concilio, questo clima di lotta continua, questa « agitation croissante aux alentours du Concile »: parole non mie ma del cardinale Henri de Lubac. E poi questo modo di raccontarne la storia! La famosa « settimana nera »… Ma che significa? Qual è il valore euristico di questa espressione? Nessuno! Se leggo le memorie di un aiutante di campo di Napoleone a Waterloo posso comprendere che parli di una « giornata nera »; ma da uno storico contemporaneo mi aspetto un tono più calmo, che mi faccia capire. Ancora de Lubac, nel suo libro « Entretien autour de Vatican II » pubblicato nel 1985, parla di un « language historico-manichéen, qui sous un mode mineur s’est assez largement répandu ». O non ti va più bene neppure de Lubac, del quale mi hai sempre parlato con sconfinata ammirazione?

M. – Una storiografia neutrale non esiste.

A. – Sì, però occorre almeno essere pacati. E comunque parlo di una sovraeccitazione che non è solo autobiografica e storiografica. Ma è anche filosofica, oserei dire.

M. – Cioè?

A. – Vedi, prendiamo ad esempio il problema dello « spirito » e della « lettera ».

M. – Non mi tirare fuori la storia secondo cui i documenti conciliari andrebbero letti solo secondo la lettera!

A. – Perché vuoi banalizzare il discorso? È vero che la lettera va sempre tenuta in debito conto, ma non è comunque sufficiente per un’ermeneutica completa. Su questo concordano il giurista romano Celso e san Paolo. Il che mi basta.

M. – E allora?

A. – Dipende da cosa intendiamo con « spirito ». Qui entra in gioco la sovraeccitazione. Prendi per esempio Hegel a Jena. Era chiaramente sovraeccitato: in Napoleone vedeva la Storia che passa a cavallo… Ricordi quel passo delle « Lezioni di Jena », che non a caso è stato anche citato dal « negativista » Kojève quale esergo della sua « Introduzione alla lettura di Hegel »? Ricordi il tono? « Signori! Ci troviamo in un’epoca importante, in un fermento in cui lo Spirito ha fatto un passo in avanti. Ha superato la sua precedente forma concreta e ne ha acquisita una nuova… ». Ecco, quando io leggo certi teologi, certi storici di oggi, non posso fare a meno di pensare a quel tono lì.

M. – Tu insinui, alludi e non concludi. Non è mica questione di tono!

A. – Non sta a me dire fino a che punto si tratti soltanto di tono, o di legittima assunzione di spunti teoretici, o di cedimento alle logiche immanentistiche. Ogni autore è diverso dall’altro.

M. – Torniamo al Concilio. Tu citi il giurista romano Celso, insisti sul testo, e trascuri l’evento.

A. – Altra parola-chiave: l’evento. Hegel? Heidegger? Pareyson?

M. – Ma lascia stare i filosofi!

A. – Non lascio stare niente! Voi teologi di oggi conoscete poco la filosofia, volete fare una teo-logia senza « logos », a-filosofica o trans-filosofica. Ma spesso è solo retorica. E poi la cosa peggiore è quella di essere influenzati da Hegel senza neppure esserne consapevoli. Se Hegel fosse qui tra noi sarebbe sorpreso dal gran numero di suoi discendenti intellettuali, di figli e figliastri… E comunque non sapete neppure scrivere i manuali. È una fatica trovarne uno che non salti da San Tommaso a Rahner, omettendo tutto ciò che vi sta in mezzo! Oggi ci si può diplomare in teologia senza sapere pressoché nulla di Scoto, di Suarez, di Melchior Cano, del Caietano. Prova a chiedere a dieci neodiplomati se abbiano mai sentito parlare di Scheeben, e dimmi se ne trovi più di un paio che ti rispondano affermativamente.

M. – Ora stai esagerando.

A. – Hai ragione. Mi calmo.

M. – L’evento! Pensa alla teologia, pensa alla « Dei Verbum »: Dio si rivela attraverso eventi e parole intimamente connessi tra loro…

A. – Certo che penso alla teologia! Penso che la Rivelazione divina culmina in Cristo, nel quale Dio ci ha detto tutto. Essa è compiuta, anche se non è ancora completamente esplicitata, come ricorda il Catechismo al paragrafo 66. E poi al paragrafo 83: la tradizione « viene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall’insegnamento e dall’esempio e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo ». Sarebbe erroneo pensare a un evoluzionismo storicistico. Non è la realtà rivelata da Dio che si modifica o si evolve; è l’intelligenza credente che cresce approfondendosi. Se questo è vero, l’Evento unico è Cristo, non esiste un’età dello Spirito che superi quella di Cristo.

M. – Risparmiami la storia di Gioacchino da Fiore, per favore…

A. – E perché no? Se proprio vogliamo cercare un evento epocale pensiamo a san Francesco! Chi è stato più epocale di lui, per l’intero secondo millennio? Su questo potremmo essere d’accordo tutti, conservatori, progressisti, persino molti non credenti. Però l’interpretazione di chi vedeva in Francesco l’inaugurazione dell’età dello Spirito fu giustamente respinta. Francesco stesso ne sarebbe rimasto stupito, lui vedeva solo Cristo e la Trinità, in tutto.

M. – Però la storiografia francescana è complessa. Occorre tener conto della politica di san Bonaventura nel narrare la storia del fondatore…

A. – Ma quale politica! Già questo uso del termine, riferito a un ambito che un medievale non avrebbe mai qualificato come « politico », mi dà fastidio, perché è frutto di una cattiva ermeneutica. Si leggono gli eventi teologici, filosofici, giuridici di quel tempo con la lente del panpoliticismo moderno, si considera « politico » ogni ambito del reale. Bel modo di calarsi in un’altra epoca, da parte di chi parla in continuazione di storia e di storicità!

M. – Insomma, dove vuoi andare a parare?

A. – Voglio solo dire che dobbiamo smetterla con questa storia dell’evento epocale. Non esistono eventi epocali, a stretto rigore logico e teologico. Quella dell’evento epocale rischia di essere solo una retorica buona per la « mobilitazione », una forma di cripto-ideologia.

M. – Ma cosa auspichi, l’eterno ritorno dell’identico?

A. – No. Agostino ha dimostrato che la ciclicità pagana è superata per sempre. Si tratta, piuttosto, di saper vedere l’Eterno nel tempo, che interseca un punto del tempo, « quel » punto del tempo, incarnandosi.

M. – Tu torni indietro…

A. – Torno alle fonti. E alla Fonte.

M. – Ma l’Evento unico rivive oggi o no?

A. – Esso è compiuto. Il tempo è compiuto, vedi Marco 1, 15. Anche se ne attendiamo la piena manifestazione.

M. – E il Concilio Vaticano II? Ti aiuta o no nel cammino?

A. – Certo che mi aiuta! Esso però presuppone l’Evento unico e la sua definizione dogmatica irreversibilmente compiuta nei primi sette Concili ecumenici. Capisci che non posso pensare a un evento che « de-calcedonizzi » Cristo – cioè gli tolga ciò che di lui è stato definito a Calcedonia – per inculturarlo nella modernità.

M. – Ma nessuno vuole questo!

A. – Apparentemente quasi nessuno. Certo non vuole questo il Vaticano II, che non ha inteso innovare la fede, come sostengono specularmente, con opposti scopi, le versioni estreme del tradizionalismo e del progressismo. Mi chiedo però quanto arianesimo tendenziale e virtuale ci sia oggi in giro, quanto troppo ci si spinga a umanizzare Gesù. Penso per esempio ai critici della « Dominus Iesus », che nel 2000 ha dovuto richiamare l’abc della cristologia. Mi chiedo: chi ha paura dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia?

M. – Il tuo è un suggestivo espediente retorico. Tu gerarchizzi i Concili per togliere vita in modo subdolo al Vaticano II.

A. – No. Però mi sembra che oggi siano in gioco i fondamenti della fede. Gradirei quindi che si dia evidenza adeguata anche ai convegni su Nicea e su Calcedonia, invece di lasciarli a pochi specialisti eruditi.

M. – Basta, sono stanco. Torno a casa e leggo qualcosa dal mio libro più caro, il « Giornale dell’anima » di Angelo Giuseppe Roncalli.

A. – Che coincidenza, lo sto leggendo anch’io…

Publié dans:Sandro Magister |on 3 mars, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Un segreto da riscoprire: la santità di Madre Teresa

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Un segreto da riscoprire: la santità di Madre Teresa

Un libro offre al grande pubblico ciò che la causa di beatificazione aveva già accertato: la sua solitudine interiore, il suo sentirsi abbandonata da Dio. Così ella fu ancor più compagna dei poveri, in tutto. Il commento del predicatore pontificio, Raniero Cantalamessa

di Sandro Magister

ROMA, 4 settembre 2007 – Tre giorni fa, parlando a trecentomila giovani riuniti a Loreto, Benedetto XVI ha ricordato che anche una beata come Madre Teresa di Calcutta, « con tutta la sua carità e la sua forza di fede », nonostante ciò « soffriva del silenzio di Dio ».

E ha aggiunto: « È stato pubblicato un libro con le esperienze spirituali di Madre Teresa dove quanto già sapevamo si mostra ancora più apertamente ».

Il libro citato dal papa si intitola « Mother Teresa: Come Be My Light [Madre Teresa: Vieni, sii la mia luce] » ed è in vendita dal 4 settembre nella sua edizione inglese, curata e introdotta da padre Brian Kolodiejchuk, dei Missionari della Carità, postulatore della causa di canonizzazione di Madre Teresa.

In esso sono raccolte alcune lettere che la religiosa, morta dieci anni fa e ora beata, scrisse in diversi momenti ai suoi direttori spirituali. Sono lettere che attestano quella lunga fase della sua vita in cui ella sperimentò la « notte della fede ».

Il semplice annuncio del libro, ancor prima della sua uscita, ha scatenato in vari paesi del mondo un vespaio di discussioni, come se in esso vi fossero rivelazioni senza precedenti, tali da demolire l’immagine della beata.

Invece tutto era già noto, come ha rimarcato Benedetto XVI. Le lettere ora pubblicate, assieme ad altri scritti analoghi, erano già presenti negli otto volumi della causa di beatificazione di Madre Teresa.

E quando fu proclamata beata, il 19 ottobre 2003, nella sua biografia ufficiale diffusa da Vaticano erano scritte queste testuali parole:

« Vi fu un aspetto eroico di questa grande donna di cui si venne a conoscenza solo dopo la sua morte. Nascosta agli occhi di tutti, nascosta persino a coloro che le stettero più vicino, la sua vita interiore fu contrassegnata dall’esperienza di una profonda, dolorosa e permanente sensazione di essere separata da Dio, addirittura rifiutata da Lui, assieme a un crescente desiderio di Lui. Chiamò la sua prova interiore: ‘l’oscurità’. La dolorosa notte della sua anima, che ebbe inizio intorno al periodo in cui aveva cominciato il suo apostolato con i poveri e perdurò tutta la vita, condusse Madre Teresa a un’unione ancora più profonda con Dio. Attraverso l’oscurità partecipò misticamente alla sete di Gesù, al suo desiderio, doloroso e ardente, di amore, e condivise la desolazione interiore dei poveri ».

Di quel suo buio interiore durato mezzo secolo – proprio mentre tutto il mondo ammirava la sua raggiante cristiana letizia – Madre Teresa diede conto soltanto ai suoi direttori spirituali, ingiungendo di distruggere poi le sue lettere: cosa che essi non fecero.

L’oscurità della fede contraddistingue tante altre vite di santi, anche grandissimi. Ma c’è sempre qualcosa di peculiare in ciascuno. Anche in Madre Teresa.

Nel commento che segue, un autore d’eccezione prova a tratteggiare la peculiarità di Madre Teresa, proprio in rapporto ai suoi dubbi di fede. È padre Raniero Cantalamessa, francescano, storico delle origini del cristianesimo e predicatore ufficiale della casa pontificia.

Il commento è uscito su « Avvenire » di domenica 26 agosto, nel pieno della discussione seguita all’annuncio del libro.

In esso, padre Cantalamessa sostiene una tesi ardita: identifica in Madre Teresa l’ideale compagna di viaggio e di mensa dei tanti « atei in buona fede » che popolano il mondo d’oggi. I più amati da Gesù che sulla croce sperimentò più di tutti l’abbandono di Dio.

Madre Teresa, « la notte » accettata come un dono

di Raniero Cantalamessa

Cosa successe dopo che Madre Teresa disse il suo sì all’ispirazione divina che la chiamava a lasciare tutto per mettersi a servizio dei più poveri dei poveri?

Il mondo ha conosciuto bene ciò che avvenne intorno a lei – l’arrivo delle prime compagne, l’approvazione ecclesiastica, il vertiginoso sviluppo delle sue attività caritative – ma fino alla sua morte nessuno ha conosciuto ciò che avvenne dentro di lei.

Lo rivelano i diari personali e le lettere al suo direttore spirituale, ora pubblicati dal postulatore della causa per la canonizzazione. Non credo che i curatori, prima di decidersi a darli alle stampe, abbiano dovuto superare la paura che tali scritti possano suscitare sconcerto o addirittura scandalizzare i lettori. Lungi da diminuire la statura di Madre Teresa, essi infatti la ingigantiscono, ponendola a fianco dei più grandi mistici del cristianesimo.

« Con l’inizio della sua nuova vita a servizio dei poveri – scrive il gesuita Joseph Neuner che le fu vicino – una opprimente oscurità venne su di lei ». Bastano alcuni brevi stralci per darci un’idea della densità delle tenebre in cui si venne a trovare: « C’è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio, così profondo da far male, una sofferenza continua – e con ciò il sentimento di non essere voluta da Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… Il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto ».

Non è difficile riconoscere subito in questa esperienza di Madre Teresa un caso classico di quello che gli studiosi di mistica, dopo san Giovanni della Croce, sono soliti chiamare la notte oscura dello spirito.

Taulero fa una descrizione impressionante di questo stato: « Allora veniamo abbandonati in tal modo da non aver più nessuna conoscenza di Dio e cadiamo in tale angoscia da non sapere più se siamo mai stati sulla via giusta, né più sappiamo se Dio esiste o no, o se noi stessi siamo vivi o morti. Cosicché su di noi cade un dolore così strano che ci pare che tutto quanto il mondo nella sua estensione ci opprima. Non abbiamo più nessuna esperienza né conoscenza di Dio, ma anche tutto il resto ci appare ripugnante, sicché ci pare di essere prigionieri tra due mura ».

Tutto lascia pensare che questa oscurità accompagnò Madre Teresa fino alla morte, con una breve parentesi nel 1958, durante la quale poté scrivere giubilante: « Oggi la mia anima è ricolma di amore, di gioia indicibile e di una ininterrotta unione d’amore ». Se a partire da un certo momento non ne parla quasi più, non è perché la notte è finita, ma perché ella si è ormai adattata a vivere in essa. Non solo l’ha accettata, ma riconosce la grazia straordinaria che racchiude per lei. « Ho cominciato ad amare la mia oscurità, perché credo ora che essa è una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra ».

Il silenzio di Madre Teresa

Il fiore più profumato della notte di Madre Teresa è il suo silenzio su di essa. Aveva paura, parlandone, di attirare l’attenzione su di sé. Anche le persone a lei più vicine non hanno sospettato nulla, fino alla fine, di questo interiore tormento della Madre. Su suo ordine, il direttore spirituale dovette distruggere tutte le sue lettere e se alcune se ne sono salvate è perché egli, con il permesso di lei, ne aveva fatto una copia per l’arcivescovo e futuro cardinale Trevor Lawrence Picachy, tra le cui carte furono trovate dopo morte. L’arcivescovo, per nostra fortuna, si era rifiutato di accondiscendere alla richiesta di distruggerle, fatta anche a lui dalla Madre.

Il pericolo più insidioso per l’anima nella notte oscura dello spirito è di accorgersi che si tratta, appunto, della notte oscura, di quello che grandi mistici hanno vissuto prima di lei e quindi di far parte di una cerchia di anime elette. Con la grazia di Dio, Madre Teresa ha evitato questo rischio, nascondendo a tutti il suo tormento sotto un perenne sorriso. « Tutto il tempo a sorridere, dicono di me le sorelle e la gente. Pensano che il mio intimo sia ricolmo di fede, fiducia e amore… Se solo sapessero e come il mio essere gioiosa non è che un manto con cui copro vuoto e miseria! ». Un detto dei Padri del deserto dice: « Per quanto grandi siano le tue pene, la tua vittoria su di esse sta nel silenzio ». Madre Teresa lo ha messo in pratica in maniera eroica.

Non solo purificazione

Ma perché questo strano fenomeno di una notte dello spirito che dura praticamente tutta la vita? Qui c’è qualcosa di nuovo rispetto a quello che hanno vissuto e spiegato i maestri del passato, compreso san Giovanni della Croce. Questa notte oscura non si spiega con la sola idea tradizionale della purificazione passiva, la cosiddetta via purgativa, che prepara alla via illuminativa e a quella unitiva. Madre Teresa era convinta che si trattasse proprio di questo nel caso suo; pensava che il suo « io » fosse particolarmente duro da vincere, se Dio era costretto a tenerla così a lungo in quello stato.

Ma non era certo questo. La interminabile notte di alcuni santi moderni è il mezzo di protezione inventato da Dio per i santi di oggi che vivono e operano costantemente sotto i riflettori dei media. È la tuta d’amianto per chi deve andare tra le fiamme; è l’isolante che impedisce alla corrente elettrica di disperdersi, provocando corti circuii.

San Paolo diceva: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne » (2 Corinti 12,7). La spina nella carne che era il silenzio di Dio si è rivelata efficacissima per Madre Teresa: l’ha preservata da ogni ebbrezza, in mezzo al gran parlare che il mondo faceva di lei, perfino al momento di ritirare il premio Nobel per la pace. « Il dolore interiore che sento – diceva – è talmente grande che non provo nulla per tutta la pubblicità e il parlare della gente ». Quanto è lontano dal vero Christopher Hitchens quando nel suo saggio velenoso « Dio non è grande. La religione avvelena ogni cosa » fa di Madre Teresa un prodotto dell’era mediatica!

C’è una ragione ancora più profonda che spiega queste notti che si prolungano per tutta una vita: l’imitazione di Cristo, la partecipazione all’oscura notte dello spirito che avvolse Gesù nel Getsemani e in cui morì sul Calvario, gridando: « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? ». Madre Teresa è giunta a vedere sempre più chiaramente la sua prova come una risposta al desiderio di condividere il grido « Ho sete » di Gesù sulla croce: « Se la pena e la sofferenza, la mia oscurità e separazione da te ti da una goccia di consolazione, mio Gesù, fa di me ciò che vuoi… Imprimi nella mia anima e nella vita la sofferenza del tuo cuore… Voglio saziare la tua sete con ogni singola goccia di sangue che puoi trovare in me. Non ti preoccupare di tornare presto: sono pronta ad aspettarti per tutta l’eternità ».

Sarebbe grave errore pensare che la vita di queste persone sia tutta tetra sofferenza. Nel fondo dell’anima, queste persone godono di una pace e una gioia sconosciute al resto degli uomini, derivanti dalla certezza, più forte in esse del dubbio, di essere nella volontà di Dio. Santa Caterina da Genova paragona la sofferenza delle anime in questo stato a quella del Purgatorio e dice che essa « è così grande, che solo è paragonabile a quella dell’Inferno », ma che c’è in esse una « grandissima contentezza » che sola si può paragonare a quella dei santi in Paradiso. La gioia e la serenità che emanava dal volto di Madre Teresa non era una maschera, ma il riflesso dell’unione profonda con Dio in cui viveva la sua anima. Era lei che si « ingannava » sul suo conto, non la gente.

A fianco degli atei

Il mondo d’oggi conosce una nuova categoria di persone: gli atei in buona fede, coloro che vivono dolorosamente la situazione del silenzio di Dio, che non credono in Dio ma non si fanno un vanto di ciò; sperimentano piuttosto l’angoscia esistenziale e la mancanza di senso del tutto; vivono anch’essi, a loro modo, in una notte oscura dello spirito. Nel suo romanzo « La peste » Albert Camus li chiamava « i santi senza Dio ». I mistici esistono soprattutto per essi; sono loro compagni di viaggio e di mensa. Come Gesù, essi « si sono assisi alla mensa dei peccatori e hanno mangiato con loro » (cf. Luca 15,2).

Questo spiega la passione con cui certi atei, una volta convertiti, si sono buttati sugli scritti dei mistici: Claudel, Bernanos, i due Maritain, L. Bloy, lo scrittore J.–K. Huysmans e tanti altri sugli scritti di Angela da Foligno; T.S. Eliot su quelli di Giuliana di Norwich. Vi ritrovavano lo stesso paesaggio che avevano lasciato, ma questa volta illuminato dal sole. Pochi sanno che l’autore di « Aspettando Godot », Samuel Beckett, nel tempo libero leggeva san Giovanni della Croce.

La parola « ateo » può avere un senso attivo e un senso passivo. Può indicare uno che rifiuta Dio, ma anche uno che – almeno così gli sembra – è rifiutato da Dio. Nel primo caso, si tratta di un ateismo di colpa (quando non è in buona fede), nel secondo di un ateismo di pena, o di espiazione. In quest’ultimo senso possiamo dire che i mistici, nella notte dello spirito, sono degli a-tei, dei senza Dio e che anche Gesú, sulla croce, era un a-teo, un senza Dio.

Madre Teresa ha parole che nessuno avrebbe sospettato in lei: « Dicono che la pena eterna che soffrono le anime nell’Inferno è la perdita di Dio… Nella mia anima io sperimento proprio questa terribile pena del danno, di Dio che non mi vuole, di Dio che non è Dio, di Dio che in realtà non esiste. Gesù, ti prego perdona la mia bestemmia ». Ma si rende conto della natura diversa, di solidarietà e di espiazione, di questo suo a-teismo: « Voglio vivere in questo mondo così lontano da Dio e che ha voltato le spalle alla luce di Gesù, per aiutare la gente, prendendo su di me qualcosa della loro sofferenza ». Il rivelatore più chiaro che si tratta di un ateismo di ben altra natura è la sofferenza indicibile che esso provoca nei mistici. Gli atei comuni non si tormentano in questo modo per il loro ateismo!

I mistici sono giunti a un passo dal mondo dove vivono i senza Dio; hanno sperimentato la vertigine di buttarsi giù. È ancora Madre Teresa che scrive al suo padre spirituale: « Sono stata sul punto di dire No… Mi sento come se qualcosa un giorno o l’altro dovesse spezzarsi in me ». « Prega per me, che io non rifiuti Dio in quest’ora. Non lo voglio ma temo di poterlo farlo ».

Per questo i mistici sono gli ideali evangelizzatori nel mondo postmoderno, dove si vive « etsi Deus non daretur », come se Dio non esistesse. Ricordano agli atei onesti che non sono « lontani dal regno di Dio »; che basterebbe loro spiccare un salto per ritrovarsi dalla sponda dei mistici, passando dal nulla al tutto.

Aveva ragione Karl Rahner di dire: « Il cristianesimo del futuro, o sarà mistico, o non sarà ». Padre Pio e Madre Teresa sono la risposta a questo segno dei tempi. Non dobbiamo sprecare i santi, riducendoli a distributori di grazie, o di buoni esempi.

Publié dans:Sandro Magister |on 16 février, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Obama ha un grande maestro: il teologo protestante Reinhold

dal sito:

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Obama ha un grande maestro: il teologo protestante Reinhold

Che fu un caposcuola non del pacifismo ma del « realismo » nei rapporti tra gli stati, cioè del primato dell’interesse nazionale e dell’equilibrio tra le potenze. È uscita a Roma una suggestiva analisi del suo pensiero. Ispirato alla « Città di Dio » di sant’Agostino

di Sandro Magister 


ROMA, 6 febbraio 2009 – L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato salutato dalla Santa Sede con espressioni di fiducia. Su « L’Osservatore Romano » del 28 gennaio il sacerdote e teologo newyorkese Robert Imbelli ha commentato positivamente il discorso inaugurale del nuovo presidente, in una nota in prima pagina dal titolo: « Per un vero patto di cittadinanza. Obama, Lincoln e gli angeli ».

Tuttavia le righe finali della nota facevano balenare un timore. Imbelli accostava il discorso di Obama a quello di Abraham Lincoln del 1861, che terminava con una preghiera affinché prevalessero « gli angeli migliori della nostra natura ». E proseguiva:

« Questa resta la speranza e la preghiera dell’America. Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati. Preghiamo affinché i vincoli d’affetto della nazione raggiungano anche loro. Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza ».

Imbelli è lo stesso che ha recensito con favore su « L’Osservatore Romano », la scorsa estate, il libro « Render Unto Caesar » dell’arcivescovo di Denver, Charles J. Chaput: un appello ai cattolici americani perché il loro « dare a Cesare », cioè il servire la nazione, consista nel vivere integralmente la propria fede nella vita politica.

L’arcivescovo Chaput, prima e dopo le elezioni presidenziali, è stato uno dei più decisi nel criticare il cedimento pro aborto di tanti cattolici e cristiani americani.

E i primi passi della nuova amministrazione hanno confermato i suoi timori. In un’intervista al settimanale italiano « Tempi » del 5 febbraio, alla domanda se Obama sia « un protestante da caffetteria », lui che « dice di essere cristiano ma è considerato il presidente più favorevole all’aborto di sempre », Chaput ha risposto:

« Nessuno può giustificare l’aborto e al tempo stesso proclamarsi cristiano fedele, ortodosso, protestante o cattolico che sia. [...] Penso però che il cristianesimo protestante, vista la sua grande enfasi sulla coscienza individuale, è più portato ad essere una ‘caffetteria’ di credenze ».

Sta di fatto che, tra i primi atti della sua presidenza, Obama ha autorizzato i finanziamenti federali alle organizzazioni che promuovono l’aborto come mezzo di controllo delle nascite nei paesi poveri. Inoltre, ha annunciato il suo sostegno al Freedom of Choice Act, che toglierà i limiti all’aborto, e il finanziamento all’utilizzo delle cellule staminali embrionali.

* * *

Ciò non toglie che Obama sia, tra i presidenti americani, uno dei più espliciti nel dichiarare il fondamento religioso della propria visione.

In ripetute occasioni ha anche fatto i nomi dei suoi autori di riferimento, noti e meno noti: da Dorothy Day a Martin Luther King, da John Leland ad Al Sharpton.

Tra quelli da lui citati, ce n’è uno che ha un’importanza particolarissima: è il protestante Reinhold Niebuhr (1892-1971), professore alla Columbia University e poi allo Union Theological Seminary di New York.

Niebuhr fu anzitutto teologo, e di prima grandezzza, ma i suoi studi hanno inciso anche nel campo politico. È considerato un maestro del « realismo » nella politica internazionale, i cui massimi esponenti negli Stati Uniti, nella seconda metà del Novecento, sono stati Hans Morgenthau, George Kennan, Henry Kissinger.

Ispirarsi o no a Niebuhr – e alla sua interpretazione e attualizzazione della « Città di Dio » di sant’Agostino – è decisione che orienta in modo determinante la visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

Ad esempio, niente è più distante dalle posizioni di Niebuhr del pacifismo. Ma è l’insieme del pensiero di questo grande teologo che è utile approfondire.

È quanto fa, nel saggio che segue, il massimo esperto italiano di Niebuhr, Gianni Dessì, docente di filosofia e di storia delle dottrine politiche all’Università di Roma Tor Vergata.

Il saggio è uscito pochi giorni fa sull’ultimo numero dell’edizione italiana di « 30 Giorni », il mensile cattolico forse più letto dai vescovi di tutto il mondo, nelle sue edizioni in più lingue.

« 30 Giorni » è diretto dall’anziano senatore Giulio Andreotti – più volte presidente del consiglio e ministro degli esteri – e si occupa spesso di politica internazionale secondo una linea che si potrebbe definire « realista moderata »: una linea che coincide con quella tradizionale della diplomazia vaticana.

Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca

di Gianni Dessì

In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del « New York Times », il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti (1).

Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò « Uomo morale e società immorale », sino al 1971, anno della sua morte. Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali.

Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell’immediato dopoguerra elaborarono quell’insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico (2).

D’altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all’ottimismo della cultura liberale e all’idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana (3).

Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr « l’idea irrefutabile che c’è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo. Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose. Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l’inattività ».

In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr. L’idea che dal mondo siano ineliminabili « il male vero, la fatica, il dolore » rimanda alla critica di Niebuhr all’ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l’idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell’ingiustizia e del male debba essere « umile », rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo.

D’altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per « il cinismo e l’inattività ». Viene delineata una posizione che intende evitare sia « l’idealismo ingenuo » sia il « realismo amaro » (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo).

Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva? Quali i suoi riferimenti storici e culturali?

Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense.

Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l’esistenzialismo teologico europeo, ma una « netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell’esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit » (4).

Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928. Di formazione liberale, egli sperimentò l’inadeguatezza dell’ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell’ingiustizia. Furono gli anni dell’autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche. Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che « una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un’attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno » (5). Tale autocritica trovò piena espressione nel libro « Uomo morale e società immorale ». In esso, come ha scritto Giussani, la « realtà inevitabile del male [...] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l’impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l’individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile » (6).

Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l’influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell’ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell’indifferenza e del cinismo, dall’altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Nel breve periodo che va dal 1917, l’anno dell’entrata in guerra dell’America, al 1919, l’anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l’idealismo del movimento progressista e del presidente Woodrow Wilson. Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall’esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte.

Nell’America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un’esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell’elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale.

In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri.

Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall’emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi.

L’emendamento XVIII alla costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti.

Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate.

Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell’insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di sant’Agostino. In una intervista del 1956 affermava: « Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all’idealismo morale del secolo scorso » (7).

Il riferimento a sant’Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall’idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione.

Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell’assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici. L’uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce « mutual love », amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito « sacrifical love ». Nel 1935 in « An Interpretation of Christian Ethics » egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: « Le esigenze etiche poste da Gesù sono d’impossibile compimento nell’esistenza presente dell’uomo [...]. Qualunque cosa meno dell’amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita. Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell’amore » (8).

Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all’ambito politico, aveva sostenuto che una concezione « che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l’ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica » aveva prodotto una « cattiva religione » e una « cattiva politica », una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana, e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli (9).

D’altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l’ottimismo della cultura liberale, egli constatava l’ineliminabile presenza della certezza del significato dell’esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un’esistenza sana. Questa certezza, scrive, « non è qualcosa che risulti da un’analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l’esperienza umana. È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana [...]. Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato » (10).

L’opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è « The Nature and Destiny of Man », pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943. In essa si legge: « L’uomo, secondo la concezione biblica, è un’esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito » (11).

La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l’ottimismo essenziale che caratterizza un’esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio. Dall’altra è la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell’uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale. L’uomo può (e Niebuhr sembra dire « inevitabilmente ») cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio. Il male nasce quando l’uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l’uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità.

La presenza di Agostino in questa che è l’opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani.

In un saggio del 1953, « Augustine’s Political Realism », incluso nel volume dello stesso anno « Christian Realism and Political Problems », Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale.

Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso « indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere ». Al contrario, l’idealismo, per i suoi sostenitori, è « caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse »; cioè, per i suoi critici, da « una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali » (12). Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie. In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l’azione a valori ideali, a ciò che deve essere (13).

Niebuhr ritiene che sant’Agostino sia stato « per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale. Egli ha meritato questo riconoscimento perché l’immagine della realtà sociale, nella sua ‘Civitas Dei’, offre un’adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità » (14). Per il teologo protestante il realismo di sant’Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia. Infatti per sant’Agostino « la fonte del male è l’amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato ». Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale. Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell’esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all’ipotetica comunità mondiale.

Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all’accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all’accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere. « Il realismo pessimistico – scrive Niebuhr – ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti. Essi hanno visto il pericolo dell’anarchia nell’egoismo dei cittadini, ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti » (15).

Il realismo di sant’Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all’indifferenza nei confronti del potere perché « mentre l’egoismo è naturale nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell’uomo ». Infatti « un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa. La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l’illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo » (16).

L’idea di un realismo che sia in grado di evitare l’indifferenza, il cinismo e l’approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l’idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell’esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant’Agostino. A questa prospettiva – che, come ricordava Niebuhr, esprime una disposizione più che una teoria – sembra riferirsi Obama.

NOTE

(1) C. Blake, « Obama and Niebuhr », in « The New Republic », 3 maggio 2007.

(2) Cfr. R.C. Good, « The National Interest and Political Realism: Niebuhr’s ‘Debate’ with Morgenthau and Kennan », in « The Journal of Politics », n. 4, 1960, pp. 597-619.

(3) C. Carson, « Martin Luther King, Jr., and the African-American Social Gospel », in Paul E. Johnson (ed.), « African American Christianity » University of California Press, Berkeley 1994, pp. 168-170.

(4) L. Giussani, « Grandi linee della teologia protestante americana. Profilo storico dalle origini agli anni Cinquanta », Jaca Book, Milano 1988 (I edizione 1969), p. 131.

(5) R. Niebuhr, « Leaves from the Notebook of a Tamed Cynic », The World Publishing Company, Cleveland 1957 (I edizione 1929), p. 169.

(6) L. Giussani, « Teologia protestante americana », cit., p. 132.

(7) R. Niebuhr, tr.it., « Una teologia per la prassi », Queriniana, Brescia 1977, p. 55.

(8) R. Niebuhr, « An Interpretation of Christian Ethics », Scribner’s, New York 1935, p. 67.

(9) R. Niebuhr, « Christianity and Power Politics », Scribner’s, New York 1952 (I edizione 1940), pp. IX-X.

(10) Ibid., p. 178.

(11) R. Niebuhr, « The Nature and Destiny of Man. A Christian Interpretation. Vol. I, Human Nature », Scribner’s, New York 1964 (I edizione 1941), p. 12.

(12) R. Niebuhr, tr.it., « Il realismo politico di Agostino », in G. Dessì, « Niebuhr. Antropologia cristiana e democrazia », Studium, Roma 1993, pp. 77-78.

(13) Riprendo questa terminologia da Alessandro Ferrara, « La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio », Feltrinelli, Milano 2008, pp. 17-33. Una terza grande forza, oggetto del libro, è quella di « ciò che è come dovrebbe essere ».

(14) R. Niebuhr, tr.it., « Il realismo politico di Agostino », cit., p. 79.

(15) Ibid., p. 85.

(16) Ibid., p. 88.

Publié dans:Sandro Magister |on 7 février, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : La scomunica ai lefebvriani non c’è più. Ma la pace resta lontana

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/214086

La scomunica ai lefebvriani non c’è più. Ma la pace resta lontana

Anzi, aumentano le ragioni di conflitto, anche con i figli d’Israele. Benedetto XVI moltiplica i gesti di apertura, ma non ottiene niente in cambio. L’incidente del vescovo negazionista, con un commento della ebrea Anna Foa

di Sandro Magister 


ROMA, 28 gennaio 2009 – A Benedetto XVI capita ripetutamente di trovarsi in difficoltà su due zone di confine che si intersecano: con i lefebvriani e con gli ebrei.

Il 24 gennaio papa Joseph Ratzinger ha revocato la scomunica ai quattro vescovi ordinati illegittimamente da Marcel Lefebvre nel 1988: scomunica nella quale erano incorsi « latae sententiae », cioè in modo automatico semplicemente compiendo quell’atto. I quattro restano comunque sospesi « a divinis », non possono cioè esercitare il loro ministero nella Chiesa cattolica, e la loro comunità resta in stato di scisma.

Uno dei quattro vescovi, l’inglese Richard Williamson, è un acceso negazionista e ha di recente rilanciato le sue tesi negatrici dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. La coincidenza tra queste sue posizioni e la revoca della sua scomunica – per di più a ridosso della giornata mondiale di memoria della Shoah, il 27 gennaio – ha provocato le forti proteste di molti ebrei, anche di quelli generalmente più benevoli con la Chiesa cattolica e con l’attuale papa.

Un’analoga somma di circostanze aveva fatto scoppiare nei mesi scorsi una polemica similare. Quando Benedetto XVI liberalizzò per tutti i cattolici il rito antico della messa, caposaldo dei lefebvriani, molti ebrei protestarono perché vi era contenuta una preghiera da essi ritenuta inaccettabile e offensiva, in quanto mirata alla loro « conversione ». Il papa riscrisse il testo della preghiera, ma alcuni ebrei respinsero anche la nuova formula.

La ragione di fondo di queste turbolenze è nella teologia antigiudaica che contraddistingue in genere i lefebvriani. Secondo molti ebrei, la Chiesa cattolica fa troppo poco per contrastare questo antigiudaismo ed esigere il ravvedimento dei suoi fautori.

* * *

In effetti, i « magnanimi gesti di pace » che Benedetto XVI ha compiuto più volte in direzione dei lefebvriani non sono stati seguiti finora, da parte di essi, da alcun passo significativo di ravvedimento e di avvicinamento.

Il primo di questi gesti è stata l’udienza accordata il 29 agosto 2005 da Benedetto XVI al successore di Lefebvre e capo della comunità, il vescovo – all’epoca scomunicato – Bernard Fellay.

Il secondo gesto è stato il discorso del papa alla curia romana del 22 dicembre 2005. Un discorso di capitale importanza, perché andava al cuore della questione su cui è nato lo scisma lefebvriano: cioè l’accettazione e l’interpretazione dei Concilio Vaticano II. Benedetto XVI mostrò che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con essa anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, col pieno riconoscimento della libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.

« L’Osservatore Romano » ha ripubblicato tre giorni fa quel discorso del papa, assieme al decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Il 25 gennaio era anche il cinquantesimo anniversario del primo annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII. Ma in più di tre anni, da parte della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da Lefevbre non è venuto nessun segno di adesione alle tesi di Benedetto XVI sull’interpretazione del Vaticano II.

Il terzo gesto è stato la liberalizzazione del rito antico della messa, col motu proprio « Summorum Pontificum » del 7 luglio 2007. Con questa decisione papa Ratzinger si rivolgeva anzitutto all’insieme della Chiesa cattolica, ma era nei suoi intenti anche la volontà di risanare lo scisma con i lefebvriani.

Tuttavia i lefebvriani interpretarono questo gesto semplicemente come un cedimento alle loro posizioni. In più vi fu la reazione di molti ebrei per la preghiera per la loro « conversione », nonostante Benedetto XVI l’avesse poi riformulata.

Il quarto gesto è quello dei giorni scorsi: la revoca della scomunica. Papa Ratzinger l’ha compiuto unilateralmente, come « dono di pace », nella dichiarata speranza di incoraggiare una rapida discussione e soluzione dei punti di divisione.

Va detto però che lo scorso 15 dicembre, nella sua ultima lettera scritta alle autorità della Chiesa di Roma prima del « dono », il capo dei lefebvriani Fellay non dava alcun segno di voler accettare il Vaticano II nella sua integralità:

« Noi siamo pronti a scrivere il Credo con il nostro sangue, a firmare il giuramento antimodernista, la professione di fede di Pio IV, noi accettiamo e facciamo nostri tutti i Concili fino al Vaticano II, riguardo al quale esprimiamo riserve ».

In più sono arrivate le dichiarazioni negazioniste del vescovo Williamson, personaggio non nuovo a uscite del genere. Di lui si ricorda, dopo l’11 settembre 2001, un’allucinata spiegazione dell’abbattimento delle Torri Gemelle, attribuito a un fantomatico « stato di polizia » mirante a sottomettere l’America e l’Europa.

* * *

Circa i lefebvriani, la critica che nella curia romana e tra i vescovi si rivolge a Benedetto XVI è di agire solo con gesti unilaterali, senza ottenere nulla in cambio.

Si osserva che i gesti hanno tutti una nitida coerenza e consistenza teologica. Cadono però su un terreno non adeguatamente coltivato.

Anche la revoca della scomunica ai quattro vescovi ricade sotto queste critiche. Si osserva che anche tra Roma e Costantinopoli sono state cancellate le scomuniche, tuttavia questo gesto fortemente simbolico è avvenuto dentro un cammino di reale avvicinamento ecumenico. Un cammino che è invece assente tra i lefebvriani, con i quali le divisioni restano intatte.

* * *

Con gli ebrei è lo stesso. Si riconosce a Benedetto XVI di aver prodotto i testi più alti e più costruttivi per il dialogo tra le due fedi. Ma gli si imputa che contro le sue parole stridono troppi fatti.

Un esempio è ciò che è accaduto nei giorni scorsi. All’Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha pronunciato parole audaci sulla « conversione » dell’ebreo Paolo. Ha persino detto che per Paolo il termine « conversione » è improprio, « perché gli era già credente, anzi ebreo fervente, né dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo ».

Ma lo stesso giorno, un vescovo che lo stesso Benedetto XVI aveva da poco assolto dalla scomunica imperversava sui media di tutto il mondo con affermazioni aberranti contro gli ebrei.

Voci cattoliche autorevoli si sono levate a rimarcare che Ratzinger non aveva colpa di tali affermazioni, né esse avevano alcun legame con la decisione papale di revocare la scomunica al vescovo che le aveva pronunciate. Ma sul piano comunicativo il nesso tra le due cose scattava inesorabile. La notizia era ovunque la seguente: il papa assolve dalla scomunica il vescovo negazionista.

Ad alcuni è stato facile rinfacciare alle autorità vaticane di tacere troppo anche su un altro, ben più pericoloso negazionismo, quello pubblicamente propugnato dai capi dell’Iran. Nei quasi quattro anni di questo pontificato, in effetti, solo una volta, e con parole vaghe, in un testo vaticano ufficiale si è condannato il programma iraniano di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Nessun silenzio, tuttavia, può essere rimproverato alla Santa Sede oggi, di fronte alla negazione della Shoah fatta dal vescovo lefebvriano Williamson.

Una prova è in questo articolo pubblicato con grande evidenza su « L’Osservatore Romano » del 26-27 gennaio. Ne è autore Anna Foa, docente di storia all’Università di Roma « La Sapienza », ebrea:

L’antisemitismo unico movente dei negazionisti

di Anna Foa

Il negazionismo della Shoah non è un’interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso. Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un’apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l’antisemitismo.

Un negazionista è anche antisemita. Ed è forse, in un mondo come quello occidentale in cui dichiararsi antisemiti non è tanto facile, l’unico antisemita chiaro e palese.

L’odio antiebraico è all’origine di questa negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, riallacciandosi idealmente al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e schernivano i deportati dicendo loro che se anche fossero riusciti a sopravvivere nessuno al mondo li avrebbe creduti.

Il negazionismo attraversa gli schieramenti politici, non è solo legato all’estrema destra nazista, ma raccoglie tendenze diverse: il pacifismo più estremo, l’antiamericanismo, l’ostilità alla modernità.

Esso nasce in Francia alla fine degli anni Quaranta a opera di due personaggi, Maurice Bardèche e Paul Rassinier, l’uno fascista dichiarato, l’altro comunista. Dopo di allora, si sviluppa largamente, e i suoi sostenitori più noti sono il francese Robert Faurisson e l’inglese David Irving, nessuno dei due storico di professione.

I negazionisti sviluppano dei procedimenti assolutamente fuori dal comune nella loro negazione della realtà storica. Innanzitutto, considerano tutte le fonti ebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere. Tolte così di mezzo una buona parte dei testimoni, tutta la memorialistica espressa dai sopravvissuti ebrei e la storiografia opera di storici ebrei o presunti tali, i negazionisti si accingono a demolire il resto delle testimonianze, delle prove, dei documenti.

Tutto ciò che è posteriore alla sconfitta del nazismo è per loro inaffidabile perché appartiene alla « verità dei vincitori ». La storia della Shoah l’hanno fatta i vincitori, continuano instancabilmente a ripetere, mettendo in dubbio tutto quello che è emerso in sede giudiziaria, dal processo di Norimberga in poi: frutto di pressioni, torture, violenze.

Resta però ancora una parte di documentazione da confutare, quella di parte nazista che precede il 1945. Qui, i negazionisti hanno scoperto che nessuna affermazione scritta dai nazisti dopo il 1943 può dichiararsi veritiera, perché a quell’epoca i nazisti cominciavano a perdere la guerra e avrebbero potuto fare affermazioni volte a compiacere i futuri vincitori. « Et voilà », il gioco è fatto: la Shoah non esiste!

Il negazionismo si applica in particolare a dimostrare l’inesistenza delle camere a gas, attraverso complessi ragionamenti tecnici: non avrebbero potuto funzionare, avrebbero avuto bisogno di ciminiere altissime e via discorrendo. È questa la tesi che ha dotato di notorietà uno pseudo-ingegnere, Fred Leuchter, e che domina nei siti negazionisti di internet.

Oggi, il negazionismo è considerato reato in molti Paesi d’Europa, anche se una parte dell’opinione pubblica rimane restia – come chi scrive – a trasformare, mettendoli in prigione, dei bugiardi in martiri. Non mancano poi sostenitori del negazionismo in funzione antiisraeliana.

Bisogna però ripetere che dietro il negazionismo c’è un solo movente, un solo intento: l’antisemitismo. Tutto il resto è menzogna.

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E così Benedetto XVI ha risposto alle critiche

Comunicazioni al termine dell’udienza generale di mercoledì 28 gennaio 2009

Sulla revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani:

« Nell’omelia pronunciata in occasione della solenne inaugurazione del mio Pontificato dicevo che è ‘esplicito’ compito del Pastore ‘la chiamata all’unità’, e commentando le parole evangeliche relative alla pesca miracolosa ho detto: ‘sebbene fossero così tanti i pesci, la rete non si strappò’, proseguivo dopo queste parole evangeliche: ‘Ahimè, amato Signore, essa – la rete – ora si è strappata, vorremmo dire addolorati’. E continuavo: ‘Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa che non delude e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità che tu hai promesso… Non permettere, Signore, che la tua rete si strappi e aiutaci ad essere servitori dell’unità’.

« Proprio in adempimento di questo servizio all’unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da Mons. Lefebvre senza mandato pontificio. Ho compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare. Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II ».

Sulla negazione della Shoah:

« In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato l’eccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso. Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. Nessun uomo è un’isola, ha scritto un noto poeta. La Shoah insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo! ».

Publié dans:Sandro Magister |on 2 février, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Ebrei e Chiesa cattolica. Ai rabbini d’Italia questo papa non piace

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/213449

Ebrei e Chiesa cattolica. Ai rabbini d’Italia questo papa non piace

Non gradiscono né la nuova preghiera del Venerdì Santo, né la via di dialogo aperta da Benedetto XVI nel libro « Gesù di Nazaret ». E si dissociano dalla giornata per l’ebraismo indetta dai vescovi. Ma tra loro non tutti la pensano così

di Sandro Magister


ROMA, 16 gennaio 2009 – Sul versante geopolitico la guerra di Gaza ha acuito le divergenze tra la Chiesa cattolica e Israele, come www.chiesa ha mostrato nel servizio del 4 gennaio.

Il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, ipotizzato per maggio, si auspica che attenui le reciproche incomprensioni. Intanto, però, soprattutto per l’intransigenza israeliana, non fanno passi avanti i negoziati per dare attuazione pratica agli accordi del 1993 tra la Santa Sede e Israele. Né si intravede alcuna disponibilità a rimuovere, nel museo della Shoah a Gerusalemme, la didascalia che squalifica Pio XII come complice dello sterminio nazista degli ebrei.

Ma anche sul terreno più strettamente religioso il rapporto tra le due parti è accidentato. Per il 17 gennaio la conferenza episcopale italiana ha indetto la « Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei ». Dal 1990 questa giornata si tiene tutti gli anni, dal 2001 la comunità ebraica italiana la promuove assieme ai vescovi e dal 2005 entrambe le parti hanno concordato un programma decennale di riflessione sui Dieci Comandamenti. Ma questa volta la Chiesa cattolica si ritrova sola. L’assemblea dei rabbini italiani, presieduta da Giuseppe Laras, ha deciso di « sospendere » la partecipazione degli ebrei all’evento.

Laras ha annunciato il ritiro dell’adesione lo scorso 18 novembre, durante un convegno sul dialogo interreligioso svoltosi a Roma alla camera dei deputati. E l’ha addebitata alla decisione di Benedetto XVI di introdurre nel rito romano antico del Venerdì Santo l’invocazione affinché Dio « illumini » i cuori degli ebrei, « perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini ». Invocazione giudicata da Laras inaccettabile in quanto finalizzata alla conversione degli ebrei alla fede cristiana.

Il 13 gennaio il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, ha rincarato la protesta. Su « Popoli », la rivista missionaria dei gesuiti italiani, ha scritto che con Benedetto XVI « stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa ».

La conferenza episcopale italiana ha reagito mantenendo ferma la giornata di riflessione ebraico-cristiana – significativamente collocata alla vigilia dell’annuale settimana dell’unità dei cristiani – e pubblicando per l’occasione un documento che riassume le tappe del dialogo tra ebrei e cristiani nell’ultimo mezzo secolo, a partire dalla cancellazione, decisa da papa Giovanni XXIII nel 1959, dell’aggettivo latino « perfidi » (che propriamente significa « increduli ») applicato agli ebrei nella preghiera del Venerdì Santo in vigore all’epoca.

Nel documento è sottolineata l’importanza del testo vaticano pubblicato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nel 2001 col titolo « Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana ». Questo testo, in effetti, è riconosciuto da autorevoli esponenti cattolici ed ebrei come il punto più alto e costruttivo fin qui raggiunto nel dialogo tra le due fedi, assieme al libro « Gesù di Nazaret » pubblicato nel 2007 dallo stesso Ratzinger, nel frattempo divenuto papa, nelle pagine dedicate alla divinità di Gesù: questione teologica capitale per gli ebrei di allora come di oggi, credenti in Cristo oppure no.

In campo cattolico la via tracciata da Ratzinger nel dialogo con l’ebraismo non è da tutti accettata. Gli si oppone la cosiddetta « teologia della sostituzione », sia nelle versioni « di sinistra », filopalestinesi, sia in quelle « di destra », tradizionaliste. Secondo tale teologia, l’alleanza con Israele è stata revocata da Dio e solo la Chiesa è il nuovo popolo eletto. In taluni tale visione arriva sino a un rigetto sostanziale dell’Antico Testamento.

Ma anche in campo ebraico vi sono sensibili divergenze di vedute. Lo scorso novembre, quando Benedetto XVI fece colpo affermando che « un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale », a sorpresa il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni (nella foto), si dichiarò d’accordo col papa. E aggiunse che la decisione dell’assemblea dei rabbini italiani di sospendere l’adesione alla giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio andava anch’essa in questa direzione: « rimuovere l’equivoco che si debba dialogare tra cristiani ed ebrei anche sul piano teologico ». Rispetto al predecessore Elio Toaff – quello del celebre abbraccio con Giovanni Paolo II in sinagoga – Di Segni ha inaugurato una dirigenza del rabbinato in Italia meno laica e più identitaria, più osservante di riti e precetti, e di conseguenza più conflittuale col papato sul versante religioso.

Ma, appunto, non tutti gli ebrei la pensano così. Alcuni interpretano diversamente le riserve di Benedetto XVI sul dialogo interreligioso. Ritengono cioè che il papa, quando esclude « un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola », non si riferisca all’ebraismo ma soltanto alle religioni esterne al plesso ebraico-cristiano, cioè islam, induismo, buddismo, eccetera. E infatti – chiedono – « che cosa sono stati il documento del 2001 e il libro ‘Gesù di Nazaret’ se non un confronto sul terreno propriamente teologico con l’unica religione con cui il cristianesimo può farlo? ».

A formulare quest’ultima domanda – in una nota sul quotidiano « il Foglio » dell’11 gennaio – è stato Giorgio Israel, docente di matematica all’Università di Roma « La Sapienza » ed impegnato fautore del dialogo ebraico-cristiano in sintonia con l’attuale pontefice. Assieme a Guido Guastalla, assessore alla cultura della comunità ebraica di Livorno, Israel ha anche contestato pubblicamente, sul « Corriere della sera » del 26 novembre, la decisione di Laras e dell’assemblea dei rabbini di dissociarsi dalla giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio. A loro giudizio, la motivazione portata a sostegno del rifiuto, cioè la preghiera per gli ebrei formulata da Benedetto XVI per il rito antico del Venerdì Santo, non è più sostenibile dopo le chiarificazioni fatte in proposito dalle autorità vaticane, chiarificazioni accolte anche dal presidente dell’International Jewish Committee, il rabbino David Rosen.

Hanno replicato a Israel e Guastalla, sul « Corriere della Sera » del 4 dicembre, il rabbino Laras, l’altro rabbino Amos Luzzatto e il presidente dell’Unione giovani ebrei d’Italia, Daniele Nahum. I tre hanno restituito alla Chiesa cattolica e in particolare al papa la colpa della rottura, hanno definito le posizioni di Benedetto XVI « una regressione rispetto alle conquiste scaturite dagli ultimi decenni di dialogo e collaborazione » e hanno accusato i loro critici di voler usare il dialogo ebraico-cristiano in funzione anti islam.

Laras, Luzzatto e Nahum hanno concluso così la loro replica: « Si ricordi che i rapporti tra ebraismo e islam generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra ebraismo e cristianesimo ».

La storia ha il suo peso irremovibile. Ma riletti oggi, nel pieno della guerra di Gaza, questo omaggio all’islam e questa stilettata alla Chiesa suonano surreali.

Publié dans:Sandro Magister |on 16 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : A Gaza il Vaticano alza bandiera bianca

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/213171

A Gaza il Vaticano alza bandiera bianca

Hamas nega a Israele il diritto di esistere. Ma per la diplomazia pontificia lo stato ebraico sbaglia a difendere con le armi la propria vita. Il Custode della Terra Santa svela le ragioni che sottostanno alla politica della Chiesa nel Vicino Oriente

di Sandro Magister  

ROMA, 4 gennaio 2009 – Nei giorni delle festività natalizie Benedetto XVI è intervenuto più volte contro la guerra che ha per epicentro Gaza.

Ma le sue parole sono cadute nel vuoto. Insuccesso non nuovo per le autorità della Santa Sede, ogni volta che si confrontano con la questione di Israele.

In più di tre anni di pontificato, Benedetto XVI ha innovato in ciò che riguarda i rapporti tra le due fedi, la cristiana e l’ebraica. Ha innovato anche a rischio di incomprensioni e contrarietà, sia tra i cattolici sia tra gli ebrei.

Ma nel frattempo poco o nulla sembra essere cambiato nella politica vaticana nei confronti di Israele.

La sola variante, marginale, è negli accenti. Fino a un paio d’anni fa, con il cardinale Angelo Sodano segretario di stato e con Mario Agnes direttore dell’ »Osservatore Romano », le critiche a Israele erano incessanti, pesanti, a tratti sfrontate. Oggi non più. Col cardinale Tarcisio Bertone la segreteria di stato ha ammorbidito i toni e sotto la direzione di Giovanni Maria Vian « L’Osservatore Romano » ha cessato di lanciare invettive e ha allargato gli spazi del dibattito religioso e culturale.

Ma la politica generale è rimasta la stessa. Di certo le autorità della Chiesa cattolica non difendono l’esistenza di Israele – che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera, ultima posta in gioco del conflitto – con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alzano la voce in difesa dei principi “innegoziabili” riguardanti la vita umana.

Lo si è visto nei giorni scorsi. Le autorità della Chiesa e lo stesso Benedetto XVI hanno levato la loro voce di condanna contro « la massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza » solo dopo che Israele ha iniziato a bombardare in quel territorio le postazioni del movimento terroristico Hamas. Non prima. Non quando Hamas consolidava il suo dominio feroce su Gaza, massacrava i musulmani fedeli al presidente Abu Mazen, umiliava le minuscole comunità cristiane, lanciava ogni giorno decine di missili contro le popolazioni israeliane dell’area circostante.

Nei confronti di Hamas e della sua ostentata « missione » di cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra, di Hamas come avamposto delle mire egemoniche dell’Iran nel Vicino Oriente, di Hamas come alleato di Hezbollah e della Siria, le autorità vaticane non hanno mai acceso l’allarme rosso. Non hanno mai mostrato di giudicare Hamas un rischio mortale per Israele, un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese, oltre che un incubo per i regimi arabi dell’area, dall’Egitto alla Giordania all’Arabia Saudita.

Su « L’Osservatore Romano » del 29-30 dicembre, in un commento di prima pagina firmato da Luca M. Possati e controllato parola per parola dalla segreteria di stato vaticana, si è sostenuto che « per lo stato ebraico la sola idea di sicurezza possibile deve passare attraverso il dialogo con tutti, persino per chi non lo riconosce ». Leggi: Hamas.

E sullo stesso numero del giornale vaticano – in una dichiarazione anch’essa concordata con la segreteria di stato – il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, dopo aver deplorato la « sproporzionata » reazione militare di Israele, ribadiva lo stesso concetto: « Dobbiamo avere l’umiltà di sederci attorno a un tavolo e di ascoltarci l’uno con l’altro ». Non una parola su Hamas e sul suo pregiudiziale rifiuto di accettare la stessa esistenza di Israele.

Nessun rilievo, invece, ha dato « L’Osservatore Romano » alle contemporanee dichiarazioni del capo del governo della Germania, Angela Merkel, secondo cui « è un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio » e la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza è « chiaramente ed esclusivamente » di Hamas.

Affermando ciò, il cancelliere tedesco ha rotto il coro di deplorazione che si è levato puntualmente anche questa volta da molte cancellerie – e dal Vaticano – dopo che Israele aveva esercitato con le armi il suo diritto all’autodifesa. In Italia, l’esperto di geopolitica che più ha dato risalto alla presa di posizione di Angela Merkel, sul quotidiano « La Stampa », è stato Vittorio E. Parsi, professore di politica internazionale all’Università Cattolica di Milano e fino a pochi mesi fa commentatore di punta di « Avvenire », il giornale della conferenza episcopale italiana. Su « Avvenire », Parsi aveva scritto due anni fa, all’epoca della guerra in Libano, un editoriale dal titolo « Le ragioni di Israele », nel quale diceva:

« L’amara realtà è che, nella regione mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta ‘provvisoria’, e la garanzia della sopravvivenza dello stato ebraico è riposta – per quanto sia amaro dirlo – nella sua superiorità militare ».

Il problema è che la « provvisorietà » dello stato di Israele è pensiero condiviso da una parte significativa della Chiesa cattolica. Ed è questo pensiero a influire sulla politica vaticana nel Vicino Oriente, a bloccarla su vecchie opzioni prive di efficacia e a impedirle di afferrare le novità che pur sono divenute evidenti in questi giorni, tra le quali la crescente, fortissima avversione ad Hamas dei principali regimi arabi e degli stessi palestinesi dei Territori, oggettivamente più vicini oggi alle ragioni di Israele di quanto non lo sia il Vaticano.

* * *

Sul concetto della « provvisorietà » di Israele e sul suo influsso nella Chiesa cattolica è illuminante un libro-intervista uscito in questi giorni in Italia con il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa.

Padre Pizzaballa, in carica dal 2004, è assieme al nunzio e al patriarca latino di Gerusalemme uno dei più autorevoli rappresentanti della Chiesa cattolica in Israele. Ed è anche quello che si esprime con più libertà.

Ebbene, premesso che i cristiani in Terra Santa sono oggi solo l’1 per cento della popolazione e sono quasi tutti palestinesi, padre Pizzaballa ricorda che « i cristiani sono stati protagonisti fino a pochi decenni fa delle cosiddette lotte risorgimentali arabe » in Palestina, in Libano, nella Siria. Oggi essi « non contano più nulla, politicamente, nel conflitto israelo-palestinese », dove hanno molto più peso le componenti islamiste. I cristiani hanno però conservato quel « rifiuto ad accettare Israele » che persiste in una larga parte del mondo arabo.

Una prova di questo rifiuto, aggiunge Pizzaballa, è stata l’opposizione agli accordi fondamentali e allo scambio di rappresentanze diplomatiche stabiliti nel 1993 tra la Santa Sede e lo stato d’Israele:

« Non è stato facile per la Chiesa locale accettare la svolta. Il mondo cristiano di Terra Santa è prevalentemente arabo-palestinese, quindi non era così scontato il consenso. E questo rende il gesto della Santa Sede ancor più coraggioso. Ricordo molto bene i problemi che ci furono, le paure, i commenti che non erano affatto entusiastici. Sembrava quasi un tradimento delle ragioni dei palestinesi, perché da parte palestinese si è sempre vista la storia di Israele come la negazione delle proprie ragioni ».

E ancora:

« Nel febbraio 2000 c’è stato l’accordo della Santa Sede anche con l’Autorità Palestinese, che ha un po’ calmato quella paura ».

Ma un’idea di fondo è rimasta:

« Quando si dice che se Israele non ci fosse non ci sarebbero tutti questi problemi, sembra quasi che Israele sia la fonte di tutti i mali del Medio Oriente. Non credo che sia così. È un dato di fatto, comunque, che Israele non è ancora stato accettato dalla stragrande maggioranza dei paesi arabi ».

* * *

Se Israele non ci fosse, o se comunque non agisse come agisce… Va tenuto conto che simili pensieri corrono non soltanto tra i cristiani arabi, ma anche tra esponenti di rilievo della Chiesa cattolica che vivono fuori della Terra Santa e a Roma.

Uno di questi, ad esempio, è il gesuita Samir Khalil Samir, egiziano di nascita, islamologo tra i più ascoltati in Vaticano, che in un suo « decalogo » di due anni fa per la pace in Medio Oriente ha scritto:

« La radice del problema israelo-palestinese non è religiosa né etnica; è puramente politica. Il problema risale alla creazione dello stato d’Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione organizzata sistematicamente contro gli ebrei – decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa. È questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebrea mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei ».

Detto questo, padre Samir sostiene comunque che l’esistenza di Israele è oggi un dato di fatto che non può essere rifiutato, indipendentemente dal suo peccato d’origine. Ed è questa anche la posizione ufficiale della Santa Sede, da tempo favorevole ai due stati israeliano e palestinese.

In subordine all’accettazione di Israele, permane tuttavia, in Vaticano, una ulteriore riserva. Non sull’esistenza dello stato, ma sui suoi atti. Tale riserva è espressa nelle forme e nelle occasioni più varie e consiste nel ripetere, ogni volta che scoppia un conflitto, il giudizio che gli arabi sono vittime e gli israeliani oppressori. Anche il terrorismo islamista è ricondotto a questa causa di fondo:

« Molti problemi attribuiti oggi quasi esclusivamente alle differenze culturali e religiose trovano la loro origine in innumerevoli ingiustizie economiche e sociali. Ciò è vero anche nella complessa vicenda del popolo palestinese. Nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell’uomo viene calpestata; l’odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento ».

Ad esprimersi così – ultimo tra le autorità vaticane – è stato il cardinale Renato Martino, presidente del pontificio consiglio della giustizia e della pace, in un’intervista a « L’Osservatore Romano » del 1 gennaio 2009.

Non una parola sul fatto che Israele si è ritirato da Gaza nell’estate del 2005 e che Hamas vi ha preso il potere con la forza nel giugno del 2007.

__________
Il libro:

Pierbattista Pizzaballa, « Terra Santa », intervista di Giorgio Acquaviva, Editrice La Scuola, Brescia, 2008, pp. 122, euro 9,00.

Publié dans:Sandro Magister |on 5 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/213008

Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire


Si cantano una al giorno, al Magnificat dei vespri. Sono molto antiche e ricchissime di riferimenti alle profezie del Messia. Le loro iniziali formano un acrostico. Eccole trascritte, con la chiave di lettura

di Sandro Magister 

ROMA, 17 dicembre 2008 – Da oggi fino all’antivigilia di Natale, al Magnificat dei vespri di rito romano si cantano sette antifone, una per giorno, che cominciano tutte con un’invocazione a Gesù, pur mai chiamato per nome.

Questo settenario è molto antico, risale al tempo di papa Gregorio Magno, attorno al 600. Le antifone sono in latino e si ispirano a testi dell’Antico Testamento che annunciano il Messia.

All’inizio di ciascuna antifona, nell’ordine, Gesù è invocato come Sapienza, Signore, Germoglio, Chiave, Astro, Re, Emmanuele. Nell’originale latino: Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel.

Lette a partire dall’ultima, le iniziali latine di queste parole formano un acrostico: « Ero cras », cioè: « [Ci] sarò domani ». Sono l’annuncio del Signore che viene. L’ultima antifona, che completa l’acrostico, si canta il 23 dicembre. E l’indomani, con i primi vespri, comincia la festività del Natale.

A trarre queste antifone fuori dall’oblio è stata, inaspettatamente, « La Civiltà Cattolica », la rivista dei gesuiti di Roma che si stampa con il previo controllo della segreteria di stato vaticana.

Inusitato anche il posto d’onore dato all’articolo che illustra le sette antifone, scritto da padre Maurice Gilbert, direttore della sede di Gerusalemme del Pontificio Istituto Biblico. L’articolo apre il quaderno prenatalizio della rivista, dove di solito c’è l’editoriale.

Nell’articolo, padre Gilbert illustra ad una ad una le antifone. Ne mostra i ricchissimi riferimenti ai testi dell’Antico Testamento. E fa rimarcare una particolarità: le ultime tre antifone – quelle del « Ci sarò » dell’acrostico – comprendono alcune espressioni che si spiegano unicamente alla luce del Nuovo Testamento.

L’antifona « O Oriens » del 21 dicembre include un chiaro riferimento al cantico di Zaccaria nel capitolo primo del Vangelo di Luca, il « Benedictus »: « Ci visiterà un sole che sorge dall’alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte ».

L’antifona « O Rex » del 22 dicembre include un passaggio dell’inno a Gesù del capitolo secondo della lettera di Paolo agli Efesini: « Colui che di due [cioè di ebrei e pagani] ha fatto una cosa sola ».

L’antifona « O Emmanuel » del 23 dicembre si conclude infine con l’invocazione « Dominus Deus noster »: un’invocazione esclusivamente cristiana poiché soltanto i seguaci di Gesù riconoscono nell’Emmanuele il loro Signore Dio.

Ecco dunque qui di seguito i testi integrali delle sette antifone, in latino e tradotte, con evidenziate le iniziali che formano l’acrostico « Ero cras » e con tra parentesi i principali riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento:

I – 17 dicembre

O SAPIENTIA, quae ex ore Altissimi prodiisti,
attingens a fine usque ad finem fortiter suaviterque disponens omnia:
veni ad docendum nos viam prudentiae.

O Sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo (Siracide 24, 5),
ti estendi ai confini del mondo e tutto disponi con forza e dolcezza (Sapienza 8, 1):
vieni a insegnarci la via della saggezza (Proverbi 9, 6).

II – 18 dicembre

O ADONAI, dux domus Israel,
qui Moysi in igne flammae rubi apparuisti, et in Sina legem dedisti:
veni ad redimendum nos in brachio extenso.

O Signore (Esodo 6, 2 Vulgata), guida della casa d’Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco di fiamma del roveto (Esodo 3, 2) e sul monte Sinai gli hai dato la legge (Esodo 20):
vieni a liberarci con braccio potente (Esodo 15, 12-13).

III – 19 dicembre

O RADIX Iesse, qui stas in signum populorum,
super quem continebunt reges os suum, quem gentes deprecabuntur:
veni ad liberandum nos, iam noli tardare.

O Germoglio di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli (Isaia 11, 10),
tacciono davanti a te i re della terra (Isaia 52, 15) e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci, non tardare (Abacuc 2, 3).

IV – 20 dicembre

O CLAVIS David et sceptrum domus Israel,
qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit:
veni et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris et umbra mortis.

O Chiave di Davide (Isaia 22, 22), scettro della casa d’Israele (Genesi 49. 10),
che apri e nessuno può chiudere; chiudi e nessuno può aprire:
vieni, libera dal carcere l’uomo prigioniero, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Salmo 107, 10.14).

V – 21 dicembre

O ORIENS, splendor lucis aeternae et sol iustitiae:
veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis.

O Astro che sorgi (Zaccaria 3, 8; Geremia 23, 5), splendore della luce eterna (Sapienza 7, 26) e sole di giustizia (Malachia 3, 20):
vieni e illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Isaia 9, 1; Luca 1, 79).

VI – 22 dicembre

O REX gentium et desideratus earum,
lapis angularis qui facis utraque unum:
veni et salva hominem quel de limo formasti.

O Re delle genti (Geremia 10, 7), atteso da tutte le nazioni (Aggeo 2, 7),
pietra angolare (Isaia 28, 16) che riunisci ebrei e pagani in uno (Efesini 2, 14):
vieni, e salva l’uomo che hai formato dalla terra (Genesi 2, 7).

VII – 23 dicembre

O EMMANUEL, rex et legifer noster,
expectatio gentium et salvator earum:
veni ad salvandum nos, Dominus Deus noster.

O Emmanuele (Isaia 7, 14), nostro re e legislatore (Isaia 33, 22),
speranza e salvezza dei popoli (Genesi 49, 10; Giovanni 4, 42):
vieni a salvarci, o Signore nostro Dio (Isaia 37, 20).

di Sandro Magister: Quelle tre o quattro cose forti che il sinodo sulla « Parola di Dio » ha lasciato in eredità

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/210128

Quelle tre o quattro cose forti che il sinodo sulla « Parola di Dio » ha lasciato in eredità

La prima è che il cristianesimo non è una « religione del libro » ma si identifica in una persona. La seconda è che la Bibbia non è solo passato ma è anche presente e futuro. La terza è che l’esegesi non può fare a meno della teologia, e viceversa… Il bilancio del sinodo nel taccuino di un osservatore speciale

di Sandro Magister 

ROMA, 9 dicembre 2008 – A sette settimane dalla sua chiusura, il sinodo dei vescovi tenuto a Roma in ottobre su « La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa » sembra quasi non aver lasciato traccia.

Le 55 proposizioni finali sono state consegnate al papa e provvederà lui a darvi corso, nell’esortazione postsinodale che egli promulgherà tra un anno o anche più.

Quanto al messaggio rivolto dal sinodo al « popolo di Dio » al termine dell’assise, è caduto subito nel dimenticatoio. A differenza dei messaggi finali dei precedenti sinodi, questo era scritto con stile più comunicativo. Tradiva la mano sapiente del suo principale estensore, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura e biblista di fama mondiale. Ma la sua lunghezza spropositata ne ha reso difficile il rilancio da parte dei media cattolici di tutto il mondo. E di conseguenza ha impedito che divenisse oggetto di lettura e di riflessione da parte di un consistente numero di vescovi, preti e fedeli.

Ciò non toglie, però, che il sinodo che si è tenuto lo scorso ottobre sulla Parola di Dio possa avere effetti importanti e di lunga durata sulla vita della Chiesa. A condizione che i circa 250 vescovi che vi hanno partecipato sappiano raccoglierne le indicazioni e parteciparle ai rispettivi episcopati e Chiese nazionali.

Ma, appunto, quali sono le indicazioni maggiori che il sinodo ha dato? Quali le linee maestre lungo le quali tradurlo in pratica?

Sul sinodo si è scritto molto. Ma rare sono state le valutazioni sintetiche. Qui di seguito ne è riportata una delle più interessanti e acute. È apparsa su « L’Osservatore Romano » del 27 novembre ed è stata scritta non da un padre sinodale ma da un osservatore esterno, un professore di teologia del Boston College, sacerdote della diocesi di New York, padre Robert Imbelli.

Per tutta la durata del sinodo padre Imbelli ha alloggiato, a Roma, al Collegio Capranica, avendo modo di incontrare quotidianamente vari padri sinodali, e di seguirne i lavori.

Il 14 ottobre egli ha avuto anche la possibilità di entrare nell’aula del sinodo e di assistere a una seduta. Per fortunata combinazione, quello fu il giorno in cui Benedetto XVI prese la parola, pronunciando un intervento di straordinaria importanza.

Ecco dunque che cosa il nostro osservatore ha ricavato dal suo soggiorno romano:

Riflessioni sul sinodo

di Robert Imbelli

Godendo di un anno sabbatico come docente di teologia al Boston College, ho voluto essere presente a Roma durante il sinodo dei vescovi dedicato a un più profondo apprezzamento e a una rinnovata affermazione della « Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ». Pochi altri argomenti, infatti, sono così fondamentali dal punto di vista teologico e pertinenti da quello pastorale. [...]

La mia prima forte impressione è che il sinodo sia stato una profonda esperienza ecclesiale, in primo luogo, com’è ovvio, per i partecipanti, ma sperabilmente, tramite loro e i resoconti dei media, per l’intera Chiesa cattolica. Vescovi e teologi, laici e preti, donne e uomini, come pure rappresentanti di altre comunità cristiane hanno condiviso tre intense settimane. Si sono reciprocamente arricchiti attraverso le loro esperienze, idee, opinioni e interessi. Lo hanno fatto formalmente con dichiarazioni e dibattiti svoltisi in gruppi linguistici più piccoli. Tuttavia lo hanno fatto anche in maniera informale durante le pause per il caffè o i pasti. La Parola di Dio si è riflessa nelle numerose parole della famiglia umana, mostrando la sua variegata ricchezza e forza trasformatrice: « suaviter et fortiter »

Una delle idee più cruciali emerse nel corso del sinodo è stata la necessità di comprendere le multiformi dimensioni della Parola di Dio. Nel linguaggio dei teologi questo è un concetto « analogo ». La Parola di Dio non si può semplicemente identificare con le Sacre Scritture. Queste sono le testimoni privilegiate della Parola di Dio, ma quest’ultima trascende persino la sua incarnazione biblica.

Infatti, in definitiva, la Parola di Dio è una Persona. È Gesù Cristo stesso l’incarnazione piena e definitiva della Parola di Dio. A questo proposito nessun verso biblico è più importante di questo del Vangelo di Giovanni: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi » (1, 14). In Gesù Cristo, nella sua vita, morte e resurrezione, la Rivelazione di Dio trova la sua espressione perfetta e ottiene la riconciliazione del mondo.

Significativamente, questo riconoscimento nutrito di fede implica che il cristianesimo può essere definito solo impropriamente una « religione del libro ». Per quanto la testimonianza biblica di Gesù sia preziosa e indispensabile, il cristianesimo è più precisamente la « religione della persona »: la persona di Gesù Cristo che chiama tutti alla comunione personale col Padre, attraverso lui.

Un’ulteriore conseguenza, rilevata da numerosi vescovi, è che Gesù Cristo offre ai cristiani la « chiave ermeneutica » per comprendere le Scritture. La Bibbia non è una raccolta disparata di libri del mondo antico. Essa trova in Gesù il suo « principium »: il suo principio interpretativo perché, in quanto Parola di Dio, egli è anche la sua origine e il suo obiettivo.

Dalla « relatio » di apertura del cardinale Ouellet, passando per l’intervento del papa, fino alle proposizioni conclusive presentate al Santo Padre, questo riconoscimento ha portato a insistere sulla necessità di utilizzare vari metodi di interpretazione delle Scritture. Il metodo cosiddetto storico-critico è indispensabile, perché la Parola di Dio è veramente entrata nella storia umana: nata durante il regno di Cesare Augusto e crocifissa sotto Ponzio Pilato. Come ha affermato il Santo Padre: « La storia della salvezza non è mitologia, ma vera storia, ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica ».

Per lo stesso motivo un metodo esclusivamente storico-critico presenta forti limiti. La Parola di Dio, alla quale la Bibbia reca testimonianza, chiaramente trascende la dimensione storica per accogliere il piano di Dio per il mondo. La Bibbia non è solo relegata al passato, ma sfida il presente e apre a un compimento futuro.

Quindi l’approccio storico-critico deve essere accompagnato da un approccio teologico-spirituale che affermi l’unità delle Scritture e riconosca che, attraverso il mistero pasquale di Cristo, lo Spirito Santo si è effuso ed ha avuto inizio la nuova creazione.

Di conseguenza, il contesto proprio e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia della Chiesa, in special modo l’Eucaristia. In essa si compie l’unità dei Testamenti e si celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il significato delle Scritture. In essa diviene chiaro che è in seno alla comunità di fede e alla sua tradizione che la Parola di Dio continua a nutrire il popolo di Dio in ogni epoca fino al ritorno del Signore nella gloria.

Da questo punto di vista il sinodo ci ha lanciato due sfide urgenti. La prima è che tutti i membri della Chiesa sono chiamati ad appropriarsi in modo disciplinato della Parola di Dio nella loro vita quotidiana, facendosi da essa guidare e sostenere. Da qui sono derivate le frequenti esortazioni del sinodo allo sviluppo e alla diffusione di una lettura spirituale della Bibbia che vada oltre il nome generico di « lectio divina ». Sebbene siano necessari modalità e metodi differenti per soddisfare le esigenze dei diversi interlocutori e delle diverse situazioni culturali, un requisito permanente è la necessità per tutti, soprattutto per quanti sono immersi in culture occidentali spesso frenetiche, di acquisire familiarità con il silenzio. Solo con un silenzio vigile possiamo udire la Parola di Dio con rinnovato vigore.

La seconda sfida è il bisogno urgente di compiere sforzi creativi per ricreare i vincoli fra esegesi e teologia sistematica, oppure, più concretamente, fra esegeti e teologi. Questo è particolarmente difficile nel contesto attuale delle università, così protese a una ricerca specialistica che spesso separa invece di unire. Ciononostante, si tratta di un imperativo. Come afferma il Santo Padre nel suo intervento al sinodo: « Dove l’esegesi non è teologica, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento ».

* * *

Un altro argomento che ha suscitato grande interesse al sinodo è stato quello della predicazione. I vescovi sanno bene che la Parola di Dio deve essere spezzata e condivisa con il popolo di Dio, proprio come il pane eucaristico. È evidente che ciò assume forme diverse secondo l’età e la formazione degli uditori, ma una caratteristica comune che scaturisce dalla meditazione sulla Parola di Dio nella sua realtà trascendente è che le omelie dovrebbero essere « mistagogiche », vale a dire condurre l’assemblea a un incontro vivificante con Gesù Cristo, vera Parola incarnata.

Penso che il Papa stesso offra una guida preziosa all’arte di questa predicazione mistagogica. Le sue omelie, così attente alla situazione concreta e alle sensibilità di coloro a cui si rivolgono, cercano sempre di promuovere un rinnovato apprezzamento dell’altezza, dell’ampiezza, della lunghezza e della profondità dell’amore di Cristo per il suo corpo, la Chiesa, e, attraverso di essa, per il mondo intero. Benedetto XVI, nelle sue omelie, mira a introdurre quanti lo ascoltano nel mistero pasquale di Cristo, in cui essi non sono meri osservatori, ma partecipanti.

Questa predicazione mistagogica è in sé potenziata e rafforzata dalla qualità estetica del luogo in cui si compie. Questo tema è emerso spesso al sinodo, ma ha avuto un’importanza particolare nello storico discorso del patriarca ecumenico Bartolomeo I. Nella fede incarnazionale della Chiesa, la Parola di Dio non solo viene udita, ma anche vista. È mediata da icone e immagini. Bartolomeo ha detto delle icone: « Ci incoraggiano a cercare lo straordinario dell’ordinario ».

È stato quindi provvidenziale che, svolgendosi il sinodo in Vaticano, si sia organizzata a Roma, nello splendido spazio espositivo delle Scuderie del Quirinale, una magnifica mostra dell’artista veneziano del primo Rinascimento Giovanni Bellini (1435-1516). Nelle sue meravigliose raffigurazioni della Madonna col Bambino, della crocifissione e della risurrezione di Cristo, lo straordinario e l’ordinario si integrano in modo affascinante, l’uno gettando luce sull’altro. O meglio, la luce di Cristo trasfigura tutto, rivelando l’autentica dignità e il vero destino dell’ordinario.

I dipinti del Bellini, fortemente influenzati dalla tradizione iconica orientale, fanno da splendido commento alla Parola incarnata di Dio, unendo indissolubilmente la lettera e lo spirito. Di fronte a molti suoi dipinti ciascuno può sostare e praticare la « lectio divina », attingendo dalla loro grazia e bellezza acqua per anime assetate.

* * *

Alla fine del sinodo, un vescovo mio amico ha osservato che, a suo parere, esso ha rappresentato da parte della Chiesa una « ricezione » nuova e più profonda della costituzione del Vaticano II sulla divina rivelazione, « Dei Verbum ». Se quel vescovo ha ragione, e penso di sì, questo è un momento di grande significato. Infatti, delle quattro costituzioni, vale a dire dei più importanti documenti del Concilio, la « Dei Verbum » è forse la meno apprezzata e studiata, sebbene sia assolutamente fondamentale.

Nella sua « relatio » di apertura del sinodo, il cardinale Ouellet ha detto molto. Ha parlato della rinnovata comprensione, nella « Dei Verbum », della rivelazione divina come « dinamica e dialogica ». Tuttavia ha ammesso che il documento non è stato « recepito a sufficienza » e non ha ancora dato i frutti sperati.

Quando ci si chiede come questo sia potuto accadere, un possibile indizio è offerto più avanti proprio dal cardinale Ouellet nella sua « relatio », là dove afferma, in modo un po’ provocatorio, che « l’ecclesiocentrismo è estraneo alla riforma del Concilio ». In effetti, è possibile che troppi dibattiti e contrasti conciliari siano stati eccessivamente ecclesiocentrici. Non abbiamo forse avuto la tendenza a dimenticare che Cristo, non la Chiesa, è la luce del mondo (« Lumen gentium »)? Nel sottolineare la necessità della « partecipatio actuosa » alla liturgia, non ci siamo forse accontentati di leggerla solo in termini di funzioni liturgiche da compiere invece che come chiamata a penetrare più in profondità nel mistero pasquale di Cristo? A volte, la legittima insistenza sul ruolo dell’assemblea nell’azione liturgica non ha forse messo in ombra il soggetto primario che è Cristo che si offre al Padre e abilita il popolo di Dio a condividere il suo unico perfetto sacrificio?

La riforma del Concilio è cristocentrica, non ecclesiocentrica. Solo attraverso Cristo la Chiesa è introdotta nella comunione della santissima Trinità che è vita eterna. È questo il cuore del messaggio della « Dei Verbum » e il sinodo da poco conclusosi ci offre la possibilità provvidenziale di ricevere nuovamente questo Vangelo salvifico.

Molto spesso, dopo il Concilio, ci siamo sentiti dire che dovevamo « appropriarci » della Tradizione della Chiesa, che dovevamo farla nostra. Tuttavia, a un livello più profondo ed esigente sarebbe meglio dire: dobbiamo noi far sì che la Tradizione si appropri di noi e consenta alla Parola di Dio di trasformarci. Questo farsi possedere quotidianamente dalla Parola è la vita della Chiesa ed è l’unica base credibile per la sua missione.

Publié dans:Sandro Magister |on 10 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Grande musica nelle chiese di Roma. Ma in Vaticano sono sordi

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/210023

Grande musica nelle chiese di Roma. Ma in Vaticano sono sordi

Nelle basiliche romane hanno suonato i Wiener Philarmoniker e altri sommi interpreti, in un caso col papa presente. Ma in curia è paralisi. L’accompagnamento musicale delle messe papali continua a essere di desolante mediocrità

di Sandro Magister 

ROMA, 3 dicembre 2008 – Si è concluso domenica scorsa, prima di Avvento, il Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra che si tiene ogni autunno nelle basiliche papali di Roma.

Promosso dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra, il Festival si prefigge di restituire la grande musica sacra al suo contesto autentico, le chiese: un contesto che magari non è acusticamente perfetto come un’aula di concerto ma è quello giusto per ridare vita piena a musiche originariamente create per la liturgia.

« Il mio sogno – dice Hans-Albert Courtial, presidente della Fondazione – è che ogni domenica dell’anno, in una chiesa di Roma, vi sia una messa accompagnata da capolavori della musica sacra, gregoriana e polifonica, con interpreti di prima grandezza ».

In effetti, lo scorso 26 novembre è avvenuto proprio così. Nella basilica di San Pietro il cardinale Angelo Comastri ha celebrato la messa, e il maestro Helmuth Rilling ha magnificamente diretto la Harmonienmesse in si bemolle maggiore di Franz Joseph Haydn.

Ma nel Festival non c’è stata solo musica liturgica. Il primo e l’ultimo giorno del programma hanno avuto al centro, rispettivamente, l’Arte della Fuga e l’Offerta Musicale di Johann Sebastian Bach, genialmente riscoperte e riproposte nella loro profondità metafisica, di sublime armonia cosmica, da Hans-Eberhard Dentler.

Un’altra vetta del Festival di quest’anno è stata l’esecuzione nella basilica di Santa Maria Maggiore (vedi foto) del Requiem Tedesco di Johannes Brahms, opera anch’essa né liturgica né cattolica eppure intensamente spirituale, magistralmente diretta da Marek Janowski con l’Orchestre de la Suisse Romande e il Rundfunkchor Berlin.

E poi, memorabile, c’è stata la Sesta Sinfonia di Anton Bruckner suonata dai Wiener Philarmoniker diretti da Christoph Eschenbach, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, il 13 ottobre, con Benedetto XVI in prima fila.

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La presenza di papa Joseph Ratzinger a un concerto non è stata l’unica novità del Festival di quest’anno.

Assieme a Benedetto XVI, quella sera in San Paolo fuori le Mura, c’erano anche i 250 cardinali e vescovi che partecipavano negli stessi giorni al sinodo mondiale sulla Parola di Dio. Per molti di essi Bruckner non era un autore facile, ma l’esempio del papa, almeno per una volta, li ha portati ad assistere a un grande concerto. Perché la sensibilità musicale non è proprio di casa nel ceto ecclesiastico: gli alti prelati accorsi agli altri concerti del Festival si sono contati sulle dita di una mano sola.

Un’altra novità è stata lo spazio dato all’organo. Per quattro sere di fila, dal 17 al 20 novembre, lo strumento principe della musica liturgica ha dominato il programma del Festival, con opere sia antiche che contemporanee suonate da famosi organisti in diverse chiese romane. Non solo. Le esecuzioni a Roma sono state il coronamento di un più ampio percorso fatto di concerti d’organo in nove paesi d’Europa, cominciato a giugno in Baviera: un « Euro Via Festival » che si ripete ogni anno dal 2005 sotto la direzione artistica di Johannes Skudlik.

Negli stessi giorni, a Roma, sono stati ultimati i restauri di due magnifici organi, quello della Sala Accademica del Pontificio Istituto di Musica Sacra e quello della chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi. Un altro dei più splendidi organi di Roma, quello della chiesa di Sant’Ignazio, sarà restaurato nei prossimi mesi a cura della Fondazione pro Musica e Arte Sacra e tornerà a suonare nel Festival del 2009.

Brutalmente soppiantato dalle chitarre in numerosissime chiese del mondo, l’organo sta ultimamente mostrando piccoli segni di ripresa. La conferenza episcopale italiana, ad esempio, ha organizzato il mese scorso un seminario di studio per organisti e liturgisti, dal titolo: « L’organo a canne. Un cammino secolare a servizio della liturgia ».

Ma il cammino resta impervio. Non solo il suono dell’organo è largamente assente dai riti liturgici, ma se ne trascura l’uso persino in quegli altri momenti ai quali esso sarebbe più che mai consono. Un cattivo esempio è dato dalla stessa basilica di San Pietro. Ogni volta che c’è una celebrazione liturgica col papa, la basilica si riempie di fedeli con molto anticipo sull’orario d’inizio. Sarebbe questo un momento ideale per il suono dell’organo. Creerebbe un clima più raccolto, di preparazione al rito liturgico. E invece niente. L’organo è lì, gli organisti ci sono, migliaia di fedeli sarebbero felici di ascoltare della buona musica che elevi lo spirito. Manca solo la volontà di decidere una cosa così elementare.

C’è una sorta di paralisi musicale, a Roma, attorno alle celebrazioni del papa. Il pensiero di Benedetto XVI in materia di musica liturgica è arcinoto, è consegnato ai suoi scritti, molto critici dell’avvenuto degrado. Ma quasi nulla è cambiato, in più di tre anni di pontificato. In Vaticano continua a mancare un organismo che abbia autorità per quanto riguarda la musica sacra. La Cappella Sistina, diretta da monsignor Giuseppe Liberto, è l’ombra del suo passato glorioso. E quando non è la Cappella Sistina a cantare nelle messe papali, impera lo stile da « musical » di monsignor Marco Frisina, titolare della cappella del Laterano, la cattedrale di Roma.

Anche in questo il Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra ha impartito una lezione. Per eseguire le messe e i mottetti di Giovanni Pierluigi da Palestrina, di Tomás Luis de Victoria, di Luca Marenzio, di Claudio Monteverdi, insomma, dei grandi maestri di cappella delle cattedrali di Roma e d’Europa del Cinquecento e Seicento, sono venuti dagli Stati Uniti il coro del Santuario di Maria Immacolata di Washington, diretto da Peter Latona, e dalla Germania il coro della cattedrale di Spira, diretto da Leo Krämer.

Non che a Roma e in Italia manchino validi esecutori di questa grande musica polifonica. Anzi, il più geniale interprete al mondo di Palestrina è sicuramente monsignor Domenico Bartolucci. Ma, appunto, Bartolucci dirige Palestrina nelle sale di concerto, non più nelle messe papali con la Cappella Sistina, di cui fu direttore e da cui fu estromesso in malo modo nel 1997. È difficile trovare oggi a Roma e in Italia un coro di chiesa che esegua tali autori nel vivo dell’azione liturgica.

Se per far riassaporare tali meraviglie ci vuole un Festival, è segno che molta strada è ancora da percorrere.

Publié dans:Sandro Magister, ZENITH |on 3 décembre, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Notizia choc: un cardinale fa l’elogio dell’ortodossia

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http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/209817

Notizia choc: un cardinale fa l’elogio dell’ortodossia


Scrive il cardinale Biffi nel suo ultimo libro: « Al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma la retta dottrina a fare notizia ». Ad esempio sulla castità. O su Gesù che non è solo uomo ma Dio

di Sandro Magister

ROMA, 24 novembre 2008 – Dal suo ritiro sulla collina di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi ha consegnato le sue riflessioni a un nuovo libro. Al quale ha dato il titolo « Pecore e pastori ». Che così spiega:
« Tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati da questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del ‘piccolo gregge’. C’è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo ».
Come già nei suoi libri precedenti, anche questa volta le vivide parole del cardinale teologo non sono quelle familiari alle scuole di teologia più frequentate, ma attingono direttamente al linguaggio del Vangelo, aperto ai « piccoli » e chiuso ai « sapienti ». Il cardinale Biffi sa che l’eresia va di moda. Ma questa è per lui una ragione in più di difendere l’ortodossia: « Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire credibile, e non piuttosto che si debba convertire la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che ‘conversione’, e non ‘adattamento’, è parola evangelica ». L’adattamento al pensiero corrente – scrive – arriva sino ad annebbiare la divinità di Gesù, ridotto a semplice uomo sia pure di straordinario valore:
« Per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale, la questione ariana [dal nome di Ario, l'eresiarca condannato dal Concilio di Nicea del 325] è sempre all’ordine del giorno nella vita ecclesiale. I pretesti possono essere tanti: dal desiderio di sentire Cristo più vicino e più uno di noi, al proposito di facilitarne la comprensione esaltandone quasi in modo esclusivo gli aspetti sociali e umanitari. Alla fine l’approdo è sempre quello di togliere al Redentore dell’uomo la sua radicale unicità e di classificarlo tra gli esseri trattabili e addomesticabili. Sotto questo profilo si potrebbe dire che allora il Concilio di Nicea è oggi molto più attuale del Concilio Vaticano II ». Sono molte le pagine controcorrente del nuovo libro di Biffi. Qui di seguito è riprodotto il capitolo che riguarda un tema tra i più controversi, quello della castità, affrontato dall’autore in una forma che appare insolita e controcorrente proprio perché fa riferimento diretto alle fonti della dottrina e della morale cristiane: le parole di Gesù nei Vangeli, le lettere di Paolo e gli altri libri delle Scritture.

La sfida della castità

di Giacomo Biffi

Entro la secolare vicenda dell’umanità – così monotona e ripetitiva nelle sue spirituali opacità, nelle sue sconfitte morali, nelle sue enigmatiche sofferenze – l’avvento del « piccolo gregge » di Cristo è stata forse la sola novità sostanziale: qualcosa di inedito e di positivamente originale è finalmente comparso sulla faccia della terra. Si è affacciata per la prima volta la carità come altissimo ideale di vita: [...] un ideale ammirato spesso anche [...] dai non cristiani, pur se difficile da imitare; una testimonianza che talora ha fatto riflettere anche quelli che non sono avvezzi a far posto a Dio nei loro pensieri. Ciò che invece è stato percepito dal mondo come qualcosa di ostico e di repulsivo nella mentalità e nello stile della Chiesa è l’ideale, il programma, la testimonianza della castità. [...] Essa si configura fin dall’inizio come una vera e propria sfida. E resta una sfida anche nei confronti della mentalità più diffusa e prevalente ai nostri giorni. [...]

Una evidente incompatibilità

Quando si affaccia alla ribalta della storia – nel mondo greco-romano, oltre che nei territori dell’antico regno d’Israele – il cristianesimo deve fare i conti con una cultura contrassegnata da una concezione dell’erotismo, da una pratica della sessualità, da una regolamentazione dell’istituto matrimoniale, che è percepita subito come estranea all’indole dell’Evangelo e anzi come stridente con l’umanità nuova, nata dall’evento pasquale. Ma non ci furono esitazioni: s’impose dall’inizio la persuasione universale e compatta che in tale materia non fossero ammissibili ambiguità o compromessi. Il « popolo nuovo », emerso dall’acqua e dallo Spirito, doveva distinguersi – oltre che per il fenomeno inaudito dello stile di amore fraterno – anche per una forma esigente e radicale di castità. Tutte le attestazioni in nostro possesso sono concordi. [...] Lo si evince dagli elenchi delle trasgressioni inammissibili nell’esistenza cristiana, che perciò escludono dall’approdo al Regno di Dio; elenchi che con sollecitudine pastorale vengono proposti alle comunità dei credenti: « Non illudetevi: né immorali (pornòi), né idolatri, né adùlteri (moichòi), né depravati (malakòi), né sodomiti (arsenokòitai), né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio » (1 Corinzi 6, 9).
« Sappiatelo bene, nessun fornicatore (pòrnos) o impuro (akàthartos) o avaro, cioè nessun idolatra, avrà in eredità il regno di Cristo e di Dio » (Efesini 5, 5). « Sono ben note le opere della carne: fornicazione (pornèia), impurità (akatharsìa), dissolutezza (asèlgheia)…; riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: che chi le compie non erediterà il regno di Dio » (Galati 5, 19-21).

Esigenza di santità

Una condotta casta è tra i segni necessari e più riconoscibili del passaggio sostanziale avvenuto col battesimo tra il modo di vivere degradato e indegno, tipico del paganesimo, e uno stato di purezza nuova: è uno stacco netto tra le vecchie abitudini e la novità pasquale: « Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione » (Romani 6, 19). « È finito il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani vivendo nei vizi (en aselghèiais) » (1 Pietro 4, 3). Non è una sessuofobia ossessiva e neppure un moralismo esasperato a ispirare questo comportamento. È piuttosto una consapevolezza senza precedenti della esigenza di santificazione, che proviene dall’aver aderito al Dio tre volte santo: « Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impurità (apò tes pornèias), che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio » (1 Tessalonicesi 4, 3-5). « Dio non ci ha chiamati all’impurità (epì akatharsìa), ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito » (1 Tessalonicesi 4, 7-8). La giovane cristianità sente che è soprattutto l’immoralità sessuale del mondo ellenistico che merita il nome di impurità (akatharsìa) contraria a Dio.

Valore del corpo

Questa cultura, inaudita nella società greco-romana, non nasce da un eccessivo spiritualismo: qui non c’è quella diffidenza verso ciò che è materiale e corporeo, che serpeggiava nelle ideologie di matrice platonica (ma era ignota alla mentalità israelitica). Al contrario essa si alimenta e si esprime col rispetto verso il corpo, il quale nella prospettiva cristiana è ritenuto realtà sacra e strumento di santificazione: « State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi. Lo avete ricevuto da Dio, e voi non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (1 Corinzi 6, 18-20).

C’è, secondo san Paolo, come una « dimensione liturgica » della castità:

« Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale » (Romani 12, 1). Si capisce come la Chiesa abbia reagito subito alla disistima gnostica del matrimonio, disistima che nello gnosticismo arriva alla proibizione (cfr. 1 Timoteo 4, 3) e ne abbia difeso la dignità: « Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri saranno giudicati da Dio » (Ebrei 13, 4). La nuova umanità del battezzato si rivela anche nel suo linguaggio, che deve rifuggire dal turpiloquio o anche solo dalle espressioni volgari, perché nei « santi » (così vengono chiamati i cristiani nelle lettere apostoliche) l’attenzione alla castità è totalizzante e deve rifulgere in ogni manifestazione dell’ »uomo nuovo », anche nel suo contegno generale e nelle sue parole: « Gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni (aischrologhìan) che escono dalla vostra bocca » (Colossesi 3, 8). « Di fornicazione e di ogni specie d’impurità o di cupidigia, neppure si parli tra voi, – come deve essere tra santi – né di volgarità, insulsaggini, trivialità: che sono cose sconvenienti » (Efesini 5, 3-4).

La questione dell’omosessualità

Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, secondo la concezione cristiana bisogna distinguere il rispetto dovuto sempre alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dalla doverosa riprovazione di ogni esaltata ideologia dell’omosessualità. La parola di Dio – come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo – ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione ideologica e culturale in questa materia: tale aberrazione, si afferma, è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e del rifiuto di dargli la gloria dovuta. L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: « Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata . Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti » (Romani 1, 21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: « Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra di loro i propri corpi » (Romani 1, 24). E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’Apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti: « Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne » (Romani 1, 26-28). Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando « gli autori di tali cose… non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa » (Romani 1, 32). È una pagina del Libro ispirato che nessuna autorità umana può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non « politicamente corretti ». Dobbiamo anzi far notare la singolare attualità di questo insegnamento della divina Rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nella vicenda culturale del mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli: l’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente la « morte di Dio » – ha avuto come conseguenza e quasi come intrinseca punizione un dilagare di un’ideologia sessuale aberrante, ignota, nella sua arroganza, alle epoche precedenti.

Il pensiero di Cristo

Gesù, generalmente parlando, ha toccato poche volte queste tematiche: e sempre con uno stile sobrio, però al tempo stesso inequivocabile e risoluto. In materia di morale sessuale, egli si rivela in contrasto non solo con le abitudini dei pagani, ma anche con qualche persuasione diffusa in Israele. Non è d’altra parte immaginabile che l’annuncio pasquale e la proposta della comunità cristiana, con la loro carica di novità e di non conformismo, non si attenessero pur su questo punto alla piena fedeltà al Vangelo e non si siano proposti la perfetta consonanza col magistero del Signore, custodito e trasmesso dalla predicazione degli Apostoli. Gesù non dubita di annoverare anche le violazioni della castità tra i comportamenti che attentano alla dignità dell’uomo e alla sua purezza interiore, precisando inoltre che la corruzione del « cuore » (cioè del mondo interiore) è la fonte e la misura della responsabilità (e quindi della colpevolezza) delle azioni perpetrate: « Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie. Questo rende impuro l’uomo » (Matteo 15, 19-20). Addirittura Gesù ritiene – ed è tipico della sua antropologia – che la castità sia violata già nel segreto dell’animo quando è accolto il desiderio riprovevole, prima che ci sia la consumazione dell’atto peccaminoso: « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore » (Matteo 5, 28).

Un problema rabbinico circa il matrimonio

« È lecito a un uomo ripudiare la propria donna (gynàica) per qualsiasi motivo? » (Matteo 19, 3). La questione che i farisei propongono a Gesù aveva un riferimento preciso: si trattava di una questione che divideva le correnti rabbiniche dell’epoca. La scuola di Shammai riteneva che l’unica ragione valida per procedere al ripudio fosse il cattivo comportamento morale, cioè la scostumatezza della moglie. Per la scuola di Hillel invece bastava qualche inconveniente nella vita coniugalee: anche solo l’abitudine a salare troppo i cibi o l’aver lasciato bruciare la pietanza. Proseguendo su tale linea permissiva, Rabbi Aquiba poche decine d’anni dopo arriverà a ritenere ragione sufficiente la possibilità da parte del marito di sposare una donna più bella.

La risposta di Gesù

Gesù non si lascia impigliare nelle controversie dei dottori della legge né si dimostra condizionato dai comportamenti diffusi tra gli ebrei. Il suo è un colpo d’ala: la sua risposta è che bisogna rifarsi al disegno originario di Dio: « In principio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due diventeranno una carne sola. Dunque l’uomo non dividaquello che Dio ha congiunto » (Marco 10,6-9).
« In principio »: questo « principio » nel quale è stata ideata e decisa la creazione (cfr. Genesi 1, 1: en archè) include già la prospettiva cristologica ed ecclesiologica, secondo la quale la realtà nuziale è segno e figura dell’unione che lega il Redentore all’umanità rinnovata, e la stessa distinzione dei sessi è allusione alla dialettica e alla comunione tra Cristo e la Chiesa. È una visione così sublime e inattesa del matrimonio che i discepoli, trasecolati, si rifugiano nel sarcasmo: « Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi » (Matteo 19, 10). Notiamo che la redazione di Marco dell’episodio suppone l’idea della sostanziale parità tra l’uomo e la donna: parità che non compariva nella disposizione mosaica:
« Chi ripudia la propria donna e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio » (Marco 10, 11-12). Dal canto suo il vangelo di Luca ci ha conservato un altro detto di Gesù che ci offre un’ulteriore precisazione: « Chiunque ripudia la propria donna e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio » (Luca 16, 18). Come si vede, la seconda parte della frase previene e scarta anche l’ipotesi che l’indissolubilità non valga più dopo che il vincolo sia stato rotto, come qualcuno ha pensato. E sconfesssa l’ipotesi che la legge dell’indissolubilità possa essere eccezionalmente violata, quando si tratti del coniuge ripudiato, non responsabile della rottura.

L’inciso di Matteo

La redazione di Matteo aggiunge un inciso che non è di facile comprensione: « Chiunque ripudia la propria donna (ten ghynàica autoù), tranne in caso di ‘pornèia’, e ne sposa un’altra, commette adulterio » (Matteo 19, 9). Che cos’è questa « pornèia »? Non può voler dire un cattivo comportamento morale della moglie, perché in tal caso Gesù si assimilerebbe alla scuola di Shammai (mentre la reazione dei discepoli si spiega solo con l’assoluta novità della sentenza di Cristo). D’altra parte, la perfetta concordanza di Marco, Luca e Paolo ci assicura che Gesù ritiene assoluto il principio dell’indissolubilità. La soluzione più semplice è che qui si parli di una convivenza non sponsale con una donna; convivenza che non solo si può ma anche si deve interrompere. Così interpreta anche la Bibbia della conferenza episcopale italiana, che traduce: « Se non in caso di unione illegittima ».

L’ideale e la misericordia

Gesù annuncia senza attenuazioni e senza sconti lo splendente disegno originario del Padre sulla donna e sull’uomo; e perciò stesso ammonisce tutti a non deturpare quell’ideale di una vita casta e santa che ci è divinamente proposto. Però guarda sempre con simpatia e comprensione agli uomini che di fatto hanno avvilito quell’ideale con le loro prevaricazioni. I peccatori sono da lui trattati con affettuosa cordialità. Non li ritiene estranei e lontani; piuttosto li considera la ragione della sua venuta nel mondo e i naturali destinatari della sua missione: « Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori » (Matteo 9, 13; Marco 2, 17; Luca 5, 32). Con questo atteggiamento benevolo riesce a salvare l’adultera dalla lapidazione (Giovanni 8, 1-11). Difende cavallerescamente una donna che nella narrazione è qualificata « una peccatrice di quella città » (Luca 7, 37). Avvia con la samaritana dalle molte esperienze un colloquio garbato e schietto che conquista il suo cuore (Giovanni 4, 5-42). La sua non è la misericordia pparente del permissivismo: è la misericordia salvatrice che, senza disprezzare e umiliare, sospinge al ravvedimento e alla rinascita interiore.

Il « mistero grande »

La trascendente visione cristiana del rapporto uomo-donna – e in essa la precisa ed esigente proposta di vita casta secondo la condizione propria di ciascuno – trova il suo fondamento e la sua ispirazione nel convincimento che quel rapporto è immagine della connessione sponsale che lega Cristo alla Chiesa. È una lezione di « teologia anagogica » (che cioè si lascia illuminare dall’alto) impartitaci da san Paolo nella lettera agli Efesini. Nella reciproca donazione dei coniugi vive un « mistero grande » [...] che il Padre ha disegnato prima di tutti i secoli: « Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa » (Efesini 5, 32). L’amore del marito per la moglie evoca agli occhi dell’Apostolo l’amore di Cristo per la Chiesa: un amore che salva che purifica e santifica. Il successivo magistero della Chiesa parlerà del matrimonio come di un « sacramento »: un sacramento che, essendo allusione e figura del vincolo che fa del Redentore e dell’umanità redenta « una sola carne », attua negli sposi una speciale partecipazione a quell’evento, [...] entro il quale gli atti reciproci di donazione personale diventano occasione e veicolo di continua grazia. Nessuna filosofia e nessuna religione è mai arrivata a esaltare così la vita sessuale; naturalmente la vita sessuale condotta secondo il piano originario di Dio.

Una sfida sempre attuale

La castità annunciata e proposta dalla predicazione apostolica è stata senza dubbio una sfida alla mentalità e al comportamento dell’umanità di quei tempi. Ed è una sfida che anche oggi conserva intatta la sua attualità. Sotto un certo profilo anzi è diventata più necessaria e più urgente. La nostra epoca è dominata e afflitta da una specie di pansessualismo. Il sesso è continuamente chiamato in causa: non solo negli enunciati sociali e psicologici, non solo nelle molteplici espressioni di arte e di cultura, non solo negli spettacoli e negli intrattenimenti; persino nei messaggi pubblicitari non si può fare a meno di evocarlo e di alludervi. Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni. E con la loro tenacia e la loro intraprendenza raggiungono senza volerlo il malinconico traguardo di una oggettiva comicità.

Realismo evangelico

Senza dubbio agli occhi del mondo la visione cristiana appare fatalmente astratta e utopistica: nobile e bella – si dirà – ma troppo lontana dalla realtà effettuale. A onor del vero quest’ideale di castità è proprio impossibile e vano per chi non vive con pienezza la vita battesimale, con i suoi appuntamenti sacramentali, con la contemplazione assidua dell’evento pasquale, con il giusto spazio dedicato alla preghiera, con la decisa e gioiosa condivisione dell’esperienza ecclesiale. La ragione sta nel fatto che la castità non è virtù che si possa inseguire e acquisire da sola, fuori dal contesto di un’integrale sequela di Cristo. Invece nel contesto di un’integrale sequela di Cristo tutto diventa possibile, facile, gioioso: « Tutto posso in colui che mi dà la forza » (Filippesi 4, 13).

Publié dans:Sandro Magister |on 26 novembre, 2008 |Pas de commentaires »
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