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di Sandro Magister: Un anno speciale per rimettere i preti a nuovo

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Un anno speciale per rimettere i preti a nuovo

L’ha indetto Benedetto XVI per rafforzare l’identità spirituale del clero e anche per ripulirlo dalla « sporcizia ». I Legionari di Cristo nell’occhio del ciclone. Sui seminari, l’impietosa diagnosi del segretario della congregazione per l’educazione cattolica

di Sandro Magister

ROMA, 10 giugno 2009 – Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.

Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.

La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione « del Concilio ». Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l’applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d’anime.

Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento. Ne è stato un modello il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.

Negli ultimi decenni, però, l’identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.

L’intento dell’Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria. Ciò comporta anche un’energica opera di eliminazione della « sporcizia » che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.

A questo proposito va notata una coincidenza. Con l’inizio dell’Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo. Questa congregazione si distingue per l’abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti. Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale – venuta definitivamente allo scoperto – è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.

Ricostruire l’identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione. Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l’identità dei nuovi preti.

La congregazione del clero non si occupa dei seminari. Prende cura di essi la congregazione per l’educazione cattolica.

Anche quest’ultima, quindi, dovrà operare perché l’Anno Sacerdotale porti frutto. Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.

Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers. Oltre che segretario della congregazione per l’educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio. È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d’Aquino.

Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale. È di una franchezza non comune. Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l’impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.

Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.

Il Catechismo « ad parochos » fu un’altra delle pietre miliari della riforma tridentina. Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.

Ecco qui di seguito il discorso del segretario della congregazione per l’educazione cattolica ai rettori dei seminari pontifici, reso pubblico da « L’Osservatore Romano » del 3 giugno 2009:

Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa

di Jean-Louis Bruguès

È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione. Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre. Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.

La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all’insieme delle società moderne. Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all’altro.

In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell’appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata. Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l’espressione pubblica delle convinzioni religiose: l’abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.

Da una decina d’anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante. Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all’europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l’eccezione. Ora invece sono numerosi coloro i quali – Jürgen Habermas per esempio – pensano che è vero l’opposto e che anche nell’Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.

RICOMINCIARE DAL CATECHISMO

Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana. I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi. Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora. Ne menzionerò due.

Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo – un anno o più – di formazione iniziale, di « ricupero », di tipo catechetico e culturale al tempo stesso. I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese. Personalmente, penso a un intero anno dedicato all’assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.

In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione. I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere. Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa. Si può lavorare con loro veramente bene. La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori. È una fortuna. Ci troviamo quindi a costruire su una « tabula rasa ». Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all’essenziale.

Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico – come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico – e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.

Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento. Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d’alto livello. Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti. Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato. Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi. Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un’accumulazione dei corsi e un’impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione?

Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l’estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l’architettura piuttosto che la decorazione. Altrettante ragioni mi portano a credere che l’apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia. Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica – il che è una fortuna – ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.

DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA

In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future. È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione. Certo, il passaggio da una generazione all’altra ha sempre posto dei problemi d’adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.

Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio. Essa ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta. Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza. Sono dunque arrivati a interpretare l’ »apertura al mondo » invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.

Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un’autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.

Gli esempi abbondano. I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall’opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d’ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una « Chiesa di puri », una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera?

L’impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese. Potremmo avanzare l’ipotesi che siamo passati da una Chiesa di « appartenenza », nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di « convinzione », in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine. Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti. Le presenze sono diminuite a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari. Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.

I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch’essi a questa Chiesa di « convinzione ». Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie. Sono cresciuti spesso in famiglie divise o « scoppiate », il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d’immaturità affettiva. L’ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno). Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi. A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.

La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale. La mia generazione, insisto, ha identificato l’apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino. I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l’hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.

ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE?

Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di « composizione » e una corrente di « contestazione ».

La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.

La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze. Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate. Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.

La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.

Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto – ma non esclusivamente – sotto l’influenza di Giovanni Paolo II. La corrente della « composizione » è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa. La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante. Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.

Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.

Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione. Alcune giocano la carta dell’adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell’aspetto della dottrina o della morale cattolica. Altre, d’ispirazione più recente, mettono l’accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all’evangelizzazione. Lo stesso vale per le scuole cattoliche.

E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.

I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane. I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.

Essi sono portatori d’una preoccupazione d’identità  (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come « identitari »): identità cristiana – in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? – e identità del sacerdote, mentre l’identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.

Come favorire un’armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d’ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d’anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un « ritorno al passato »; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l’impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.

Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani – oppure intere comunità parrocchiali – provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.

Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari. Più che il passaggio da una generazione ad un’altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un’interpretazione del Concilio Vaticano II ad un’altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro. La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.

Publié dans:Sandro Magister |on 12 juin, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: La rivincita della preghiera, in un mondo che la vuole mettere al bando

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La rivincita della preghiera, in un mondo che la vuole mettere al bando

Da Montecassino il papa rilancia il motto di san Benedetto: « Ora et labora ». E il cardinale Ruini spiega come il pregare sia la sicura risposta alle moderne crisi di fede. Se ne è discusso anche in un Festival della teologia

di Sandro Magister

ROMA, 29 maggio 2009 – Nella visita che ha compiuto all’abbazia di Montecassino la domenica dell’Ascensione, Benedetto XVI ha rilanciato il celebre motto del santo da cui ha preso il nome: « Ora et labora et lege ». Lavora e studia, ma prima di tutto prega.

E ha legato questo motto a quell’altro che il papa ha posto più volte all’origine dell’intera civiltà occidentale: « quaerere Deum », ricercare Dio.

Nella visione di Benedetto XVI, il pregare Dio non è una parte ma il tutto della vocazione dell’uomo. La tesi può apparire audace, in un’epoca in cui la preghiera è spesso declassata, contestata, messa al bando. Ma trova conforto in segnali di rinnovata attenzione a questo atto capitale del vivere cristiano, e non solo.

***

Ad esempio, negli stessi giorni della visita a Montecassino di papa Joseph Ratzinger, più a nord, a Bologna, in una delle città più secolarizzate d’Italia, la festa della Madonna di San Luca ha visto accorrere alla preghiera una folla molto più numerosa che in passato. Così come poche settimane prima, nella stessa città, l’immensa basilica di San Petronio non era bastata a contenere la gran massa dei giovani di una veglia di preghiera, che riempì anche la piazza antistante.

Ancora più a nord, sempre pochi giorni fa, a Piacenza sulle rive del Po, uomini di Chiesa, teologi, filosofi ed artisti, credenti e non credenti, hanno scelto di confrontarsi proprio su questo tema: « Preghiera ed esperienze di Dio ».

L’incontro, organizzato come un « Festival della teologia », è iniziato e terminato il 22 e 24 maggio con due « lezioni magistrali »: la prima del cardinale Camillo Ruini, la seconda del più celebre dei teologi evangelici tedeschi, Jürgen Moltmann.

Tra gli altri, vi hanno preso la parola Philippe Némo e Mario Botta, PierAngelo Sequeri ed Elmar Salmann, Massimo Cacciari e Guido Ceronetti.

La lezione del cardinale Ruini è riprodotta qui sotto, con sottotitoli redazionali.

Di particolare interesse sono i passaggi nei quali egli analizza le obiezioni che la cultura di oggi mette in opera contro la preghiera e, viceversa, il senso profondo della preghiera come « caso serio » sul quale la fede cristiana sta o cade.

L’orizzonte della preghiera: in cammino verso Dio

di Camillo Ruini

Iniziamo da una classica definizione di San Tommaso d’Aquino: « Oratio est proprie religionis actus », la preghiera è propriamente l’atto della religione (« Summa Theologiae » II-II, q. 83, a. 3). Tale definizione viene comunemente riconosciuta anche oggi come universalmente valida nell’ambito della storia delle religioni, in termini paradossalmente più ampi dello stesso riconoscimento del rapporto della religione con un Dio personale [...].

Il buddismo rimane il caso più rilevante di una grande religione che non lascia spazio a un Dio personale ma riconduce tutto alla non distinzione del « Nulla », nella quale si dissolve ogni « io » e ogni « tu », compreso un presunto « Tu » divino.

In questo caso la preghiera cambia, per così dire, la sua natura e diventa una « mistica » (in senso assai diverso dalla mistica cristiana), cioè il cammino che conduce dalla distinzione all’indistinzione e finalmente si presenta come l’esperienza stessa dell’indistinzione, che costituirebbe la realtà suprema e decisiva, l’unica realmente vincolante, nell’ambito del religioso

Nella prospettiva della storia e della fenomenologia delle religioni non sembra però questo l’approccio alla preghiera spontaneo e originario, che è invece quello di rivolgersi al divino come a un « Tu », sia pure radicalmente superiore, misterioso e ineffabile, con il quale comunque possiamo entrare in rapporto – ed esso con noi – per rendercelo propizio ed essere protetti dalle minacce e insidie della vita, ma anche per onorarlo nella sua grandezza e riconoscere il nostro debito radicale verso di lui, ossia per adorarlo.

La funzione della preghiera consiste appunto nel rendere possibile e realizzare questo misterioso rapporto. Il mito, o meglio i miti, anzitutto i miti delle origini, possono essere considerati come il contesto esplicativo e interpretativo nel quale l’umanità ha strutturato e giustificato per molti millenni un tale rapporto con il divino.

LA CRITICA GRECA AL MITO

Già cinque o sei secoli prima di Cristo si è sviluppata però, in Grecia, una critica razionale e filosofica del mito, che tende a sostituirlo con il « logos », il discorso razionale, quanto alla conoscenza della realtà di noi stessi e del mondo, pur lasciandogli uno spazio per guidare la vita di coloro che non sono in grado di avvalersi pienamente del « logos », e anche – in parte – per attingere quelle realtà più alte alle quali il « logos » dell’uomo non può giungere con certezza.

La filosofia greca non è comunque affatto « atea », almeno nelle sue forme prevalenti e più significative. Al contrario, qualifica se stessa anche come « teologia »: una teologia però non più mitica ma « fisica », naturale, nel senso che essa coglie razionalmente la vera natura del divino. Sarebbe troppo sbrigativo affermare che questa teologia filosofica sia propriamente monoteista, ma essa concepisce comunque la realtà suprema come unitaria, ossia come l’Uno al vertice della realtà. Il problema è piuttosto che questo Uno o Assoluto come tale non è da noi « interpellabile »: proprio per la sua trascendente assolutezza non possiamo entrare in rapporto con lui e quindi la preghiera, atto e atteggiamento fondamentale dell’uomo religioso, non può rivolgersi a lui. Essa può trovare un significato e una giustificazione solo su un piano diverso, in rapporto ai nostri bisogni esistenziali e sociali, rivolgendosi in concreto a quegli Dei che sono in realtà soltanto immagini dell’Assoluto, costruite per noi e in vista del nostro bisogno.

È interessante notare che nella stessa epoca, il VI secolo a.C., in un’area geografica e culturale ben diversa nasceva il buddismo, il quale può anch’esso intendersi come una critica delle precedenti forme di religione mitica e ugualmente non lascia spazio alla preghiera come rapporto personale con un Tu divino.

LA RIVELAZIONE BIBLICA

Ma, sempre nello stesso periodo, una critica altrettanto radicale del politeismo è stata sviluppata dai profeti di Israele, in particolare dal Secondo Isaia (Is 40-55), in rapporto con la fine della monarchia davidica e l’esilio in Babilonia. Si tratta però di una critica profondamente diversa, non basata sulla ragione umana come quella della filosofica greca, e nemmeno sull’esperienza mistica come quella del buddismo, bensì sulla diretta rivelazione dell’unico Dio che tramite il profeta si rivolge al popolo di Israele.

La fede in Jahwè unico vero Dio e il rapporto esclusivo con lui hanno certamente radici molto più antiche, avendo a che fare con l’origine stessa di Israele come popolo, ma proprio la gravissima crisi costituita dall’esilio in Babilonia e dalla fine dell’indipendenza nazionale, che di per sé tendeva a mettere in discussione la potenza del Dio d’Israele – sconfitto, secondo la mentalità di quel tempo, dagli Dei di Babilonia –, è stata invece l’occasione per reagire sviluppando e approfondendo maggiormente la fede in lui come Creatore dell’universo e unico vero Dio di tutte le nazioni.

Possiamo dire inoltre che solo in Israele incontriamo il monoteismo in senso proprio e pieno, la cui essenza consiste non semplicemente nell’affermazione dell’unicità di un Essere supremo ma anche nella sua « interpellabilità », nel poterci rapportare a lui e pregarlo, e nella conseguente esclusione del culto di altre divinità.

Così la rivelazione biblica superava fin dall’inizio quella separazione che ha travagliato la religione nell’antichità classica, riunificando nell’unico Dio che si rivela a noi l’Essere assoluto a cui erano giunti in qualche modo i filosofi e quelle divinità a cui si poteva rendere culto, ma che ormai erano state ridotte dalla critica filosofica a un mito privo di verità e di sostanza.

In una prospettiva storico-religiosa un divorzio per certi aspetti simile sembra essere avvenuto già molti millenni prima: infatti la credenza in un Essere supremo si riscontra praticamente presso tutti i popoli e i miti arcaici, ma progressivamente questo Dio supremo sembra allontanarsi dal mondo e dagli uomini, disinteressarsi di essi e abbandonare il proprio potere a divinità inferiori, divenendo così un « Deus otiosus », un Dio ozioso, come tale sempre meno oggetto di preghiera. La rivelazione biblica si pone dunque come una svolta grandiosa e decisiva nella storia della religione e delle religioni: il Dio supremo ora prende l’iniziativa, irrompe sulla scena del mondo e nella vita dell’uomo, presentandosi come il « Dio geloso », che vuole unicamente per sé la preghiera, il culto e l’adorazione, perché egli soltanto è Dio e tutto il resto è sua creatura.

Nell’Antico Testamento alla base della preghiera sta pertanto l’iniziativa di Dio che parla all’uomo, il quale a sua volta risponde: « Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta », dice il giovane Samuele (1 Sam 3, 9). La preghiera è dunque un presentarsi al cospetto del Dio vivo e la sua ragione fondamentale è l’alleanza che Dio ha concluso con il suo popolo e che richiede la coerenza della vita, il fedele adempimento della legge che Dio ha donato. Le dimensioni etica e comunitaria stanno pertanto in primo piano: quando però, come ho accennato, la comunità nazionale entra in crisi – a causa della sua pervicace infedeltà all’alleanza – assume maggior rilievo il carattere personale della preghiera, come si può vedere in molti salmi.

LA PREGHIERA DI GESÙ

Un’ulteriore svolta nella preghiera, anzi la svolta definitiva, si ha con Gesù di Nazaret e anzitutto con la sua personale preghiera, nella quale si esprime il suo rapporto con Dio Padre: un rapporto unico che ci fa penetrare in qualche modo nel mistero di Dio perché l’uomo Gesù di Nazaret è e sa di essere il Figlio totalmente rivolto verso il Padre, il Figlio il cui cibo è fare la volontà del Padre (Gv 4, 34), il Figlio che è veramente conosciuto soltanto dal Padre e che a sua volta è l’unico a conoscere davvero il Padre (Mt 11, 27), in ultima analisi il Figlio che nell’unità dell’amore reciproco è una cosa sola con il Padre (Gv 10, 30). La Chiesa primitiva ha conservato nella sua forma originale aramaica la parola chiave con cui Gesù si rivolgeva a Dio nella preghiera, « Abbà », che significa Padre con una nota di profonda intimità unita a grande rispetto e dedizione.

Gesù stesso ha introdotto i suoi discepoli nella propria preghiera e nel proprio rapporto con il Padre, fino ad insegnare loro quella preghiera – il « Padre nostro » – che resta per sempre la preghiera fondamentale e caratterizzante del cristiano.

Di essa ci limiteremo ad osservare che le sue prime tre domande riguardano Dio stesso, il riconoscimento e l’adorazione che, come figli, gli dobbiamo, mentre le altre quattro riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Nel Nuovo Testamento come nell’Antico la preghiera implica ed esige dunque la coerenza della vita, in concreto l’unità tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, unità che nel Nuovo Testamento viene radicalizzata: « tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me » (Mt 25, 40). Come ha scritto Benedetto XVI nel suo « Gesù di Nazaret »: « Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri, e di aprirci a loro » (p. 159).

LA PREGHIERA DELLA CHIESA

Nella storia e nella vita della Chiesa la preghiera ha occupato e occupa un posto di primo piano, che diventa pienamente visibile solo a chi ne fa esperienza personale, o ne studia direttamente i documenti storici.

Questa preghiera si struttura anzitutto come liturgia, preghiera pubblica e comunitaria della Chiesa che unita a Gesù Cristo si rivolge nello Spirito Santo a Dio Padre. Qui emerge in tutta la sua pregnanza il carattere specificamente trinitario della preghiera cristiana, come partecipazione e immissione nel rapporto che Cristo ha con Dio Padre nel vincolo di amore dello Spirito Santo. Siamo immersi, o innalzati, cioè in una vita che non è la nostra di uomini, di creature, ma è la vita di Dio, e il Dio a cui ci rivolgiamo nella liturgia non è un Dio generico, e nemmeno propriamente il Dio uno e trino, ma il Dio Padre di Gesù Cristo e in Cristo Padre di tutti noi.

Nella preghiera cristiana, inoltre, la dimensione pubblica e comunitaria e quella intima e personale rimandano l’una all’altra e crescono insieme: il « noi » della preghiera della Chiesa si accompagna all’ascolto di quel Dio che vede nel segreto e che siamo chiamati ad incontrare nel chiuso della nostra camera e nel segreto del nostro cuore (Mt 6, 5-6). Nel corso dei secoli questo carattere personale della preghiera ha trovato molte espressioni, non di rado sublimi, che restano un tesoro prezioso, come rimangono anche preziose le umili espressioni della pietà popolare.

Un’ulteriore grande caratteristica della preghiera cristiana riguarda la sua dimensione « mistica ». Non mi riferisco soltanto alle figure dei grandi mistici di cui il cristianesimo è ricco in maniera eccezionale, ma più radicalmente al carattere specifico della mistica cristiana, come lo possiamo già individuare negli scritti degli apostoli Paolo e Giovanni.

Essa si collega direttamente a quel che abbiamo accennato della preghiera di Gesù e del suo rapporto con Dio Padre. La formula giovannea del reciproco « rimanere in », per cui come il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre, così anche i credenti sono chiamati a rimanere nel Padre e nel Figlio, mentre il Padre e il Figlio rimangono in loro (Gv 17, 21), esprime in maniera insuperabile quell’unione con Dio che è il cuore di ogni mistica autentica.

Qui però l’unione con Dio è conseguente al dono di sé che Cristo ha compiuto storicamente sulla croce ed esige la concretezza etica dell’amore operoso dei fratelli: « Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi… Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede » (1 Gv 4, 12.20).

Non è dunque una mistica chiusa in se stessa. Al contrario, è calata dentro la storia ed esige la conversione, il cambiamento della vita.

LE OBIEZIONI MODERNE

A questo punto dobbiamo però prendere in considerazione le molteplici difficoltà che a partire dall’epoca moderna ha incontrato la preghiera, specialmente nei paesi di religione cristiana. Alcune di esse hanno a che fare con le idee e le convinzioni e per lungo tempo hanno avuto una minore diffusione a livello popolare. Sono fondamentalmente di tre tipi.

Le prime difficoltà nascono dalla negazione dell’esistenza di Dio, o almeno da una posizione agnostica: si pensi ad esempio al materialismo già presente in alcuni filoni dell’illuminismo settecentesco, poi a Feuerbach e al marxismo. Ma anche le forme di panteismo ripresentatesi già a partire da Spinoza non lasciano un reale spazio alla preghiera.

Il secondo tipo di difficoltà non mette in discussione Dio, cioè il « Tu » a cui la preghiera si rivolge, ma lo considera inaccessibile a un rapporto personale con noi. Ad esempio Kant, che pure conserva in buona parte il concetto cristiano di Dio, considera la preghiera una « illusione superstiziosa » (« La religione nei limiti della sola ragione », a cura di M. M. Olivetti, 1993, p. 217), e con lui parecchi altri, che ritengono vera e autentica soltanto una religione naturale e comune a tutti gli uomini, non una religione rivelata.

Arriviamo così alla terza causa di difficoltà, che consiste nella contestazione del cristianesimo. Dapprima essa ha riguardato piuttosto la Chiesa come istituzione e il suo potere sociale, ma poi si è estesa viepiù a mettere in discussione gli elementi centrali della fede, come la divinità di Cristo e la possibilità stessa di un intervento di Dio nella storia.

Al riguardo pensiamo spontaneamente all’illuminismo, soprattutto francese, ma forse più radicale e più efficace storicamente è stata la critica al cristianesimo condotta in Germania lungo il secolo XIX, come mostra assai bene il libro di K. Löwith « Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX ». In particolare questa critica ha coinvolto l’attendibilità storica della figura di Cristo che ci è presentata dai Vangeli.

Si comprende facilmente quanto tutto ciò abbia potuto e possa ostacolare quel rapporto fiducioso e filiale con Gesù Cristo e con Dio Padre che è proprio della preghiera cristiana.

LA SFIDA DELLA SECOLARIZZAZIONE

Le difficoltà che hanno avuto più ampio impatto sulla gente comune dipendono però non da idee e teorie, ma dagli enormi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi secoli, a un ritmo sempre più incalzante, quanto alle condizioni concrete della nostra vita.

Mi riferisco alla rivoluzione industriale e poi alle grandi trasformazioni successive, che hanno il loro motore nello sviluppo delle scienze moderne e delle tecnologie ad esse collegate. Il mondo che ne deriva e di cui abbiamo esperienza diretta si presenta a noi sempre più come opera dell’uomo e sempre meno come « natura », che rimanda al suo Creatore.

Il processo di cambiamento è anzi ancora più vasto, perché abbraccia progressivamente i rapporti sociali e le istituzioni, le scienze e in genere l’uso pubblico della ragione. Essi vengono ricondotti esclusivamente all’intelligenza e alla libertà dell’uomo, sottraendoli all’influsso di Dio e della religione.

Questo macro-processo, che viene denominato « secolarizzazione », ha trovato la sua espressione classica già nel 1625 con la formula coniata da un grande giurista olandese, personalmente molto credente, Ugo Grozio: « etsi Deus non daretur », anche se Dio non esistesse.

Il senso della formula è che il diritto naturale, e in genere gli ordinamenti del mondo, mantengono la loro validità anche nell’ipotesi – per Grozio assolutamente empia – che Dio non esistesse. La conseguenza pratica è la riduzione tendenziale del rapporto con Dio al solo ambito personale e privato, ciò che oggi viene teorizzato attraverso un’interpretazione restrittiva del concetto di « laicità ».

Per essere concreti dobbiamo aggiungere il grande e quasi soffocante influsso negativo che esercitano il frastuono quotidiano, l’idolatria del denaro e del successo, l’ostentazione della sessualità fine a se stessa. Così la preghiera rischia di essere soffocata non solo a livello pubblico ma anche all’interno del nostro cuore.

Nel dinamismo della storia questi diversi fattori necessariamente interagiscono tra loro e a volte confluiscono nel tentativo di eliminare la religione e la preghiera dall’orizzonte dell’umanità. I due maggiori tentativi di questo genere appartengono l’uno ad un passato recente, che però in alcune parti del mondo è ancora fortemente operante, l’altro agli anni che stiamo vivendo.

Il primo è l’ateismo di stato promosso sistematicamente dai regimi comunisti. Si osserva giustamente che questo tentativo è fallito, poiché la fede e la preghiera sono sopravvissute al suo attacco ed anzi, per certi aspetti, mostrano una nuova vitalità nei paesi che sono passati attraverso quell’esperienza. Questa è però soltanto una parte del discorso: i danni e le distruzioni arrecati hanno lasciato infatti conseguenze profonde, quanto alla consistenza umana e morale di tante persone e di intere società ed anche, specificamente, quanto al loro radicamento nel cristianesimo.

Oggi comunque la nostra attenzione deve rivolgersi soprattutto a un fenomeno molto più complesso, sottile ed impalpabile dell’ateismo di stato.

Si tratta del tentativo di presentare la religione e la preghiera da una parte come qualcosa che mancherebbe di fondamento oggettivo, perché Dio non esiste, o comunque non è da noi conoscibile, o quanto meno non ha un carattere personale che lo renda da noi interpellabile. Dall’altra parte, invece, la religione e la preghiera si spiegherebbero assai bene come una nostra funzione psicologica, che si radica in determinate aree del nostro cervello, cerca di compensare i nostri bisogni di protezione e di sicurezza e può forse avere svolto nel passato un ruolo positivo per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie.

Noto per inciso che in questo modo si trascura un carattere fondamentale dell’esperienza religiosa, come di quella morale: quando essa è autentica si rapporta all’Assoluto e quindi non può essere totalmente spiegata in funzione di scopi relativi e contingenti senza essere misconosciuta e negata nella sua vera essenza. Altri scopi la preghiera e l’esperienza religiosa effettivamente se li propongono, in modo consapevole o inconsapevole, e possono contribuire a raggiungerli, ma solo secondo la logica del « cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta » (Mt 6, 33).

In concreto, l’influsso della religione e in particolare della fede in un unico Dio oggi viene spesso considerato nefasto.

Un suo ruolo pubblico tenderebbe infatti a comprimere la libertà dei comportamenti e anche a contrapporre tra loro gli uomini e i popoli a seconda delle diverse fedi che professano, fino a diventare matrice di violenza.

Anche sul piano personale la religione sarebbe causa d’infelicità, provocando sensi di colpa e reprimendo la gioia di vivere.

LA PREGHIERA COME CASO SERIO DELLA FEDE

Non è questa la sede per affrontare le molteplici problematiche che ostacolano l’esercizio della preghiera nel nostro tempo. È giusto riconoscere che esse non sono passate senza lasciar traccia e che molte persone, anche in qualche modo credenti, hanno smarrito il senso e il gusto della preghiera, oltre alla sua pratica: anche se poi, a volte, chiedono spontaneamente ad altri di pregare per loro, mostrando così che sono rimasti in loro almeno un piccolo apprezzamento e forse una qualche nostalgia della preghiera.

Non mancano tuttavia le testimonianze di un fenomeno inverso: aumentano le persone, in particolare tra i giovani, che hanno sete di preghiera e prendono decisioni coraggiose per soddisfarla. Una conferma viene dall’aumento, anche in Italia e in Europa, delle vocazioni contemplative, assai significativo in un periodo nel quale le vocazioni sacerdotali e religiose di vita attiva sono invece purtroppo in diminuzione in questi paesi.

In ogni caso, al di là dei numeri delle statistiche, e anche di tutte le difficoltà e i condizionamenti che possono provenire dal contesto socio-culturale, la preghiera, come la fede, è una scelta personale, nella quale l’ultima parola spetta alla nostra libertà. O meglio, in una visione cristiana, nella preghiera e nella fede entrano in gioco due libertà, quella di Dio per prima e subordinatamente quella dell’uomo.

Perciò, pur essendo utile e doveroso dissipare per quanto possibile le nebbie che attualmente rendono l’orizzonte della preghiera poco visibile nella nostra cultura, la cosa più importante è, per ciascuno di noi, la realtà e la qualità della nostra personale preghiera. Su questo piano personale, e quasi confidenziale, vorrei dirvi che nella mia esperienza l’esercizio stesso della preghiera fa crescere il desiderio di essa e rende la fede più forte, più sicura e gioiosa.

Nella sua « Introduzione alla fede », un piccolo libro di quasi quarant’anni fa, il teologo e ora cardinale Walter Kasper ha scritto alcune pagine sulla preghiera che rimangono di grande attualità. Il loro titolo è « La preghiera come caso serio della fede ». In essa, infatti, si esprime nella forma più concreta l’essenza dell’atto di fede e convergono anche, come in un punto cruciale, tutti gli odierni motivi di crisi della fede.

Nella preghiera, anzitutto, diciamo del « tu » a Dio: ma ha ancora senso, oggi, intendere Dio come persona? È questa la ragione di fondo per la quale, quaranta o cinquant’anni fa, dei teologi protestanti, e perfino il Vescovo anglicano John A. T. Robinson, nel libro « Honest to God », ritennero che la preghiera intesa in senso proprio dovesse ormai essere sostituita dalla dedizione al nostro prossimo.

In realtà, se c’è qualcosa di evidente in tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, è che Dio è sommamente intelligente e libero e prende egli stesso l’iniziativa di rivolgersi personalmente a noi. Non è dunque impersonale ma eminentemente personale, in un modo che certo supera infinitamente il modo umano di essere persona, così come ogni altra categoria può essere applicata a Dio soltanto superando infinitamente le misure dei nostri concetti.

Anzi, il Dio di Gesù Cristo è amore interpersonale, comunione di persone, e proprio così è perfetta unità. Ma anche sul piano razionale negare che Dio sia persona significa ridurlo ad un fondo oscuro e necessario dell’essere, e quindi paradossalmente significa negare la sua trascendenza, che si voleva invece salvaguardare. Per di più, se alla radice dell’essere non vi è un’intelligenza e una libertà, l’universo intero non può che essere cieca necessità e pertanto non può esservi spazio nemmeno per la nostra intelligenza, libertà e personalità.

Possiamo aggiungere, ancora con Walter Kasper, che la personalità di Dio e la sua distinzione dal mondo, costitutive della fede, hanno il loro corrispettivo pratico nella distinzione della preghiera dal resto della vita. Ciò non significa affatto che la preghiera sia indifferente alle nostre situazioni, bisogni ed attese, e nemmeno che tutta la nostra vita non debba essere orientata verso Dio e costituire in tal modo una forma di preghiera, ma che la preghiera stessa, per radicarsi in noi, ha necessità di una sua autonomia rispetto agli altri momenti della vita e ad ogni nostra azione.

Proprio nell’autonomia del suo rapportarsi direttamente a Dio la preghiera ci rende liberi e capaci di accogliere con sguardo purificato tutte le realtà della vita, per affrontarle non in un’ottica egoistica ma nella luce dell’amore misericordioso di Dio Padre. La preghiera è dunque la confutazione vissuta di un pensiero puramente immanente, che non sa più trovare la via verso il Creatore, come anche di un’idolatria dell’azione e dei suoi risultati, che non lascia spazio all’esperienza della gratuità e alla scoperta del lato più bello della vita.

Se da Dio passiamo all’altro polo della preghiera, cioè a noi stessi, il nostro tempo ci appare caratterizzato da una vera e propria esplosione della soggettività: ciascuno di noi vuol essere anzitutto se stesso e decidere da sé le strade della propria vita, anche se poi spesso finisce prigioniero di un ben orchestrato conformismo. La preghiera cristiana richiede l’apertura di questa nostra soggettività, anzitutto verso Dio, l’incontro con il quale allarga all’infinito i nostri orizzonti, risanandoli dal rischio di una falsa assolutizzazione di noi stessi.

Il fatto che Dio si sia rivelato a noi e, in Gesù Cristo, ci abbia mostrato il suo volto – come ha detto Gesù all’apostolo Filippo, « Chi ha visto me, ha visto il Padre » (Gv 14, 9) – dà poi alla nostra soggettività un punto di riferimento decisivo, che non può non rappresentare un preciso orientamento per chi al rivelarsi di Dio crede davvero.

Specialmente nella liturgia impariamo ad unire alla nostra soggettività ed interiorità il carattere oggettivo del credo e del culto della Chiesa. In realtà proprio questo è un punto cruciale, nella situazione attuale della fede: in ambito religioso l’esplosione della soggettività diventa infatti molto spesso un eclettismo, che prende indifferentemente dall’una o dall’altra tradizione religiosa e spirituale ciò che gli sembra meglio convenire ai bisogni e ai gusti delle singole persone. In questo modo però trascuriamo il dato fondamentale che Dio stesso, in Israele e poi pienamente in Cristo, si è a noi personalmente rivelato e quindi, magari senza rendercene conto, ci allontaniamo dalla nostra fede. Pregare alla maniera cristiana è dunque essenziale per essere e rimanere cristiani.

VERSO UNA NUOVA SPIRITUALITÀ CRISTIANA

Resta tuttavia davanti a noi, anzi dentro di noi, quella difficoltà fondamentale che nasce non da teorie o contestazioni, ma dal cambiamento della nostra situazione nel mondo, per il quale nelle circostanze normali della vita facciamo esperienza dei prodotti della nostra azione piuttosto che dell’opera di Dio creatore.

L’indicazione fondamentale per trovare in questa nuova situazione il senso e le vie della preghiera ce l’ha già offerta San Tommaso d’Aquino. Con la riscoperta di Aristotele in Occidente egli si era trovato a confrontarsi con l’apporto innovatore e possiamo dire « moderno » del pensiero aristotelico, che proponeva un’interpretazione a suo modo « scientifica » del mondo, cercando di spiegare i fenomeni attraverso cause intramondane e non mediante il riferimento ad influssi superiori e divini, come faceva invece l’interpretazione « religiosa » del mondo che aveva dominato fino ad allora il Medioevo.

San Tommaso accoglie pienamente questo nuovo approccio, ma non lo vede affatto come alternativo al precedente: propone infatti una « media via » (« Q. D. de Veritate », q. 6, a. 2) che individua uno spazio proprio e complementare per ciascuna delle due interpretazioni: i fenomeni del mondo hanno cioè le loro cause immanenti, da ricercare con metodo razionale, ma hanno anche, tutti insieme, la loro radice nell’azione creatrice di Dio, che riguarda non solo l’origine ma tutta l’esistenza e il divenire dell’universo, e dell’uomo in esso.

Oggi il quadro è certamente più complesso e la messa in pratica della « media via » è richiesta non solo ai filosofi, ma all’uomo comune, dato che abbiamo a che fare con ben altra « scienza » rispetto a quella di Aristotele: una scienza capace di trasformare il mondo, e in qualche misura anche noi stessi.

L’indicazione di fondo fornitaci da San Tommaso rimane però valida ed è stata ripresa dal Concilio Vaticano II, in particolare nella « Gaudium et spes », 36. Si tratta dunque di svilupparla e affinarla concettualmente, in rapporto alle realtà e alle scienze di oggi, e soprattutto di interiorizzarla e concretizzarla, facendone una linea guida del nostro personale rapporto con Dio, che in tal modo potrà inserirsi armonicamente nella nostra attuale esperienza di vita. C’è qui un compito assai impegnativo per la comunità ecclesiale che, come ha scritto Giovanni Paolo II nella « Novo millennio ineunte », 33, è chiamata ad essere « scuola di preghiera ».

Il Vaticano II (« Gaudium et spes » 37) ci ha offerto però anche un’indicazione ulteriore, che mi sembra particolarmente preziosa per vivere la nostra attuale situazione nel mondo con autentica gioia cristiana.

Da una parte cioè dobbiamo essere ben consapevoli che tutte le attività umane sono messe quotidianamente in pericolo dalla superbia e dall’amore disordinato di noi stessi e quindi hanno bisogno di essere purificate mediante la croce e la risurrezione di Cristo.

Ma dall’altra parte l’uomo redento da Cristo e divenuto per opera dello Spirito Santo « nuova creatura » (Gal 6, 15) può e deve amare le cose che Dio ha creato, guardandole e onorandole come se uscissero ora dalle sue mani. Di esse egli ringrazia il loro Autore e « usando e godendo » delle creature in povertà e in libertà di spirito, viene introdotto nel vero possesso del mondo, quasi niente abbia e tutto possegga (2 Cor 6, 10): « Tutto infatti è vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » (1 Cor 3, 22-23).

Il Concilio, per descrivere l’approccio cristiano alle cose del mondo, unisce al verbo « usare », che caratterizzava una spiritualità orientata alla fuga e al disprezzo del mondo, la parola « godere », che apre verso una nuova spiritualità cristiana, che potremmo dire specificamente moderna.

In essa trovano piena legittimità l’impegno nel mondo e la simpatia per il mondo, come via di accoglienza dell’amore di Dio per noi e di esercizio dell’amore verso Dio e verso il prossimo: senza giustificare per questo alcuna invadenza dello spirito del mondo nella Chiesa e nell’anima del cristiano, ma rimanendo sempre ancorati alla croce e risurrezione di Cristo, quindi alla rinuncia a noi stessi per poter fare posto all’amore di Dio e del prossimo.

Cari amici, chiediamo al Signore di poterci inoltrare fiduciosamente per questa strada.

Publié dans:Sandro Magister |on 1 juin, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Una settimana in Terra Santa. Diario di un pellegrino tedesco

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1338469

Una settimana in Terra Santa. Diario di un pellegrino tedesco

L’ulivo piantato assieme al presidente d’Israele, il memoriale della Shoah, il muro divisorio, il Santo Sepolcro… Le immagini salienti del viaggio di papa Joseph Ratzinger. Raccontate e interpretate da lui

di Sandro Magister

ROMA, 15 maggio 2009 – Aveva iniziato il suo viaggio dal Monte Nebo ricordando « l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo » ed esprimendo « il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei ».

L’ha concluso, venerdì 15 maggio all’aeroporto di Tel Aviv, di nuovo all’insegna di questa prossimità tra i due popoli.

Nel salutare il presidente di Israele prima di ripartire per Roma, Benedetto XVI ha tenuto a dire che l’ulivo piantato da loro assieme nel giardino del palazzo presidenziale è « l’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei ». La Chiesa delle genti è l’ulivo selvatico innestato sull’ulivo buono che è il popolo dell’alleanza. Si nutrono dalla stessa radice.

Curiosamente, nel suo discorso finale, questa dell’ulivo ebraico-cristiano è stata la prima immagine richiamata da Benedetto XVI nel rivelare i momenti del viaggio che hanno lasciato dentro di lui « le più forti impressioni ».

A questa immagine egli ha fatto seguire due altre istantanee salienti: il memoriale di Yad Vashem e il muro divisorio tra Israele e i Territori.

Entrambi questi momenti avevano procurato al papa delle critiche. A Yad Vashem lo si era rimproverato d’essere stato elusivo e freddo nel descrivere e condannare la Shoah, quando in realtà Benedetto XVI – come sempre impolitico – si era distaccato dalle formule usuali per svolgere piuttosto una riflessione originale e profonda sul « nome » di tutte le vittime di allora e di sempre, fin dal tempo di Abele. Nome indelebile non tanto perché impresso nella memoria degli uomini, ma perchè custodito in vita irrevocabilmente in Dio. Nome che nella Bibbia coincide con la persona e la missione di ogni creatura.

Su questo punto, nel discorso finale, papa Joseph Ratzinger ha implicitamente risposto ai critici ricordando la sua visita del 2006 ad Auschwitz, « dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio. Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato ».

Ma soprattutto il papa ha voluto incoraggiare a ricavare dalla riflessione sulla Shoah un motivo in più di rappacificazione tra cristiani ed ebrei, di nuovo ricorrendo al simbolo dell’ulivo: « Quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno ».

***

Quanto al muro che divide Israele dai Territori, la critica che molti ebrei fanno alla Santa Sede è di trascurarne la finalità di barriera di sicurezza, contro le incursioni terroristiche, e di parteggiare più per i palestinesi che per gli israeliani. Nel suo discorso finale, il papa si è così espresso in proposito:

« Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro. Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione ».

Dicendo così, Benedetto XVI ha riconosciuto da un lato le afflizioni che la barriera infligge al popolo palestinese ma dall’altro – esplicitamente – anche la sua natura di « strumento di sicurezza » per Israele. E ha invitato tutti, affinché questo muro possa cadere, a coniugare sicurezza e fiducia reciproca, come già aveva fatto lunedì 11 maggio a Gerusalemme, durante la visita « dell’ulivo » al palazzo presidenziale, riflettendo sul doppio significato della parola biblica « betah ».

Inoltre, sempre nel discorso finale all’aeroporto di Tel Aviv, nell’invocare la fine della guerra e del terrorismo e nell’auspicare una « two-State solution », il papa ha ribadito la necessità che « sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti ».

Con ciò papa Ratzinger è andato incontro alla richiesta che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu gli aveva fatto il giorno precedente a Nazaret, in un colloquio a porte chiuse: quella di condannare le posizioni negazioniste dell’Iran circa l’esistenza dello Stato d’Israele.

***

Qui di seguito è riprodotto il discorso con cui Benedetto XVI ha concluso il suo viaggio, venerdì 15 maggio.

Ma più sotto è riportato anche il discorso pronunciato la stessa mattina dal papa a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro, ultima tappa del suo pellegrinaggio nei Luoghi Santi.

Benedetto XVI l’ha pronunciato subito dopo aver pregato in ginocchio sulla tomba vuota di Gesù, quella della risurrezione.

E fin dall’inizio ha tenuto a proclamare che all’infuori di Gesù risorto « non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati ».

Queste parole non sono una citazione della « Dominus Iesus », la dichiarazione « sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa » emessa nel 2000 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e criticata anche da molti ebrei. Ma sono la predicazione di Pietro, nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli. E oggi del suo successore.

A tutti coloro che soffrono nella terra che fu di Gesù, siano essi ebrei o arabi, cristiani o musulmani, Benedetto XVI ha voluto dare questa consegna, davanti alla tomba vuota del Risorto:

« La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita. Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa ».

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Discorso di congedo all’aeroporto di Tel Aviv, 15 maggio 2009

di Benedetto XVI

Signor presidente, signor primo ministro, eccellenze, signore e signori, mentre mi dispongo a ritornare a Roma, vorrei condividere con voi alcune delle forti impressioni che il mio pellegrinaggio in Terra Santa ha lasciato dentro di me. [...]

Signor presidente, lei ed io abbiamo piantato un albero di ulivo nella sua residenza, nel giorno del mio arrivo in Israele. L’albero di ulivo, come ella sa, è un’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei. Nella sua lettera ai Romani, Paolo descrive come la Chiesa dei gentili sia come un germoglio di ulivo selvatico, innestato nell’albero di ulivo buono che è il popolo dell’alleanza (cfr. 11, 17-24). Traiamo il nostro nutrimento dalle medesime radici spirituali. Ci incontriamo come fratelli, fratelli che in certi momenti della storia comune hanno avuto un rapporto teso, ma sono adesso fermamente impegnati nella costruzione di ponti di duratura amicizia.

La cerimonia al palazzo presidenziale è stata seguita da uno dei momenti più solenni della mia permanenza in Israele – la mia visita al Memoriale dell’Olocausto a Yad Vashem, dove ho reso omaggio alle vittime della Shoah. Lì ho anche incontrato alcuni dei sopravvissuti. Quegli incontri profondamente commoventi hanno rinnovato ricordi della mia visita di tre anni fa al campo della morte di Auschwitz, dove così tanti ebrei – madri, padri, mariti, mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle, amici – furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e odio. Quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato. Al contrario, quelle buie memorie devono rafforzare la nostra determinazione ad avvicinarci ancor più gli uni agli altri come rami dello stesso ulivo, nutriti dalle stesse radici e uniti da amore fraterno.

Signor presidente, la ringrazio per il calore della sua ospitalità, molto apprezzata, e desidero che consti il fatto che sono venuto a visitare questo paese da amico degli israeliani, così come sono amico del popolo palestinese. Gli amici amano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e si affliggono profondamente nel vedere l’altro soffrire. Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può evitare di rattristarsi per la continua tensione fra i vostri due popoli. Nessun amico può fare a meno di piangere per le sofferenze e le perdite di vite umane che entrambi i popoli hanno subito negli ultimi sei decenni.

Mi consenta di rivolgere questo appello a tutto il popolo di queste terre: Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento. Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la « two-State solution », la soluzione di due Stati, divenga realtà e non rimanga un sogno. E che la pace possa diffondersi da queste terre; possano essere « luce per le nazioni » (Isaia 42, 6), recando speranza alle molte altre regioni che sono colpite da conflitti.

Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro. Mentre lo costeggiavo, ho pregato per un futuro in cui i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione, ma rispettandosi e fidandosi l’uno dell’altro, nella rinuncia ad ogni forma di violenza e di aggressione. Signor presidente, so quanto sarà difficile raggiungere quell’obiettivo. So quanto sia difficile il suo compito e quello dell’autorità palestinese. Ma le assicuro che le mie preghiere e le preghiere dei cattolici di tutto il mondo la accompagnano mentre ella prosegue nello sforzo di costruire una pace giusta e duratura in questa regione. [...] A tutti dico: grazie e che il Signore sia con voi. Shalom!

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Discorso nella basilica del Santo Sepolcro, Gerusalemme, 15 maggio 2009

di Benedetto XVI

Cari amici in Cristo, l’inno di lode che abbiamo appena cantato ci unisce alle schiere angeliche ed alla Chiesa di ogni tempo e luogo – “il glorioso coro degli apostoli, la nobile compagnia dei profeti e la candida schiera dei martiri” – mentre diamo gloria a Dio per l’opera della nostra redenzione, compiuta nella passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Davanti a questo Santo Sepolcro, dove il Signore “ha vinto l’aculeo della morte e aperto il regno dei cieli ad ogni credente”, vi saluto tutti nella gioia del tempo pasquale. [...] 

Il Vangelo di san Giovanni ci ha trasmesso un suggestivo racconto della visita di Pietro e  del discepolo amato alla tomba vuota nel mattino di Pasqua. Oggi, a distanza di circa venti secoli, il successore di Pietro, il vescovo di Roma, si trova davanti a quella stessa tomba vuota e contempla il mistero della risurrezione. Sulle orme dell’Apostolo, desidero ancora una volta proclamare, davanti agli uomini e alle donne del nostro tempo, la salda fede della Chiesa che Gesù Cristo “fu crocifisso, morì e fu sepolto”, e che “il terzo giorno risuscitò dai morti”. Innalzato alla destra del Padre, egli ci ha mandato il suo Spirito per il perdono dei peccati. All’infuori di Lui, che Dio ha costituito Signore e Cristo, “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (Atti 4, 12).

Trovandoci in questo santo luogo e considerando quel meraviglioso evento, come potremmo  non sentirci “trafiggere il cuore” (cfr. Atti 2, 37), alla maniera di coloro che per primi udirono la predicazione di Pietro nel giorno di Pentecoste? Qui Cristo morì e risuscitò, per non morire mai più. Qui la storia dell’umanità fu definitivamente cambiata. Il lungo dominio del peccato e della morte venne distrutto dal trionfo dell’obbedienza e della vita; il legno della croce svela la verità circa il bene e il male; il giudizio di Dio fu pronunciato su questo mondo e la grazia dello Spirito Santo venne riversata sull’umanità intera. Qui Cristo, il nuovo Adamo, ci ha insegnato che mai il male ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte, che il nostro futuro e quello dell’umanità sta nelle mani di un Dio provvido e fedele.

La tomba vuota ci parla di speranza, quella stessa che non ci delude, poiché è dono dello Spirito della vita (cfr. Romani 5, 5). Questo è il messaggio che oggi desidero lasciarvi, a conclusione del mio pellegrinaggio nella Terra Santa. Possa la speranza levarsi sempre di nuovo, per la grazia di Dio, nel cuore di ogni persona che vive in queste terre! Possa radicarsi nei vostri cuori, rimanere nelle vostre famiglie e comunità ed ispirare in ciascuno di voi una testimonianza sempre più fedele al Principe della Pace. La Chiesa in Terra Santa, che ben spesso ha sperimentato l’oscuro mistero del Golgota, non deve mai cessare di essere un intrepido araldo del luminoso messaggio di speranza che questa tomba vuota proclama. Il Vangelo ci dice che Dio può far nuove tutte le cose, che la storia non necessariamente si ripete, che le memorie possono essere purificate, che gli amari frutti della recriminazione e dell’ostilità possono essere superati, e che un futuro di giustizia, di pace, di prosperità e di collaborazione può sorgere per ogni uomo e donna, per l’intera famiglia umana, ed in maniera speciale per il popolo che vive in questa terra, così cara al cuore del Salvatore.

Quest’antica chiesa dell’Anastasis reca una sua muta testimonianza sia al peso del nostro  passato, con tutte le sue mancanze, incomprensioni e conflitti, sia alla promessa gloriosa che continua ad irradiare dalla tomba vuota di Cristo. Questo luogo santo, dove la potenza di Dio si rivelò nella debolezza, e le sofferenze umane furono trasfigurate dalla gloria divina, ci invita a guardare ancora una volta con gli occhi della fede al volto del Signore crocifisso e risorto. Nel contemplare la sua carne glorificata, completamente trasfigurata dallo Spirito, giungiamo a comprendere più pienamente che anche adesso, mediante il Battesimo, portiamo “sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinzi 4, 10-11). Anche ora la grazia della risurrezione è all’opera in noi! Possa la contemplazione di questo mistero spronare i nostri sforzi, sia come individui che come membri della comunità ecclesiale, a crescere nella vita dello Spirito mediante la conversione, la penitenza e la preghiera. Possa inoltre aiutarci a superare, con la potenza di quello stesso Spirito, ogni conflitto e tensione nati dalla carne e rimuovere ogni ostacolo, sia dentro che fuori, che si frappone alla nostra comune testimonianza a Cristo ed al potere del suo amore che riconcilia.

Con tali parole di incoraggiamento, cari amici, concludo il mio pellegrinaggio ai luoghi  santi della nostra redenzione e rinascita in Cristo. Prego che la Chiesa in Terra Santa tragga sempre maggiore forza dalla contemplazione della tomba vuota del Redentore. In quella tomba essa è chiamata a seppellire tutte le sue ansie e paure, per risorgere nuovamente ogni giorno e continuare il suo viaggio per le vie di Gerusalemme, della Galilea ed oltre, proclamando il trionfo del perdono di Cristo e la promessa di una vita nuova. Come cristiani, sappiamo che la pace alla quale anela questa terra lacerata da conflitti ha un nome: Gesù Cristo. “Egli è la nostra pace”, che ci ha riconciliati con Dio in un solo corpo mediante la Croce, ponendo fine all’inimicizia (cfr. Efesini 2, 14). Nelle sue mani, pertanto, affidiamo tutta la nostra speranza per il futuro, proprio come nell’ora delle tenebre egli affidò il suo spirito nelle mani del Padre.

Permettetemi di concludere con una speciale parola di incoraggiamento ai miei fratelli vescovi e sacerdoti, come pure ai religiosi e alle religiose che servono l’amata Chiesa in Terra Santa. Qui, davanti alla tomba vuota, al cuore stesso della Chiesa, vi invito a rinnovare l’entusiasmo della vostra consacrazione a Cristo ed il vostro impegno nell’amorevole servizio al suo mistico Corpo. Immenso è il vostro privilegio di dare testimonianza a Cristo in questa terra che Egli ha santificato mediante la sua presenza terrena e il suo ministero. Con pastorale carità rendete capaci i vostri fratelli e sorelle e tutti gli abitanti di questa terra di percepire la presenza che guarisce e l’amore che riconcilia del Risorto. Gesù chiede a ciascuno di noi di essere testimone di unità e di pace per tutti coloro che vivono in questa Città della Pace. Come nuovo Adamo, Cristo è la sorgente dell’unità alla quale l’intera famiglia umana è chiamata, quella stessa unità della quale la Chiesa è segno e sacramento. Come Agnello di Dio, egli è la fonte della riconciliazione, che è al contempo dono di Dio e sacro dovere affidato a noi. Quale Principe della Pace, Egli è la sorgente di quella pace che supera ogni comprensione, la pace della nuova Gerusalemme. Possa Egli sostenervi nelle vostre prove, confortarvi nelle vostre afflizioni, e confermarvi nei vostri sforzi di annunciare e di estendere il suo Regno. A voi tutti e a quanti vanno le vostre premure pastorali imparto cordialmente la mia benedizione apostolica, quale pegno della gioia e della pace di Pasqua.

Publié dans:Sandro Magister |on 18 mai, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: A Gerusalemme e Betlemme. Dove « toccare » i fondamenti della fede

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1338409

A Gerusalemme e Betlemme. Dove « toccare » i fondamenti della fede

Benedetto XVI esorta i cristiani a non abbandonare la Terra Santa. « Lì c’è posto per tutti », dice. Per due popoli e per due Stati in pace tra loro. E per le tre religioni di Abramo, unite nel servizio della famiglia umana

di Sandro Magister

ROMA, 14 maggio 2009 – Benedetto XVI ha trascorso l’intera giornata di mercoledì nei Territori palestinesi: a Betlemme e nel campo profughi di Aida.

E questa è stata, inevitabilmente, la giornata più « politica » del suo viaggio. Il papa si è incontrato a più riprese con il presidente Abu Mazen, ha tenuto dei discorsi a lui e alla popolazione palestinese, ha camminato in luoghi segnati dal conflitto. Ad Aida l’alto muro che divide Israele dai Territori era visibilissimo, incombente.

Benedetto XVI non si è sottratto alle aspettative. Ha invocato un superamento del conflitto all’insegna dei due popoli e due Stati. Ha reclamato sicurezza per Israele. Ha detto ai palestinesi di rifiutare il terrorismo. Ha auspicato l’abbattimento del muro.

Un obiettivo di papa Joseph Ratzinger, in questo viaggio, era di conquistare il consenso dei cattolici arabi, fortemente ostili ad Israele. In Giordania ci è riuscito. A ovest del Giordano l’impresa era più difficile. Ma le tappe di Betlemme e di Aida hanno giovato. Il papa è stato molto sobrio nel richiamare le ragioni di Israele e molto esplicito e partecipe, invece, nel tratteggiare le ragioni dei palestinesi e soprattutto la loro sofferenza.

Sarebbe però riduttivo e fuorviante interpretare in chiave solo politica il messaggio complessivo che Benedetto XVI ha voluto rivolgere ai cristiani di Terra Santa.

A giudizio del papa la Chiesa sarà influente – anche sul terreno politico – se saprà fare altro: se aiuterà anzitutto a « rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo ».

Benedetto XVI mira primariamente a convertire a Dio i cuori e le menti. L’ha detto e l’ha scritto più volte.

Ed è rimasto fedelissimo a questa sua « priorità » anche in un viaggio pur così carico di valenza politica come questo in Terra Santa.

Per capirlo, basta ripercorrere i gesti e le parole con cui egli ritma il viaggio.

Qui di seguito è riportata una piccola antologia delle parole da lui dette mercoledì 13 maggio a Betlemme e Aida, e il giorno precedente a Gerusalemme.

I passaggi più direttamente politici sono riportati per primi. Ma in essi già si coglie che lo sguardo di Benedetto XVI va oltre.

E questo « oltre » egli l’ha esplicitato soprattutto nelle omelie delle messe celebrate il 12 maggio a Gerusalemme nella Valle di Giosafat e il 13 maggio a Betlemme nella Piazza della Mangiatoia, presenti migliaia di fedeli, alcuni dei quali accorsi fin da Gaza.

Ai cristiani ha detto di non abbandonare la Terra Santa, come hanno fatto soprattutto negli ultimi anni. Ma perché restare? La risposta del papa è sorprendente, assolutamente da leggere. Rimanda al « vedere » e al « toccare » dei primi discepoli di Gesù. Al fondamento sensibile della fede.

Altri lampi della visione che Ratzinger vuole trasmettere sono i passaggi dedicati a Gerusalemme e a Betlemme: alla potenza simbolica, profetica, teologica di queste città sante.

E infine è tutto da leggere il discorso tenuto da Benedetto XVI ai capi musulmani la mattina del 12 maggio a Gerusalemme, dopo aver visitato – prima volta assoluta per un papa – la Cupola della Roccia, sul luogo del sacrificio di Abramo e dell’ascesa di Maometto al cielo.

Una magnifica sintesi di come questo papa vede il servizio che ebraismo, cristianesimo ed islam possono dare all’unità della famiglia umana.

Ecco dunque l’antologia, in cinque capitoli:

1. IL PAPA « POLITICO ». DAI DISCORSI NEI TERRITORI

A Betlemme, la mattina di mercoledì 13 maggio:

Signor Presidente, la Santa Sede appoggia il diritto del suo popolo ad una sovrana patria palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti. [...]

È mia ardente speranza che i gravi problemi riguardanti la sicurezza in Israele e nei Territori palestinesi vengano presto decisamente alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, con speciale riguardo per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi.

I palestinesi, così come ogni altra persona, hanno un naturale diritto a sposarsi, a formarsi una famiglia e avere accesso al lavoro, all’educazione e all’assistenza sanitaria. Prego anche perché, con l’assistenza della comunità internazionale, il lavoro di ricostruzione possa procedere rapidamente dovunque case, scuole od ospedali siano stati danneggiati o distrutti, specialmente durante il recente conflitto in Gaza. Questo è essenziale affinché il popolo di questa terra possa vivere in condizioni che favoriscano pace durevole e benessere. [...]

Rivolgo questo appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo.

Al campo profughi di Aida, nel pomeriggio di mercoledì 13 maggio:

Cari amici, la mia visita al campo profughi di Aida questo pomeriggio mi offre la gradita opportunità di esprimere la mia solidarietà a tutti i palestinesi senza casa, che bramano di poter tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria. [...]

So che molte vostre famiglie sono divise – a causa di imprigionamento di membri della famiglia o di restrizioni alla libertà di  movimento – e che molti tra voi hanno sperimentato perdite nel corso delle ostilità. Il mio cuore si unisce a quello di coloro che, per tale ragione, soffrono. Siate certi che tutti i profughi palestinesi nel mondo, specie quelli che hanno perso casa e persone care durante il recente conflitto di Gaza, sono costantemente ricordati nelle mie preghiere. [...]

Quanto le persone di questo campo, di questi Territori e dell’intera regione anelano alla pace! In questi giorni tale desiderio assume una particolare intensità mentre ricordate gli eventi del maggio del 1948 e gli anni di un conflitto tuttora irrisolto, che seguirono a quegli eventi. Voi ora vivete in condizioni precarie e difficili, con limitate opportunità di occupazione. È comprensibile che vi sentiate spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato palestinese indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue.

Tutto il mondo desidera fortemente che sia spezzata questa spirale, anela a che la pace metta fine alle perenni ostilità. Incombente su di noi, mentre siamo qui riuniti questo pomeriggio, è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra israeliani e palestinesi: il muro. In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri. Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile compito di edificare la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!

Da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati. E tuttavia la storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio gli interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire un’atmosfera di fiducia. Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative forti e creative per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative.

L’aiuto umanitario, come quello che viene offerto in questo campo, ha un ruolo essenziale da svolgere, ma la soluzione a lungo termine ad un conflitto come questo non può essere che politica. Nessuno s’attende che i popoli palestinese e israeliano vi arrivino da soli. È vitale il sostegno della comunità internazionale. Rinnovo perciò il mio appello a tutte le parti coinvolte perché esercitino la propria influenza in favore di una soluzione giusta e duratura, nel rispetto delle legittime esigenze di tutte le parti e riconoscendo il loro diritto di vivere in pace e con dignità, secondo il diritto internazionale.

Allo stesso tempo, tuttavia, gli sforzi diplomatici potranno avere successo soltanto se gli stessi palestinesi e israeliani saranno disposti a rompere con il ciclo delle aggressioni.

A Betlemme, la sera di mercoledì 13 maggio:

Signor Presidente, cari amici, [...] con angoscia ho visto la situazione dei  rifugiati che, come la Santa Famiglia, hanno dovuto abbandonare le loro case. Ed ho visto il muro che si introduce nei vostri territori, separando i vicini e dividendo le famiglie, circondare il vicino campo e nascondere molta parte di Betlemme. Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti. Innanzitutto però è necessario rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che innalziamo contro il nostro prossimo.

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2. CRISTIANI NELLA TERRA SANTA. PERCHÉ RESTARE

Dall’omelia della messa nella Valle di Giosafat, martedì 12 maggio:

Cari fratelli e sorelle, [...] vorrei qui accennare direttamente alla tragica realtà – che non può mai cessare di essere fonte di preoccupazione per tutti coloro che amano questa città e questa terra – della partenza di così numerosi membri della comunità cristiana negli anni recenti. Benché ragioni comprensibili portino molti, specialmente giovani, ad emigrare, questa decisione reca con sé come conseguenza un grande impoverimento culturale e spirituale della città.

Desidero oggi ripetere quanto ho detto in altre occasioni: nella Terra Santa c’è posto per tutti! Mentre esorto le autorità a rispettare e sostenere la presenza cristiana qui, desidero al tempo stesso assicurarvi della solidarietà, dell’amore e del sostegno di tutta la Chiesa e della Santa Sede.

Cari amici, nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, san Pietro e san Giovanni corrono alla tomba vuota, e Giovanni, ci è stato detto, “vide e credette” (Giovanni 20, 8), Qui in Terra Santa, con gli occhi della fede, voi insieme con i pellegrini di ogni parte del mondo che affollano le chiese e i santuari, siete felici di vedere i luoghi santificati dalla presenza di Cristo, dal suo ministero terreno, dalla sua passione, morte e risurrezione e dal dono del suo Santo Spirito. Qui, come all’apostolo san Tommaso, vi è concessa l’opportunità di “toccare” le realtà storiche che stanno alla base della nostra confessione di fede nel Figlio di Dio.

La mia preghiera per voi oggi è che continuiate, giorno dopo giorno, a “vedere e credere” nei segni della provvidenza di Dio e della sua inesauribile misericordia, ad “ascoltare” con rinnovata fede e speranza le consolanti parole della predicazione apostolica e a “toccare” le sorgenti della grazia nei sacramenti ed incarnare per gli altri il loro pegno di nuovi inizi, la libertà nata dal perdono, la luce interiore e la pace che possono portare salvezza e speranza anche nelle più oscure realtà umane.

Nella Chiesa del Santo Sepolcro, i pellegrini di ogni secolo hanno venerato la pietra che la tradizione ci dice che stava all’ingresso della tomba la mattina della risurrezione di Cristo. Torniamo spesso a questa tomba vuota. Riaffermiamo lì la nostra fede sulla vittoria della vita, e preghiamo affinché ogni “pietra pesante” posta alla porta dei nostri cuori, a bloccare la nostra completa resa alla fede, alla speranza e all’amore per il Signore, possa essere tolta via dalla forza della luce e della vita che da quel primo mattino di Pasqua risplendono da Gerusalemme su tutto il mondo.

Dall’omelia della messa nella Piazza della Mangiatoia, mercoledì 13 maggio:

Cari fratelli e sorelle, [...] “non abbiate paura!”. Questo è il messaggio che il successore di San Pietro desidera consegnarvi oggi, facendo eco al messaggio degli angeli e alla consegna che l’amato papa Giovanni Paolo II vi ha lasciato nell’anno del Grande Giubileo della nascita di Cristo. Contate sulle preghiere e sulla solidarietà dei vostri fratelli e sorelle della Chiesa universale, e adoperatevi con iniziative concrete per consolidare la vostra presenza e per offrire nuove possibilità a quanti sono tentati di partire. Siate un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell’edificare una cultura di pace che superi l’attuale stallo della paura, dell’aggressione e della frustrazione. Edificate le vostre Chiese locali facendo di esse laboratori di dialogo, di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità pratica.

Al di sopra di tutto, siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane. La vostra terra non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante – potremmo dire – di una nuova infrastruttura “spirituale”, capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune. Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli. Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura!

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3. IL MISTERO DI GERUSALEMME

Dall’omelia della messa nella Valle di Giosafat, martedì 12 maggio:

Cari fratelli e sorelle, [...] l’esortazione di Paolo di “cercare le cose di lassù” (Colossesi 3, 1) deve continuamente risuonare nei nostri cuori. Le sue parole ci indicano il compimento della visione di fede in quella celeste Gerusalemme dove, in conformità con le antiche profezie, Dio asciugherà le lacrime da ogni occhio e preparerà un banchetto di salvezza per tutti i popoli (cfr. Isaia 25, 6-8; Apocalisse 21, 2-4). Questa è la speranza, questa la visione che spinge tutti coloro che amano questa Gerusalemme terrestre a vederla come una profezia e una promessa di quella universale riconciliazione e pace che Dio desidera per tutta l’umana famiglia. [...]

Riuniti sotto le mura di questa città, sacra ai seguaci delle tre grandi religioni, come possiamo non rivolgere i nostri pensieri alla universale vocazione di Gerusalemme? Annunciata dai profeti, questa vocazione appare come un fatto indiscutibile, una realtà irrevocabile fondata nella storia complessa di questa città e del suo popolo. Ebrei, musulmani e cristiani qualificano insieme questa città come loro patria spirituale. Quanto bisogna ancora fare per renderla veramente una « città della pace » per tutti i popoli, dove tutti possono venire in pellegrinaggio alla ricerca di Dio, e per ascoltarne la voce, “una voce che parla di pace” (cfr. Salmo 85, 8)!

Gerusalemme in realtà è sempre stata una città nelle cui vie risuonano lingue diverse, le cui pietre sono calpestate da popoli di ogni razza e lingua, le cui mura sono un simbolo della cura provvidente di Dio per l’intera famiglia umana. Come un microcosmo del nostro mondo globalizzato, questa città, se deve vivere la sua vocazione universale, deve essere un luogo che insegna l’universalità, il rispetto per gli altri, il dialogo e la vicendevole comprensione; un luogo dove il pregiudizio, l’ignoranza e la paura che li alimenta, siano superati dall’onestà, dall’integrità e dalla ricerca della pace. Non dovrebbe esservi posto tra queste mura per la chiusura, la discriminazione, la violenza e l’ingiustizia. I credenti in un Dio di misericordia – si qualifichino essi ebrei, cristiani o musulmani –, devono essere i primi a promuovere questa cultura della riconciliazione e della pace, per quanto lento possa essere il processo e gravoso il peso dei ricordi passati.

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4. IL MISTERO DI BETLEMME

Dall’omelia della messa nella Piazza della Mangiatoia, mercoledì 13 maggio:

Cari fratelli e sorelle, [...] il Signore degli eserciti, “le cui origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5, 2), volle inaugurare il suo regno nascendo in questa piccola città, entrando nel nostro mondo nel silenzio e nell’umiltà in una grotta, e giacendo, come bimbo bisognoso di tutto, in una mangiatoia. Qui a Betlemme, nel mezzo di ogni genere di contraddizione, le pietre continuano a gridare questa “buona novella”, il messaggio di redenzione che questa  città, al di sopra di tutte le altre, è chiamata a proclamare a tutto il mondo.

Qui infatti, in un modo che sorpassa tutte le speranze e aspettative umane, Dio si è mostrato fedele alle sue promesse. Nella nascita del suo Figlio, Egli ha rivelato la venuta di un regno d’amore: un amore divino che si china per portare guarigione e per innalzarci; un amore che si rivela nell’umiliazione e nella debolezza della croce, eppure trionfa nella gloriosa risurrezione a nuova vita.

Cristo ha portato un regno che non è di questo mondo, eppure è un regno capace di cambiare questo mondo, poiché ha il potere di cambiare i cuori, di illuminare le menti e di rafforzare le volontà. Nell’assumere la nostra carne, con tutte le sue debolezze, e nel trasfigurarla con la potenza del suo Spirito, Gesù ci ha chiamati ad essere testimoni della sua vittoria sul peccato e sulla morte.

E questo è ciò che il messaggio di Betlemme ci chiama ad essere: testimoni del trionfo dell’amore di Dio sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore che paralizzano i rapporti umani e creano divisione fra fratelli che dovrebbero vivere insieme in unità, distruzioni dove gli uomini dovrebbero edificare, disperazione dove la speranza dovrebbe fiorire!

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5. EBREI, CRISTIANI E MUSULMANI PER L’UNITÀ DELLA FAMIGLIA UMANA

Dal discorso dopo la visita della Cupola della Roccia, a Gerusalemme, martedì 12 maggio:

La Cupola della Roccia conduce i nostri cuori e le nostre menti a riflettere sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo. Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano, ricordandoci quello che esse hanno in comune. Ciascuna crede in un solo Dio, creatore e regolatore di tutto. Ciascuna riconosce Abramo come proprio antenato, un uomo di fede al quale Dio ha concesso una speciale benedizione. Ciascuna ha raccolto schiere di seguaci nel corso dei secoli ed ha ispirato un ricco patrimonio spirituale, intellettuale e culturale. [...]

Poiché gli insegnamenti delle tradizioni religiose riguardano ultimamente la realtà di Dio, il significato della vita ed il destino comune dell’umanità – vale a dire, tutto ciò che è per noi molto sacro e caro – può esserci la tentazione di impegnarsi in tale dialogo con riluttanza o ambiguità circa le sue possibilità di successo. Possiamo tuttavia cominciare col credere che l’Unico Dio è l’infinita sorgente della giustizia e della misericordia, perché in Lui entrambe esistono in perfetta unità. Coloro che confessano il suo nome hanno il compito di impegnarsi decisamente per la rettitudine pur imitando la sua clemenza, poiché ambedue gli atteggiamenti sono intrinsecamente orientati alla pacifica ed armoniosa coesistenza della famiglia umana.

Per questa ragione, è scontato che coloro che adorano l’Unico Dio manifestino essi stessi di essere fondati su ed incamminati verso l’unità dell’intera famiglia umana. In altre parole, la fedeltà all’Unico Dio, il Creatore, l’Altissimo, conduce a riconoscere che gli esseri umani sono fondamentalmente collegati l’uno all’altro, perché tutti traggono la loro propria esistenza da una sola fonte e sono indirizzati verso una meta comune. Marcati con l’indelebile immagine del divino, essi sono chiamati a giocare un ruolo attivo nell’appianare le divisioni e nel promuovere la solidarietà umana.

Questo pone una grave responsabilità su di noi. Coloro che onorano l’Unico Dio credono che Egli riterrà gli esseri umani responsabili delle loro azioni. I cristiani affermano che i doni divini della ragione e della libertà stanno alla base di questa responsabilità. La ragione apre la mente per comprendere la natura condivisa e il destino comune della famiglia umana, mentre la libertà spinge il cuore ad accettare l’altro e a servirlo nella carità. L’indiviso amore per l’Unico Dio e la carità verso il nostro prossimo diventano così il fulcro attorno al quale ruota tutto il resto. Questa è la ragione perché operiamo instancabilmente per salvaguardare i cuori umani dall’odio, dalla rabbia o dalla vendetta.

Cari amici, sono venuto a Gerusalemme in un pellegrinaggio di fede. Ringrazio Dio per questa occasione che mi è data di incontrarmi con voi come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ma anche come figlio di Abramo, nel quale “tutte le famiglie della terra si diranno benedette” (Genesi 12, 3; cfr. Romani 4, 16-17). Vi assicuro che è ardente desiderio della Chiesa di cooperare per il benessere dell’umana famiglia. Essa fermamente crede che la promessa fatta ad Abramo ha una portata universale, che abbraccia tutti gli uomini e le donne indipendentemente dalla loro provenienza o da loro stato sociale. Mentre musulmani e cristiani continuano il dialogo rispettoso che già hanno iniziato, prego affinché essi possano esplorare come l’Unicità di Dio sia inestricabilmente legata all’unità della famiglia umana. Sottomettendosi al suo amabile piano della creazione, studiando la legge inscritta nel cosmo ed inserita nel cuore dell’uomo, riflettendo sul misterioso dono dell’autorivelazione di Dio, possano tutti coloro che vi aderiscono continuare a tenere lo sguardo fisso sulla sua bontà assoluta, mai perdendo di vista come essa sia riflessa sul volto degli altri.

di Sandro Magister: Il papa in Israele. Primo giorno, sorpresa doppia

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Il papa in Israele. Primo giorno, sorpresa doppia

Il mondo lo aspettava al varco sulle questioni più esplosive: l’antisemitismo, la guerra. Ma Benedetto XVI ha fatto a modo suo. Ha estratto dalla Bibbia due parole. E con la prima ha spiegato le condizioni della pace. Con la seconda ha illuminato il mistero della Shoah

di Sandro Magister

ROMA, 12 maggio 2009 – Appena arrivato lunedì in terra d’Israele, Benedetto XVI ha immediatamente preso di petto le questioni più controverse: prima la pace e la sicurezza, poi la Shoah e l’antisemitismo.

Su entrambi i fronti era atteso al varco. Sottoposto a pressioni incessanti e non sempre leali. Per molti suoi critici il copione era già scritto, ed essi aspettavano solo di giudicare se e come il papa l’avrebbe osservato.

Invece Benedetto XVI s’è mosso con sorprendente originalità. In un caso e nell’altro.

L’avvento della pace l’ha legato indissolubilmente a quel « cercare Dio » che era già stato il tema dominante del suo memorabile discorso di Parigi al mondo della cultura: uno dei discorsi capitali del suo pontificato. Mentre il tema della sicurezza – nevralgico per Israele – l’ha svolto a partire dalla parola biblica « betah », che vuol dire sì sicurezza ma anche fiducia: e l’una non può stare senza l’altra.

Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale delle vittime della Shoah con incisi i loro nomi a milioni – il papa ha poi illuminato il senso di un’altra parola biblica: il « nome ». I nomi di tutti « sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente ». E quindi « non si può mai portar via il nome di un altro essere umano », nemmeno quando gli si vuol toglier tutto. Il grido degli uccisi sale dalla terra come dai tempi di Abele, contro ogni spargimento di sangue innocente, e Dio tutti ascolta, perché « non sono esaurite le sue misericordie ». Queste ultime parole, tratte dal libro delle Lamentazioni, il papa le ha scritte firmando il libro d’onore.

Il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem, e prima di questo l’altro pronunciato su pace e sicurezza durante la visita al presidente Shimon Peres, sono riprodotti qui di seguito. Entrambi sono di lunedì 11 maggio 2009, primo giorno della sua visita in Israele.

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« Cercate Dio e la pace vi sarà data »

di Benedetto XVI

Signor presidente, [...] oggi desidero assicurare a lei [...] come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità. In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.

La pace è prima di tutto un dono divino. La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità. Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”. Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”. Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (Geremia 29, 11-14).

Ai leader religiosi oggi presenti vorrei dire che il contributo particolare delle religioni nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio. Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista, che Egli agisce nel nostro mondo per il nostro bene, e che il futuro della società è contrassegnato dalla speranza quando vibra in armonia con l’ordine divino.

È la presenza dinamica di Dio che raduna insieme i cuori ed assicura l’unità. Di fatto, il fondamento ultimo dell’unità tra le persone sta nella perfetta unicità e universalità di Dio, che ha creato l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza per condurci entro la sua vita divina, così che tutti possano essere una cosa sola.

Pertanto, i leader religiosi devono essere coscienti che qualsiasi divisione o tensione, ogni tendenza all’introversione o al sospetto fra credenti o tra le nostre comunità può facilmente condurre ad una contraddizione che oscura l’unicità dell’Onnipotente, tradisce la nostra unità e contraddice l’Unico che rivela se stesso come “ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34, 6; Salmo 138, 2; Salmo 85, 11). Cari amici, Gerusalemme, che da lungo tempo è stata un crocevia di popoli di diversa origine, è una città che permette ad ebrei, cristiani e musulmani sia di assumersi il dovere che di godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell’unico Dio; di svelare il piano dell’Onnipotente, annunciato ad Abramo, per l’unità della famiglia umana; e di proclamare la vera natura dell’uomo quale cercatore di Dio. Impegniamoci dunque ad assicurare che, mediante l’ammaestramento e la guida delle nostre rispettive comunità, le sosterremo nell’essere fedeli a ciò che veramente sono come credenti, sempre consapevoli dell’infinita bontà di Dio, dell’inviolabile dignità di ogni essere umano e dell’unità dell’intera famiglia umana.

La Sacra Scrittura ci offre anche una sua comprensione della sicurezza. Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza – « batah » – deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza. Nel libro del profeta Isaia leggiamo di un tempo di benedizione divina: “Infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (32, 15-17). Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili. Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo.

Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace. Naturalmente, ci si aspetta che i leader civili e politici assicurino una giusta e adeguata sicurezza per il popolo a cui servizio essi sono stati eletti.

Questo obiettivo forma una parte della giusta promozione dei valori comuni all’umanità e pertanto non possono contrastare con l’unità della famiglia umana. I valori e i fini autentici di una società, che sempre tutelano la dignità umana, sono indivisibili, universali e interdipendenti. Non si possono pertanto realizzare quando cadono preda di interessi particolari o di politiche frammentarie. Il vero interesse di una nazione viene sempre servito mediante il perseguimento della giustizia per tutti.

Gentili Signore e Signori, una sicurezza durevole è questione di fiducia, alimentata nella giustizia e nell’integrità, suggellata dalla conversione dei cuori che ci obbliga a guardare l’altro negli occhi e a riconoscere il “tu” come un mio simile, un mio fratello, una mia sorella. In tale maniera non diventerà forse la società stessa un “giardino ricolmo di frutti” (cfr. Isaia 32, 15), segnato non da blocchi e ostruzioni, ma dalla coesione e dall’armonia? Non può forse divenire una comunità di nobili aspirazioni, dove a tutti di buon grado viene dato accesso all’educazione, alla dimora familiare, alla possibilità d’impiego, una società pronta ad edificare sulle fondamenta durevoli della speranza?

Per concludere, desidero rivolgermi alle comuni famiglie di questa città, di questa terra. Quali genitori vorrebbero mai violenza, insicurezza o divisione per il loro figlio o per la loro figlia? Quale umano obiettivo politico può mai essere servito attraverso conflitti e violenze? Odo il grido di quanti vivono in questo paese che invocano giustizia, pace, rispetto per la loro dignità, stabile sicurezza, una vita quotidiana libera dalla paura di minacce esterne e di insensata violenza. So che un numero considerevole di uomini, donne e giovani stanno lavorando per la pace e la solidarietà attraverso programmi culturali e iniziative di sostegno pratico e compassionevole; umili abbastanza per perdonare, essi hanno il coraggio di tener stretto il sogno che è loro diritto.

Signor presidente, la ringrazio per la cortesia dimostratami e la assicuro ancora una volta delle mie preghiere per il governo e per tutti i cittadini di questo Stato. Possa un’autentica conversione dei cuori di tutti condurre ad un sempre più deciso impegno per la pace e la sicurezza attraverso la giustizia per ciascuno. Shalom!

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« I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio »

di Benedetto XVI

“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro  un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 5).

Questo passo tratto dal libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: « yad », memoriale, « shem », nome. Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente.

Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà. Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto. E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano.

La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale. Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Genesi 17, 5). Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr. Genesi 32, 29). I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.

Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata. Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente. Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa!

La Chiesa cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate. Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione: le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia. Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr. Salmo 85, 9).

Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie. Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana. Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr. Salmo 9, 9).

Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome. Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini. Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino!

Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente. Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani:

“Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà. Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero. Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3, 22-26).

Cari amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.

per il compleanno del Papa un suo insegnamento, a cura di Sandro Magister: E la notte fu. La vera storia del peccato originale

per il compleanno del Papa ho pensato di pubblicare un suo insegnamento, quello sul peccato originale, lo studio su questo tema è di Sandro Magister dell’11 dicembre 2008

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/212913

E la notte fu. La vera storia del peccato originale

È uno dei dogmi più trascurati e negati. Ma per Benedetto XVI è « di un’evidenza schiacciante ». Ne ha parlato tre volte in otto giorni. Senza di esso, ha detto, la redenzione cristiana « perderebbe il suo fondamento »

di Sandro Magister

ROMA, 11 dicembre 2008 – Per tre volte in otto giorni Benedetto XVI ha insistito su un dogma che è quasi scomparso dalla comune predicazione ed è negato dai teologi neomodernisti: il dogma del peccato originale.

L’ha fatto lunedì 8 dicembre all’Angelus della festa dell’Immacolata; il precedente mercoledì 3 all’udienza settimanale con migliaia di fedeli e pellegrini; e poi ancora all’udienza generale di mercoledì 10.

All’Angelus dell’Immacolata papa Joseph Ratzinger si è così espresso:

« Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.

« L’esistenza di quello che la Chiesa chiama peccato originale è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Genesi 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione (cfr. Sapienza 1, 13-14; 2, 23-24). È il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Genesi 3, 15).

« Fin dal principio, dunque, ‘l’eterno consiglio’ – come direbbe Dante (Paradiso, XXXIII, 3) – ha un ‘termine fisso’: la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: ‘piena di grazia’ (Luca 1, 28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. È la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: ‘La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori’ (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha ‘preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato’ (Orazione Colletta).

« Carissimi, in Maria Immacolata noi contempliamo il riflesso della bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo ».

* * *

Ma il papa si è spinto ancora più a fondo, sul peccato originale, nell’udienza generale di mercoledì 3 dicembre.

Ogni mercoledì, da quando è iniziato l’Anno Paolino, Benedetto XVI dedica le sue catechesi settimanali a illustrare la vita, gli scritti, la dottrina dell’apostolo Paolo. Questa era la quindicesima catechesi della serie. Nelle due precedenti il papa aveva spiegato la dottrina della giustificazione e il nesso tra la fede e le opere. Questa volta, invece, il tema di partenza era l’analogia tra Adamo e Cristo, sviluppata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi e più ancora nella lettera ai Romani. Ricorrendo a questa analogia, Paolo evoca il peccato di Adamo per dare il massimo risalto alla grazia salvatrice donata da Cristo.

Come generalmente avviene nelle catechesi del mercoledì, Benedetto XVI si è avvalso di un testo scritto da esperti collaboratori. Ma come già in altre occasioni, se ne è distaccato. Questa volta più ampiamente del solito. Dal terzo capoverso in avanti si è rivolto direttamente ai presenti, improvvisando.

La stessa cosa ha fatto nell’udienza del mercoledì successivo, 10 dicembre. Aveva in mano un testo scritto, ma ha parlato quasi interamente a braccio. E nella parte iniziale è tornato così sul tema del peccato originale:

« Cari fratelli e sorelle, seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull’amore e sulla verità.

« Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo. ».

* * *

Queste improvvisazioni sono un indizio importante per capire il pensiero di Benedetto XVI. Esse contrassegnano le cose che più gli stanno a cuore, quelle che vuole imprimere di più nella mente degli ascoltatori.

Il peccato originale, questo dogma oggi così trascurato, è una di queste verità che papa Ratzinger sente il bisogno di rinverdire.

E il motivo l’ha spiegato ai fedeli così, nella catechesi del 3 dicembre, quella più diffusamente dedicata al tema, riprodotta integralmente qui di seguito:

Adamo e Cristo: dal peccato originale alla libertà

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, nell’odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della lettera ai Romani (5, 12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita… Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Corinzi 15, 22-45). Con Romani 5, 12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull’umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull’umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull’umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5, 20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l’incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Romani 5, 12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento.

Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l’altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell’egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: « C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio » (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una « seconda natura » che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l’uomo. Così anche l’espressione solita: « questo è umano£ ha un duplice significato. « Questo è umano » può voler dire: quest’uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma « questo è umano » può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell’essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l’essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell’antichità questa idea implicava l’opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall’origine dell’essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire.

Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se in tale concezione la visione dell’essere è monistica, si suppone che l’essere come tale dall’inizio porti in se il male e il bene. L’essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l’evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell’essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell’essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male, e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.

E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c’è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l’essere non è un misto di bene e male; l’essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c’è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell’essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell’uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all’altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l’uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell’evoluzionismo, non possono dire che l’uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l’uomo è sanabile. E il libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 nella Vulgata). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.

Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell’Avvento con l’antico popolo di Dio: « Rorate caeli desuper », stillate cieli dall’alto. E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l’ignoranza di Dio, la violenza, l’ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!

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Tutte le catechesi su san Paolo tenute da Benedetto XVI nelle udienze generali del mercoledì, nel sito del Vaticano:

Udienze

di Sandro Magister : Il manifesto di papa Ratzinger: « Così prenda inizio la trasformazione del mondo »

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1337965

Il manifesto di papa Ratzinger: « Così prenda inizio la trasformazione del mondo »

La rivoluzione cristiana nasce nella liturgia, dice Benedetto XVI. E il suo « canone », la sua regola costitutiva, è la grande preghiera eucaristica. L’ha spiegato nell’omelia del Giovedì Santo. E prima ancora in una catechesi, altrettanto sorprendente

di Sandro Magister

ROMA, 14 aprile 2009 – Nella scorsa settimana santa Benedetto XVI ha accompagnato ogni celebrazione con una omelia, di quelle genuinamente sue, dalla prima parola all’ultima. Le omelie sono ormai un segno distintivo di questo pontificato. Forse ancora il meno noto e il meno capito. Ma sicuramente il più rivelatore.

Papa Joseph Ratzinger non è soltanto teologo, è ancor prima liturgo e omileta. In www.chiesa questo suo carattere inconfondibile è stato messo in evidenza più volte. Lo scorso anno, ad esempio, mettendo in rete in blocco, subito dopo Pasqua, le sei omelie della precedente settimana santa. E in autunno curando la raccolta in un libro – edito da Scheiwiller del Gruppo 24 Ore – delle omelie di Benedetto XVI dell’intero anno liturgico appena trascorso.

Dopo la settimana santa di quest’anno, invece, il lettore non troverà riportate qui sotto tutte le omelie pronunciate dal papa nell’occasione. Queste le leggerà agevolmente nel sito del Vaticano, cliccando sul link segnalato a fine pagina.

Delle omelie papali dello scorso triduo sacro ne è riprodotta qui di seguito una sola, quella della sera del Giovedì Santo.

E subito dopo il lettore troverà un altro testo di Benedetto XVI di qualche mese precedente: la catechesi da lui tenuta all’udienza generale di mercoledì 7 gennaio 2009.

I due testi sono tra loro strettamente legati. Sia nell’uno che nell’altro papa Ratzinger spiega le parole e il senso profondo del Canone Romano, la preghiera centrale e costitutiva della messa, la più antica tra quelle in uso in tutto il mondo con l’attuale messale della Chiesa di Roma.

Nella messa « in cena Domini » del Giovedì Santo il Canone Romano ha alcune varianti proprie del giorno. E fin dalle prime parole della sua omelia Benedetto XVI ne mette in luce la particolarità.

Ma è al senso complessivo di questa preghiera liturgica capitale che papa Ratzinger dedica l’intero seguito dell’omelia.

E fa lo stesso in un passaggio della catechesi del 7 gennaio, che per il resto è dedicata a illustrare il culto cristiano nel suo insieme. Quel culto che il Canone Romano, sulla traccia di san Paolo, definisce « rationabile ».

La traduzione corrente di « rationabile », nelle lingue moderne, è « spirituale ». Ma Benedetto XVI mette in guardia dal pensare che il culto cristiano sia qualcosa di metaforico, di moralistico, di puramente interiore. No, spiega, il vero culto cristiano afferra gli uomini e il mondo nella loro interezza, è anche corporeità e materialità, è « liturgia cosmica » nella quale « i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventino gloria di Dio ».

È rarissimo, nella moderna produzione teologica e liturgica, incontrare una spiegazione del significato del culto cristiano così penetrante come in questi due testi della predicazione di papa Ratzinger.

Ecco dunque qui di seguito, nell’ordine:

– l’omelia di Benedetto XVI nella messa « in Cena Domini » dello scorso Giovedì Santo;

– la catechesi del 7 gennaio 2009 sul culto « spirituale »;

– i link ai testi integrali del Canone Romano in latino e in lingua moderna;

– più altri rimandi all’insieme delle omelie papali.

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1. Omelia del Giovedì Santo, 9 aprile 2009, sul Canone Romano

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, « Qui, pridie quam pro nostra omniumque salute pateretur, hoc est hodie, accepit panem »: così diremo oggi nel Canone della santa Messa. « Hoc est hodie »: la liturgia del Giovedì Santo inserisce nel testo della preghiera la parola « oggi », sottolineando con ciò la dignità particolare di questa giornata. È stato « oggi » che Egli l’ha fatto: per sempre ha donato se stesso a noi nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Questo « oggi » è anzitutto il memoriale della Pasqua di allora. Tuttavia è di più. Con il Canone entriamo in questo « oggi ». Il nostro oggi viene a contatto con il suo oggi. Egli fa questo adesso. Con la parola « oggi », la liturgia della Chiesa vuole indurci a porre grande attenzione interiore al mistero di questa giornata, alle parole in cui esso si esprime. Cerchiamo dunque di ascoltare in modo nuovo il racconto dell’istituzione [dell'Eucaristia] così come la Chiesa, in base alla Scrittura e contemplando il Signore stesso, lo ha formulato.

Come prima cosa ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: « qui pridie ». Questo « qui » aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, « … diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo ». In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a se stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo.

Pregando in questo momento centrale, la Chiesa è in totale accordo con l’avvenimento nel cenacolo, poiche l’agire di Gesù viene descritto con le parole: « gratias agens benedixit »: rese grazie con la preghiera di benedizione. Con questa espressione, la liturgia romana ha diviso in due parole ciò, che nell’ebraico « berakha » è una parola sola, nel greco invece appare nei due termini « eucharistia » ed « eulogia ». Il Signore ringrazia. Ringraziando riconosciamo che una certa cosa è dono che proviene da un altro. Il Signore ringrazia e con ciò restituisce a Dio il pane, « frutto della terra e del lavoro dell’uomo », per riceverlo nuovamente da Lui. Ringraziare diventa benedire. Ciò che è stato dato nelle mani di Dio, ritorna da Lui benedetto e trasformato. La liturgia romana ha ragione, quindi, nell’interpretare il nostro pregare in questo momento sacro mediante le parole: « offriamo », « supplichiamo », « chiediamo di accettare », « di benedire queste offerte ». Tutto questo si nasconde nella parola « eucharistia ».

C’è un’altra particolarità nel racconto dell’istituzione riportato nel Canone Romano, che vogliamo meditare in quest’ora. La Chiesa orante guarda alle mani e agli occhi del Signore. Vuole quasi osservarlo, vuole percepire il gesto del suo pregare e del suo agire in quell’ora singolare, incontrare la figura di Gesù, per così dire, anche attraverso i sensi. « Egli prese il pane nelle sue mani sante e venerabili… ». Guardiamo a quelle mani con cui Egli ha guarito gli uomini; alle mani con cui ha benedetto i bambini; alle mani che ha imposto agli uomini; alle mani che sono state inchiodate alla Croce e che per sempre porteranno le stimmate come segni del suo amore pronto a morire. Ora siamo incaricati noi di fare ciò che Egli ha fatto: prendere nelle mani il pane perche mediante la preghiera eucaristica sia trasformato. Nell’ordinazione sacerdotale, le nostre mani sono state unte, affinche diventino mani di benedizione. Preghiamo in quest’ora il Signore che le nostre mani servano sempre di più a portare la salvezza, a portare la benedizione, a rendere presente la sua bontà!

Dall’introduzione alla preghiera sacerdotale di Gesù (cfr. Giovanni 17, 1), il Canone prende poi le parole: « Alzando gli occhi al cielo a te, Dio Padre suo onnipotente… ». Il Signore ci insegna ad alzare gli occhi e soprattutto il cuore, a sollevare lo sguardo, distogliendolo dalle cose del mondo, ad orientarci nella preghiera verso Dio e così a risollevarci. In un inno della preghiera delle ore chiediamo al Signore di custodire i nostri occhi, affinche non accolgano e non lascino entrare in noi le vanitates: le vanità, le nullità, ciò che è solo apparenza. Preghiamo che attraverso gli occhi non entri in noi il male, falsificando e sporcando così il nostro essere. Ma vogliamo pregare soprattutto per avere occhi che vedano tutto ciò che è vero, luminoso e buono; affinche diventiamo capaci di vedere la presenza di Dio nel mondo. Preghiamo, affinche guardiamo il mondo con occhi di amore, con gli occhi di Gesù, riconoscendo così i fratelli e le sorelle, che hanno bisogno di noi, che sono in attesa della nostra parola e della nostra azione.

Benedicendo, il Signore spezza poi il pane e lo distribuisce ai discepoli. Lo spezzare il pane è il gesto del padre di famiglia che si preoccupa dei suoi e dà loro ciò di cui hanno bisogno per la vita. Ma è anche il gesto dell’ospitalità con cui lo straniero, l’ospite viene accolto nella famiglia e gli viene concessa una partecipazione alla sua vita. Dividere, con-dividere, è unire. Mediante il condividere si crea comunione. Nel pane spezzato, il Signore distribuisce se stesso. Il gesto dello spezzare allude misteriosamente anche alla sua morte, all’amore sino alla morte. Egli distribuisce se stesso, il vero « pane per la vita del mondo » (cfr. Giovanni 6, 51). Il nutrimento di cui l’uomo nel più profondo ha bisogno è la comunione con Dio stesso. Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane, non dà più pane terreno, ma la comunione con se stesso. Questa trasformazione, però, vuol essere l’inizio della trasformazione del mondo. Affinche diventi un mondo di risurrezione, un mondo di Dio. Sì, si tratta di trasformazione. Dell’uomo nuovo e del mondo nuovo che prendono inizio nel pane consacrato, trasformato, transustanziato.

Abbiamo detto che lo spezzare il pane è un gesto di comunione, dell’unire attraverso il condividere. Così, nel gesto stesso è già accennata l’intima natura dell’Eucaristia: essa è agape, è amore reso corporeo. Nella parola agape i significati di Eucaristia e amore si compenetrano. Nel gesto di Gesù che spezza il pane, l’amore che si partecipa ha raggiunto la sua radicalità estrema: Gesù si lascia spezzare come pane vivo. Nel pane distribuito riconosciamo il mistero del chicco di grano, che muore e così porta frutto. Riconosciamo la nuova moltiplicazione dei pani, che deriva dal morire del chicco di grano e proseguirà sino alla fine del mondo. Allo stesso tempo vediamo che l’Eucaristia non può mai essere solo un’azione liturgica. È completa solo se l’agape liturgica diventa amore nel quotidiano. Nel culto cristiano le due cose diventano una: l’essere gratificati dal Signore nell’atto cultuale e il culto dell’amore nei confronti del prossimo. Chiediamo in quest’ora al Signore la grazia di imparare a vivere sempre meglio il mistero dell’Eucaristia così che in questo modo prenda inizio la trasformazione del mondo.

Dopo il pane, Gesù prende il calice del vino. Il Canone romano qualifica il calice, che il Signore dà ai discepoli, come « praeclarus calix », come calice glorioso, alludendo con ciò al salmo 23 [22], quel salmo che parla di Dio come del Pastore potente e buono. Lì si legge: « Davanti a me tu prepari una mensa, sotto gli occhi dei miei nemici… Il mio calice trabocca ». Il Canone Romano interpreta questa parola del salmo come una profezia, che si adempie nell’Eucaristia: Sì, il Signore ci prepara la mensa in mezzo alle minacce di questo mondo, e ci dona il calice glorioso, il calice della grande gioia, della vera festa, alla quale tutti aneliamo, il calice colmo del vino del suo amore.

Il calice significa le nozze: adesso è arrivata l’ »ora » alla quale le nozze di Cana avevano alluso in modo misterioso. Sì, l’Eucaristia è più di un convito, è una festa di nozze. E queste nozze si fondono nell’autodonazione di Dio sino alla morte. Nelle parole dell’Ultima Cena di Gesù e nel Canone della Chiesa, il mistero solenne delle nozze si cela sotto l’espressione « novum testamentum ». Questo calice è il nuovo testamento, « la nuova alleanza nel mio sangue », come Paolo riferisce la parola di Gesù sul calice nella seconda lettura di oggi (1 Corinzi 11, 25). Il Canone Romano aggiunge: « per la nuova ed eterna alleanza », per esprime l’indissolubilità del legame nuziale di Dio con l’umanità. Il motivo per cui le antiche traduzioni della Bibbia non parlano di alleanza, ma di testamento, sta nel fatto che non sono due contraenti alla pari che qui si incontrano, ma entra in azione l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. Ciò che noi chiamiamo nuova ed antica alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma mero dono di Dio che ci lascia in eredità il suo amore: se stesso. E certo, mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende poi veramente partner e si realizza il mistero nuziale dell’amore.

Per poter comprendere che cosa in profondità lì avviene, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente le parole della Bibbia e il loro significato originario. Gli studiosi ci dicono che, nei tempi remoti di cui parlano le storie dei Padri di Israele, « ratificare un’alleanza » significa « entrare con altri in un legame basato sul sangue, ovvero accogliere l’altro nella propria federazione ed entrare così un una comunione di diritti l’uno con l’altro ». In questo modo si crea una consanguineità reale benche non materiale. I partner diventano in qualche modo « fratelli dalla stessa carne e dalle stesse ossa ». L’alleanza opera un’insieme che significa pace (cfr. « Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament » II 105-137). Possiamo adesso farci almeno un’idea di ciò che avvenne nell’ora dell’Ultima Cena e che, da allora, si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucaristia? Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una « consanguineità » tra se e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola. Preghiamo il Signore, affinche comprendiamo sempre di più la grandezza di questo mistero! Affinche esso sviluppi la sua forza trasformatrice nel nostro intimo, in modo che diventiamo veramente consanguinei di Gesù, pervasi dalla sua pace e così anche in comunione gli uni con gli altri.

Ora, però, emerge ancora un’altra domanda. Nel cenacolo, Cristo dona ai discepoli il suo Corpo e il suo Sangue, cioè se stesso nella totalità della sua persona. Ma può farlo? È ancora fisicamente presente in mezzo a loro, sta di fronte a loro! La risposta è: in quell’ora Gesù realizza ciò che aveva annunciato precedentemente nel discorso sul Buon Pastore: « Nessuno mi toglie la mia vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo… » (Giovanni 10, 18). Nessuno può togliergli la vita: Egli la dà per libera decisione. In quell’ora anticipa la crocifissione e la risurrezione. Ciò che là si realizzerà, per così dire, fisicamente in Lui, Egli lo compie già in anticipo nella libertà del suo amore. Egli dona la sua vita e la riprende nella risurrezione per poterla condividere per sempre.

Signore, oggi Tu ci doni la tua vita, ci doni te stesso. Penetraci con il tuo amore. Facci vivere nel tuo « oggi ». Rendici strumenti della tua pace! Amen.

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2. Catechesi del 7 gennaio 2009, sul culto « spirituale »

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, in questa prima udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.

L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.

1. In Romani 3, 25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.

San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.

Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Marco 14, 58; Giovanni 2, 19ss). Questo è il primo testo.

2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L’espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Romani 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6, 20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.

Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell’uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un’altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l’idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Levitico 1, 13.17; 23, 18; 26, 31; ecc.).

Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l’espressione greca (t?n logik?n latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.

Questa formula paolina, che ritorna poi nella preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I profeti e molti salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv. 12-14). Nello stesso senso dice il salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv. 18s). Nel libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Daniele 3, 38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.

Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il salmo 51 e anche il libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.

Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Romani 12, 1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Galati 3, 28), che siamo morti nel battesimo (cfr Romani 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.

Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua « Città di Dio ». Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10, 6: CCL 47, 27ss).

3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno.

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3. Il Canone Romano in latino e in lingua moderna. I testi integrali:

> In latino: « Te igitur, clementissime Pater… »

> In italiano: « Padre clementissimo… »

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Tutte le omelie di papa Joseph Ratzinger, anno per anno, nel sito del Vaticano:

> Omelie

L’introduzione di Sandro Magister al libro, edito da Scheiwiller, che raccoglie le omelie di Benedetto XVI nell’anno liturgico che va dall’Avvento del 2007 a quello del 2008:

> Omelie. L’anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, papa

Publié dans:Sandro Magister, ZENITH |on 15 avril, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : “Settimana Santa a Monreale”, autore Romano Guardini

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/49404

“Settimana Santa a Monreale”, autore Romano Guardini

Una straordinaria lezione di liturgia dal vivo, scritta dal teologo che fu maestro di Joseph Ratzinger. In una pagina per la prima volta tradotta dall’originale tedesco

di Sandro Magister

ROMA, 12 aprile 2006 – Mentre a Roma, nella basilica di San Pietro, Benedetto XVI celebra la sua prima settimana santa da papa, in un’altra antica e grandiosa basilica, quella di Monreale in Sicilia, i riti pasquali hanno una “guida” a lui idealmente molto vicina: quella di Romano Guardini, il teologo tedesco dal quale il giovane Joseph Ratzinger più imparò in tema di liturgia.

Guardini visitò la basilica di Monreale nel 1929 e ne raccontò nel suo “Viaggio in Sicilia”.

La visitò nei giorni della Settimana Santa: il giovedì durante la messa crismale e il sabato, durante la veglia che all’epoca si celebrava di mattina.

L’attuale arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, ha ripreso quel racconto di Guardini dall’originale tedesco, l’ha tradotto e l’ha riproposto ai fedeli all’interno di una lettera pastorale dal titolo “Amiamo la nostra Chiesa”. Come a far da guida alle celebrazioni liturgiche d’oggi.

In quella pagina, il grande teologo tedesco scrisse tutto il suo stupore per la bellezza della basilica di Monreale e lo splendore dei suoi mosaici.

Ma soprattutto scrisse d’essere stato colpito dai fedeli che assistevano al rito, dal loro “vivere-nello-sguardo”, dalla “compenetrazione” tra questo popolo e le figure dei mosaici, che da esso prendevano vita e movimento.

“Gli sembrò – nota l’arcivescovo Naro nella lettera pastorale – che quel popolo sperimentasse un modo esemplare di celebrare la liturgia: con la visione”.

La basilica di Monreale, capolavoro dell’arte normanna del XII secolo, ha le pareti interamente rivestite da mosaici a fondo d’oro con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, gli angeli e i santi, i profeti e gli apostoli, i vescovi e i re, e il Cristo “Pantocrator”, reggitore di tutto, che dall’abside avvolge con la sua luce, il suo sguardo, la sua potenza il popolo cristiano.

Ecco qui di seguito il racconto della visita di Guardini a Monreale tradotto dal suo “Reise nach Sizilien [Viaggio in Sicilia]”.

L’originale tedesco è in R. Guardini, “Spiegel und Gleichnis. Bilder und Gedanken [Specchio e parabola. Immagini e pensieri]”, Grünewald-Schöningh, Mainz-Paderbon, 1990, pp. 158-161.

“Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica…”

di Romano Guardini

Oggi ho visto qualcosa di grandioso: Monreale. Sono colmo di un senso di gratitudine per la sua esistenza. La giornata era piovosa. Quando ci arrivammo – era giovedì santo – la messa solenne era oltre la consacrazione. L’arcivescovo per la benedizione degli olii sacri stava seduto su un posto elevato sotto l’arco trionfale del coro. L’ampio spazio era affollato. Ovunque le persone stavano sedute sulle loro sedie, silenziose, e guardavano.

Che dovrei dire dello splendore di questo luogo? Dapprima lo sguardo del visitatore vede una basilica di proporzioni armoniose. Poi percepisce un movimento nella sua struttura, e questa si arricchisce di qualcosa di nuovo, un desiderio di trascendenza l’attraversa sino a trapassarla; ma tutto ciò procede fino a culminare in quella splendida luminosità.

Un breve istante storico, dunque. Non dura a lungo, gli subentra qualcosa di completamente Altro. Ma questo istante, pur breve, è di un’ineffabile bellezza.

Oro su tutte le pareti. Figure sopra figure, in tutte le volte e in tutte le arcate. Fuoriuscivano dallo sfondo aureo come da un cosmo. Dall’oro irrompevano ovunque colori che hanno in sé qualcosa di radioso.

Tuttavia la luce era attutita. L’oro dormiva, e tutti i colori dormivano. Si vedeva che c’erano e attendevano. E quali sarebbero se rifulgesse il loro splendore! Solo qui o là un bordo luccicava, e un’aura chiaroscura si spalmava sul mantello blu della figura del Cristo nell’abside.

Quando portarono gli olii sacri alla sagrestia, mentre la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno, si snodava attraverso quella folla di figure del duomo, questo si rianimò.

Le sue forme si mossero. Entrando in relazione con le persone che avanzavano con solennità, nello sfiorarsi delle vesti e dei colori alle pareti e nelle arcate, gli spazi si misero in movimento. Gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in ascolto e agli occhi in contemplazione.

La folla stava seduta e guardava. Le donne portavano il velo. Nei loro vestiti e nei loro panni i colori aspettavano il sole per poter risplendere. I volti marcati degli uomini erano belli. Quasi nessuno leggeva. Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare.

Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il “santo” nell’immagine e nel suo dinamismo.

* * *

Monreale, sabato santo. Al nostro arrivo la cerimonia sacra era alla benedizione del cero pasquale. Subito dopo il diacono avanzò solennemente lungo la navata principale e portò il Lumen Christi.

L’Exsultet fu cantato davanti all’altare maggiore. Il vescovo stava seduto sul suo trono di pietra elevato alla destra dell’altare e ascoltava. Seguirono le letture tratte dai profeti, ed io vi ritrovai il significato sublime di quelle immagini musive.

Poi la benedizione dell’acqua battesimale in mezzo alla chiesa. Intorno al fonte stavano seduti tutti gli assistenti, al centro il vescovo, la gente stava attorno. Portarono dei bambini, si notava la fierezza commossa dei loro genitori, ed il vescovo li battezzò.

Tutto era così familiare. La condotta del popolo era allo stesso tempo disinvolta e devota, e quando uno parlava al vicino, non disturbava. In questo modo la sacra cerimonia continuò il suo corso. Si dislocava un po’ in tutta la grande chiesa: ora si svolgeva nel coro, ora nelle navate, ora sotto l’arco trionfale. L’ampiezza e la maestosità del luogo abbracciarono ogni movimento e ogni figura, li fecero reciprocamente compenetrare sino ad unirsi.

Di tanto in tanto un raggio di sole penetrava nella volta, e allora un sorriso aureo pervadeva lo spazio in alto. E ovunque su un vestito o un velo ci fosse un colore in attesa, esso era richiamato dall’oro che riempiva ogni angolo, veniva condotto alla sua vera forza e assunto in una trama armoniosa che colmava il cuore di felicità.

La cosa più bella però era il popolo. Le donne con i loro fazzoletti, gli uomini con i loro mantelli sulle spalle. Ovunque volti marcati e un comportamento sereno. Quasi nessuno che leggeva, quasi nessuno chino a pregare da solo. Tutti guardavano.

La sacra cerimonia si protrasse per più di quattro ore, eppure sempre ci fu una viva partecipazione. Ci sono modi diversi di partecipazione orante. L’uno si realizza ascoltando, parlando, gesticolando. L’altro invece si svolge guardando. Il primo è buono, e noi del Nord Europa non ne conosciamo altro. Ma abbiamo perso qualcosa che a Monreale ancora c’era: la capacità di vivere-nello-sguardo, di stare nella visione, di accogliere il sacro dalla forma e dall’evento, contemplando.

Me ne stavo per andare, quando improvvisamente scorsi tutti quegli occhi rivolti a me. Quasi spaventato distolsi lo sguardo, come se provassi pudore a scrutare in quegli occhi ch’erano già stati dischiusi sull’altare .

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La lettera pastorale dell’arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, che include il brano di Romano Guardini sopra riportato:

> “Amiamo la nostra Chiesa”

E la home page del sito dell’arcidiocesi:

> Arcidiocesi di Monreale

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Il legame tra Benedetto XVI e Romano Guardini è evidentissimo fin nel titolo del libro “Introduzione allo spirito della liturgia” pubblicato dall’attuale papa nel 1999.

La prefazione del libro così comincia:

“Una delle mie prime letture dopo l’inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l’opera prima di Romano Guardini ‘Lo spirito della liturgia’, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918. Quest’opera contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. [...] Questo mio libro vorrebbe proprio rappresentare un contributo a tale rinnovata comprensione”.

Lo scorso giovedì 6 aprile, rispondendo in piazza San Pietro alla domanda di un giovane sulla sua vocazione, Benedetto XVI è tornato a sottolineare che essa sbocciò e fiorì, quand’era ragazzo, proprio con la “scoperta della bellezza della liturgia”. Perchè “realmente nella liturgia la bellezza divina ci appare e si apre il cielo”.

di Sandro Magister: Il segreto della popolarità di Benedetto XVI. Nonostante tutto

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1337717

Il segreto della popolarità di Benedetto XVI. Nonostante tutto

Pur tempestato dalle critiche, questo papa continua a riscuotere la fiducia delle grandi masse. Il viaggio in Africa e un’inchiesta in Italia lo provano. Il motivo è che parla di Dio a un’umanità in cerca d’orientamento

di Sandro Magister
 

ROMA, 27 marzo 2009 – Sull’aereo di ritorno dal Camerun e dall’Angola, Benedetto XVI ha detto ai giornalisti che, del viaggio, gli sono rimaste impresse nella memoria queste due cose:

« Da una parte la cordialità quasi esuberante, la gioia, di un’Africa in festa. Nel papa hanno visto la personificazione del fatto che siamo tutti figli e famiglia di Dio. Esiste questa famiglia e noi, con tutti i nostri limiti, siamo in questa famiglia e Dio è con noi.

« Dall’altra parte lo spirito di raccoglimento nelle liturgie, il forte senso del sacro: nelle liturgie non c’era autopresentazione dei gruppi, autoanimazione, ma la presenza del sacro, di Dio stesso. Anche i movimenti, le danze, erano sempre di rispetto e di consapevolezza della presenza divina ».

Popolarità e presenza di Dio. L’intreccio tra questi due elementi è il segreto del pontificato di Joseph Ratzinger.

***

Che Benedetto XVI sia un papa popolare sembrerebbe contraddetto dalla tempesta di critiche ostili che si abbattono quotidianamente su di lui, dai media di tutto il mondo. Nell’ultimo mese queste critiche hanno registrato un crescendo senza precedenti. Anche rappresentanti ufficiali di governi, ormai, non hanno remore a mettere sotto accusa il papa.

Ma se si guarda ai grandi numeri l’impressione che si ricava è diversa. Nei suoi viaggi, Benedetto XVI ha sempre registrato indici di popolarità superiori alle attese. Non solo in Africa ma anche su piazze difficili come gli Stati Uniti o la Francia. A Roma, all’Angelus della domenica mezzogiorno, piazza San Pietro è ogni volta gremita più che negli anni di Giovanni Paolo II.

Ciò non significa che queste medesime folle accettino e pratichino all’unisono gli insegnamenti del papa e della Chiesa. Innumerevoli indagini mettono in luce che sul matrimonio, la sessualità, l’aborto, l’eutanasia, la contraccezione i giudizi di un largo numero di persone sono più o meno distanti dal magistero cattolico.

Nello stesso tempo, tuttavia, molte di queste stesse persone manifestano un profondo rispetto per la figura del papa e per l’autorità della Chiesa.

Il caso dell’Italia è esemplare. Il 25 marzo su « la Repubblica » – cioè sul quotidiano progressista leader, molto caustico nel criticare Benedetto XVI – il sociologo Ilvo Diamanti ha fornito un’ennesima conferma dell’alto tasso di fiducia che gli italiani continuano a riporre nella Chiesa e nel papa, nonostante il diffuso dissenso su vari punti del suo insegnamento.

Ad esempio, richiesti di dire se fossero pro o contro l’affermazione del papa sul preservativo « che non risolve il problema dell’AIDS ma lo aggrava », ben tre su quattro si sono detti contrari.

Ma i medesimi intervistati, alla domanda se riponessero fiducia nella Chiesa, hanno risposto « molto » o « moltissimo » nella misura del 58,1 per cento. Ed è risultata ampia anche la fiducia riposta in Benedetto XVI, col 54,9 per cento.

Non solo. Dalla stessa indagine si ricava che la fiducia nella Chiesa e in Benedetto XVI non è in calo ma è in aumento rispetto a un anno fa.

Il professor Diamanti spiega così questo apparente contrasto:

« La Chiesa e il papa intervengono sui temi sensibili dell’etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offrono risposte discutibili e spesso discusse, contestate da sinistra o da destra. Tuttavia, offrono certezze a una società insicura, alla ricerca di riferimenti e valori. Per questo 8 italiani su 10, tra i non praticanti, considerano importante dare ai figli una educazione cattolica e li iscrivono all’ora di religione. Per questo una larghissima maggioranza delle famiglie, vicina al 90 per cento, destina l’8 per mille della propria imposta sul reddito alla Chiesa cattolica ».

E per questo stesso motivo – si può aggiungere – il capo del governo italiano Silvio Berlusconi non si è unito nei giorni scorsi al coro di critiche al papa dei rappresentanti di Francia, Germania, Belgio, Spagna, eccetera. Anzi, si è espresso in direzione opposta.

Il 21 marzo ha detto che è doveroso rispettare la Chiesa e difendere la sua libertà di parola e di azione « anche quando si trova a proclamare principi e concetti difficili e impopolari, lontani da quelle che sono le opinioni di moda ». Con ciò Berlusconi ha semplicemente espresso quello che è il sentire comune di tantissimi italiani.

***

I dati sopra richiamati fanno quindi già intravvedere la sostanza della questione: che cioè la popolarità di Benedetto XVI ha la sua sorgente proprio nel modo in cui egli svolge la sua missione di successore di Pietro.

Questo papa è rispettato e ammirato per una ragione fondamentale. Perché ha posto in cima a tutto questa priorità, da lui formulata così nella lettera ai vescovi dello scorso 10 marzo, documento capitale del suo pontificato:

« Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Giovanni 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più ».

Domenica 15 marzo, due giorni prima di partire per l’Africa, Benedetto XVI non disse niente di diverso nello spiegare la finalità del suo viaggio, alla folla convenuta per l’Angelus in piazza San Pietro:

« Parto per l’Africa con la consapevolezza di non avere altro da proporre e donare a quanti incontrerò se non Cristo e la buona novella della sua Croce, mistero di amore supremo, di amore divino che vince ogni umana resistenza e rende possibile persino il perdono e l’amore per i nemici. Questa è la grazia del Vangelo capace di trasformare il mondo; questa è la grazia che può rinnovare anche l’Africa, perché genera una irresistibile forza di pace e di riconciliazione profonda e radicale. La Chiesa non persegue obiettivi economici, sociali e politici; la Chiesa annuncia Cristo, certa che il Vangelo può toccare i cuori di tutti e trasformarli, rinnovando in tal modo dal di dentro le persona e le società ».

In Camerun e in Angola, il cuore del messaggio del papa fu effettivamente questo. Non le denunce – pur da lui fatte con parole forti – dei mali del continente e delle responsabilità di chi li genera. Ma per prima cosa quello che fu l’annuncio di Pietro allo storpio, nel capitolo 3 degli Atti degli Apostoli: « Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina! ».

Tra i diciannove discorsi, messaggi, interviste, omelie pronunciati da Benedetto XVI nei sette giorni del suo viaggio in Camerun e in Angola sarebbe interessante ricavare un’antologia dei passi più significativi.

Ma per capire il senso profondo della sua missione basta riportare qui un solo testo emblematico: l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nella messa di sabato 21 marzo, a Luanda, nella chiesa di San Paolo.

Lo spirito di raccoglimento, il forte senso della presenza di Dio, rimasti impressi nella memoria del papa alla vista delle folle che seguivano la liturgia, come pure l’esuberante festosità con cui lo hanno accolto ed avvolto, hanno una loro spiegazione anche in questa omelia di papa Ratzinger in una remota chiesa dell’Africa:

« Affrettiamoci a conoscere il Signore »

di Benedetto XVI

Carissimi fratelli e sorelle, amati lavoratori della vigna del Signore, come abbiamo sentito, i figli d’Israele si dicevano l’un l’altro: « Affrettiamoci a conoscere il Signore » (Osea 6, 3). Essi si rincuoravano con queste parole, mentre si vedevano sommersi dalle tribolazioni. Queste erano cadute su di loro – spiega il profeta – perché vivevano nell’ignoranza di Dio; il loro cuore era povero d’amore. E il solo medico in grado di guarirlo era il Signore. Anzi, è stato proprio Lui, come buon medico, ad aprire la ferita, affinché la piaga guarisse. E il popolo si decide: « Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà » (Osea 6, 1). In questo modo hanno potuto incrociarsi la miseria umana e la misericordia divina, la quale null’altro desidera se non accogliere i miseri.

Lo vediamo nella pagina del Vangelo proclamata: « Due uomini salirono al tempio a pregare »; di là, uno « tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro » (Luca 18, 10.14). Quest’ultimo aveva esposto tutti i suoi meriti davanti a Dio, quasi facendo di Lui un suo debitore. In fondo, egli non sentiva il bisogno di Dio, anche se Lo ringraziava per avergli concesso di essere così perfetto e « non come questo pubblicano ». Eppure sarà proprio il pubblicano a scendere a casa sua giustificato. Consapevole dei suoi peccati, che lo fanno rimanere a testa bassa – in realtà però egli è tutto proteso verso il Cielo –, egli aspetta ogni cosa dal Signore: « O Dio, abbi pietà di me peccatore » (Luca 18, 13). Egli bussa alla porta della Misericordia, la quale si apre e lo giustifica, « perché – conclude Gesù – chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Luca 18, 14).

Di questo Dio, ricco di misericordia, ci parla per esperienza personale san Paolo, patrono della città di Luanda e di questa stupenda chiesa, edificata quasi cinquant’anni fa. Ho voluto sottolineare il bimillenario della nascita di san Paolo con il giubileo paolino in corso, allo scopo di imparare da lui a conoscere meglio Gesù Cristo. Ecco la testimonianza che egli ci ha lasciato: « Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo io ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, affinché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in Lui per avere la vita eterna » (1 Timoteo 1, 15-16). E, con il passare dei secoli, il numero dei raggiunti dalla grazia non ha cessato di aumentare. Tu ed io siamo di loro. Rendiamo grazie a Dio perché ci ha chiamati ad entrare in questa processione dei tempi per farci avanzare verso il futuro. Seguendo coloro che hanno seguito Gesù, con loro seguiamo lo stesso Cristo e così entriamo nella Luce. [...]

Fondamentale nella vita di Paolo è stato il suo incontro con Gesù, quando camminava per la strada verso Damasco: Cristo gli appare come luce abbagliante, gli parla, lo conquista. L’apostolo ha visto Gesù risorto, ossia l’uomo nella sua statura perfetta. Quindi si verifica in lui un’inversione di prospettiva, ed egli giunge a vedere ogni cosa a partire da questa statura finale dell’uomo in Gesù: ciò che prima gli sembrava essenziale e fondamentale, adesso per lui non vale più della « spazzatura »; non è più « guadagno » ma perdita, perché ora conta soltanto la vita in Cristo (cfr. Filippesi 3, 7-8). Non si tratta di semplice maturazione dell’io di Paolo, ma di morte a se stesso e di risurrezione in Cristo: è morta in lui una forma di esistenza; una forma nuova è nata in lui con Gesù risorto.

Miei fratelli e amici, « affrettiamoci a conoscere il Signore » risorto! Come sapete, Gesù, uomo perfetto, è anche il nostro vero Dio. In Lui, Dio è diventato visibile ai nostri occhi, per farci partecipi della sua vita divina. In questo modo, viene inaugurata con Lui una nuova dimensione dell’essere, della vita, nella quale viene integrata anche la materia e mediante la quale sorge un mondo nuovo. Ma questo salto di qualità della storia universale che Gesù ha compiuto al nostro posto e per noi, in concreto come raggiunge l’essere umano, permeando la sua vita e trascinandola verso l’alto? Raggiunge ciascuno di noi attraverso la fede e il Battesimo. Infatti, questo sacramento è morte e risurrezione, trasformazione in una vita nuova, a tal punto che la persona battezzata può affermare con Paolo: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Galati 2, 20). Vivo io, ma già non più io. In certo modo, mi viene tolto il mio io, e viene integrato in un Io più grande; ho ancora il mio io, ma trasformato e aperto agli altri mediante il mio inserimento nell’Altro: in Cristo, acquisto il mio nuovo spazio di vita. Che cosa è dunque avvenuto di noi? Risponde Paolo: Voi siete diventati uno in Cristo Gesù (cfr Galati 3, 28).

E, mediante questo nostro essere cristificato per opera e grazia dello Spirito di Dio, pian piano si va completando la gestazione del Corpo di Cristo lungo la storia. In questo momento, mi piace andare col pensiero indietro di cinquecento anni, ossia agli anni 1506 e seguenti, quando in queste terre, allora visitate dai portoghesi, venne costituito il primo regno cristiano sub-sahariano, grazie alla fede e alla determinazione del re Dom Afonso I Mbemba-a-Nzinga, che regnò dal menzionato anno 1506 fino al 1543, anno in cui morì; il regno rimase ufficialmente cattolico dal secolo XVI fino al XVIII, con un proprio ambasciatore in Roma. Vedete come due etnie tanto diverse – quella banta e quella lusiade – hanno potuto trovare nella religione cristiana una piattaforma d’intesa, e si sono impegnate poi perché quest’intesa durasse a lungo e le divergenze – ce ne sono state, e di gravi – non separassero i due regni! Di fatto, il Battesimo fa sì che tutti i credenti siano uno in Cristo.

Oggi spetta a voi, fratelli e sorelle, sulla scia di quegli eroici e santi messaggeri di Dio, offrire Cristo risorto ai vostri concittadini. Tanti di loro vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati; disorientati, arrivano al punto di condannare bambini della strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni. Chi può recarsi da loro ad annunziare che Cristo ha vinto la morte e tutti quegli oscuri poteri (cfr. Efesini 1, 19-23; 6, 10-12)? Qualcuno obietta: « Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi nel modo migliore la propria autenticità ». Ma, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna.

Venerati e amati fratelli e sorelle, diciamo loro come il popolo israelita: « Venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà ». Aiutiamo la miseria umana ad incontrarsi con la misericordia divina. Il Signore fa di noi i suoi amici, Egli si affida a noi, ci consegna il suo corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere un solo sentire con Lui, volere ciò che Egli vuole e non volere ciò che Egli non vuole. Gesù stesso ha detto: « Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando » (Giovanni 15, 14). Sia questo il nostro impegno comune: fare, tutti insieme, la sua santa volontà: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura » (Marco 16, 15). Abbracciamo la sua volontà, come ha fatto san Paolo: « Predicare il Vangelo è un dovere per me: guai a me se non annuncio il Vangelo! » (1 Corinzi 9, 16).

Publié dans:Sandro Magister |on 27 mars, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Etiopia, una stupefacente cristianità in terra d’Africa

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1337571

Etiopia, una stupefacente cristianità in terra d’Africa

Una mostra a Venezia getta luce su una Chiesa quasi sconosciuta nel resto del mondo, eppure popolosa e fiorente, di origini antichissime e con forti tratti ebraici. « Nera e bella » come la regina di Saba

di Sandro Magister

ROMA, 18 marzo 2009 – Alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Camerun e in Angola è stata aperta in Italia, per la prima volta, una grande mostra su un’altra regione dell’Africa cristiana, l’Etiopia, con icone, codici miniati, croci, sculture, dipinti di suggestiva bellezza, finora mai esposti al pubblico.

Il titolo della mostra è: « Nigra sum sed formosa », sono nera ma bella. Sono parole del Cantico dei Cantici tradizionalmente riferite alla regina di Saba, capostipite dell’Etiopia nel poema epico nazionale, il « Kebra Negast », la gloria dei re.

Nel poema, che in parte concorda con il biblico libro dei Re, la regina di Saba si recò in visita a Gerusalemme da re Salomone, e da lui ebbe un figlio. Con lei l’ebraismo mise radici in Etiopia.

Ma anche nella tradizione e nell’arte cristiana la regina di Saba ha un posto di rilievo. Si racconta che durante il suo viaggio a Gerusalemme, colta da profetica intuizione, si inginocchiò di fronte al legno del ponte sul fiume Siloe, il legno destinato un giorno a diventare la croce di Gesù.

Ad ospitare la mostra è Venezia, la città che soprattutto nel Quattrocento ebbe rapporti con quel lontano regno dell’Africa.

Una nazione e una cristianità ancora oggi remote. Sconosciute ai più. L’Etiopia è uno dei pochissimi paesi del mondo nel quale non ha messo piede nemmeno un papa viaggiatore come Giovanni Paolo II.

La mostra segna quindi anche la rottura di un isolamento. È uno sguardo finalmente gettato su questa stupefacente cristianità in terra d’Africa.

***

Stando agli Atti degli Apostoli, capitolo 8, il primo pagano convertito alla fede cristiana fu un etiope giudaizzante, alto funzionario del regno, battezzato dall’apostolo Filippo lungo la strada tra Gerusalemme e Gaza.

In ogni caso, l’Etiopia è cristiana già a partire dalla prima metà del secolo IV. Il suo legame più stretto è con Alessandria d’Egitto, il cui patriarca nomina il metropolita della capitale del regno. Le due Chiese, l’egiziana copta e l’etiopica, sono rimaste da allora legate anche nella fede monifisita, che in Cristo riconosce la sola natura divina. Accettano i tre primi Concili, quelli di Nicea, Costantinopoli ed Efeso, ma non quello di Calcedonia del 451, che fissò la dottrina delle due nature di Cristo, la divina e l’umana. Per questo le Chiese copta ed etiopica sono anche definite « precalcedonesi ».

All’isolamento dell’Etiopia cristiana contribuì l’espansione dell’Islam, che circondò quel regno e tentò più volte di sottometterlo, sempre respinto da una tenace resistenza.

Il massimo pericolo fu toccato nel XVI secolo. L’Etiopia chiese aiuto al Portogallo, che inviò un’armata e sconfisse i musulmani. In quell’epoca si tentò anche di riportare la Chiesa ortodossa d’Etiopia all’unità con la Chiesa di Roma. Sant’Ignazio di Loyola vi si impegnò personalmente. In due ondate arrivarono dei missionari gesuiti. All’inizio del Seicento dei re abbracciarono il cattolicesimo. Ma subito dopo quel tentativo di unione fallì.

Nel secolo XX – dopo la sanguinosa parentesi della guerra coloniale italiana – si impegnò a rinvigorire la Chiesa etiopica l’imperatore dell’epoca, Haile Selassié. Fino ad allora l’unico vescovo di questa Chiesa era nominato e inviato dal patriarca copto di Alessandria d’Egitto. Haile Selassié ottenne prima i stabilire una gerarchia ecclesiastica autoctona e poi, nel 1959, l’autonomia nella nomina del metropolita, elevato alla dignità di patriarca.

Nel 1974 prese il potere il regime marxista-leninista del colonnello Menghistu. Il patriarca Teofilos fu arrestato e poi strangolato in carcere. Il suo successore Paulos fu anch’esso incarcerato e torturato, per sette anni, e poi mandato in esilio negli Stati Uniti. Ritornò in patria nel 1992, dopo la caduta del regime di Menghistu, ed è tuttora in carica. Nel 1993 incontrò in Vaticano papa Giovanni Paolo II, che gli offrì una chiesa nella quale celebrare a Roma le liturgie per gli immigrati di rito etiopico.

***

In un’intervista al mensile italiano « Jesus » del gennaio di quest’anno, il patriarca Paulos ha così descritto la Chiesa d’Etiopia:

« Al momento abbiamo più di 50 mila chiese in tutto il paese. I nostri giovani vanno regolarmente a messa, con presenze pari al 70 per cento; in tutto, quindi, considerata la costanza con cui le fasce adulte e anziane vanno alla liturgia, sfioriamo l’80 per cento di popolo a messa ogni domenica. Ma c’è un altro aspetto che vorrei sottolineare e cioè la vita monastica: sempre più giovani chiedono di diventare monaci. Abbiamo 1.200 monasteri in tutto il paese e circa 50 mila monaci e monache. Complessivamente, possiamo dire di avere 45 milioni di fedeli se si calcolano i tantissimi cristiani etiopici che vivono all’estero, ai quali abbiamo destinato 17 arcivescovi. All’interno del paese, invece, i vescovi sono 45. Insomma, siamo molto orgogliosi della nostra storia e della nostra presenza ».

A questo si può aggiungere che il clero, numerosissimo, è per lo più sposato, ma solo prima di ricevere gli ordini, mentre i vescovi sono scelti tra i monaci, celibi. Nelle campagne i preti fanno vita da contadini, ben voluti dalla popolazione. Nei monasteri, dove si conduce una vita austera e penitenziale, si ritirano anche molti vedovi e vedove. La formazione del clero è per lo più limitata alle sole arti liturgiche. La lingua dei testi e dei riti sacri è il ge’ez antico, ma oggi si usa anche l’amhari, proprio di un’etnia dell’altipiano a nord del Nilo Azzurro, culla della civiltà etiopica.

Le chiese hanno una struttura particolare. L’altare è all’interno di uno spazio chiuso, detto « il santo dei santi », nel quale solo i sacerdoti (e in passato i re) possono entrare. All’intorno c’è un’area circolare per i diaconi e i cantori, che appartengono a confraternite laiche. E poi c’è lo spazio per i semplici fedeli, molti dei quali seguono il rito all’esterno della chiesa non solo per l’affollamento ma anche in quanto catecumeni o penitenti.

I cristiani etiopici portano sempre al collo un cordoncino, detto « mateb », che ricevono con il battesimo. Sono circoncisi otto giorni dopo la nascita e presentati al tempio quaranta giorni dopo, come avvenne per Gesù. Entrano in chiesa scalzi, come ordinò Dio a Mosè di fronte al roveto ardente. Non mangiano cibi impuri, ad esempio la carne di maiale, come prescritto dal Levitico. Affermano di custodire l’Arca dell’Alleanza e le Tavole della Legge affidate loro da re Salomone. Conservano insomma dei tratti giudaizzanti.

L’elemosina e il soccorso ai poveri sono largamente praticati. E così il digiuno dalla carne e dai latticini, osservato circa centottanta giorni all’anno. Sono frequenti i pellegrinaggi ai santuari, specialmente ad Axum, la capitale storica e religiosa, e a Lalibelà, con le sue dieci chiese del XII secolo scavate nella roccia, che riproducono simbolicamente la topografia di Gerusalemme.

Il calendario è di dodici mesi di trenta giorni ciascuno, più un tredicesimo mese fatto di cinque giorni oppure, ogni quattro anni, di sei. L’anno bisestile è chiamato anno di Luca, mentre i successivi tre anni prendono il nome degli altri tre evangelisti, nell’ordine Giovanni, Matteo e Marco. La vita è fortemente scandita dai tempi liturgici. Il Natale corrisponde al nostro 7 gennaio. La Quaresima è di sette settimane e ogni domenica prende il nome dal rispettivo brano del Vangelo: del Sabato, del Tempio, del Paralitico, del Monte degli Ulivi, del Buon Servitore, di Nicodemo.

L’arte sacra etiopica ha anch’essa tratti originali. Per assaporarne la straordinaria bellezza non c’è che andare a Venezia, alla magnifica mostra « Nigra sum sed formosa ».

Publié dans:Sandro Magister |on 23 mars, 2009 |Pas de commentaires »
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