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di Sandro Magister: Quaresima 2010. Le ceneri di papa Benedetto

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Quaresima 2010. Le ceneri di papa Benedetto

Il suo cruccio è lo spegnersi della fede. Il suo programma è condurre gli uomini a Dio. Il suo strumento preferito è l’insegnamento. Ma la curia vaticana lo aiuta poco. E talvolta lo danneggia

di Sandro Magister

ROMA, 17 febbraio 2010 – Oggi, mercoledì delle ceneri, ha inizio la Quaresima secondo il rito romano. E il vescovo di Roma vi entra, come ogni anno, con le ceneri sul capo, con una processione penitenziale e con una messa celebrata nell’antica basilica di Santa Sabina all’Aventino.

La Quaresima è oggi molto sbiadita nella mentalità diffusa dell’Occidente, dove fa più notizia il Ramadan musulmano. Ma a Benedetto XVI, visibilmente, preme ridare senso e vigore a questo tempo di preparazione alla Pasqua.

Quest’anno, oltre che con il messaggio ai fedeli riprodotto più sotto, con l’omelia del mercoledì delle ceneri e con l’udienza generale dello stesso giorno, papa Joseph Ratzinger apre la Quaresima anche con una doppia « lectio divina ». La prima l’ha tenuta pochi giorni fa ai seminaristi di Roma, la seconda la terrà domani ai preti della diocesi.

La « lectio divina » è una riflessione sul senso delle Sacre Scritture fatta scegliendo un passo biblico e commentandolo. Papa Benedetto usa dettarla a braccio, con lo stile degli antichi Padri delle Chiesa e dei grandi maestri teologi del Medioevo, ma sempre con lo sguardo attento alla cultura di oggi.

Venerdì scorso, 12 febbraio, commentando ai seminaristi di Roma un passo del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, il papa ha riferito di una lettera scrittagli da un professore dell’università di Ratisbona, che contestava la visione cristiana di Dio.

Benedetto XVI ha detto d’aver ravvisato nelle obiezioni di questo professore « l’eterna tentazione del dualismo, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male, e che il Dio buono è solo una parte della realtà ».

Ed ha aggiunto:

« Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male? ».

È impressionante la similitudine tra queste parole del papa e ciò che ha detto Robert Spaemann, un filosofo tedesco da lui molto stimato, al convegno internazionale su Dio promosso a Roma lo scorso dicembre dalla conferenza episcopale italiana:

« Chi crede in Dio, crede che la potenza assoluta e il bene assoluto abbiano lo stesso riferimento: la santità di Dio. Gli gnostici dei primi secoli cristiani negavano questa identità. Essi attribuivano i due predicati a due divinità, una potenza cattiva, il ‘deus universi’, dio e creatore di questo mondo, e un dio che è luce, che appare da lontano nell’oscurità di questo mondo. [...] È importante sottolineare questo oggi, dove addirittura i sacerdoti, anziché invocare su di noi la benedizione del Dio onnipotente, parlano soltanto di ‘Dio buono’. Il discorso sulla bontà di Dio, su Dio che è amore, smarrisce il suo punto sconvolgente, se passa sotto silenzio chi è colui di cui si dice che Egli è amore, se cioè passa sotto silenzio che Egli è la potenza che guida la nostra esistenza e il mondo. [...] Se il bene non appartenesse all’essere, l’essere non sarebbe tutto, non sarebbe cioè la totalità. [...] Ma vale anche il contrario: se il bene fosse impotenza, allora non sarebbe il bene tout court. Poiché l’impotenza del bene non è bene. La fede nella potenza del bene è ciò che ci consente di abbandonarci attivamente alla realtà, senza dover temere che in un mondo assurdo anche ogni buona intenzione sia giudicata come una assurdità ».

Dall’attenzione fortissima data a tale questione è sempre più evidente che Benedetto XVI ha davvero assunto come « priorità » del suo pontificato quella « di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio » (così nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo 2009). Priorità da lui recentemente ribadita nel proposito di « aprire un cortile dei gentili » per tutti i cercatori di Dio.

In Ratzinger è cioè sempre più manifesta la volontà di concentrare la sua missione di papa nella predicazione orale e scritta. Una predicazione di grande vigore dottrinale, mirata a consolidare i fondamenti della dottrina e a « confermare » nella fede una Chiesa ampiamente tentata da visioni spiritualizzate e riduttive sia di Dio che di Gesù e dei dogmi cristiani.

*

In questa impresa audace, stupisce però che a papa Ratzinger non sia dato un sostegno adeguato, da parte della sua curia.

Il comunicato della segreteria di Stato del 9 febbraio scorso è l’ultimo segno di questo dislivello tra il magistero del papa e l’operato della macchina vaticana.

Chiamare in causa il papa e farsi scudo di lui per smentire un passaggio di carte dal Vaticano a un giornale, l’utilizzo di un gendarme pontificio come postino e la paternità curiale di un articolo con firma fittizia, sullo sfondo di una vicenda che comunque resta intatta nei suoi tratti sostanziali di conflitto tra la segreteria di Stato e la conferenza episcopale italiana – conflitto al quale il papa era ed è superiore e da nessuno accusato – è parso a molti come un atto fuori misura. Non solo slegato, ma in contrasto stridente con la qualità e i contenuti del magistero di papa Benedetto, a dispetto dell’approvazione formale da lui data alla pubblicazione del comunicato e della fiducia da lui rinnovata ai suoi collaboratori.

Di tale vicenda www.chiesa ha dato conto pochi giorni fa in questo servizio:

> Italia, Stati Uniti, Brasile. Dal Vaticano alla conquista del mondo

Ma per tornare alle « cose di lassù », ecco qui di seguito il messaggio con cui papa Ratzinger ha voluto introdurre la Quaresima di quest’anno.

« La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo »

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, ogni anno, in occasione della Quaresima, la Chiesa ci invita a una sincera revisione della nostra vita alla luce degli insegnamenti evangelici. Quest’anno vorrei proporvi alcune riflessioni sul vasto tema della giustizia, partendo dall’affermazione paolina: « La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo » (cfr. Romani 3, 21-22).

Giustizia: “dare cuique suum”

Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare cuique suum”, dare a ciascuno il suo, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo. In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno. Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge. Per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza. Sono certamente utili e necessari i beni materiali – del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine –, ma la giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto. Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio. Nota sant’Agostino: se “la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo… non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio” (De civitate Dei, XIX, 21).

Da dove viene l’ingiustizia?

L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Marco 7, 14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare – ammonisce Gesù – è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Salmo 51, 7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr. Genesi 3, 1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?

Giustizia e « sedaqah »

Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Salmo 113, 7) e giustizia verso il prossimo. La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, « sedaqah », ben lo esprime. « Sedaqah » infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr. Esodo 20, 12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr. Deuteronomio 10, 18-19). Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo. Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosè, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso. L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha « ascoltato il lamento » del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr. Esodo 3, 8). Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr. Siracide 4, 4-5.8-9), il forestiero (cfr. Esodo 22, 20), lo schiavo (cfr. Deuteronomio 15,12-18). Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare. C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia?

Cristo, giustizia di Dio

L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio… per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3, 21-25).

Quale è dunque la giustizia di Cristo? È anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr. Galati 3, 13-14). Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”? In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza: indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.

Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr. Romani 13, 8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.

Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore.

Cari fratelli e sorelle, la Quaresima culmina nel triduo pasquale, nel quale anche quest’anno celebreremo la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo penitenziale sia per ogni cristiano tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia. Con tali sentimenti, imparto di cuore a tutti l’apostolica benedizione.

Publié dans:Sandro Magister |on 8 mars, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Burrasche vaticane. L’accademia per la vita si gioca la testa

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Burrasche vaticane. L’accademia per la vita si gioca la testa

Il suo presidente monsignor Fisichella non ha più la fiducia di una parte dei membri. Tutto per un suo articolo su « L’Osservatore Romano » approvato dalla segreteria di Stato. La requisitoria dell’accademico Michel Schooyans contro la falsa « compassione » che giustifica tutto

di Sandro Magister

ROMA, 8 febbraio 2010 – Tra pochi giorni, dall’11 al 13 febbraio, si riunirà in Vaticano la pontificia accademia per la vita, il cui presidente è l’arcivescovo Salvatore Fisichella (nella foto).

La riunione si preannuncia burrascosa. Alcuni membri dell’accademia contestano che Fisichella sia il presidente giusto. Tra essi spicca monsignor Michel Schooyans, belga, professore emerito dell’Università Cattolica di Lovanio, stimato specialista in antropologia, in filosofia politica, in bioetica. È membro di tre accademie pontificie: quella delle scienze sociali, quella di san Tommaso d’Aquino e – appunto – quella per la vita. Papa Joseph Ratzinger lo conosce e lo apprezza. Nel 1997, da cardinale prefetto della congregazione per la dottrina della fede, scrisse la prefazione a un suo libro: « L’Évangile face au désordre mondial ».

In vista della riunione, Schooyans ha scritto una dura requisitoria contro la « trappola » nella quale anche Fisichella sarebbe caduto: l’uso ingannevole del concetto di « compassione ».

La requisitoria è riprodotta integralmente più sotto. In essa il nome di Fisichella non c’è. Ci sono però precisi riferimenti a un suo articolo su « L’Osservatore Romano » in materia di aborto, che quando uscì provocò un autentico sconquasso e alla fine obbligò la congregazione vaticana per la dottrina della fede a emettere una « Chiarificazione ».

*

Quell’articolo di Fisichella uscì il 15 marzo 2009. E riguardava il caso di una giovanissima bambina-madre brasiliana, fatta abortire, a Recife, dei due gemelli che portava in grembo.

Nei giorni precedenti, la vicenda di questa bambina aveva infiammato virulente polemiche, non solo in Brasile, ma anche in altri paesi e soprattutto in Francia.

I giornali francesi si erano scagliati contro il « fanatismo » e la « durezza di cuore » della Chiesa, in particolare dell’arcivescovo di Olinda e Recife, José Cardoso Sobrinho, che aveva condannato il duplice aborto. E si schieravano compatti in difesa della bambina e di coloro che l’avevano « salvata » facendola abortire.

Le accuse alla Chiesa priva di « compassione » erano molto aspre e colpivano lo stesso papa Benedetto XVI, appena reduce dagli attacchi furiosi provocati contro di lui dal caso Williamson di poche settimane prima.

Lucetta Scaraffia, commentatrice di punta de « L’Osservatore Romano », era in quei giorni a Parigi e mise in allarme il direttore del giornale vaticano, Giovanni Maria Vian.

Questi, d’accordo col suo editore, il segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, affidò a monsignor Fisichella l’incarico di scrivere un articolo che acquietasse quegli attacchi alla Chiesa e al papa.

Fisichella lo scrisse. Bertone lo esaminò e approvò parola per parola, senza farlo controllare preventivamente dalla congregazione per la dottrina della fede, come in Vaticano si fa, di regola, per le prese di posizione che toccano la dottrina.

Nel pomeriggio del 14 marzo l’articolo uscì sulla prima pagina de « L’Osservatore Romano », con la data del giorno successivo.

In esso, Fisichella scriveva che il caso della bambina brasiliana « ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l’hanno aiutata a interrompere la gravidanza ». Quando invece, « prima di pensare alla scomunica », la bambina « doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata » con quella « umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri ». Ma « così non è stato ».

E proseguiva:

« A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie, la vita [della bambina] era in serio pericolo per la gravidanza in atto. Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale. Scelte come questa [...] si ripetono quotidianamente [...] e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell’atto di dovere decidere cosa sia meglio fare ».

Nel finale dell’articolo Fisichella si rivolgeva direttamente alla bambina: « Stiamo dalla tua parte. [...] Sono altri che meritano la scomunica e il nostro perdono, non quanti ti hanno permesso di vivere ».

*

L’articolo sollevò immediate reazioni di segno opposto: da un lato le proteste dei difensori della vita di ogni concepito, senza eccezioni, dall’altro il plauso dei sostenitori della libertà d’aborto.

L’arcidiocesi di Olinda e Recife, ritenutasi sconfessata pubblicamente e ingiustamente dal Vaticano, reagì con una nota pubblicata sul suo sito il giorno successivo, nella quale accusava Fisichella di mostrarsi disinformato sui fatti e di mettere in forse la stessa dottrina della Chiesa sull’aborto.

L’arcivescovo Cardoso Sobrinho chiese alle autorità vaticane di pubblicare su « L’Osservatore Romano » questa sua nota. Ma non ebbe risposta.

A Cardoso Sobrinho espressero la loro solidarietà una gran quantità di vescovi del Brasile e di tutto il mondo. Ma intanto – perdurando il silenzio del Vaticano – su numerosi giornali di varie nazioni prese piede la tesi che la Chiesa avesse approvato l’aborto « terapeutico »: tesi alla quale parve dar sostegno anche una dichiarazione del 21 marzo del portavoce vaticano padre Federico Lombardi, mentre il papa era in viaggio in Africa.

Il 4 aprile « L’Osservatore Romano » tornò fuggevolmente sull’argomento, ma senza dare alcuna soddisfazione ai critici dell’articolo di Fisichella. Anzi, fece l’opposto. In una nota di cronaca, il giornale vaticano citò una dichiarazione di una famosa giornalista laica, Lucia Annunziata, già presidente della televisione italiana di Stato, che riconosceva alla Chiesa « una trasparenza mai vista » e motivava così il suo complimento:

« Mi riferisco all’intervento di monsignor Fisichella sulla vicenda della bambina brasiliana, pubblicato da ‘L’Osservatore Romano’ ».

Per un buon numero di membri della pontificia accademia per la vita, la misura era colma. Quello stesso 4 aprile, 27 di loro, su un totale di 46, firmarono una lettera al loro presidente Fisichella, chiedendogli di rettificare le « errate » posizioni da lui espresse nell’articolo.

Il 21 aprile Fisichella rispose loro per iscritto, respingendo la richiesta.

Ai primi di maggio, 21 dei firmatari della precedente lettera si rivolsero allora al cardinale William Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, chiedendo alla congregazione un pronunciamento chiarificatore della dottrina della Chiesa in materia di aborto.

La lettera fu consegnata il 4 maggio e la congregazione per la dottrina della fede la girò al cardinale Bertone, poiché – fu spiegato agli scriventi – « l’articolo di Fisichella era stato scritto su richiesta del cardinale segretario di Stato e approvato soltanto da lui ».

Ma non ricevendo da Bertone nessuna assicurazione di chiarimento, alcuni membri della pontificia accademia per la vita decisero di rivolgersi direttamente al papa.

Christine de Marcellus Vollmer, venezuelana che vive negli Stati Uniti, presidente della Alliance for Family e della Latin American Alliance for Family, e altri quattro membri dell’accademia incontrarono per qualche minuto Benedetto XVI dopo l’udienza generale di un mercoledì. L’udienza era stata loro accordata grazie ai buoni uffici del cardinale Renato Martino.

I cinque accademici consegnarono a Benedetto XVI un nutrito dossier, con un gran numero di articoli di stampa che recitavano in coro che, grazie all’articolo di Fisichella, la Chiesa aveva definitivamente aperto le porte all’aborto « terapeutico ».

Papa Joseph Ratzinger si mostrò stupito e amareggiato. Mormorò: « Si deve fare qualcosa… Si farà qualcosa ».

L’8 giugno, Benedetto XVI discusse la cosa con il cardinale Bertone e ordinò di pubblicare una dichiarazione che riconfermasse come immutata la dottrina della Chiesa sull’aborto.

Nel frattempo, l’arcidiocesi di Olinda e Recife recapitò in Vaticano un memorandum con il resoconto dettagliato di ciò che la Chiesa del luogo aveva fatto e continuava a fare per aiutare la bambina e i suoi familiari, così come aveva protetto fino all’ultimo anche i due figli che aveva portato in grembo.

Il memorandum terminava chiedendo giustizia per l’arcivescovo Cardoso Sobrinho, in assenza della quale sarebbe scattata una denuncia canonica contro Fisichella.

Ma altre settimane passarono e in Vaticano non si muoveva foglia. Christine de Marcellus Vollmer e altri accademici si risolsero allora a un gesto di pressione estrema. Minacciarono di dimettersi collettivamente dalla pontificia accademia per la vita. Giorno dopo giorno le adesioni andavano aumentando. Erano arrivate a 17 quando finalmente, nel pomeriggio del 10 luglio, su « L’Osservatore Romano » uscì l’attesa « Chiarificazione » della congregazione per la dottrina della fede circa l’articolo di Fisichella.

La nota, resa pubblica senza alcun risalto, non diceva che l’articolo di Fisichella era sbagliato, ma solo che era stato oggetto di « manipolazione e strumentalizzazione ». Un espediente retorico che ha consentito sia a Fisichella che a Bertone – entrambi membri della congregazione per la dottrina della fede – di uscire dalla vicenda col minimo del danno.

Ma il brutto non è passato, per l’arcivescovo presidente della pontificia accademia per la vita. Nei prossimi giorni si ritroverà di fronte gli accademici che ne hanno chiesta la testa. E la richiederanno.

La requisitoria, eccola.

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LE TRAPPOLE DELLA COMPASSIONE

di Michel Schooyans

Un termine ambiguo

Quando si parla di compassione, si pensa immediatamente alla sofferenza altrui, alla situazione tragica nella quale un altro si trova. Si tratta di comprendere, di « simpatizzare » con lui, di condividere la sua angoscia e di portarla assieme a lui. Questa situazione di infelicità bisogna certo cercare di alleviarla, di portarvi rimedio in tutta la misura del possibile. La parola compassione connota inoltre l’idea di condivisione psicologia e affettiva della sofferenza, specialmente quando questa sfugge ai controlli medici e di altro tipo. Quando andiamo a visitare un malato di cancro in fase terminale, con la nostra presenza, con una parola, con un gesto di tenerezza, esprimiamo come possiamo la parte che ci assumiamo della sua sofferenza e cerchiamo di ridargli conforto.

Ora, nelle notizie che riguardano dei casi di aborti, di eutanasia, di suicidio assistito, è frequente che si invochi la compassione per « giustificare » l’atto che è stato compiuto o che sta per esserlo. Se, prima della sua nascita, un bambino è dichiarato portatore di una malformazione grave, si farò valere che se si lascia proseguire la gravidanza il bambino avrà una vita che non vale di essere vissuta; si raccomanderà dunque di abortirlo per compassione, per pietà. Si condivide, si dice, la pena che gli causa il suo stato, ma il modo migliore per aiutarlo, si dice, effettivamente possibile, è di mettere fine alla sua vita. Il bambino sarà ucciso per compassione.

Di più, si dice che nessuno ha il diritto di imporre a una donna di aspettare un bambino che sarà – si dice – per lei, per il padre, per la famiglia, un « fardello » insopportabile. Si invocherà qui la compassione nei riguardi dei genitori. Inoltre, si aggiunge che non si può imporre alla società il peso di esistenze il cui mantenimento è costoso ma inutile; l’handicappato alla nascita non apporta nulla alla società. Si ammetterà dunque l’aborto per compassione nei riguardi della società, che, « con suo dispiacere », deve rassegnarsi a sopprimere uno dei suoi membri. Si arriverà talvolta fino a vedere in questo atto un gesto di giustizia sociale, di « purificazione etnica », di eugenismo.

La compassione potrà anche indirizzarsi ai medici che praticano l’aborto. Praticare un aborto è per essi – si dice – una « decisione difficile da prendere£ e un atto che essi non eseguono che per obbedire alla loro coscienza. Bisogna quindi compatire con i medici che, per esempio « per il bene » del bambino o di sua madre, prendono « con coraggio » la decisione di procedere all’aborto. Lungi dal biasimarli, bisognerà sostenerli psicologicamente e moralmente, proteggerli con un dispositivo legale appropriato.

Questi pochi esempi permettono di percepire differenti aspetti di ciò che si raggruppa oggi sotto una sola parola ambigua: la compassione. C’è anzitutto la compassione nel senso abituale di simpatia, di commiserazione. Tuttavia, nei diversi esempi citati, si osserva che la compassione è invocata e si esercita in maniera molto differente a seconda che essa faccia una vittima, il bambino non nato, oppure serva a confortare la madre, a legittimare delle leggi o a garantire l’intervento dei medici.

La compassione oggi

Possiamo discernere la vera e la falsa compassione nei fatti o nelle prese di posizione osservabili nel mondo di oggi. Così appariranno i disastri che la falsa compassione giunge ad esercitare tanto a livello delle persone che a livello delle società umane. Passiamo dunque in rassegna alcuni esempi.

1) Nel 1962, la corte di assise di Liegi (Belgio) è stata portata a giudicare una madre che, « per compassione », aveva ucciso il suo bambino. Durante la gravidanza, quasta madre aveva assunto del Softenon, conosciuto oggi sotto il nome di Talidomide. Il bambino era nato portatore di malformazioni gravi. La madre decise di mettere fine alla vita di suo figlio; e in effetti così fece. Al termine di un processo molto pubblicizzato, la donna fu assolta. Uscì libera dal tribunale, tra gli applausi del pubblico.

2) Gli animali beneficiano sempre più della « compassione » degli uomini. In un film « documentario » di Al Gore, « Una verità che sconvolge », consacrata al riscaldamento climatico, si vede un cartone animato che mostra un orso polare sfinito mentre cerca disperatamente un appoggio per salvare la sua vita. Il messaggio è chiaro: se la calotta polare si riscalda e scioglie, la causa deve essere cercata nel numero eccessivo di uomini che inquinano la terra (1). Occorre dunque contenere la crescita demografica dell’umanità, di cui si assicura che è la causa della degradazione dell’ambiente circostante. Inoltre, la « compassione » verso gli animali, la protezione della fauna, della flora e delle specie in via di estinzione richiede il rispetto di quote fissanti il numero, vale a dire la « qualità » degli uomini autorizzati a riprodursi. In una della sue varianti, questa posizione raccomanda agli uomini di avere « compassione » per Gaia, la Madre Terra, che – si sostiene – si degrada a motivo dell’azione devastatrice dell’uomo. L’uomo deve essere sacrificato all’ambiente (2).

3) Nel corso degli ultimi anni sono comparsi diversi casi di pedofilia che hanno fatto molto rumore. Negli Stati Uniti, in Messico, in Irlanda e in altri paesi, membri del basso o dell’alto clero sono stati implicati in parecchi procedimenti giudiziari. Nella maggior parte di questi casi, si è rimproverato alle autorità ecclesiastiche di aver cercato di tenerli nascosti. Per tutto il tempo che hanno potuto, queste autorità hanno fatto finta che nulla, o poco, fosse accaduto. Il motivo più spesso invocato è quello della « compassione » per gli autori degli atti di pedofilia. Si invoca la compassione per i poveri sacerdoti, che soffrono già tanto per le loro pulsioni, e che i loro superiori non possono affliggere pubblicamente né tanto meno esporre alla condanna infamante da parte delle istanze giudiziarie competenti. Se bisogna proteggere chi pratica gli aborti, perché non proteggere i pedofili?

Questo atteggiamento ricorda il caso di Recife (Brasile), che ha invaso le cronache nel marzo-aprile del 2009 (3). Nei due casi. i casi di pedofilia e quello di Recife, piuttosto che manifestare compassione per le piccole vittime innocenti, si invoca la « compassione » per quelli che hanno fatto a loro un torto immenso, i medici a Recife, i sacerdoti altrove.

4) Il 16 novembre 2009 la stampa annunciava un’iniziativa di Ségolène Royal. Sempre molto pubblicizzata, la presidente della regione Poitou-Charente (Francia) annunciava la distribuzione di « pacchetti contraccettivi » (4). Questi kit contraccettivi contengono tra l’altro dei preservativi e degli « assegni contraccezione ». L’obiettivo di Ségolène Royal è di « andare in soccorso del disagio degli alunni », di ridurre il disagio sociale rappresentato dalle « gravidanze precoci ». Dopo aver incitato al consumo sessuale con la fornitura di preservativi nel kit contraccettivo, Ségolène Royal ricorda l’esistenza di una « circolare in vista della contraccezione di domani ». Qui di nuovo, degli adolescenti e dei bambini non nati rischiano di pagare il prezzo della pseudo-compassione.

5) Si assiste oggi a una messa in questione radicale del matrimonio e della famiglia. Dei cristiani domandano alla Chiesa di autorizzare il divorzio o di permettere il « secondo matrimonio » dei divorziati. Alcuni vanno più in là poiché chiedono che la Chiesa riconosca le unioni omosessuali, con o senza l’adozion e di bambini. Queste rivendicazioni si fanno tutto nel nome della « compassione ». La Chiesa avrebbe torto a mostrarsi intransigente su queste questioni; essa sarebbe senza pietà per gli sposi ingiustamente abbandonati dal coniuge e per i figli delle coppie divorziate. Essa ignorerebbe la tendenza omosessuale inscritta nella costituzione di alcuni uomini o di alcune donne. Qui ancora si fa appello alla « compassione ».Ma quale compassione?

Interrogato sulla questione del matrimonio e del divorzio, Gesù riafferma con forza il disegno di Dio dalle origini: il matrimonio voluto da Dio è monogamico, fedele, indissolubile (5). Gesù ripristina il matrimonio così com’era secondo il cuore di Dio nel momento della creazione (6). Egli non fa alcuna concessione concernente il matrimonio così come Dio l’ha voluto. Gli apostoli si stupiscono di questo rigore di Gesù (7). Come alcuni fanno oggi, essi attendevano da Gesù una compassione al ribasso, una tolleranza qualsiasi, riguardo alla legge, riguardo alla volontà chiaramente enunciata dal creatore fin dalle origini. La giustificazione, la santificazione appaiono qui come un ritorno all’inizio, una ri-creazione che passa per la conversione del cuore. Ciò che Gesù mette in luce è l’uguale dignità dell’uomo e della donna. L’uomo non può rivendicare un « diritto » qualsiasi a ripudiare sua moglie. Ciò che rivela Gesù è la forza di Dio all’opera nel matrimonio. È Dio che unisce. La compassione non può esprimersi nel rigetto della forza divina sempre all’opera nel matrimonio. Viceversa, la compassione di Dio si esprime nel perdono che Gesù a quelli e a quelle che hanno commesso l’adulterio, si sono prostituiti o hanno praticato l’omosessualità (8). La compassione di Gesù non è in alcun modo una approvazione del peccato; è un invito ad accogliere il perdono e a ritornare sul retto cammino. La compassione di Gesù è la misericordia (9).

6) Binding (1841-1920), giurista, et Hoche (1865-1943), medico, hanno pubblicato nel 1920 un’opera pochissimo conosciuta e che tuttavia è stata una della più influenti del XX secolo. Gli autori spiegano che occorre « liberalizzare la distruzione di una vita che non merita di essere vissuta » (10). È il titolo di quest’opera, in cui si trova formulato e giustificato il programma di eutanasia che sarà messo in pratica qualche anno più tardi da Hitler. Come d’abitudine, l’argomentazione dà l’impressione di essere impregnata di compassione. Vi sono, si assicura, categorie di individui la cui vita non merita la protezione pelale. La loro vita è senza valore. L’eutanasia risparmierà loro di vivere una vita che nnon è degna di essere vissuta. A questi individui bisogna dare l’eutanasia nel loro stesso interesse. Ma bisogna dare loro l’eutanasia anche nell’interesse della società: questi esseri sono non solo senza valore, ma sono anche un fardello per tutto coloro che sono utili alla società. La « compassione » nei riguardi della società deve essere invocata al pari della « compassione » nei riguardi di questi esseri che devono essere liberati dalla loro totale mancanza di valore e di utilità. Ora, dietro queste considerazioni apparentemente capaci di intenerire si nascondono delle considerazioni pseudo-scientifiche con forti connotati eugenici e razzisti. La compassione è qui manipolata a vantaggio di un programma politico che è la negazione stessa stessa della compassione.

7) Nel caso di Recife (11), abbiamo potuto osservare un caso flagrante di compassione menzognera. In sintesi, occorreva dar prova di compassione nei riguardi dei medici che avevano praticato un doppio aborto diretto. Bisognava tenere nascosta questa vicenda come se ne tengono nascoste altre (12). Ora, la letteratura medica riporta delle situazioni simili a quella vissuta da « Carmen », la bambina di Recife, ma in cui la vera compassione si è espressa nei riguardi delle giovanissime madri e dei loro figli. La stampa medica dava già conto, nel 1959, dell’esistenza di una trentina di casi conosciuti di gravidanze molto precoci, spesso prima dei 12 anni di età. Il caso più noto è quello di una giovane peruviana, Lina Medina, nata nel 1933, che ebbe le sue prime regole all’età di 8 mesi (sic). All’età di 5 anni e 8 mesi (sic) ella diede alla luce un bambino, Geraldo, che, nel 1954, aveva 15 anni mentre la sua mamma ne aveva 20. I medici avevano diagnosticato, nella madre, una pubertà precoce costituzionale, non patologica.

Ciò che va rimarcato, nella storia di Lina Medina, è precisamente che sono stati i medici a constatare che la gravidanza della bambina non aveva niente di patologico. L’eventualità di un aborto non fu mai presa in considerazione. I medici hanno al contrario dato prova di compassione vera nei riguardi della madre e del suo bambino. Notiamo che questa madre vive tuttora nella periferia di Lima, in Perù. Fino ad oggi, ella non ha mai rivelato il nome del padre di suo figlio. Questo era nato per parto cesareo ed è morto nel 1979 all’età di 40 anni (13).

L’articolo pubblicato da « La Presse Médicale », nella sua edizione del 13 maggio 1939, precisa che il parto, con taglio cesareo, fu operato dal dottor Geraldo Lozada. Il breve articolo del 13 maggio sottolinea che

« La piccola Lina è circondata da cure minuziose. Un comitato di donne si è costituito per assicurare per il presente e per l’avvenire le cure e le condizioni materiali della vita della piccola mamma e del suo futuro bebè ».

L’articolo del 31 maggio 1939, anch’esso del dottor Escobel, si richiama anch’esso alla compassione:

« Si spera che lo Stato e il Focolare della Madre proteggano questa sfortunata bambina, che ha creato in tutti i cuori un moto di simpatia e di pietà, tanto più che il suo piccolo è nato il giorno stesso in cui la nazione peruviana celebrava la Festa della Mamma ».

8) A motivo della sua gravità, anche l’Aids è una malattia che invita alla compassione. Degli organismi pubblici e privati si sono specializzati nella prevenzione e/o nel trattamento di questa malattia. Dei centri di accoglienza e di cura sono stati fondati per accogliere, curare e accompagnare fino alla fikne le persone colpite da questo male. Delle congregazioni religiose, specializzate nelle cure sanitarie, hanno adattato i loro programmi alle situazioni nuove create dalla diffusione di questa pandemia. L’esempio della beata Madre Teresa di Calcutta ha fatto scuola. Ma non tutti sono ispirati dalla compassione esemplare di Madre Teresa.

Nel marzo del 2009, sull’aereo che lo portava in Africa, papa Benedetto XVI è stato attaccato da dei giornalisti perché aveva osato dichiarare che il preservativo non era veramente la soluzione del problema. Sempre pronta ad arricchire la collezione della « storie belge », la camera dei rappresentanti [di Bruxelles], ivi compresi diversi mandatari « cristiani », ha condannato le dichiarazioni « irresponsabili » e « inaccettabili » del papa. È mancato poco che gli onorevoli deputati convocassero una riunione d’urgenza del consiglio di sicurezza dell’ONU! Grazie a Dio, il senato belga non ha seguito la camera dei rappresentanti nel suo delirio anticristiano.

Ma questa stessa camera avrebbe comunque potuto rivendicare la cauzione di qualche eminente ecclesiastico. Tra essi, dei cardinali molto presenti sui media, i cui nomi sono ben noti, hanno curiosamente raccomandato l’uso del preservativo presentando questo come un male minore, il male più grande da evitare essendo il pericolo di contagio mortale in caso di non ricorso a questa precauzione. Il motivo invocato è dunque la compassione.

L’argomentazione di sviluppa abitualmente come segue: essendo la pulsione sessuale irresistibile e incontrollabile, l’uso del preservativo è il solo mezzo efficace per evitare l’Aids. Basta poco perché certi « moralisti » arrivino fino a invocare il quinto comandamento di Dio, « Tu non ucciderai », per presentare l’uso del preservativo come un obbligo morale! Altri moralisti o pastori sviluppano una variante di questa argomentazione: insegnano a peccare senza rischio.

Nel caso dell’Aids, la compassione è dunque invocata a due titoli differenti. Certo, la compassione si rivolge anzitutto ai malati colpiti da questa terribile malattia. Come per tutti quelli che soffrono malattie molto gravi, bisogna badare a che le loro sofferenze siano alleviate, a che essi ricevano le cure igieniche di cui hanno bisogno; occorre dire a loro delle parole di tenerezza: dire a loro la tenerezza degli uomini, ma anche la tenerezza di Dio. Ma nel caso di cui ci stiamo occupando, la compassione è anche invocata in modo menzognero: Il preservativo si impone – si insinua – a motivo dell’incontrollabilità della passione degli uomini, della loro assenza di libertà rispetto alle pulsioni che li assalgono.

Non è nostra intenzione riprendere qui le discussioni sull’Aids, le sue cause, il sjuo trattamento, ecc. Due constatazioni dovrebbero tuttavia far riflettere gli zelatori della falsa compassione. Ricordiamo anzitutto che basta consultare le riviste dei consumatori per apprendere che i preservativi non sono sicuri al 100 per cento. Se non lo sono al 100 peer cento per la contraccezione, perché lo sarebbero per impedire la trasmissione dell’Aids?

Ma c’è un altro aspetto del problema, largamente misconosciuto da molti eminenti pastori-teologi. È quello che gli economisti chiamano effetto rimbalzo. L’immagine della palla che rimbalza è in effetti suggestiva: al termine di una prima parabola, essa tocca il suolo, ma per ripartire subito verso l’alto e più lontano. Due esempi familiari faranno comprendere di che cosa si tratta. L’arrivo delle lampadine economiche è stato salutato con entusiasmo: una lampadina economica di 11 watt fa altrettanta luce di una lampadina classica di 60 watt. Si potrebbe esclamare: « Che risparmio! ». In realtà, si osserva che a motivo del basso consumo di queste lampadine le gente tende a illuminare di più le proprie case moltiplicando le lampadine e aumentando le ore di illuminazione. Le lampadine economiche compensano così i risparmi che esse avrebbero dovuto comportare; esse possono anzi produrre un aumento del consumo di energia.

Altro esempio: alcune automobili, prima dotate di un motore vorace, sono oggi dotate di motori particolarmente sobri. Anche qui, la gente dice: « Che risparmio! ». Ma poiché l’auto consuma, poniamo, 5 litri di benzina invece degli 8 litri dell’auto precedente, la gente scoprirà che viaggiare è diventato meno caro e viaggeranno più di quanto facevano con la loro vecchia macchina. Si viaggia di più con una macchina che consuma di meno. Ne risulta che il risparmio ottenuto con il motore di nuova generazione è compensato da un aumento del numero dei chilometri percorsi e spesso dall’aumento della velocità alla quale si aveva l’abitudine di guidare.

Un terzo esempio di rimbalzo è segnalato da Jacques Suaudeau (14). Da quando le cinture di sicurezza sono diventate obbligatorie in Inghilterra, si è constatato con sorpresa che il numero di incidenti e di vittime è aumentato. Uno studio attento ha rilevato che gli automobilisti credevano di trovare una maggiore sicurezza allacciando le cinture. Ma essi affrontavano anche più rischi, correvano più velocemente di prima. Il beneficio che si attendeva dall’uso delle cinture è stato compensato da un’accresciuta assunzione di rischi.

Il fenomeno del rimbalzo si osserva anche nell’utilizzo del preservativo e nell’incidenza di questo utilizzo sulla diffusione della malattia. Gli eminenti moralisti dovranno tener conto di questo fenomeno. La grancassa mediatica che incita a ricorrere al preservativo per limitare la diffusione dell’Aids ha un effetto perverso: il preservativo dà un falso senso di sicurezza. Ricorrendovi, chi lo utilizza tende a compensare il rischio diminuito dal preservativo moltiplicando i rapporti rischiosi più di quanto lo facesse abitualmente, cambiando i partner, variando i rapporti e avendo le prime relazioni sessuali sempre più presto.

Notiamo che è ciò che ha spiegato il dottor Edward C. Green il 19 marzo 2009, dopo il linciaggio mediatico di cui il papa è stato oggetto in occasione del suo viaggio in Africa:

« I nostri migliori studi [...] mettono in evidenza un’associazione costante tra una maggiore disponibilità e un maggiore uso del condom e un tasso più elevato (non più basso) di contagio dell’Aids. Ciò può essere dovuto in parte a un fenomeno conosciuto come compensazione del rischio, che significa che quando si utilizza una ‘tecnologia’ che riduce il rischio, come i condom, si perde spesso il beneficio (la riduzione del rischio) ‘compensando’ o affrontando rischi più grandi di quelli che si affrontavano senza la tecnologia chje riduce il rischio » (15).

Ecco ancora, a proposito dell’Aids, un esemlio rimarchevole di « compassione » menzognera e violenta. Menzognera poiché poggiata su asserzioni delle quali una persona appena un poco informata può rilevare la falsità. Violenta, poiché nel nome di premesse false si spinge obiettivamente a prendere il rischio di morire e di dare la morte.

9) Si può dare la comunione a dei parlamentari che si dichiarano pubblicamente a favore dell’aborto? A questa domanda, alcuni pastori hanno dato praticamente o teoricamente una risposta affermativa. Bisognerebbe, si dice, avere compassione per questi parlamentari, dilaniati interiormente. Come cristiani, essi dicono, sono certo contrari all’aborto; ma nel dibattito in parlamento votano per la sua legalizzazione. Questi rappresentanti, si dicde, vivono un dramma di coscienza e non bisognerebbe respingerli se si presentano per ricevere la santa comunione. Delle situazioni analoghe si presentano, ad esempio, per dei medici che notoriamente praticano degli aborti, per dei magistrati, dei responsabili politici, ecc. Tutti avrebbero bisogno di conforto spirituale e dovrebbero poter avvicinarsi alla Santa Mensa.

Alcune prese di posizione recenti mostrano che la Chiesa non può approvare questa pseudo-compassione. Citiamone due:

a. Nel novembre del 2009 Juan Antonio Martínez Camino, gesuita, vescovo ausiliare di Madrid e segretario generale della conferenza episcopale spagnola, ricorda che approvando e votando una legge favorevole all’aborto i battezzati si mettono oggettivamente in stato di peccato mortale (16). Coloro che promuovono tali leggi peccano pubblicamente e non possono essere ammessi alla Santa Mensa. Per essere sicuro di essere ben capito, il vescovo ausiliare di Madrid aggiunte che chi afferma che è lecito togliere la vita a un essere umano innocente cade nell’eresia e incorre nella scomunica « latae sententiae » (17).

Il 27 novembre del 2009 l’assemblea plenaria della conferenza episcopale spagnola pubblicava una dichiarazione secondo cui i politici che votano una proposta di legge che liberalizzi l’aborto in Spagna si pongono essi stessi in « uno stato di peccato oggettivo, e se questa situazione si prolunga non possono essere ammessi alla santa comuniione » (18).

b. Domenica 22 novembre 2009 (19) Patrick Kennedy, membro democratico della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, annuncia che il vescovo di Providence, Thomas J. Tobin, l’ha pregato di astenersi dal ricevere la santa comunione e ha invitato i preti della sua diocesi a non dargliela. Bisogna ricordare che qualche tempo prima di questo divieto, il congressista Patrick Kennedy aveva dichiarato pubblicamente la sua opposizione all’insegnamento della Chiesa sul rispetto della vita.

10) Le trappole della compassione che abbiamo passato in rassegna hanno fatto l’oggetto di parecchie dichiarazioni della più alta importanza da parte di Sua Eccellenza Mons. Raymond L. Burke, prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica e arcivescovo emerito di Saint Louis MO, negli USA. Ci limiteremo a presentare tre di questi documenti.

a. Venerdì 3 maggio 2009 l’arcivescovo Burke pronunciava il discorso principale dell’incontro « Digiuno e Preghiera » che riunisce dei cattolici per pregare per la nazione americana. Questo discorso ha per titolo « Gli insegnamento della Chiesa cattolica » (20). Il prefetto vi analizza le pratiche ostili alla vita, al matrimonio e alla famiglia.

Denunciando la falsa compassione nell’azione dei poteri pubblici, l’arcivescovo sottolinea che gli attacchi contro la vita, il matrimonio e la famiglia minano i fondamenti sui quali sono costruite la nazione americana e le nazioni attaccate a questi stessi fondamenti. Richiama i cattolici – siano essi medici, politici, uomini d’affari, ecc. – a rispettare la legge naturale e la legge divina, che sono nel cuore dell’insegnamento della Chiesa. L’arcivescovo invita alla preghiera, al digiuno, alla confessione, alla santa comunione perché il Signore illumini i leader. Un’attenzione speciale deve essere riservata, nelle università e negli istituti di educazione cattolica, ai giovani. Questi devono essere preparati a riconoscere che là dove Dio è rigettato, la secolarizzazione e il relativismo aprono la porta a leggi e programmi politici immorali. Al contrario, bisogna spingere i legislatori e gli elettori a correggere le leggi gravemente ingiuste.

Infine, « che un dottorato honoris causa sia stato conferito dall’università di Notre Dame a un presidente che promuove aggressivamente un’agenda anti-vita e anti-famiglia è fonte del più grande scandalo ».

b. Il 18 settembre 2009 ,’arcivescovo Burke prendeva la parola al XIV banchetto annuale di partenariato organizzato da « Inside Catholic » (21). Questo discorso è stato pubblicato sotto forma di articolo in « Crisis Magazine », nella data del 26 settembre 2009. Ha per titolo « Riflessioni sulla battaglia per promuovere la cultura della vita ».

L’arcivescovo di offre qui un discorso di una forza eccezionale. Ecco, citate liberamente, alcune idee forza di questo discorso:

« È impossibile essere cattolici praticanti se, nella propria condotta, qualcuno sostiene il diritto all’aborto o il diritto al matrimonio di persone dello stesso sesso. Dobbiamo riconoscere lo scandalo dato da cristiani che omettono di far rispettare la legge mortale naturale nella vita pubblica. Questa omissione ingenera la confusione e induce in errore tutti i cittadini. Con le nostre azioni e le nostre omissioni possiamo condurre degli uomini e delle donne a compiere il male e a peccare, così come a nuocere gravemente ai fratelli, alle sorelle, alla nazione. Nostro Signore è stato inequivoco nel condannare coloro che, con le loro azioni, provocheranno un vero scandalo, cioè precipiteranno gli altri nella confusione o li condurranno a peccare (22). È per questo che la disciplina della Chiesa vieta di dare la santa comunione e di celebrare i funerali religiosi a coloro che persistono, dopo essere stati ammoniti, nel violare gravemente la legge divina (23). Certo, la Chiesa affida ogni anima alla misericordia di Dio [...], ma questo non la dispensa dal proclamare la verità della legge divina. Quando qualcuno ha pubblicamente aderito e coopera a degli atti colpevoli, [...] anche il suo pentimento da tali azioni deve essere pubblico ».

Chiamando le cose col loro nome, l’arcivescovo Burke non  esita ad andare al fondo del problema:

« Si vede all’opera la mano del Padre della Menzogna nel poco di attenzione portata alla situazione di scandalo, o nel fatto che sono ridicolizzati o persino censurati coloro che subiscono gli effetti dello scandalo ».

c. Il 29 settembre 2009 l’arcivescovo Burke interveniva per prendefre la difesa dei militanti pro-life che protestavano contro lo scandalo dei funerali grandiosi e molto pubblicizzati celebrati per il senatore Ted Kennedy (24). Questo senatorte « cattolico » si era spesso distinto per le sue posizioni inaccettabili in materia di rispetto della vita e della famiglia. Alcuni cattolici, presi da compassione per il senatore, se l’erano presa vivamente con i militanti pro-vita e pro-famiglia, accusandoli tra l’altro di rompere l’unità della Chiesa. La messa a punto dell’arcivescovo non doveva farsi attendere:

« Una delle ironie della situazione presente è che uno che prova scandalo di fronte ad azioni pubbliche gravemente colpevoli di un altro cattolico è accusato di mancare di carità e di causare una divisione nell’unità della Chiesa.

« In una società il cui pensiero è governato dalla ‘tirannia del relativismo’ e nella quale il politicamente corretto e il rispetto umano sono gli ultimi criteri di ciò che si deve fare e di ciò che si deve evitare, l’idea di indurre qualcuno in un errore morale ha poco senso. [...] Ciò che causa meraviglia in una tale società è il fatto che vi sono di quelli che omettono di osservare il politicamente corretto e che, per ciò stesso, sembrano perturbare la sedicente pace della società. Tuttavia, mentire od omettere di dire la verità non è mai un segno di carità ».

Una domanda ineludibile

La pseudo-compassione, spesso invocata a favore di autori di atti in sé cattivi, come l’aborto, conduce dunque allo scandalo; invita gli altri a peccare gravemente. Lo scandalo è la prima cosa da evitare (25). La pseudo-compassione conduce anche all’eresia, alla divisione nella Chiesa, poiché incita i fedeli a staccarsi da un punto non negoziabile della dottrina della Chiesa: il dovere di rispettare la vita innocente. La pseudo-compassione potrebbe condurre a una situazione nella quale la dottrina della Chiesa e la morale naturale risulterebbero da una procedura consensuale e si formulerebbero in compromessi.

Alcuni, ingannati dalla pseudo-compassione nei riguardi di coloro che peccano pubblicamente contro la vita, ritengono che la Chiesa è, su queste questioni, troppo severa. La Chiesa, in effetti, si esprime con chiarezza: « Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti [...] e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto » (26). Ora, se si tiene presente il carattere menzognero e violento della pseudo-compassione, si ci si accorgerà subito che questa severità non è che apparente, che è essa stessa un’alta espressione della carità. Essa è un appello urgente al cambiamento di vita. Il rifiuto di dare la comunione per le ragioni che abbiamo richiamato non è che l’espressione dell’amore della Chiesa per i più deboli e l’invito al pentimento rivolto a coloro che rischiano di restare incatenati ai loro peccati e di incatenare gli altri.

Rimane una domanda delicata ma ineludibile. Poiché, nelle condizioni ricordate, la santa comunione deve essere rifiutata a un laico, il codice di diritto canonico prevede delle misure di sospensione, per il doppio motivo dello scandalo e dell’eresia, per i chierici che manifestano pubblicamente la loro pseudo-compassione per chi compie aborti?

Louvain-la-Neuve, gennaio 2010

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(1) « Le Monde » del 19 novembre 2009 titolava vistosamente in prima pagina: « Il peso della natalità minaccerebbe il clima ». Il seguito di questo articolo dovuto a Grégoire Allix appariva a p. 4 sotto il titolo: « Limitare le nascite, un rimedio al pericolo climatico? La Nazioni Unite fanno appello alla presa in considerazione della questione demografica al vertice di Copenaghen ».

(2) Cf. a questo proposito il nostro libro « La face cachée de l’ONU », pp. 61-70. Questo capitolo è intitolato: « La Carta della terra e l’imperativo ecologico ». Vedi ciò che scrive san Paolo su questo tema, in Romani 8, 18-22.

(3) Il caso riguarda una bambina di 9 anni, « Carmen », stuprata dal suo patrigno e trovatasi incinta di due gemelli. Malgrado gli appelli alla compassione lanciati da Dom José Cardoso Sobrinho (all’epoca arcivescovo di Recife) a da suoi collaboratori, la bambina è stata sottoposta a un doppio aborto, tra l’altro sotto la pressione di movimenti femministi radicali. Curiosamente, Dom Cardoso è stato sconfessato da un dignitario ecclesiastico romano, che ha tentato di far valere che coloro che volevano proteggere i gemelli avevano mancato di « compassione » per i medici che avevano praticato l’aborto, i quali « avevano dovuto prendere una decisione difficile ».

(4) Vedi a questo proposito « La Libre Belgique » del 14 novembre 2009 e « Le Monde » del 16 novembre 2009.

(5) Cf. Matteo 19, 1-9; Marco 10, 1-12; Luca 16, 18.

(6) Cf. in particolare Genesi. 1, 28; 2, 18-24; cf. Giovanni 1, 1.

(7) Cf. Matteo 19, 10.

(8) Cf. Genesi 19, 1-29; Romani 1.

(9) Cf. Luca 7, 36-50, o la scena che svolge a casa di un fariseo; 15, 3-32; 19, 1-10; 23, 40-43.

(10) In collaborazione con Klaudia Schank, abbiamo tradotto e presentato questo libro: « Euthanasie: Le dossier Binding et Hoche. Traduction de l’allemand, présentation et analyse de ‘Libéraliser la destruction d’une vie qui ne vaut pas d’être vécue’. Texte intégral de l’ouvrage publié en 1922 à Leipzig », Paris, Éd. Le Sarment-Fayard, 2002, 138 pp. ISBN: 2-866-79329-3.

(11) Cf. sopra, n. 3.

(12) Vedi sopra, al n. 3, i casi di pedofilia.
 
(13) Vedi su questo tema « La plus jeune mère du monde », breve articolo in « La Presse médicale », Paris, 13 mai 1939, p. 744; vedi anche la lettera del dottor Edmundo Escobel (Lima), « La plus jeune mère du monde », in « La Presse médicale », Paris, 31 mai 1939, p. 875. Questo caso è anche riferito nel lavoro di  Rodolfo Pasqualini, « Endocrinología », Buenos Aires, Editions El Ateneo, 1959. Vedi specialmente le pp. 684-686. Pasqualini cita l’articolo di Escobel a p. 686.

(14) Vedi Jacques Suaudeau, articolo « Sexualité sans risques », pp. 905-926 del « Lexique des termes ambigus et controversés » del consiglio pontificale per la famiglia, del 2005.

(15) Edward C. Green è direttore dell’AIDS Prevention Project allo Harvard Center for Population and Development Studies. Il testo citato si trova in http://www.lifesitenews.com/ del 19 marzo 2009, dove si trovano anche altre informazioni.

(16) Fonte: http://www.elmundo.es/, dispaccio del 12 novembre 2009. Vedi anche http://www.sectorcatolico.com/, dispaccio del 30 dicembre 2009.

(17) Cf. Codice di diritto canonico, 751; 1364, § 1; 1398.

(18) Cf. http://www.lifesitenews.com/, 27 novembre 2009. La posizione esente da ambiguità riaffermata dalla conferenza episcopale spagnola tramite il suo segretario generale Mons. Martínez Camino è stata di nuovo riaffermata da Isidoro Catela Marcos, direttore dell’ufficio informazioni della CEE. Vedi il sito ACI Prensa: http://www.aciprensa.com/, dispaccio del 4 gennaio 2010, che a sua volta rinvia a http://www.conferenciaepiscopal.es

(19) Vedi nel sito di « The Providence Journal »: http://www.projo.com/ del 23 novembre 2009, l’articolo di John Mulligan, « Kennedy: Barred from Communion ».

(20) Il testo completo si trova in http://www.lifesitenews.com/ dell’8 maggio 2009.

(21) Il testo è stato pubblicato dal sito internet http://insidecatholic.com con la data del 26 settembre 2009.

(22) Cf. Luca 17, 1-2.
 
(23) Codice di diritto canonico, 915; 1184, § 1, 3°.

(24) Cf. l’articolo di John-Henry Westen, « A Vatican Archbishop: Kennedy Funeral Critics Not Hurting Unity but Helping Church », su LifeSiteNews.com, 29 septembre 2009. Les citazioni sono tratte da questo articolo.

(25) Luca 17, 1 s.

(26) Cf. Canone 915.

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I tre servizi di www.chiesa dedicati al caso della bambina brasiliana, con l’articolo di Fisichella, la replica dell’arcidiocesi di Recife e la « Chiarificazione » della congregazione per la dottrina della fede:

> Ritrattazioni. Il Sant’Uffizio dà una lezione a monsignor Fisichella (10.7.2009)

> Il caso di Recife. Roma ha parlato, ma la causa non è finita (3.7.2009)

> Mine vaganti. In Africa il preservativo, in Brasile l’aborto (23.3.2009)

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Va aggiunto che la pubblica sconfessione dell’arcivescovo di Recife prodotta dall’articolo di monsignor Fisichella su « L’Osservatore Romano » del 15 marzo 2009 mise in seria difficoltà l’episcopato brasiliano nel suo insieme, impegnatissimo in una battaglia con il governo del presidente Luiz Inácio Lula da Silva proprio in materia di aborto.

I promotori dell’aborto ebbero facile gioco a dire che i vescovi del Brasile « non avevano più l’appoggio del Vaticano ».

La battaglia tra i vescovi e il governo è tuttora in pieno svolgimento. Basti citare queste poche righe da « L’Osservatore Romano » del 5 febbraio 2010:

« Con la legalizzazione dell’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso – alle quali è stato garantito il diritto alle adozioni – e altre misure ‘progressiste’, il governo del presidente Luiz Inácio Lula da Silva minaccia la pace sociale. Lo afferma un documento emesso da 67 vescovi della Chiesa brasiliana dopo un incontro pastorale a Rio de Janeiro. Molti vescovi brasiliani hanno reagito duramente al decreto di creazione del ‘programma di diritti umani’ firmato nel dicembre scorso dal presidente Lula, che fra le altre misure proibisce l’esibizione di simboli religiosi e quindi del crocifisso in luoghi pubblici. L’istanza  ha innescato dure critiche da parte della conferenza nazionale dei vescovi del Brasile ».

Publié dans:Sandro Magister |on 8 février, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: « Il papa è il primo tra i patriarchi ». Tutto sta a vedere come

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341841

« Il papa è il primo tra i patriarchi ». Tutto sta a vedere come

Con Benedetto XVI, per la prima volta nella storia, gli ortodossi accettano di discutere il primato del vescovo di Roma, sul modello del primo millennio quando la Chiesa era indivisa. Un inedito: il testo base del dialogo

di Sandro Magister

ROMA, 25 gennaio 2010 – Questa sera, con i vespri nella basilica di San Paolo fuori le Mura, Benedetto XVI chiude la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

C’è chi dice che l’ecumenismo sia entrato in una fase di recessione e di gelo. Ma se appena si guarda ad Oriente, i fatti dicono l’opposto. Le relazioni con le Chiese ortodosse non sono mai state così promettenti come da quando Joseph Ratzinger è papa.

Le date cantano. Un periodo di gelo nel dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse di tradizione bizantina iniziò nel 1990, quando le due parti si scontrarono sul cosiddetto « uniatismo », sulle forme cioè con cui le comunità cattoliche di rito orientale duplicano in tutto le parallele comunità ortodosse, differendo solo per l’obbedienza alla Chiesa di Roma.

A Balamand, in Libano, il dialogo si bloccò. E ancor più si bloccò sul versante russo, dove il patriarcato di Mosca non sopportava di vedersi « invaso » dai missionari cattolici là inviati da papa Giovanni Paolo II, tanto più sospettato perché di nazionalità polacca, storicamente rivale.

Il dialogo restò congelato fino a quando, nel 2005, salì alla cattedra di Pietro il tedesco Joseph Ratzinger, papa molto apprezzato in Oriente per lo stesso motivo che in Occidente gli procura critiche: per il suo attaccamento alla grande Tradizione.

Prima a Belgrado nel 2006 e poi a Ravenna nel 2007 tornò a riunirsi la commissione mista internazionale per il dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse.

E in cima alla discussione andò proprio la questione che più divide Oriente e Occidente: il primato del successore di Pietro nella Chiesa universale.

Dalla sessione di Ravenna uscì il documento che segnò la svolta, dedicato a « conciliarità e autorità » nella comunione ecclesiale.

Il documento di Ravenna, approvato all’unanimità dalle due parti, afferma che « primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti ». E nel suo paragrafo 41 mette a fuoco così i punti di accordo e di disaccordo:

« Entrambe le parti concordano sul fatto che [...] Roma, in quanto Chiesa che ‘presiede nella carità’, secondo l’espressione di Sant’Ignazio d’Antiochia, occupava il primo posto nella ‘taxis’, e che il vescovo di Roma è pertanto il ‘protos’ tra i patriarchi. Tuttavia essi non sono d’accordo sull’interpretazione delle testimonianze storiche di quest’epoca per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma in quanto ‘protos’, questione compresa in modi diversi già nel primo millennio ».

« Protos » è parola greca che significa primo. E « taxis » è l’ordinamento della Chiesa universale.

Da allora, la discussione sui punti controversi prosegue con ritmo accelerato. Ed ha cominciato ad esaminare, anzitutto, come le Chiese d’Oriente e d’Occidente interpretavano il ruolo del vescovo di Roma nel primo millennio, cioè quando ancora erano unite.

La base della discussione è un testo che è stato elaborato nell’isola di Creta all’inizio dell’autunno del 2008.

Il testo non è mai stato reso pubblico prima d’ora. È in lingua inglese e può essere letto integralmente in questa pagina di www.chiesa:

> The Role of the Bishop of Rome in the Communion of the Church in the First Millennium

La commissione mista internazionale per il dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse ha iniziato a discutere su questo testo a Paphos, nell’isola di Cipro, dal 16 al 23 ottobre del 2009.

Ha cominciato con l’esaminare la predicazione di Pietro e Paolo a Roma, il loro martirio e la presenza delle loro tombe a Roma, che per sant’Ireneo di Lione conferiscono un’autorità preminente alla sede apostolica romana.

Da lì, la discussione è proseguita prendendo in esame la lettera di papa Clemente ai cristiani di Corinto, la testimonianza di sant’Ignazio di Antiochia che indica la Chiesa di Roma come quella che « presiede nella carità », il ruolo dei papi Aniceto e Vittore nella controversia intorno alla data di Pasqua, le posizioni di san Cipriano di Cartagine nella controversia sul battezzare nuovamente o no i « lapsi » cioè i cristiani che avevano sacrificato agli idoli per salvare la vita.

Il proposito è di capire fino a che punto la forma che ebbe il primato del vescovo di Roma nel primo millennio può far da modello a una ritrovata unità tra Oriente e Occidente nel terzo millennio dell’era cristiana.

Di mezzo, però, c’è stato un secondo millennio in cui il primato del papa è stato interpretato e vissuto, in Occidente, in forme sempre più accentuate, lontane da quelle che le Chiese d’Oriente sono oggi disposte ad accettare.

E sarà questo il punto più critico della discussione. Ma le delegazioni delle due parti non hanno timore di affrontarlo. Lo ha detto lo stesso Benedetto XVI lo scorso 20 gennaio, spiegando nell’udienza generale ai fedeli il senso della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani:

« Con le Chiese ortodosse la commissione mista internazionale per il dialogo teologico ha iniziato lo studio di un tema cruciale nel dialogo fra cattolici e ortodossi: il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, cioè nel tempo in cui i cristiani di Oriente e di Occidente vivevano nella piena comunione. Questo studio si estenderà in seguito al secondo millennio ».

La prossima sessione ha già un luogo prefissato, Vienna, e una data, dal 20 al 27 settembre 2010.

A capo della delegazione cattolica c’è stato in tutti questi anni il cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

A capo della delegazione ortodossa c’è da anni il metropolita di Pergamo Joannis Zizioulas, teologo di riconosciuto valore e di grande autorevolezza, « mente » del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e stimatissimo da papa Ratzinger, con il quale ha un rapporto di profonda amicizia.

Anche con il patriarcato di Mosca i rapporti sono molto migliorati. A Ravenna i delegati russi avevano abbandonato i lavori per un disaccordo con il patriarca di Costantinopoli sull’ammettere o no i rappresentanti ortodossi della Chiesa di Estonia, non riconosciuta da Mosca.

Ma a Paphos, lo scorso ottobre, lo strappo è stato ricucito. E anche con Roma il patriarcato di Mosca è oggi in rapporti amichevoli. Una prova ne è stata. pochi mesi fa, la pubblicazione da parte del patriarcato di un libro con dei testi di Benedetto XVI, iniziativa senza precedenti nella storia.

Da Roma l’iniziativa sarà presto ricambiata, con dei testi del patriarca Kirill raccolti in un volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana.

Un incontro tra il papa e il patriarca di Mosca è ormai anch’esso nella sfera del possibile. Forse più presto di quanto si pensi.
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Il testo integrale del documento di Ravenna del 2007:

> Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità
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Il messaggio inviato il 25 novembre 2009 da Benedetto XVI al patriarca ecumenico di Costantinopoli, in occasione della festa di sant’Andrea:

> A Sua Santità Bartolomeo I
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L’importante intervista rilasciata dal metropolita di Pergamo Joannis Zizioulas, capo della delegazione ortodossa, nell’ottobre del 2009, durante la sessione di Paphos nell’isola di Cipro:

> Zizioulas: Difendiamo il dialogo ecumenico contro chi lo contesta
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L’omelia di Benedetto XVI ai vespri di chiusura della settimana dell’unità dei cristiani, lunedì 25 gennaio nella basilica di San Paolo fuori le Mura:

> « Cari fratelli e sorelle… »
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Tutti i servizi di www.chiesa sul tema:

 Focus su CHIESE ORIENTALI

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POST SCRIPTUM – Il giorno dopo l’uscita di questo servizio di www.chiesa, il 26 gennaio 2010, il pontificio consiglio per l’unità dei cristiani ha emesso il seguente comunicato:

« Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha constatato con rammarico che è stato pubblicato, da un mezzo di comunicazione, un testo che è all’esame della Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme.

« Il documento pubblicato è un testo previo, che consiste in un elenco di temi da studiare e da approfondire, finora discusso solo in minima parte dalla suddetta Commissione.

« Nell’ultima riunione della Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, tenutasi a Paphos nell’ottobre scorso, si era stabilito esplicitamente che il testo non sarebbe stato pubblicato finché non fosse stato esaminato nella sua totalità dalla Commissione.

« Ad oggi non esiste nessun documento concordato e pertanto il testo pubblicato non ha nessuna autorità, né ufficialità ».

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sandro Magister |on 5 février, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister – Benedetto XVI ai diplomatici: tre leve per sollevare il mondo

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341681

Benedetto XVI ai diplomatici: tre leve per sollevare il mondo

Ecologia della natura ma soprattutto dell’uomo, laicità positiva, libertà di religione. I punti salienti dell’annuale discorso del papa ai rappresentanti degli Stati

di Sandro Magister

ROMA, 11 gennaio 2010 – Come ad ogni inizio d’anno, papa Benedetto XVI ha rivolto stamane al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il suo discorso sullo stato del mondo.

Il discorso ha lo stile e le prudenze della diplomazia vaticana. Non vi si fa parola, ad esempio, né della Cina né dell’India, le due superpotenze emergenti, dove la Chiesa cattolica è per motivi diversi schiacciata e aggredita.

Ciò non toglie, però, che il discorso trasmetta dei messaggi volutamente alternativi a quelli correnti. In particolare tre.

1. ECOLOGIA DELLA NATURA, MA SOPRATTUTTO DELL’UOMO

Il primo messaggio coincide con quello già lanciato da Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace, celebrata a Capodanno: « Se vuoi coltivare la pace, coltiva il creato ». Con una sottolineatura decisiva e controcorrente: il primato dato alla salvaguardia integrale dell’uomo.

Ecco tre passaggi del discorso che svolgono questo tema:

« Vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo continente, si è potuta avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria. La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione! Ne consegue che la salvaguardia del creato non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio ». [...]

« Se si vuole edificare una vera pace, come sarebbe possibile separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita? È nel rispetto che la persona umana nutre per se stessa che si manifesta il suo senso di responsabilità verso il creato ». [...]

« Le creature sono differenti le une dalle altre e possono essere protette, o al contrario messe in pericolo, in modi diversi, come ci mostra l’esperienza quotidiana. Uno di tali attacchi proviene da leggi o progetti, che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi. Mi riferisco, per esempio, ad alcuni paesi europei o del continente americano. ‘Se togli la libertà, togli la dignità’, come disse san Colombano. Tuttavia, la libertà non può essere assoluta, perché l’uomo non è Dio, ma immagine di Dio, sua creatura. Per l’uomo, il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio, o il desiderio, ma deve consistere, piuttosto, nel corrispondere alla struttura voluta dal Creatore ».

2. LAICITÀ POSITIVA

Un secondo messaggio controcorrente è rivolto principalmente all’Europa e all’Occidente. Rivendica il ruolo pubblico della Chiesa. Ecco in che senso:

« Le radici della situazione che è sotto gli occhi di tutti sono di ordine morale e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo, per promuovere un effettivo cambiamento di mentalità ed instaurare nuovi stili di vita. Di ciò può e vuole essere partecipe la comunità dei credenti, ma perché ciò sia possibile, bisogna che se ne riconosca il ruolo pubblico. Purtroppo, in alcuni paesi, soprattutto occidentali, si diffondono, negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo verso la religione, in particolare quella cristiana. È chiaro che, se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso. Un tale approccio crea tuttavia scontro e divisione, ferisce la pace, inquina la ‘ecologia umana’ e, rifiutando, per principio, le attitudini diverse dalla propria, si trasforma in una strada senza uscita.

« Urge, pertanto, definire una laicità positiva, aperta, che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa. In questa prospettiva, io penso all’Europa, che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha iniziato una nuova fase del suo processo di integrazione, che la Santa Sede continuerà a seguire con rispetto e con benevola attenzione. Nel rilevare con soddisfazione che il Trattato prevede che l’Unione Europea mantenga con le Chiese un dialogo ‘aperto, trasparente e regolare’ (art. 17), auspico che, nella costruzione del proprio avvenire, l’Europa sappia sempre attingere alle fonti della propria identità cristiana ».

3. LIBERTÀ DI RELIGIONE

Infine, un terzo messaggio è di rivendicazione della libertà di religione e di denuncia delle situazioni nelle quali tale libertà è conculcata.

Benedetto XVI cita  alcuni casi che vedono come vittime i cristiani: Iraq, Pakistan, Egitto, Medio Oriente. Dell’islam non fa parola, ma in tutti i casi citati gli aggressori sono musulmani:

« Per amore del dialogo e della pace, che salvaguardano la creazione, esorto i governanti e i cittadini dell’Iraq ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro paese. Anche le comunità cristiane vogliono dare il loro contributo, ma perché ciò sia possibile, bisogna che sia loro assicurato rispetto, sicurezza e libertà. Anche il Pakistan è stato duramente colpito dalla violenza in questi ultimi mesi e alcuni episodi hanno preso di mira direttamente la minoranza cristiana. Domando che si compia ogni sforzo affinché tali aggressioni non si ripetano e i cristiani possano sentirsi pienamente integrati nella vita del loro paese. Trattando delle violenze contro i cristiani, non posso non menzionare, peraltro, i deplorevoli attentati di cui sono state vittime le Comunità copte egiziane in questi ultimi giorni, proprio quando stavano celebrando il Natale. [...]

« Le gravi violenze che ho appena evocato, unite ai flagelli della povertà e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra. Di fronte a tale esodo, invito le autorità civili, che vi sono coinvolte a diverso titolo, ad agire con giustizia, solidarietà e lungimiranza. In particolare, vorrei menzionare i cristiani in Medio Oriente: colpiti in varie maniere, fin nell’esercizio della loro libertà religiosa, essi lasciano la terra dei loro padri in cui si è sviluppata la Chiesa dei primi secoli. È per offrire loro un sostegno e per far loro sentire la vicinanza dei fratelli nella fede che ho convocato, per l’autunno prossimo, l’assemblea speciale del sinodo dei vescovi sul Medio Oriente ».

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Come negli anni passati, anche questa volta il testo del discorso è stato preparato negli uffici della segreteria di Stato.

Ma anche questa volta Benedetto XVI non ha mancato di lasciarvi la sua impronta.

La « firma » personale di Joseph Ratzinger è nelle righe d’inizio, nelle quali egli ha immediatamente offerto ai diplomatici presenti, molti dei quali estranei alla fede cristiana, la contemplazione della nascita del Verbo incarnato, annunciata dagli angeli ai pastori. E ha citato il prefazio della seconda messa di Natale:

« Nel mistero adorabile del Natale, Egli, Verbo invisibile, apparve visibilmente nella nostra carne, e generato prima dei secoli, cominciò ad esistere nel tempo, per assumere in sé tutto il creato e sollevarlo dalla sua caduta ».

testo integrale del discorso del Papa:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/january/documents/hf_ben-xvi_spe_20100111_diplomatic-corps_it.html

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sandro Magister |on 14 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: « Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire un cortile dei gentili »

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341494

« Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire un cortile dei gentili »

Era il cortile del tempio di Gerusalemme per i non ebrei. Benedetto XVI l’ha preso a simbolo del dialogo con i lontani dalla religione, nei quali tener desta la ricerca di Dio. I passi chiave del suo discorso prenatalizio alla curia romana

di Sandro Magister

ROMA, 21 dicembre 2009 – Augurando stamane un felice Natale alla curia romana, Benedetto XVI si è rivolto in realtà all’intera Chiesa e al mondo. Come già negli anni precedenti, anche questa volta nel discorso prenatalizio alla curia – integralmente scritto di suo pugno – egli ha voluto dare evidenza alle linee maestre del suo pontificato.

Nel 2005 il fuoco del discorso fu l’interpretazione e l’attuazione del Concilio Vaticano II, così come il rapporto tra continuità e rinnovamento, nella Chiesa:

> Papa Ratzinger certifica il Concilio. Quello vero

Nel 2006 il papa pose al centro la questione su Dio. Inoltre, prendendo spunto dal suo viaggio a Istanbul, formulò nel modo più chiaro la sua visione del rapporto con l’islam, proponendo al mondo musulmano quel percorso già compiuto dal cristianesimo sotto la sfida dell’Illuminismo:

> Bilancio di quattro viaggi. E di un anno di pontificato

Nel 2007 Benedetto XVI mise a fuoco l’urgenza per la Chiesa di porsi in stato di missione con tutti i popoli della terra:

> Sorpresa: il papa porta la curia in Brasile

Nel 2008 richiamò l’attenzione sulla più « dimenticata » delle persone della divina trinità, lo Spirito Santo « creatore », la cui impronta è nella struttura ordinata del cosmo e dell’uomo, da ammirare e rispettare:

> « Veni Creator Spiritus ». Per una ecologia dell’uomo

Quest’anno Benedetto XVI ha di nuovo preso spunto dai suoi ultimi viaggi, in particolare quelli in Africa, in Terra Santa e nella Repubblica Ceca, per ricavarne lezioni originali e, a tratti, sorprendenti.

In Camerun e in Angola il papa ha detto d’aver assistito a una vera « festa della fede ». E ha proposto come esempio per tutta la Chiesa la gioia popolare e insieme la forte sacralità orientata a Dio che là ha visto magnificamente espresse nelle celebrazioni liturgiche.

Ancora a proposito dell’Africa – alla quale è stato dedicato un sinodo lo scorso ottobre – il papa ha insistito sulla peculiarità dell’azione della Chiesa a servizio della politica. Questa peculiarità l’ha indicata nella « riconciliazione » che nasce da Dio e si attua tra gli uomini anche attraverso il sacramento che porta questo nome, un sacramento caduto in disuso, ma che egli vorrebbe riviva proprio come « sacramento dell’umanità in quanto tale ».

Circa il viaggio in Terra Santa, Benedetto XVI ha insistito sulla sua visita a Yad Vashem, simbolo del più profondo abisso dell’uomo e della massima lontananza da Dio, dove però Cristo è disceso a portare luce e vita, non nel mito ma nella realtà.

E infine, prendendo spunto dal viaggio nella Repubblica Ceca, un paese con una maggioranza di agnostici e di atei, Joseph Ratzinger ha lanciato una nuova evangelizzazione rivolta proprio ai lontani da Dio. Come nell’antico tempio di Gerusalemme, il papa ha proposto alla Chiesa di aprire per loro « una sorta di cortile dei gentili », ove tener desta la ricerca e la sete di lui.

Ecco qui di seguito quattro passaggi salienti del discorso prenatalizio rivolto da Benedetto XVI alla curia romana la mattina di lunedì 21 dicembre 2009:

1. IN CAMERUN E ANGOLA. LA FESTA DELLA FEDE

Era commovente per me sperimentare la grande cordialità con cui il successore di Pietro, il « Vicarius Christi », veniva accolto. La gioia festosa e l’affetto cordiale, che mi venivano incontro su tutte le strade, non riguardavano, appunto, semplicemente un qualsiasi ospite casuale. Nell’incontro col papa si rendeva sperimentabile la Chiesa universale, la comunità che abbraccia il mondo e che viene radunata da Dio mediante Cristo. [...] Proprio Lui è in mezzo a noi: questo abbiamo percepito attraverso il ministero del successore di Pietro. Così eravamo elevati al di sopra della semplice quotidianità. Il cielo era aperto, e questo è ciò che fa di un giorno una festa. Ed è al contempo qualcosa di duraturo. Continua ad essere vero, anche nella vita quotidiana, che il cielo non è più chiuso; che Dio è vicino; che in Cristo tutti ci apparteniamo a vicenda.

In modo particolarmente profondo si è impresso nella mia memoria il ricordo delle celebrazioni liturgiche. Le celebrazioni della santa eucaristia erano vere feste della fede. Vorrei menzionare due elementi che mi sembrano particolarmente importanti. C’era innanzitutto una grande gioia condivisa, che si esprimeva anche mediante il corpo, ma in maniera disciplinata ed orientata dalla presenza del Dio vivente. Con ciò è già indicato il secondo elemento: il senso della sacralità, del mistero presente del Dio vivente plasmava, per così dire, ogni singolo gesto. Il Signore è presente, il Creatore, Colui al quale tutto appartiene, dal quale noi proveniamo e verso il quale siamo in cammino. In modo spontaneo mi venivano in mente le parole di san Cipriano, che nel suo commento al Padre Nostro scrive: « Ricordiamoci di essere sotto lo sguardo di Dio rivolto su di noi. Dobbiamo piacere agli occhi di Dio, sia con l’atteggiamento del nostro corpo che con l’uso della nostra voce » (« De dominica oratione » 4 CSEL III 1 p. 269). Sì, questa consapevolezza c’era: noi stiamo al cospetto di Dio. Da questo non deriva paura o inibizione, neppure un’obbedienza esteriore alle rubriche e ancor meno un mettersi in mostra gli uni davanti agli altri o un gridare in modo indisciplinato. C’era piuttosto ciò che i Padri chiamavano « sobria ebrietas »: l’essere ricolmi di una gioia che comunque rimane sobria ed ordinata, che unisce le persone a partire dall’interno, conducendole nella lode comunitaria di Dio, una lode che al tempo stesso suscita l’amore del prossimo, la responsabilità vicendevole.

2. SINODO SULL’AFRICA. IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE

Il sinodo si era proposto il tema: la Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. È questo un tema teologico e soprattutto pastorale di un’attualità scottante, ma poteva essere anche frainteso come un tema politico. [...] Sono riusciti i padri sinodali a trovare la strada piuttosto stretta tra una semplice teoria teologica ed un’immediata azione politica, la strada del « pastore »? [...] Riconciliazioni sono necessarie per una buona politica, ma non possono essere realizzate unicamente da essa. Sono processi pre-politici e devono scaturire da altre fonti.

Il Sinodo ha cercato di esaminare profondamente il concetto di riconciliazione come compito per la Chiesa di oggi, richiamando l’attenzione sulle sue diverse dimensioni. La chiamata che san Paolo ha rivolto ai Corinzi possiede proprio oggi una nuova attualità. « In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio! » (2 Corinzi 5, 20). Se l’uomo non è riconciliato con Dio, è in discordia anche con la creazione. Non è riconciliato con se stesso, vorrebbe essere un altro da quel che è ed è pertanto non riconciliato neppure con il prossimo. Fa inoltre parte della riconciliazione la capacità di riconoscere la colpa e di chiedere perdono, a Dio e all’altro. E infine appartiene al processo della riconciliazione la disponibilità alla penitenza, la disponibilità a soffrire fino in fondo per una colpa e a lasciarsi trasformare. E ne fa parte la gratuità, di cui l’enciclica « Caritas in veritate » parla ripetutamente: la disponibilità ad andare oltre il necessario, a non fare conti, ma ad andare al di là di ciò che richiedono le semplici condizioni giuridiche. Ne fa parte quella generosità di cui Dio stesso ci ha dato l’esempio.

Pensiamo alla parola di Gesù: « Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono » (Matteo 5, 23s.). Dio che sapeva che non siamo riconciliati, che vedeva che abbiamo qualcosa contro di lui, si è alzato e ci è venuto incontro, benché Egli solo fosse dalla parte della ragione. Ci è venuto incontro fino alla croce, per riconciliarci. Questa è gratuità: la disponibilità a fare il primo passo. Per primi andare incontro all’altro, offrirgli la riconciliazione, assumersi la sofferenza che comporta la rinuncia al proprio aver ragione. Non cedere nella volontà di riconciliazione: di questo Dio ci ha dato l’esempio, ed è questo il modo per diventare simili a lui, un atteggiamento di cui sempre di nuovo abbiamo bisogno nel mondo.

Dobbiamo oggi apprendere nuovamente la capacità di riconoscere la colpa, dobbiamo scuoterci di dosso l’illusione di essere innocenti. Dobbiamo apprendere la capacità di far penitenza, di lasciarci trasformare; di andare incontro all’altro e di farci donare da Dio il coraggio e la forza per un tale rinnovamento. In questo nostro mondo di oggi dobbiamo riscoprire il sacramento della penitenza e della riconciliazione. Il fatto che esso in gran parte sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita, che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace. San Bonaventura era dell’opinione che il sacramento della penitenza fosse un sacramento dell’umanità in quanto tale, un sacramento che Dio aveva istituito nella sua essenza già immediatamente dopo il peccato originale con la penitenza imposta ad Adamo, anche se ha potuto ottenere la sua forma completa solo in Cristo, che è personalmente la forza riconciliatrice di Dio e ha preso su di sé la nostra penitenza.

3. TERRA SANTA. LA DISCESA DI DIO NELL’ABISSO

La visita a Yad Vashem ha significato un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana, con l’odio di un’ideologia accecata che, senza alcuna giustificazione, ha consegnato milioni di persone umane alla morte e che con ciò, in ultima analisi, ha voluto cacciare dal mondo anche Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e il Dio di Gesù Cristo. Così questo è in primo luogo un monumento commemorativo contro l’odio, un richiamo accorato alla purificazione e al perdono, all’amore.

Proprio questo monumento alla colpa umana ha reso poi tanto più importante la visita ai luoghi della memoria della fede e ha fatto percepire la loro inalterata attualità. In Giordania abbiamo visto il punto più basso della terra, presso il fiume Giordano. Come si potrebbe non sentirsi richiamati alla parola della lettera agli Efesini, secondo cui Cristo è « disceso nelle regioni più basse della terra » (Efesini 4, 9). In Cristo Dio è disceso fin nell’ultima profondità dell’essere umano, fin nella notte dell’odio e dell’accecamento, fin nel buio della lontananza dell’uomo da Dio, per accendere lì la luce del suo amore. Egli è presente perfino nella notte più profonda: « anche negli inferi, eccoti »; questa parola del salmo 139 [138], 8 è diventata realtà nella discesa di Gesù.

Così l’incontro con i luoghi della salvezza nella chiesa dell’annunciazione a Nazaret, nella grotta della natività a Betlemme, nel luogo della crocifissione sul Calvario, davanti al sepolcro vuoto, testimonianza della risurrezione, è stato come un toccare la storia di Dio con noi. La fede non è un mito. È storia reale, le cui tracce possiamo toccare con mano. Questo realismo della fede ci fa particolarmente bene nei travagli del presente. Dio si è veramente mostrato. In Gesù Cristo Egli si è veramente fatto carne. Come risorto Egli rimane vero uomo, apre continuamente la nostra umanità a Dio ed è sempre il garante del fatto che Dio è un Dio vicino.

4. PRAGA. UN « CORTILE » PER CHI CERCA IL DIO IGNOTO

Anche le persone che si ritengono agnostiche o atee devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi. A Parigi ho parlato della ricerca di Dio come del motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde.

Mi viene qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr. Isaia 56, 7; Marco 11, 17). Egli pensava al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio di preghiera per tutti i popoli: si pensava con ciò a persone che conoscono Dio, per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il « Dio ignoto » (cfr. Atti 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere.

Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di « cortile dei gentili » dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto.

Publié dans:Sandro Magister |on 28 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: La « Dichiarazione di Manhattan »: il manifesto che scuote l’America

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341135

La « Dichiarazione di Manhattan »: il manifesto che scuote l’America

L’hanno sottoscritta leader cattolici, protestanti, ortodossi, uniti nel difendere la vita e la famiglia. Con la Casa Bianca nel mirino. In Europa l’avrebbero bollata come una « ingerenza » politica della Chiesa

di Sandro Magister

ROMA, 25 novembre 2009 – Al di qua dell’Atlantico la notizia è passata quasi inosservata: quella di un forte appello pubblico a difesa della vita, del matrimonio, della libertà religiosa e dell’obiezione di coscienza, lanciato congiuntamente – cosa rara – da esponenti di primissimo piano della Chiesa cattolica, delle Chiese ortodosse, della Comunione anglicana e delle comunità evangeliche degli Stati Uniti.

Tra i leader religiosi che hanno presentato al pubblico l’appello, venerdì 20 novembre al National Press Club di Washington (vedi foto), c’erano l’arcivescovo di Philadelphia, cardinale Justin Rigali, l’arcivescovo di Washington, Donald W. Wuerl, e il vescovo di Denver, Charles J. Chaput.

E tra i 152 primi sottoscrittori dell’appello ci sono altri 11 arcivescovi e vescovi cattolici degli Stati Uniti: il cardinale Adam Maida, di Detroit, Timothy Dolan, di New York, John J. Myers, di Newark, John Nienstedt, di Saint Paul and Minneapolis,  Joseph F. Naumann, di Kansas City,  Joseph E. Kurtz, di Louisville, Thomas J. Olmsted, di Phoenix, Michael J. Sheridan, di Colorado Springs, Salvatore J. Cordileone,  di Oakland,  Richard J. Malone, di Portland, David A. Zubik, di Pittsburgh.

L’appello, di 4.700 parole, ha per titolo: « Manhattan Declaration: A Call of Christian Conscience [Dichiarazione di Manhattan. Un appello della coscienza cristiana] » e ha preso nome dalla penisola di New York in cui ne fu discussa e decisa la pubblicazione, lo scorso settembre.

La redazione finale del testo fu affidata al cattolico Robert P. George, professore di diritto alla Princeton University, e agli evangelici Chuck Colson e Timothy George, quest’ultimo professore della Beeson Divinity School, nella Samford University di Birmingham in Alabama.

Tra gli altri firmatari figurano il metropolita Jonah Paffhausen, primate della Chiesa ortodossa in America, l’arciprete Chad Hatfield, del seminario teologico ortodosso di San Vladimiro, il reverendo William Owens, presidente della Coalition of African-American Pastors, e due personaggi di spicco della Comunione anglicana: Robert Wm. Duncan, primate della Anglican Church in North America, e Peter J. Akinola, primate della Anglican Church in Nigeria.

Tra i cattolici, vescovi a parte, hanno sottoscritto l’appello il gesuita Joseph D. Fessio, discepolo di Joseph Ratzinger e fondatore dell’editrice Ignatius Press, William Donohue, presidente della Catholic League, Jody Bottum, direttore della rivista « First Things », George Weigel, membro dell’Ethics and Public Policy Center.

La « Dichiarazione di Manhattan » non cade nel vuoto, ma in un momento critico per la società e la politica americane: proprio mentre l’amministrazione di Barack Obama è impegnatissima a far passare un piano di riforma dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti.

Difendendo la vita umana fin dal concepimento e il diritto all’obiezione di coscienza, l’appello contesta due punti messi in pericolo dal progetto di riforma attualmente in discussione al Senato.

Al Congresso il pericolo è stato sventato anche grazie a una pressante azione di lobbying condotta alla piena luce del sole dall’episcopato cattolico. Dopo che il voto finale aveva garantito sia il diritto all’obiezione di coscienza sia il blocco di qualsiasi finanziamento pubblico all’aborto, la conferenza episcopale aveva rivendicato questo risultato come un « successo ». Ma ora al Senato la battaglia è ricominciata da capo, su un testo di partenza che di nuovo la Chiesa giudica inaccettabile. La conferenza episcopale ha già indirizzato ai senatori una lettera con indicate le modifiche che vorrebbe fossero apportate a tutti i punti controversi.

Ma ora in più c’è l’ecumenica « Dichiarazione di Manhattan », il cui ultimo capitolo, intitolato « Leggi ingiuste », termina con questo annuncio solenne:

« Non ci faremo ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi ».

E subito dopo:

« Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza noi daremo a Cesare ciò che è di Dio ».

In un passaggio iniziale, l’appello dice anche questo:

« Mentre l’opinione pubblica si muove in direzione pro-life, forze potenti e determinate lavorano per promuovere l’aborto, la ricerca distruttiva degli embrioni, il suicidio assistito e l’eutanasia ».

Ed è vero. Stando alle più recenti indagini, l’opinione pubblica negli Stati Uniti sta virando sensibilmente verso una maggiore difesa della vita del concepito.

Dal 1995 al 2008 tutte le ricerche avevano registrato una prevalenza dei pro-choice rispetto ai pro-life, con distacco anche netto: i primi al 49 per cento, i secondi al 42.
Oggi, invece, le posizioni si sono rovesciate. I pro-choice sono calati al 46 per cento e i pro-life sono saliti al 47 per cento, sopravanzandoli.

I leader religiosi che incalzano Obama sui terreni minati dell’aborto, del matrimonio tra omosessuali, dell’eutanasia, sanno quindi di avere con sé un’ampia e crescente parte della società americana.

Il lancio della « Dichiarazione di Manhattan » ha avuto una forte eco nei media degli Stati Uniti, senza che qualcuno protestasse contro questa « ingerenza » politica delle Chiese.

Ma gli Stati Uniti sono fatti così. Lì c’è da sempre una rigorosa separazione tra le religioni e lo Stato. I concordati non ci sono e nemmeno sono concepibili. Ma proprio per questo si riconosce alle Chiese la piena libertà di parlare e di agire in campo pubblico.

In Europa il paesaggio è molto diverso. Qui la « laicità » è pensata e applicata in conflitto, latente od esplicito, con le Chiese.

È anche questo, forse, un motivo del silenzio che in Europa, in Italia, a Roma, ha coperto la « Dichiarazione di Manhattan ». È ritenuta un fenomeno tipicamente americano, estraneo ai canoni di giudizio europei.

Un’analoga diversità di approccio riguarda la comunione eucaristica data o negata ai politici cattolici pro aborto. Negli Stati Uniti la controversia è vivacissima, mentre al di qua dell’Atlantico no. Questa diversa sensibilità divide anche la gerarchia della Chiesa cattolica: in Europa e a Roma la questione è praticamente ignorata, lasciata alla coscienza dei singoli.

Va notato però che su questo punto qualcosa sta cambiando, anche nel Vecchio Continente. E non solo perché c’è un papa come Benedetto XVI che dichiaratamente preferisce il modello americano di rapporto tra le Chiese e lo Stato.

Un segnale è venuto pochi giorni fa dalla Spagna, dove la Chiesa cattolica è alle prese con un governo ideologicamente ostile, quello di José Luis Rodríguez Zapatero, e dove si prepara una legge che liberalizza l’aborto più di quanto già sia.

Secondo quanto ha riferito anche « L’Osservatore Romano », il segretario generale della conferenza episcopale spagnola, il vescovo Juan Antonio Martínez Camino, non ha esitato ad avvisare i politici cattolici che, se voteranno sì alla legge, non potranno essere ammessi alla comunione eucaristica, perchè si collocheranno in una situazione oggettiva di “peccato pubblico”.

Non solo. Monsignor Martínez Camino ha aggiunto che chi sostiene che è moralmente legittimo uccidere un nascituro si mette in contraddizione con la fede cattolica e pertanto rischia di cadere nell’eresia e nella scomunica “latae sententiae”, cioè automatica.

È la prima volta che in Europa, da parte di un dirigente di una conferenza episcopale, si odono parole così « americane ».

Ma torniamo alla « Dichiarazione di Manhattan ». Il suo testo integrale, con la lista dei 152 primi sottoscrittori, è in questa pagina web:

> Manhattan Declaration: A Call of Christian Conscience

Mentre qui di seguito, tradotto, c’è il testo abbreviato, diffuso assieme al testo integrale della « Dichiarazione »:

Manhattan Declaration Executive Summary

20 novembre 2009

I cristiani, quando hanno dato vita ai più alti ideali della loro fede, hanno difeso il debole e il vulnerabile e hanno lavorato instancabilmente per proteggere e rafforzare le istituzioni vitali della società civile, a cominciare dalla famiglia.

Noi siamo cristiani ortodossi, cattolici ed evangelici che si sono uniti nell’ora presente per riaffermare le verità fondamentali della giustizia e del bene comune, e per lanciare un appello ai nostri concittadini, credenti e non credenti, affinché si uniscano a noi nel difenderli. Queste verità sono (1) la sacralità della vita umana, (2) la dignità del matrimonio come unione coniugale tra marito e moglie, e (3) i diritti di coscienza e di libertà religiosa. In quanto queste verità sono fondative della dignità umana e del benessere della società, esse sono inviolabili e innegoziabili. Poiché esse sono sempre più sotto attacco da parte di forze potenti nella nostra cultura, noi ci sentiamo in dovere oggi di parlare a voce alta in loro difesa e di impegnare noi stessi a onorarle pienamente, non importa quali pressioni siano esercitate su di noi e sulle nostre istituzioni affinché le abbandoniano o le pieghiamo a compromessi. Noi prendiamo questo impegno non come partigiani di un gruppo politico ma come seguaci di Gesù Cristo, il Signore crocifisso e risorto, che è la Via, la Verità e la Vita.

Vita umana

Le vite dei nascituri, dei disabili e dei vecchi sono sempre più minacciate. Mentre l’opinione pubblica si muove in direzione pro-life, forze potenti e determinate lavorano per promuovere l’aborto, la ricerca distruttiva degli embrioni, il suicidio assistito e l’eutanasia. Nonostante la protezione del debole e del vulnerabile sia il dovere primo di un governo, il potere di governo è oggi spesso guadagnato alla causa della promozione di quella che Giovanni Paolo II ha chiamato « la cultura della morte ». Noi ci impegniamo a lavorare incessantemente per l’eguale protezione di ogni essere umano innocente ad ogni stadio del suo sviluppo e in qualsiasi condizione. Noi rifiuteremo di consentire a noi stessi e alle nostre istituzioni di essere implicati nel cancellare una vita umana e sosterremo in tutti i modi possibili coloro che, in coscienza, faranno la stessa cosa.

Matrimonio

L’istituto del matrimonio, già ferito da promiscuità, infedeltà e divorzio, corre il rischio di essere ridefinito e quindi sovvertito. Il matrimonio è l’istituto originario e più importante per sostenere la salute, l’educazione e il benessere di tutti. Dove il matrimonio è eroso, le patologie sociali aumentano. La spinta a ridefinire il matrimonio è un sintomo, piuttosto che la causa, di un’erosione della cultura del matrimonio. Essa riflette una perdita di comprensione del significato del matrimonio così come è incorporato sia nella nostra legge civile, sia nelle nostre tradizioni religiose. È decisivo che tale spinta trovi resistenza, poiché cedere ad essa vorrebbe dire abbandonare la possibilità di ridar vita a una giusta concezione del matrimonio e, con essa, alla speranza di ricostruire una corretta cultura del matrimonio. Questo bloccherebbe la strada alla credenza falsa e distruttiva che il matrimonio coincida con un’avventura sentimentale e altre soddisfazioni per persone adulte, e non, per sua natura intrinseca, con quell’unico carattere e valore di atti e relazione il cui significato è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita. Il matrimonio non è una « costruzione sociale » ma è piuttosto una realtà oggettiva – l’unione pattizia tra un marito e una moglie – che è dovere della legge riconoscere, onorare e proteggere.

Libertà religiosa

Libertà di religione e diritti della coscienza sono gravemente in pericolo. La minaccia a questi principi fondamentali di giustizia è evidente negli sforzi di indebolire o eliminare l’obiezione di coscienza per gli operatori e gli istituti sanitari, e nelle disposizioni antidiscriminazione che sono usate come armi per forzare le istituzioni religiose, gli enti di assistenza, le imprese economiche e i fornitori di servizi sia ad accettare (e anche a facilitare) attività e rapporti da essi giudicati immorali, oppure di essere messi fuori. Gli attacchi alla libertà religiosa sono pesanti minacce non solo a persone singole, ma anche a istituzioni della società civile che comprendono famiglie, enti di assistenza e comunità religiose. La salvaguardia di queste istituzioni provvede un indispensabile riparo da prepotenti poteri di governo ed è essenziale affinché fiorisca ogni altra istituzione su cui la società si appoggia, incluso lo stesso governo.

Leggi ingiuste

Come cristiani, crediamo nella legge e rispettiamo l’autorità dei governanti terreni. Riteniamo che sia uno speciale privilegio vivere in una società democratica dove le esigenze morali della legge su di noi sono anche più forti in virtù dei diritti di tutti i cittadini di partecipare al processo politico. Ma anche in un regime democratico le leggi possono essere ingiuste. E fin dalle origini la nostra fede ha insegnato che la disobbedienza civile è richiesta di fronte a leggi gravemente ingiuste o a leggi che pretendano che noi facciamo ciò che è ingiusto oppure immorale. Simili leggi mancano del potere di obbligare in coscienza poiché esse non possono rivendicare nessuna autorità oltre a quella della mera volontà umana.

Pertanto, si sappia che non acconsentiremo a nessun editto che obblighi noi o le istituzioni che guidiamo a compiere o a consentire aborti, ricerche distruttive dell’embrione, suicidi assistiti, eutanasie o qualsiasi altro atto che violi i principi della profonda, intrinseca ed eguale dignità di ogni membro della famiglia umana.

Inoltre, si sappia che non ci faremo ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi.

Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza noi daremo a Cesare ciò che è di Dio.

di Sandro Magister: Le storie mai raccontate dei martiri di Israele

dal sito:

http://incamminoverso.unblog.fr/wp-admin/post-new.php

Le storie mai raccontate dei martiri di Israele

Per la prima volta, in un libro, i ritratti delle vittime dell’odio islamista. Giovani e vecchi, uomini e donne. Abbattuti sull’autobus, al bar, al mercato. Uccisi per la sola « colpa » di essere ebrei

di Sandro Magister

ROMA, 9 novembre 2009 – Oggi gli ebrei di tutto il mondo commemorano i loro martiri della « notte dei cristalli », cioè le vittime del pogrom nazista della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, in Germania.

Di quel massacro e poi del tremendo successivo sterminio degli ebrei ad opera del Terzo Reich oggi si fa universale e penitenziale memoria.

Non accade invece lo stesso, in Europa e in Occidente, per le numerose altre vittime ebree che cadono da anni in Israele, abbattute dal terrorismo musulmano.

Ogni volta che qualcuno di loro viene ucciso, entra nelle notizie e presto ne esce. Finisce sommerso nell’indistinto della « questione palestinese », letta da molti come prodotto della « colpa » di Israele.

Intanto, una famiglia israeliana su trecento è stata già colpita da un attentato. Le azioni terroristiche si contano a migliaia. Gli attentati suicidi andati a bersaglio sono più di 150 e per ogni attentato eseguito la polizia israeliana calcola di averne prevenuti altri nove. A tutt’oggi, il totale dei morti è di 1723, di cui 378 donne. I feriti sono più di diecimila.

Alla distrazione dell’occhio occidentale e cristiano di fronte a questo stillicidio di vittime, colpite sistematicamente nel tran tran quotidiano, sugli autobus, nelle caffetterie, nei mercati, in casa, reagisce un libro che per la prima volta racconta le loro storie. Ci dice finalmente chi sono.

Il libro è uscito da un mese in Italia e presto sarà tradotto a New York e Londra. Ha per titolo « Non smetteremo di danzare ». E per sottotitolo: « Le storie mai raccontate dei martiri di Israele ».

L’autore, Giulio Meotti, è già noto ai lettori di www.chiesa per due suoi reportage che hanno avuto grande risonanza: sulla città più islamizzata d’Europa, Rotterdam, e sui « giovani delle colline », i coloni israeliani dell’ultima generazione.

Questo suo ultimo libro si apre con una prefazione del filosofo inglese Roger Scruton e con una lettera di Robert Redeker, lo scrittore francese che vive in una località segreta da quando è stato minacciato di morte da islamisti fanatici.

Ecco qui di seguito un estratto del primo capitolo.

__________
 

I sommersi di Israele

di Giulio Meotti

Da « Non smetteremo di danzare », pp. 26-36

Perché questo libro? Perché non vi era neppure una storia dei morti d’Israele. È stato scritto senza alcun pregiudizio contro i palestinesi, è un racconto mosso dall’amore per un grande popolo e la sua meravigliosa e tragica avventura nel cuore del Medio Oriente e lungo tutto il XX secolo. Ogni progetto di sterminio di una intera classe di esseri umani, da Srebrenica al Ruanda, ha avuto la sua migliore narrativa. A Israele non sembra concesso, dalla storia si è sempre dovuto lavare via in fretta il sangue degli ebrei. Ebrei uccisi perché ebrei e le cui storie sono state ingoiate nella disgustosa e amorale equivalenza fra israeliani e palestinesi, che non spiega nulla di quel conflitto e anzi lo ottunde fino ad annullarlo. Il libro vuole salvare dall’oblio questo immenso giacimento di dolore, suscitando rispetto per i morti e amore per i vivi. [...]

Il più bel regalo, in questi quattro anni di ricerche, me lo hanno fatto gli israeliani che hanno aperto il loro mondo martoriato alla mia richiesta di aiuto, sono rimasti nudi con il proprio dolore. Ero io a bussare alla loro porta, un estraneo, un non ebreo, uno straniero. Ma mi hanno teso tutti una mano e parlato dei loro cari per la prima volta. [...]

Ho deciso di raccontare alcune grandi storie israeliane vivificate  dall’idealismo, dal dolore, dal sacrificio, dal caso, dall’amore, dalla paura, dalla fede, dalla libertà. E dalla speranza che, nonostante tutto questo silenzio, Israele alla fine vinca. [...] Ci sono persone incredibili come l’ostetrica Tzofia, che ha perso il padre rabbino, la madre e un fratellino, ma oggi aiuta le donne arabe a far nascere i loro bambini. [...] C’è il copista di Torah, Yitro, che si convertì all’ebraismo e il cui figlio è stato rapito e giustiziato da Hamas. C’è Elisheva, proveniente da una famiglia di pionieri agricoltori che ha perso tutti ad Auschwitz e una figlia incinta al nono mese per mano di terroristi spietati, perché « voleva vivere l’ideale ebraico ». [...] A Tzipi hanno pugnalato a morte il padre rabbino e dove un tempo c’era la sua stanza da letto oggi sorge un’importante scuola religiosa. Ruti e David hanno perso rispettivamente il marito e il fratello, un grande medico umanista che si prendeva cura di tutti, arabi ed ebrei. C’è il rabbino Elyashiv, a cui hanno strappato un figlio seminarista ma che continua a credere che « nella vita tutto rafforza il forte e indebolisce il debole ». Poi c’è Sheila, che parla sempre dell’arrivo del Messia e di come suo marito si prendeva cura dei bambini Down. Menashe ha perso il padre, la madre, il fratello e il nonno in una notte di terrore, ma continua a credere nel diritto di vivere dove Abramo piantò la tenda. [...] Elaine ha perso un figlio durante la cena di shabath e per oltre un anno non ha cucinato o emesso suoni. Ci sono gli amici di Ro’i Klein, scudo umano che saltò su una mina recitando lo Shema’ Israel e salvando la vita dei compagni di brigata. Yehudit ha perso la figlia troppo presto, al ritorno da un matrimonio assieme al marito. Anche a Uri, che ha fatto alyah dalla Francia, hanno portato via la figlia, volontaria fra i poveri.

Orly ha vissuto felice in un caravan, ma suo figlio non fece in tempo a rimettersi in testa la kippah prima di essere ucciso. C’è Tehila, una di quelle donne timorate ma moderne che popolano gli insediamenti, moglie di un idealista che « viveva la terra », amava i ciuffi rosa e celesti dei fiori della Samaria. [...]. C’è anche il meraviglioso Yossi, suo figlio ha sacrificato la propria vita per salvare quella degli amici e ogni venerdì andava a distribuire doni religiosi ai passanti. Rina aveva creato una perla nel deserto egiziano, si credeva una pioniera e si è vista portare via un figlio con la moglie incinta. [...] C’è Chaya, che ha abbracciato il giudaismo assieme al marito, la conversione per loro « era come sposarsi con Dio ». [...] Tutte queste storie ci raccontano di questo Stato unico al mondo, nato da un’ideologia laica ottocentesca come il sionismo, che sulle ceneri dell’Olocausto radunò sulla sua terra d’origine un popolo esiliato duemila anni prima e sterminato per più della metà. Storie che ci dicono del coraggio, della disperazione, della fede, della difesa della propria casa cercando, anche se a volte si sbaglia, di mantenere la « purezza delle armi » nell’unico esercito che consente di disubbidire a un ordine disumano. [...]

La storia di queste vittime ebree non è soltanto una storia di eroi. È quasi sempre gente indifesa. [...] Il Centro di Studi Antiterrorismo di Herzliya, il più importante istituto di analisi in Israele, ha calcolato che soltanto il 25 per cento delle vittime israeliane erano militari. La maggioranza erano e sono ebrei in abiti civili. Fra gli israeliani, le donne costituiscono il 40 per cento delle vittime totali. Gli europei credono che Israele sia il soggetto forte, la patria e la guarnigione in armi che ha dalla sua il controllo del territorio, la tecnologia, i soldi, il sapere consolidato, la capacità di usare la forza, l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti. E che contro di esso si erga la struggente debolezza di un popolo che rivendica i suoi diritti, disposto al martirio per ottenerli. Ma non è così. Le storie di questi nuovi « sommersi » lo dimostrano.

Gli israeliani hanno dimostrato di amare la vita più di quanto temano la morte. I terroristi hanno ucciso centinaia fra insegnanti e studenti, ma le scuole non hanno mai chiuso. Hanno ucciso medici e pazienti, ma gli ospedali hanno sempre funzionato. Hanno massacrato esercito e polizia, ma la lista di chi si offre volontario non è mai diminuita. Hanno preso a fucilate i bus di fedeli, ma i pellegrini continuano ad arrivare in Giudea e Samaria. Hanno fatto stragi nei matrimoni e costretto le giovani coppie a sposarsi nei bunker sotto terra. Ma la vita ha sempre vinto sulla morte. Come quando, alla festa notturna al Sea Market Restaurant di Tel Aviv, Irit Rahamim festeggiava l’addio al celibato. Quando il terrorista comincia a sparare e a lanciare granate sulla folla, Irit si butta a terra, e sdraiata sotto il tavolo chiama il futuro marito e gli dice che lo ama. Fra le urla. E la morte.

Publié dans:Israele, Sandro Magister |on 11 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: « Beatissimo Padre, in questa era di irrazionali barbarie… »

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1340851

« Beatissimo Padre, in questa era di irrazionali barbarie… »

L’appello a Benedetto XVI « per il ritorno a un’arte sacra autenticamente cattolica ». Primo firmatario il grande scrittore tedesco Martin Mosebach. E intanto s’avvicina l’incontro tra il papa e gli artisti nella Cappella Sistina

di Sandro Magister

ROMA, 5 novembre 2009 – A pochi giorni dall’annunciato incontro del 21 novembre tra il papa e gli artisti nella Cappella Sistina, sul tavolo di Benedetto XVI è già arrivato un appello che ne anticipa il principale motivo.

L’appello è « per il ritorno a un’arte sacra autenticamente cattolica » ed è stato sottoscritto non da artisti ma da studiosi e persone variamente appassionate alle sorti dell’arte cristiana. Fra gli altri: Nikos Salingaros, Steven J. Schloeder, Steen Heidemann, Duncan G. Stroik, Pietro De Marco, Martin Mosebach, Enrico Maria Radaelli.

Mosebach è un affermato scrittore tedesco che Joseph Ratzinger conosce bene. Il suo ultimo libro: « Eresia dell’informe. La liturgia romana e il suo nemico », è uscito quest’anno anche in Italia, edito da Cantagalli. Ed è una scintillante apologia della grande arte cristiana, anzi, della stessa liturgia cattolica come arte. Con pungenti invettive contro l’iconoclastia che oggi impera nella stessa Chiesa cattolica. Mosebach ha dedicato il libro al filosofo Robert Spaemann, anche lui molto conosciuto e apprezzato dall’attuale papa.

Radaelli, discepolo del grande filologo e filosofo cattolico Romano Amerio, è raffinato cultore di estetica teologica. Il suo capolavoro è: « Ingresso alla bellezza », uscito nel 2008, un magnifico percorso d’ingresso nel mistero di Dio attraverso quella sua « Imago » che è Cristo. La bellezza come apparire della verità.

L’appello è nato anche da seminari tenuti nei mesi scorsi nella biblioteca della pontificia commissione dei beni culturali della Chiesa, ospitati dal vicepresidente di questa commissione vaticana, l’abate benedettino Michael J. Zielinski. Hanno avuto parte negli incontri don Nicola Bux e padre Uwe Michael Lang, consultori dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche papali e, il secondo, officiale della congregazione per il culto divino. Ma tra i promotori dell’appello non figura nessun ecclesiastico, né tanto meno alcun responsabile vaticano. I firmatari sono laici, di varia competenza e professione.

Dopo una breve introduzione, il testo si articola in sette capitoletti dedicati alle cause dell’attuale frattura tra Chiesa e arte, ai riferimenti teologici, ai committenti, agli artisti, allo spazio sacro, alla musica sacra, alla liturgia.

E termina con l’appello vero e proprio, così formulato:

« Per tutte le ragioni qui esposte, nella consapevolezza di ricevere dalla Santità Vostra l’ascolto paterno e con ciò l’attenzione misericordiosa del Vicario di Cristo, Vi supplichiamo, Beatissimo Padre, di voler leggere nel nostro presente accorato appello la più struggente preoccupazione per le terribili condizioni in cui oggi versano tutte le arti che sempre hanno accompagnato la sacra liturgia, nonché una modesta, umilissima richiesta d’ausilio alla Santità Vostra:

– affinché arti e architettura sacre possano tornare a essere e mostrarsi veramente e profondamente cattoliche;

– affinché poi le moltitudini dei fedeli anche più semplici e indotti possano tornare a stupirsi e gioire di questa nobile e pervasiva bellezza ancora e sempre presente vivamente nella casa del Signore, e da essa tornare a raccogliere nel cuore i più alti e ancor nuovi insegnamenti;

– affinché infine la Chiesa possa rivelarsi, anche in questa era di mondane, irrazionali e diseducative barbarie, l’unica vera, solerte e attenta promotrice e custode di un’arte nuova e davvero ‘originale’, ossia in grado anche oggi, come sempre è fiorita in ogni tempo pregresso, di rifiorire dall’antico, dalla sua inclita ed eterna Origine, ovvero dal senso più intimo della Bellezza che rifulge nella Verità di Cristo ».

Il testo integrale con l’elenco dei firmatari può essere letto, in più lingue, nel sito web creato allo scopo:

> Appello al Santo Padre Benedetto XVI per un’arte sacra autenticamente cattolica

Qui di seguito eccone un capitoletto d’assaggio.

VI. MUSICA SACRA E CANTO LITURGICO

Santità, la Chiesa ha oggi l’opportunità di riappropriarsi del suo ruolo « altamente » magisteriale in materia di musica sacra e principalmente nel campo della musica e del canto liturgici, che debbono necessariamente rispondere alle categorie del « buono » e del « giusto » per la loro intima coincidenza, e non solo corrispondenza, con la liturgia stessa (Paolo VI, discorso ai cantori della cappella pontificia del 12 marzo 1964).

Nella millenaria storia del cristianesimo il dialettico  rapporto fra musica sacra e musica profana ha prodotto più volte l’intervento dell’autorità ecclesiastica per « ripulire l’edificio della liturgia romana » (perifrasi espressamente usata da molti pontefici) dalle intrusioni secolaristiche che proprio la musica portava nelle chiese e che, con il passare dei secoli e il progressivo sviluppo tecnico-musicale, sono divenute sempre più gravi e debordanti dal corretto uso liturgico, finendo spesso per arrogarsi ruoli auto-referenzianti di natura profana.

Dai tempi della costituzione apostolica « Docta sanctorum » di papa Giovanni XXII (1324), il magistero ha sempre indicato i retti modi di intendere la musica al servizio del culto, approvando via via quelle novità tecniche compatibili con la liturgia, ma additando sempre e costantemente fino ai nostri giorni (compreso il magistero del Concilio Vaticano II e dell’intero post-concilio) nel canto gregoriano la radice primigenia, la fonte di ispirazione costante, la più alta – proprio perché semplicemente « nobilissima » – forma di musica che possa incarnare l’ideale liturgico cattolico nel modo più perfetto, anche in virtù del suo oggettivante anonimato meta-storico e della sua verace universalità estetica, verbale, sensibile.

Non possiamo oggi certamente stabilire degli stili o forme musicali pre-concette, ma il recupero del canto gregoriano, della buona polifonia e musica organistica (anche ispirate ad esso) antiche, moderne e contemporanee, servirebbe certamente, dopo decenni di assoluto sconcerto e probabilismo musicale, a recuperare dei « vocaboli » liturgici che la Tradizione artistica e musicale cattolica ci ha offerto per secoli: essi hanno funzionato – per usare una icastica espressione di papa Paolo VI nell’enciclica « Mysterium fidei » – come vere e proprie « tessere della fede » cattolica, la quale si è sostentata da sempre di dati sensibili, dotati di verità e bellezza, quanto alieni da intellettualismi sterili e manierati o archeologismi da evitare con ogni cura (come indicò papa Pio XII nell’enciclica « Mediator Dei » da cui scaturì la riforma liturgica del secondo Novecento).

Forse tra le arti devolute al servizio del culto, la musica è la più forte, per quel costante senso « catechetico » che il magistero le ha ininterrottamente riconosciuto, e parimenti la più delicata in quanto, per sua natura e contrariamente alle altre arti, necessita di un « tertium medium » fra l’autore ed il fruitore, ovvero l’interprete. Per tali ragioni la sollecitudine della Chiesa deve, come in passato, rivolgersi alla formazione degli autori come degli interpreti: certo lo sforzo in tal senso è infinitamente più grave che nel tardo Medioevo, nell’età barocca, o nell’Ottocento, trattandosi di forze che oggi provengono da una società che, contrariamente al passato, di cristiano ha veramente poco e la catechesi in tal senso dovrebbe ripartire dai « fondamentali », onde i musicisti – quando abbiano le professionalità adatte – recuperino il « sensus ecclesiæ » come finanche il « sensus fidei ».

__________

E a proposito dell’incontro tra il papa e gli artisti…

L’annunciato incontro tra Benedetto XVI e gli artisti avverrà la mattina di sabato 21 novembre 2009, nella Cappella Sistina.

Il programma dell’incontro sarà il seguente. Dopo un preludio musicale, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura, rivolgerà un saluto al papa a nome dei presenti. Quindi saranno letti alcuni brani della « Lettera agli artisti » di Giovanni Paolo II, del 4 aprile 1999. E infine papa Joseph Ratzinger terrà il suo discorso. Un secondo momento musicale chiuderà l’incontro.

La Cappella Sistina ha una dimensione limitata e quindi gli artisti presenti saranno al massimo cinquecento, da tutto il mondo e di tutte le discipline: pittori e scultori, architetti, scrittori e poeti, musicisti e cantanti, uomini di cinema, di teatro, di danza, di fotografia. Agli inviti ha provveduto il pontificio consiglio della cultura.

Oltre alla lettera di Giovanni Paolo II del 1999, un altro precedente importante è di quarantacinque anni fa. È l’incontro tra Paolo VI e gli artisti del 7 maggio 1964, anche quello avvenuto nella Cappella Sistina.

La ragione che ha motivato il nuovo incontro è che « l’alleanza tra fede cristiana e arte si è infranta ». Così si è espresso monsignor Ravasi annunciando l’evento, lo scorso 10 settembre.

L’alleanza tra fede e arte fa tutt’uno con l’identità della Chiesa. L’ebraismo proibiva le immagini sacre. Ma la fede nel Dio incarnato ha indotto presto la Chiesa ad assumere come proprio linguaggio figurato l’arte greca e romana.

Questo geniale sposalizio della Chiesa con l’arte è andato incontro periodicamente a contestazioni iconoclaste. Nel primo millennio in Oriente e nel secondo millennio in Occidente, prima col protestantesimo e oggi con la generale tendenza antifigurativa non solo dell’arte ma anche della commìttenza ecclesiastica.

Incontrando gli artisti in quel luogo sommo dell’arte cristiana che è la Cappella Sistina, Benedetto XVI si propone precisamente di arrestare questo decadimento e riannodare un dialogo, nella speranza che risorga un’alleanza feconda tra l’arte e la Chiesa.

In un tempo « in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento », a papa Ratzinger viene forse in mente quello che disse san Giovanni Damasceno nel pieno della tempesta iconoclasta:

« Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede! tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri ».

Publié dans:Sandro Magister |on 10 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Il quarto sacramento in via di restauro. Provvedono il Curato d’Ars e padre Pio

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1338988

Il quarto sacramento in via di restauro. Provvedono il Curato d’Ars e padre Pio

File interminabili di penitenti facevano la coda al loro confessionale. E Benedetto XVI li propone come modelli per ridar vita al sacramento del perdono. Sorpresa: anche il cardinale Martini è d’accordo col papa. Vuole addirittura un Concilio a questo scopo

di Sandro Magister

ROMA, 22 giugno 2009 – Nell’aprire l’Anno Sacerdotale da lui personalmente ideato e voluto, Benedetto XVI ha detto che il suo scopo è di mostrare « quanto sia importante la santità dei sacerdoti per la vita e la missione della Chiesa ».

E di tale santità ha offerto come modelli il Curato d’Ars e padre Pio.

Il primo l’ha ricordato nella lettera con cui ha aperto l’Anno Sacerdotale, venerdì 19 giugno, festa del Sacro Cuore di Gesù. Quanto al secondo, si è recato pellegrino sul luogo dove visse, San Giovanni Rotondo, domenica 21 giugno.

Questi due santi non hanno un profilo alla moda. Entrambi nati contadini, non dotti, l’uno parroco e l’altro frate francescano in due villaggi sperduti della Francia dell’Ottocento e dell’Italia del Novecento. Ma la loro santità era così fulgente che miriadi di persone, anche da molto lontano, accorrevano a implorare da loro il perdono di Dio, in interminabili code al loro confessionale (nella foto, padre Pio).

La preghiera, l’eucaristia, il sacramento della penitenza: di queste tre luci brillava la loro santità.

La terza luce soprattutto colpisce, in un’epoca come l’attuale in cui il sacramento della penitenza è pochissimo praticato, caduto in abbandono anche per la trascuratezza di molti sacerdoti.

Sulla necessità di ridar vita a questo sacramento Benedetto XVI ha particolarmente insistito, nell’aprire l’Anno Sacerdotale.

***

L’ha fatto anzitutto in questo passaggio della lettera di inaugurazione dell’Anno, coincidente con il centocinquantesimo anniversario del « dies natalis » del santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney:

« I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della presenza eucaristica.

« Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero a imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno.

« Si diceva allora che Ars era diventata ‘il grande ospedale delle anime’. ‘La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!’, dice il primo biografo. Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: ‘Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui… Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto’.

« Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: ‘Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita’. Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del ‘dialogo di salvezza’ che in esso si deve svolgere.

« Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel ‘torrente della divina misericordia’ che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: ‘Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!’

« A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto ‘abominevole’ fosse quell’atteggiamento: ‘Piango perché voi non piangete’, diceva. ‘Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!’.

« Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi ‘incarnata’ nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: ‘Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio… Com’è bello!’. E insegnava loro a pregare: ‘Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami’ ».

***

E di nuovo Benedetto XVI è tornato a sollecitare i sacerdoti a prendersi cura del sacramento della penitenza in questo passaggio di un suo discorso a San Giovanni Rotondo:

« Come il Curato d’Ars, anche Padre Pio ci ricorda la dignità e la responsabilità del ministero sacerdotale. Chi non restava colpito dal fervore con cui egli riviveva la passione di Cristo in ogni celebrazione eucaristica? Dall’amore per l’Eucaristia scaturiva in lui come nel Curato d’Ars una totale disponibilità all’accoglienza dei fedeli, soprattutto dei peccatori.

« Inoltre, se san Giovanni Maria Vianney, in un epoca tormentata e difficile, cercò in ogni modo di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, per il santo frate del Gargano la cura delle anime e la conversione dei peccatori furono un anelito che lo consumò fino alla morte. Quante persone hanno cambiato vita grazie al suo paziente ministero sacerdotale; quante lunghe ore egli trascorreva in confessionale!

« Come per il Curato d’Ars, è proprio il ministero di confessore a costituire il maggior titolo di gloria e il tratto distintivo di questo santo frate cappuccino. Come allora non renderci conto dell’importanza di partecipare devotamente alla celebrazione eucaristica e di accostarsi frequentemente al sacramento della confessione? In particolare, il sacramento della penitenza va ancor più valorizzato, e i sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli per questa straordinaria fonte di serenità e di pace ».

***

Nel riferire l’inizio dell’Anno Sacerdotale le cronache giornalistiche non hanno dato quasi nessun rilievo a questa insistenza del papa sul sacramento della penitenza.

Le cronache hanno dato evidenza, piuttosto, al passaggio in cui Benedetto XVI ha deplorato la malvagia condotta di alcuni pastori della Chiesa, « soprattutto di quelli che si tramutano in ‘ladri delle pecore’ (Giovanni 10, 1ss), o perché le deviano con le loro private dottrine, o perché le stringono con lacci di peccato e di morte ».

Così come l’altro passaggio in cui il papa ha detto che « anche per noi sacerdoti vale il richiamo alla conversione e al ricorso alla divina misericordia, e ugualmente dobbiamo rivolgere con umiltà l’accorata e incessante domanda al Cuore di Gesù perché ci preservi dal terribile rischio di danneggiare coloro che siamo tenuti a salvare ».

Ma è evidente che una priorità dell’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI è proprio la rinnovata cura della confessione sacramentale.

L’obiettivo è decisamente controcorrente, rispetto allo spirito di resa che tanti vescovi e sacerdoti mostrano di fronte alla caduta in disuso di questo sacramento.

Ma va notato che tale obiettivo è condiviso anche da un alto esponente della Chiesa che pure per molti aspetti è il meno in sintonia con questo e col precedente pontificato: il cardinale Carlo Maria Martini.

È ciò che risulta da una sua intervista con Eugenio Scalfari su « la Repubblica » del 18 giugno 2009, vigilia dell’apertura dell’Anno Sacerdotale.

In essa il cardinale Martini ha ribadito la sua nota personale classifica dei problemi maggiori della Chiesa d’oggi, « in ordine d’importanza »:

« Anzitutto l’atteggiamento della Chiesa verso i divorziati, poi la nomina o l’elezione dei vescovi, il celibato dei preti, il ruolo del laicato cattolico, i rapporti tra la gerarchia e la politica ».

E ha inoltre rilanciato la sua idea di convocare urgentemente un nuovo Concilio il cui primo tema dovrebbe essere proprio « il rapporto della Chiesa con i divorziati ».

Ma subito dopo ha aggiunto:

« C’è anche un altro argomento che un prossimo Concilio dovrebbe affrontare: quello del percorso penitenziale della propria vita. La confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano, ma soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così, nel nulla o poco più. Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma una direzione spirituale ».

Che il cardinale Martini e papa Joseph Ratzinger si trovino d’accordo su qualcosa, è già questa una notizia.

Ma lo è ancor più per l’oggetto dell’accordo: « ridare una sostanza » al più trascurato dei sette sacramenti. Quella « sostanza » che il santo Curato d’Ars e padre Pio hanno fatto balenare più di tutti, a miriadi di penitenti in cerca della misericordia di Dio.

Publié dans:Sandro Magister |on 8 juillet, 2009 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Riaperta al culto la Cappella Paolina. Con due novità

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1339202

Riaperta al culto la Cappella Paolina. Con due novità

È la cappella privata del papa, nei palazzi Vaticani. Sottoposta a un completo restauro, è tornata ad avere l’altare rivolto verso il tabernacolo. Ma è nuova anche l’interpretazione che Benedetto XVI ha dato dei due affreschi di Michelangelo, specie dello sguardo dell’apostolo Pietro…

di Sandro Magister

ROMA, 6 luglio 2009 – Le illustrazioni riprodotte qui sopra sono due particolari di due affreschi di Michelangelo, dipinti l’uno di fronte all’altro nella Cappella Paolina: la conversione di Paolo e la crocifissione di Pietro.

La Cappella Paolina non è aperta ai visitatori. Situata nei palazzi vaticani a pochi passi dalla Cappella Sistina, è luogo di preghiera riservato al papa. Sottoposta a un completo restauro, è stata riaperta al culto sabato 4 luglio da Benedetto XVI, che vi ha presieduto i vespri.

La notizia della riapertura al culto della Cappella Paolina ha avuto scarso risalto nei media, soverchiata dall’imminente pubblicazione dell’enciclica « Caritas in veritate » e dall’incontro tra il papa e Barack Obama.

Ma almeno due novità vanno rilevate.

***

La prima è che i restauri hanno implicato anche un riordino del presbiterio, in fedeltà alla tradizione liturgica.

Paolo VI, nel 1975, aveva sostituito l’altare rivolto al tabernacolo con un nuovo altare staccato dalla parete, di forma ovale, sul quale celebrare guardando i fedeli.

Aveva inoltre eliminato la balaustra in legno per la comunione e collocato al suo posto un ambone in marmo scolpito. Il pavimento era stato ricoperto da una moquette rossa. E così le pareti laterali fino all’altezza degli affreschi.

Benedetto XVI ha rimesso al suo posto il precedente altare, sia pure un poco staccato dal tabernacolo, ripristinando la celebrazione di tutti « rivolti al Signore ». Ha tolto l’ambone e rimesso al suo posto la balaustra. La moquette rossa è sparita sia dalla pavimentazione che dalle pareti, restituite al loro aspetto originale.

***

La seconda novità riguarda l’interpretazione dei due affreschi di Michelangelo dedicati a san Pietro e a san Paolo, in particolare l’interpretazione dello sguardo di Pietro.

L’interpretazione tradizionale dice che Pietro – mentre sta per essere crocifisso a testa in giù – volga il capo per fissare ognuno che entra nella cappella, per ricordargli che il martirio può essere la sorte di chi segue Gesù.

A convalida di questa interpretazione si ricorda che fino al 1670 si tennero nella Cappella Paolina numerosi conclavi. Pietro fissava negli occhi i cardinali che si apprestavano ad eleggere il suo successore. E l’eletto, entrando da lì in avanti nella cappella a pregare, avrebbe incrociato ogni volta il proprio sguardo con quello del primo degli apostoli.

Anche i responsabili del restauro, nel presentare al pubblico il 30 giugno la rinnovata cappella, si sono sostanzialmente attenuti a questa tradizione interpretativa.

Ebbene, la novità è che Benedetto XVI se ne è distaccato. Nell’omelia dei vespri con i quali ha riaperto al culto la Cappella Paolina, egli ha dato dello sguardo di Pietro nell’affresco di Michelangelo un’interpretazione nuova.

Il papa ha detto che lo sguardo di Pietro, invece che al visitatore, si rivolge piuttosto al volto di Paolo, sulla parete di fronte: a Paolo che porta in sé la luce di Cristo risorto. « È come se Pietro, nell’ora della prova suprema, cercasse quella luce che ha donato la vera fede a Paolo ».

Naturalmente, ha aggiunto il papa, ciò non toglie che questo dialogo di sguardi tra i due apostoli sia un grande ammaestramento per chi entra a pregare nella Cappella Paolina, e in particolare per i successori di Pietro.

Ecco qui di seguito il passaggio centrale dell’omelia di Benedetto XVI ai vespri del 4 luglio 2009 nella Cappella Paolina, dedicato ai due apostoli affrescati da Michelangelo:

« I due volti di Pietro e di Paolo stanno l’uno di fronte all’altro… »

di Benedetto XVI

[...] Lo sguardo è attratto innanzitutto dal volto dei due apostoli. È evidente, già dalla loro posizione, che questi due volti giocano un ruolo centrale nel messaggio iconografico della cappella. Ma, al di là della collocazione, essi ci attirano subito oltre l’immagine: ci interrogano e ci inducono a riflettere.

Anzitutto, soffermiamoci su Paolo: perché è rappresentato con un volto così anziano? È il volto di un uomo vecchio, mentre sappiamo – e lo sapeva bene anche Michelangelo – che la chiamata di Saulo sulla via di Damasco avvenne quando egli era circa trentenne. La scelta dell’artista ci porta già fuori dal puro realismo, ci fa andare oltre la semplice narrazione degli eventi per introdurci ad un livello più profondo. Il volto di Saulo-Paolo – che è poi quello dello stesso artista ormai vecchio, inquieto e in cerca della luce della verità – rappresenta l’essere umano bisognoso di una luce superiore. È la luce della grazia divina, indispensabile per acquistare una vista nuova, con cui percepire la realtà orientata alla « speranza che vi attende nei cieli » – come scrive l’apostolo nel saluto iniziale della lettera ai Colossesi, che abbiamo appena ascoltato (1,5).

Il volto di Saulo caduto a terra è illuminato dall’alto, dalla luce del Risorto e, pur nella sua drammaticità, la raffigurazione ispira pace e infonde sicurezza. Esprime la maturità dell’uomo interiormente illuminato da Cristo Signore, mentre attorno ruota un turbinìo di eventi in cui tutte le figure si ritrovano come in un vortice. La grazia e la pace di Dio hanno avvolto Saulo, lo hanno conquistato e trasformato interiormente. Quella stessa « grazia » e quella stessa « pace » egli annuncerà a tutte le sue comunità nei suoi viaggi apostolici, con una maturità di anziano non anagrafica, ma spirituale, donatagli dal Signore stesso.

Qui dunque, nel volto di Paolo, possiamo già percepire il cuore del messaggio spirituale di questa cappella: il prodigio cioè della grazia di Cristo, che trasforma e rinnova l’uomo mediante la luce della sua verità e del suo amore. In questo consiste la novità della conversione, della chiamata alla fede, che trova il suo compimento nel mistero della Croce.

Dal volto di Paolo passiamo così a quello di Pietro, raffigurato nel momento in cui la sua croce rovesciata viene issata ed egli si volta a fissare chi lo sta osservando. Anche questo volto ci sorprende. L’età rappresentata qui è quella giusta, ma è l’espressione a meravigliarci e interrogarci. Perché questa espressione? Non è un’immagine di dolore, e la figura di Pietro comunica un sorprendente vigore fisico. Il viso, specialmente la fronte e gli occhi, sembrano esprimere lo stato d’animo dell’uomo di fronte alla morte e al male: c’è come uno smarrimento, uno sguardo acuto, proteso, quasi a cercare qualcosa o qualcuno, nell’ora finale. E anche nei volti delle persone che gli stanno intorno risaltano gli occhi: serpeggiano sguardi inquieti, alcuni addirittura spaventati o smarriti.

Che significa tutto questo? È ciò che Gesù aveva predetto a questo suo apostolo: « Quando sarai vecchio un altro ti porterà dove tu non vuoi »; e il Signore aveva aggiunto: « Seguimi » (Giovanni 21, 18.19). Ecco, si realizza proprio ora il culmine della sequela: il discepolo non è da più del Maestro, e adesso sperimenta tutta l’amarezza della croce, delle conseguenze del peccato che separa da Dio, tutta l’assurdità della violenza e della menzogna. Se in questa cappella si viene a meditare, non si può sfuggire alla radicalità della domanda posta dalla croce: la croce di Cristo, capo della Chiesa, e la croce di Pietro, suo vicario sulla terra.

I due volti, su cui si è soffermato il nostro sguardo, stanno l’uno di fronte all’altro. Si potrebbe anzi pensare che quello di Pietro sia rivolto proprio al volto di Paolo, il quale, a sua volta, non vede, ma porta in sé la luce di Cristo risorto. È come se Pietro, nell’ora della prova suprema, cercasse quella luce che ha donato la vera fede a Paolo.

Ecco allora che in questo senso le due icone possono diventare i due atti di un unico dramma: il dramma del mistero pasquale: croce e risurrezione, morte e vita, peccato e grazia. L’ordine cronologico tra gli avvenimenti rappresentati è forse rovesciato, ma emerge il disegno della salvezza, quel disegno che lo stesso Cristo ha realizzato in se stesso portandolo a compimento, come abbiamo poc’anzi cantato nell’inno della lettera ai Filippesi.

Per chi viene a pregare in questa cappella, e prima di tutto per il papa, Pietro e Paolo diventano maestri di fede. Con la loro testimonianza invitano ad andare in profondità, a meditare in silenzio il mistero della croce, che accompagna la Chiesa fino alla fine dei tempi, e ad accogliere la luce della fede, grazie alla quale la comunità apostolica può estendere fino ai confini della terra l’azione missionaria ed evangelizzatrice che le ha affidato Cristo risorto. Qui non si fanno solenni celebrazioni con il popolo. Qui il successore di Pietro e i suoi collaboratori meditano in silenzio e adorano il Cristo vivente, presente specialmente nel santissimo sacramento dell’Eucaristia. [...]

Publié dans:Sandro Magister |on 7 juillet, 2009 |Pas de commentaires »
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