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di Sandro Magister: Cristiani in Medio Oriente. Chi va, chi viene

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Cristiani in Medio Oriente. Chi va, chi viene

Le antiche comunità si assottigliano sempre più. Ma dall’Asia e dall’Africa arrivano nuovi fedeli, a milioni, soprattutto nel Golfo e in Arabia Saudita. Dove però la libertà religiosa continua a essere una chimera

di Sandro Magister

ROMA, 21 giugno 2010 – Pochi l’hanno notato. Ma tra i circa 10 mila fedeli, cioè la quasi totalità dei cattolici di Cipro, che hanno assistito alla messa celebrata da Benedetto XVI a Nicosia domenica 6 giugno, la maggior parte non erano ciprioti, ma asiatici, africani, latinoamericani.
Lo stesso papa, nella sua omelia, ha rivolto un particolare saluto agli immigrati dalle Filippine e dallo Sri Lanka.
Assieme a quelli provenienti dall’India essi costituiscono, infatti, la metà dei circa 30 mila immigrati nell’isola, 60 mila se si comprendono i clandestini.
Un buon numero di loro sono cattolici. Affollano le piccole chiese. Battezzano i loro figli. Sono la faccia nuova e meno nota della presenza della Chiesa non solo a Cipro ma in altre aree della Terra Santa e del Medio Oriente.
Cipro, che fa parte dell’Unione Europea, è una delle loro mete più ambite. Una volta arrivati in Turchia, gli immigrati sbarcano senza difficoltà nel nord dell’isola sotto occupazione turca. E da lì passano facilmente la linea di confine, verso la repubblica greco-cipriota, che per molti di loro fa da tappa verso altri paesi d’Europa.
Allargando lo sguardo a tutta l’area, accade così che mentre il papa convoca un sinodo e lancia appelli accorati perché i cristiani del Medio Oriente – figli delle antiche Chiese dell’area tra il Mediterraneo e il Golfo Persico – non abbandonino le loro terre sotto le pressioni di un islam ostile, come invece stanno facendo in numero crescente, in queste stesse regioni arrivino molti altri cattolici da paesi lontani.
Questa ondata migratoria è così forte che spesso i nuovi venuti sovrastano numericamente i cristiani del posto. Inaspettatamente, però, la traccia di lavoro del sinodo dei vescovi per il Medio Oriente convocato a Roma in ottobre dedica a questo fenomeno solo un cenno fugace, nei paragrafi 49 e 50.
La Turchia è un caso a sé, ma anch’esso illuminante. Qui nell’ultimo secolo la presenza cristiana è stata quasi annientata. Ad assicurare la sopravvivenza delle piccolissime comunità cattoliche sono sacerdoti e vescovi provenienti anch’essi per la maggior parte da fuori, e in particolare dall’Italia. Lo dicono i nomi degli ultimi martiri: dal sacerdote Andrea Santoro al vescovo Luigi Padovese, quest’ultimo ucciso proprio alla vigilia del viaggio del papa a Cipro.
Il vescovo di Smirne e dell’Anatolia Ruggero Franceschini, nel raccogliere il testimone da Padovese, ha invocato che altri sacerdoti e volontari partano dall’Italia in « missione » alla volta della Turchia, al fine di tenere viva la presenza cattolica in questo paese.
Ma riguardo al fenomeno più generale della nuova immigrazione cristiana in Medio Oriente, ciò che più colpisce è che essa si concentra proprio dove l’islam ha avuto i natali: in Arabia Saudita, dove i cattolici sfiorano ormai i 2 milioni, e nei paesi del Golfo.
Relativamente alla penisola arabica, ecco qui di seguito un’analisi aggiornatissima del mutato paesaggio religioso. L’autore è uno dei maggiori esperti nel campo: Giuseppe Caffulli, direttore delle riviste e del sito web della Custodia di Terra Santa e autore di « Fratelli dimenticati. Viaggio tra i cristiani del Medio Oriente », Àncora, Milano, 2007.
L’analisi è uscita sull’ultimo numero di « Vita e Pensiero », la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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PENISOLA ARABICA. I CRISTIANI CON LA VALIGIA

di Giuseppe Caffulli

Paradossi del nostro tempo. Da quasi tre decenni la terra che ha dato i natali all’islam e al suo Profeta è in testa alla classifica delle aree del mondo dove la presenza del cristianesimo sta conoscendo il massimo incremento. Non si tratta però di un aumento legato a conversioni: in queste terre la possibilità di abbracciare la fede cristiana continua a essere illegale. L’incremento ha le sue origini in un imponente flusso migratorio che interessa tutti i paesi del Golfo.
In Arabia Saudita, su una popolazione di 27 milioni e mezzo di abitanti, si stima che gli immigrati siano oltre 8 milioni. Se si allarga lo sguardo agli Emirati Arabi Uniti (EAU, una federazione di sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Al-Fujairah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaiwain, situati lungo la costa centro-orientale della penisola arabica), il quadro è ancora più impressionante: su circa 6 milioni di abitanti, la popolazione locale non è più del 12-14 per cento.
Di questi immigrati, provenienti soprattutto dall’Estremo Oriente, fanno parte cristiani appartenenti all’intero arcobaleno confessionale. In termini numerici i cattolici sono oggi la maggioranza tra i cristiani presenti nei paesi della penisola arabica.
L’immigrazione in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo (oltre ad Arabia ed Emirati, il fenomeno interessa Bahrain, Oman e Qatar) nasce con il boom petrolifero. A partire dagli anni Sessanta la sempre crescente richiesta di greggio e la necessità di sfruttare in maniera sempre più massiccia i pozzi di petrolio rendono necessario l’impiego di manodopera proveniente dall’estero. I primi lavoratori stranieri impiegati in questo nuovo miracolo economico provengono principalmente dal vicino Yemen, il paese che ancora oggi, con i suoi 23 milioni di abitanti, è il vero colosso demografico della regione.

LO YEMEN, UN CASO SPECIALE
Fino agli anni Ottanta, i lavoratori yemeniti in Arabia Saudita superano probabilmente il milione. Le rimesse in denaro di questi immigrati costituiscono una parte importante del bilancio dello Stato yemenita. Con la prima guerra del Golfo lo scenario cambia radicalmente. Il governo dello Yemen si schiera a sostegno di Saddam Hussein (che invade il Kuwait) e improvvisamente Riyadh e Sana’a si ritrovano nemiche. Nel 1991 almeno 800 mila lavoratori yemeniti vengono espulsi perché considerati una minaccia per la sicurezza nazionale. Da allora nessun lavoratore yemenita può più ottenere un permesso di lavoro in Arabia Saudita. Amareggiati e disoccupati, i lavoratori yemeniti espulsi diventano vittime di un’altra politica saudita: l’esportazione della dottrina islamica sunnita wahabita. Con il moltiplicarsi nello Yemen di scuole coraniche wahabite (volute e finanziate appunto dall’Arabia Saudita) cresce in maniera significativa anche il coinvolgimento dei giovani yemeniti nelle organizzazioni jihadiste, con una ricaduta nefasta sul fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica. Un terzo dei detenuti nella base americana di Guantanamo è yemenita. Yemenita è anche la famiglia di Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda.
Con la cacciata dei lavoratori yemeniti si aprono nel sistema economico dell’Arabia Saudita (e di riflesso nei paesi del Golfo, ugualmente schierati in politica estera su posizioni filo-occidentali) enormi falle. Dai primi anni Novanta il governo di Riyadh si vede costretto, per garantire il livello di produzione del greggio (la voce petrolifera costituisce ancora oggi l’88 per cento delle entrate dello Stato e il 90 per cento delle esportazioni), a favorire l’immigrazione di un numero sempre crescente di lavoratori stranieri dai paesi dell’Estremo Oriente, soprattutto India, Filippine, Pakistan.
L’accelerazione dell’economia dei paesi del Golfo (gli Emirati nel 2008 hanno conosciuto una crescita del prodotto interno lordo del 6,8 per cento; l’Arabia Saudita del 4,2), con la pianificazione di grandi infrastrutture e con un’imponente crescita del settore immobiliare, rendono la penisola arabica una delle aree di più forte immigrazione a livello planetario.

IL PIÙ GRANDE VICARIATO DEL MONDO
La penisola arabica ricade sotto la giurisdizione del vicariato d’Arabia, la circoscrizione ecclesiastica più grande del mondo: sei nazioni che si estendono su oltre 3 milioni di chilometri quadrati (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Yemen), con una popolazione di oltre 60 milioni di persone. Retto dal 2005 da Paul Hinder, cappuccino svizzero, succeduto al confratello italiano Bernardo Gremoli, il vicariato d’Arabia ha superato abbondantemente i cent’anni di vita (la sede di Aden risale al 1888).
L’attuale sede si trova ad Abu Dhabi, moderna capitale degli Emirati, e può contare su sessantuno sacerdoti e un centinaio di suore di sei differenti congregazioni. Oltre all’assistenza pastorale diretta, la Chiesa gestisce otto scuole (per un totale di 16 mila studenti, il 60 per cento dei quali musulmani), orfanotrofi e case per portatori di handicap. Fino a pochi decenni fa, il vicariato d’Arabia si occupava principalmente dell’assistenza pastorale di poche migliaia di stranieri che si trovavano a lavorare nella penisola: personale delle ambasciate, impiegati e funzionari di aziende straniere.
Con l’arrivo dei lavoratori stranieri, a partire dagli anni Novanta, tutto è cambiato. Non ci sono cifre ufficiali, ma le stime del vicariato di Abu Dhabi (sulla base delle indicazioni delle ambasciate), parlano di circa 1 milione e 400 mila filippini nel solo territorio dell’Arabia Saudita, per l’85 per cento cattolici. Non si conosce con esattezza il numero degli indiani. Ma è plausibile che il numero dei soli cattolici nel regno saudita si avvicini ai 2 milioni.
Secondo gli ultimi dati, gli abitanti degli Emirati Arabi Uniti sono circa 6 milioni, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di questi immigrati professa l’islam (circa 3 milioni e 200 mila), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e provengono da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Sono presenti decine di migliaia di cattolici di rito orientale: maroniti, melkiti, armeni, siriani, siro-malabaresi, siro-malankaresi… Le celebrazioni si svolgono, oltre che inglese e in arabo, in malayalam, konkani, tagalog, francese, italiano, tedesco, cingalese e tamil.
In Bahrein, su una popolazione di circa un milione di abitanti, i cattolici sono 65 mila. In Oman, su 3 milioni e 200 mila abitanti, i cattolici sono 120 mila. Nel Qatar, dove è stata consacrata nel 2008 la prima chiesa cattolica, su un milione e 200 mila abitanti i cattolici sono 110 mila. Difficile dare statistiche attendibili sulla globalità del fenomeno. Secondo fonti giornalistiche, negli Emirati Arabi Uniti sarebbero presenti circa 750 mila lavoratori provenienti dall’India, 250 mila dal Pakistan, 500 mila dal Bangladesh. Un milione d’immigrati è costituito da iraniani, afghani, malaysiani, indonesiani, cinesi e giapponesi. Mezzo milione sarebbero i filippini. Un altro mezzo milione è formato da africani e sudamericani. Anche per le Chiese cristiane presenti in loco non è facile offrire dati attendibili a causa della grande mobilità della popolazione cattolica (alcuni lavoratori hanno permessi molto brevi). Molti cattolici si trovano poi a lavorare in zone lontanissime dalla parrocchia o dalla comunità cristiana, o vivono in campi di lavoro che impediscono libertà di movimento.

LE CONDIZIONI DI LAVORO
La condizione dei lavoratori stranieri nella penisola arabica non è rosea. In Arabia Saudita, uno dei regimi più repressivi del mondo, i lavoratori cristiani devono ogni giorno fare i conti – oltre che con la crisi economica che ha segnato anche qui una diminuzione di posti di lavoro e del livello retributivo – con la polizia religiosa (mutawwa), che non tollera manifestazioni pubbliche della fede. Una situazione che viene costantemente denunciata dagli organismi internazionali che si occupano di diritti umani e libertà religiosa. Non è infrequente che nelle maglie della polizia cadano con accuse il più delle volte false o pretestuose i cristiani che si adoperano per tenere viva la fede nelle comunità cristiane (vedi il caso di Brian Savio O’Connor, un cristiano indiano imprigionato nel 2004 per essere stato trovato in possesso di Bibbie e libri religiosi).
A differenza di altri contesti, i lavoratori stranieri in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo non cercano l’integrazione. Si trovano in queste terre con l’intenzione di tornare un giorno a casa o di emigrare nuovamente verso USA, Canada o Australia. Una norma prevede poi che non venga rinnovato il permesso di soggiorno per i lavoratori con oltre 60 anni. Ne consegue che la Chiesa d’Arabia non ha un nucleo stabile. È formata oggi da fedeli, in massima parte giovani, che nella migliore delle ipotesi restano cinque, dieci o al massimo vent’anni.
Ci sono poi gravi situazioni di squilibrio sociale. Tra i cristiani ci sono pochi facoltosi e una gran massa di poveri, senza alcuna sicurezza sociale. I lavoratori delle fasce più basse hanno scarse tutele, anche se gli EAU, all’inizio di novembre 2009, hanno firmato con il governo di Manila un protocollo d’intesa che offre maggiori protezioni ai lavoratori filippini. C’è poi un vero e proprio traffico di braccia, lavoratori che vengono portati nel Golfo clandestinamente dalle organizzazioni criminali. E ancora la tratta delle donne, specie dalle Filippine e dall’Europa orientale, per la prostituzione. Molte vengono illuse con la promessa di un lavoro e poi si ritrovano schiave. Quelle che fuggono trovano spesso rifugio presso le organizzazioni caritative della Chiesa cattolica, che offre un servizio di assistenza psicologica e legale per chi desidera rientrare nel proprio paese.
La crisi sta comunque toccando anche la penisola arabica, con un rallentamento generalizzato dell’economia. Dopo anni d’inflazione attorno all’1 per cento, nel 2008 in Arabia Saudita c’è stata un’impennata dei prezzi che ha portato l’inflazione oltre l’11 per cento. Il governo di Riyadh sta tentando di risolvere questa crisi con un progetto di « saudizzazione ». Si vorrebbe limitare per il futuro l’ingresso di nuovi immigrati (favorendo nei fatti anche l’espulsione di milioni di operai presenti nel paese illegalmente) per sostituirli con maestranze locali. Costretti dalla crisi, molti sauditi stanno tornando a svolgere lavori che fino a poco tempo fa ritenevano indegni o troppo faticosi, e che erano quindi affidati a lavoratori stranieri. Questa « saudizzazione » ha un risvolto anche religioso: limitare al massimo l’accesso di immigrati musulmani sciiti, la corrente musulmana da sempre in contrasto con quella sunnita praticata in maniera maggioritaria nella penisola arabica.

POCA O NESSUNA LIBERTÀ RELIGIOSA
Quello della libertà religiosa è il tasto dolente in Arabia Saudita. Secondo l’annuale rapporto sulla libertà religiosa pubblicato nel 2009 dalla Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale (USCIRF), l’Arabia Saudita rientra tra i cosiddetti paesi che destano « particolare preoccupazione », assieme a Myanmar, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam.
Per quanto concerne l’Arabia Saudita, il rapporto riconosce qualche limitata riforma e qualche timida apertura sul versante del dialogo religioso. Ciò nonostante, il governo vieta ancora ogni forma di espressione religiosa pubblica che non rientri nella dottrina islamica sunnita e non ossequi la particolare interpretazione dell’islam wahabita. La Commissione accusa inoltre le autorità saudite di sostenere, a livello internazionale, gruppi che promuovono « un’ideologia estremista che contempla, in qualche caso, violenze contro i non islamici e contro i musulmani di diversa osservanza ».
Negli Emirati e negli altri paesi del Golfo il panorama è un po’ diverso. La situazione è di sostanziale tolleranza religiosa, pur in un quadro di regole ben definite. Testimonianze di questa apertura sono le parrocchie che il vicariato d’Arabia ha istituito nell’area: una parrocchia nel Bahrein, una in Qatar e sette negli Emirati: per l’esattezza due ad Abu Dhabi, due a Dubai, una a Sharjah, una ad Al-Fujairah e una a Ras al-Khaimah. Quattro parrocchie sono nell’Oman, due delle quali a Muscat. Poi ci sono quattro comunità nello Yemen, un paese che registra progressi ma dove sono ancora aperte le ferite degli episodi di violenza nei confronti dei cristiani (basti pensare all’assassinio delle tre suore di Madre Teresa il 27 luglio 1998).
Sostanzialmente ogni emiro è libero di fare la sua politica religiosa e i cristiani si trovano a vivere in condizioni diverse a seconda della realtà politica in cui si trovano a operare. Qui la tolleranza religiosa e la libertà di culto non sono paragonabili a quelle dell’Occidente: tutto si concentra negli spazi concessi alla parrocchia, senza possibilità di esporre simboli all’esterno e senza possibilità di fare attività pubblica. Ma per la Chiesa d’Arabia, che per bocca del suo vescovo si definisce « pellegrina », quella vissuta negli Emirati e nei paesi del Golfo è una situazione di relativo privilegio. Viceversa, in Arabia Saudita l’assistenza pastorale è praticamente impossibile. I milioni di fedeli che si trovano al di là della cortina di ferro dell’islam sono raggiunti di tanto in tanto, in maniera spesso rocambolesca, da qualche sacerdote in incognito che assicura la consacrazione del pane eucaristico distribuito poi dai laici nelle varie comunità.

COMUNITÀ DISPERSE
Sul piano pastorale l’emergenza principale della Chiesa d’Arabia è legata alla carenza di strutture. Si contano parrocchie con 40 mila, perfino 100 mila fedeli. Spesso è impossibile accogliere tutti i fedeli che desiderano assistere alle celebrazioni o chiedono assistenza pastorale. È poi difficile districarsi tra gli interessi e le sensibilità dei diversi gruppi etnici – almeno 90 – senza provocare tensioni e incomprensioni. Il numero dei sacerdoti è limitato ed è assai difficile strappare nuovi visti per aumentarne il numero. Non è nemmeno facile reperire preti adatti alla missione in quest’area particolare: uno dei requisiti fondamentali è che parlino diverse lingue. Inoltre i fedeli vivono dispersi, lontani dalle parrocchie; molti lavorano in villaggi che sorgono in pieno deserto, oppure sulle piattaforme petrolifere, in zone dove non è assolutamente possibile raggiungerli. La maggior parte non ha mezzi di trasporto o non è in grado di pagare il biglietto o non ottiene il permesso dai rispettivi datori di lavoro. Una delle questioni cruciali – fa sovente notare Paul Hinder – è proprio quella di proteggere questi fedeli dalla tentazione di farsi assorbire dall’islam. Cosa che effettivamente capita: se chi è musulmano trova posti di lavoro migliori e meglio pagati, la conversione diventa per molti una strada comoda e facile di promozione sociale.
Quale sarà la sorte di questi lavoratori cristiani nei prossimi anni? Difficile dirlo. Intanto la loro presenza, a livello numerico, dipende dalla situazione politica ed economica che si andrà profilando nell’area. Il mondo in cui vivono – non lo possiamo dimenticare – è totalmente imperniato sull’islam. Tanto che allo stato attuale è difficile pensare a un’apertura sul versante dei diritti umani e della libertà religiosa, anche se la gran massa di lavoratori non musulmani nella penisola arabica è un fatto che non si può più tacere o negare. E, prima o poi, bisognerà che qualcuno inizi a tener conto delle esigenze non solo economiche di questi cristiani con la valigia.

Publié dans:Sandro Magister |on 22 juin, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Pentecoste sul Monte Athos

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Pentecoste sul Monte Athos

Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest’anno. Perché sull’Athos i tempi della terra fanno tutt’uno con l’oggi eterno del cielo

di Sandro Magister

MONTE ATHOS – Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell’Athos. Perchè lì sono cose d’altri tempi. Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo. Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole. E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l’Athos più vive e più palpita. Di canti, di luci, di misteri.

Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio. Non è per tutti. Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani. L’ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa. Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata. A nulla le valse d’esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli. Entrata in un monastero dell’Athos, un’icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna. Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna. Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.

URANÚPOLIS

Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo. Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all’ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi. La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia. Il quale è sempre severo nel tutelare l’extraterritorialità dell’Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.

Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d’un lasciapassare. Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo. E pochissimi sono i visti d’ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine. Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d’imbarco. Perché nell’Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.

Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo. Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo. Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell’Athos, sede dalla sacra epistassìa.

KARIÈS

A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d’incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell’autobus e una trattoria. C’è anche un telefono pubblico, che ha tutta l’aria d’essere il primo e l’ultimo.

Kariès è uno strano paesetto senza abitanti. Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti. Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz’ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao. Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori. Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.

Ma sempre con grande supplizio corporeo. L’Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c’è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l’uno e l’altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d’obbligo.

GRANDE LAVRA

Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso. La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna. Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto. Ricompare come l’angelo dell’Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz’ora, ristorandovi con un bicchier d’acqua fresca, un bicchierino di liquor d’anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato. È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti. Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l’asciugamano. Da lì in avanti farete vita da monaci.

Ossia farete come vi pare. I monasteri dell’Athos non sono come quelli d’Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva. Sull’Athos c’è di tutto e per tutti. C’è l’eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta. Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna. Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti. Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno. Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po’ a ritmo suo.

La Grande Lavra è uno di questi. Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini. Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale. Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese. Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s’avviano al katholikón, la chiesa centrale. Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella. Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche. Al vespero accorre impaziente. Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno. Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.

O inebriato? C’è profumo d’Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra. C’è aroma di cipresso e d’incenso, fragranza di cera d’api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime. Perchè i monaci dell’Athos non patiscono il tempo. Vi parlano dei loro santi, di quel sant’Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell’anno 1000 ma appena ieri, come se l’avessero incontrato di persona e da poco.

Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza. Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d’oro e d’argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo. La luce del tramonto li accende, li fa vibrare. E s’accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell’iconostasi, del leggio, della cattedra.

Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch’esso l’architettura di una chiesa ed è anch’esso tutto affrescato dal grande Teofane. È la stessa liturgia che continua. L’igúmeno prende posto al centro dell’abside. Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi. Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria. Anche l’uscita avviene in processione. Un monaco porge a ciascuno del pane santificato. Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.

VATOPÉDI

Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi. Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane. Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio. E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall’Athos.

Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato. E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente. Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell’Athos. Ma poi è venuta la sferza purificatrice d’un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica. Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti. Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.

Vatopédi è l’aristocrazia dell’Athos. Dice solenne l’igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: « L’Athos è unico. È il solo Stato monastico al mondo ». Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev’essere sublime. Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero. Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste. Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.

Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell’Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un’iconostasi fulgentissima d’ori e d’icone. Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.

I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose. Sembra volare, come le note.

E poi le luci. C’è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa. Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch’esso parte del rito. In ogni katholikón dell’Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione. Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all’iconostasi che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.

Ebbene, nelle liturgie solenni c’è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse. Almeno un’ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi. Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l’onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell’Athos. Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.

Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d’iniziare a simili misteri e d’infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d’oggi. All’Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza di umanizzare Dio, le Chiese d’Occidente lo fanno sparire. « Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale », sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu. « Un Dio che non deifichi l’uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno. È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell’ondata di ateismo in Occidente ».

Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell’altro monastero di Ivíron: « In Occidente comanda l’azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla. Rispondo: cosa fa l’embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio. È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora. Siamo nel cuore della comunione dei santi ».

SIMONOS PETRA

Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita. Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell’Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio. Eliseo, l’igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia. Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano. Ma giudica la Chiesa occidentale troppo « prigioniera di un sistema », troppo « istituzionale ».

L’Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici. All’Athos « il logos si sposa alla praxis », la parola ai fatti. « Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà. Vivere il Vangelo in modo perfetto. Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo. Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci ».

Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell’Athos. Ha dato vita a un monastero per monache, un’ottantina, nel cuore della penisola Calcidica. Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria. E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia. È un monastero colto, dotato d’una ricca biblioteca. A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.

Athos insonne. Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche. Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato. A Dafne si risale sul traghetto. Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani. La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un’apparizione. Con la folgorante bellezza d’una Nike di Samotracia.

Publié dans:Sandro Magister |on 25 mai, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Chiesa perseguitata? Sì, dai peccati dei suoi figli

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1343307

Chiesa perseguitata? Sì, dai peccati dei suoi figli

È questa la « terrificante » attualità del messaggio di Fatima, secondo Benedetto XVI. Ma l’ultima parola nella storia è la bontà di Dio. Da accogliere con penitenza e spirito di conversione

di Sandro Magister

ROMA, 14 maggio 2010 – Curiosamente, le parole più folgoranti del suo viaggio di quattro giorni in Portogallo, con al centro la visita a Fatima, Benedetto XVI le ha pronunciate prima di atterrare a Lisbona, quando ancora era in volo, la mattina di martedì 11 aprile.

E le ha pronunciate rispondendo ai giornalisti sull’aereo, apparentemente improvvisando.

In realtà erano parole ben meditate. Le domande gli erano state presentate in anticipo dal direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. E il papa ne aveva scelte tre, di cui la terza riguardava il « segreto » di Fatima e lo scandalo della pedofilia.

Ecco questa terza domanda con la risposta del papa, nella trascrizione diffusa dagli uffici vaticani, tipica del linguaggio parlato:

*

D. – Veniamo a Fatima, dove sarà un po’ il culmine anche spirituale di questo viaggio. Santità, quale significato hanno oggi per noi le apparizioni di Fatima? E quando lei presentò il testo del terzo segreto nella sala stampa vaticana, nel giugno 2000, c’erano diversi di noi e altri colleghi di allora, le fu chiesto se il messaggio poteva essere esteso, al di là dell’attentato a Giovanni Paolo II, anche alle altre sofferenze dei papi. È possibile, secondo lei, inquadrare anche in quella visione le sofferenze della Chiesa di oggi, per i peccati degli abusi sessuali sui minori?

R. – Innanzitutto vorrei esprimere la mia gioia di andare a Fatima, di pregare davanti alla Madonna di Fatima, che per noi è un segno della presenza della fede, che proprio dai piccoli nasce una nuova forza della fede, che non si riduce ai piccoli, ma che ha un messaggio per tutto il mondo e tocca la storia proprio nel suo presente e illumina questa storia.

Nel 2000, nella presentazione, avevo detto che un’apparizione, cioè un impulso soprannaturale, che non viene solo dall’immaginazione della persona, ma in realtà dalla Vergine Maria, dal soprannaturale, che un tale impulso entra in un soggetto e si esprime nelle possibilità del soggetto. Il soggetto è determinato dalle sue condizioni storiche, personali, temperamentali, e quindi traduce il grande impulso soprannaturale nelle sue possibilità di vedere, di immaginare, di esprimere, ma in queste espressioni, formate dal soggetto, si nasconde un contenuto che va oltre, più profondo, e solo nel corso della storia possiamo vedere tutta la profondità, che era – diciamo – “vestita” in questa visione possibile alle persone concrete.

Così direi, anche qui, oltre questa grande visione della sofferenza del papa, che possiamo in prima istanza riferire a papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano. Perciò è vero che oltre il momento indicato nella visione, si parla, si vede la necessità di una passione della Chiesa, che naturalmente si riflette nella persona del papa, ma il papa sta per la Chiesa e quindi sono sofferenze della Chiesa che si annunciano.

Il Signore ci ha detto che la Chiesa sarebbe stata sempre sofferente, in modi diversi, fino alla fine del mondo. L’importante è che il messaggio, la risposta di Fatima, sostanzialmente non va a devozioni particolari, ma proprio alla risposta fondamentale, cioè conversione permanente, penitenza, preghiera, e le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Così vediamo qui la vera e fondamentale risposta che la Chiesa deve dare, che noi, ogni singolo, dobbiamo dare in questa situazione.

Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio, vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia. Il perdono non sostituisce la giustizia. Con una parola, dobbiamo ri-imparare proprio questo essenziale: la conversione, la preghiera, la penitenza e le virtù teologali. Così rispondiamo, siamo realisti nell’attenderci che sempre il male attacca, attacca dall’interno e dall’esterno, ma che sempre anche le forze del bene sono presenti e che, alla fine, il Signore è più forte del male, e la Madonna per noi è la garanzia visibile, materna della bontà di Dio, che è sempre l’ultima parola nella storia.

*

Queste parole di Benedetto XVI hanno doppiamente stupito gli osservatori.

Anzitutto per la lettura che papa Joseph Ratzinger ha dato del cosiddetto « segreto » di Fatima. Una lettura non confinata al passato, come nelle interpretazioni correnti di parte ecclesiastica, ma aperta al presente e al futuro. « Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa », ha ripetuto ai fedeli davanti al santuario.

E poi e più ancora per l’affermazione che « la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa ». Anche qui contraddicendo i giudizi espressi da molti ecclesiastici, secondo i quali la Chiesa soffre primariamente per gli attacchi che le vengono portati dall’esterno.

Ma in entrambi i casi Ratzinger non ha fatto che confermare ed esplicitare giudizi da lui già formulati in precedenti occasioni.

Basti ricordare, ad esempio, questo passo dell’omelia da lui pronunciata – anch’essa a braccio – nella messa celebrata lo scorso 15 aprile con i membri della pontificia commissione biblica:

« C’è una tendenza in esegesi che dice: Gesù in Galilea avrebbe annunciato una grazia senza condizione, assolutamente incondizionata, quindi anche senza penitenza, grazia come tale, senza precondizioni umane. Ma questa è una falsa interpretazione della grazia. La penitenza è grazia. È una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato. È una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere. Penitenza, poter fare penitenza, è il dono della grazia. E devo dire che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione, della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento, è opera della misericordia divina ».

E il 19 marzo, nella lettera ai cattolici dell’Irlanda, aveva scritto cose analoghe. Ad esempio che gli scandali della pedofilia tra il clero « hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione ». E che solo un cammino di penitenza, da parte dell’intera Chiesa di quel paese, poteva aprire alla purificazione e alla conversione: in una parola, alla grazia.

*

Ma c’è di più. Ancora nella lettera ai cattolici dell’Irlanda Benedetto XVI aveva scritto che lo scandalo dell’abuso sessuale dei ragazzi ad opera di preti « ha contribuito in misura tutt’altro che piccola all’indebolimento della fede ».

Nella visione di papa Benedetto, lo spegnimento della fede è il massimo pericolo non solo per il mondo di oggi ma anche per la Chiesa.

Tant’è vero che a questo pericolo egli associa quella che chiama la « priorità » della sua missione di pontefice.

L’ha scritto con chiarezza cristallina nella memorabile lettera da lui indirizzata ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo del 2009:

« Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.

E l’ha ridetto con parole identiche sulla spianata del santuario di Fatima, la sera del 12 maggio di quest’anno, nel benedire le fiaccole prima della recita del rosario:

“Nel nostro tempo, in cui la fede in ampie regioni della terra rischia di spegnersi come una fiamma che non viene più alimentata, la priorità al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo ed aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un dio qualsiasi, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore portato fino alla fine (cfr. Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.

Parlando ai vescovi del Portogallo, nel pomeriggio di giovedì 13 maggio, Benedetto XVI ha riproposto questa priorità a tutti i cattolici di quel paese: « Mantenete viva la dimensione profetica, senza bavagli, nello scenario del mondo attuale, perché ‘la parola di Dio non è incatenata!’ (2 Timoteo 2, 9) ».

Ma li ha anche avvertiti che per testimoniare la fede cristiana non bastano semplici discorsi o richiami morali. È necessaria la santità della vita.

La stessa santità che da molto tempo, incessantemente, questo papa va chiedendo anzitutto ai sacerdoti. Specie in quell’Anno Sacerdotale di sua invenzione, che sta per concludersi il mese prossimo, al cui centro egli ha posto come modello un umile prete di campagna dell’Ottocento, il santo Curato d’Ars.

Perché « proprio dai piccoli nasce una nuova forza della fede ». Da quei piccoli che sono stati anche i tre pastorelli di Fatima.

Publié dans:Sandro Magister |on 17 mai, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Fatima. Il « segreto » svelato

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Fatima. Il « segreto » svelato

I testi autografi di Suor Lucia interpretati nel 2000 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. Alla vigilia del suo ritorno in questo santuario mariano, come papa

di Sandro Magister

ROMA, 10 maggio 2010 – Da domani e per quattro giorni Benedetto XVI visiterà il Portogallo. La sua prima tappa sarà Lisbona e l’ultima Porto. Ma nella parte centrale del viaggio egli sosterà a Fatima, dove sorge uno dei più frequentati santuari mariani del mondo.

Fatima è il luogo in cui nel 1917 la Madonna apparve a dei bambini e parlò loro rivelando, tra l’altro, ciò che fu poi chiamato un « segreto ».

Le prime due parti di questo « segreto » furono rese pubbliche nel 1941 e hanno al centro una visione dell’inferno e le persecuzioni della Chiesa.

La terza e ultima parte, tenuta a lungo sotto chiave dalle autorità vaticane, alimentò forti attese, che non si acquietarono nemmeno dopo che nel 2000 il testo fu reso pubblico per volontà di Giovanni Paolo II. Tuttora vi è chi sostiene che vi siano rivelazioni ancora tenute nascoste.

Da cardinale, Joseph Ratzinger ebbe un ruolo chiave nella pubblicazione della terza parte del « segreto » di Fatima.

Fu lui, infatti, in qualità di prefetto della congregazione per la dottrina della fede, a darne l’interpretazione ufficiale, in un « commento teologico » che accompagnò la pubblicazione del testo.

Un estratto del suo commento è riprodotto in questa pagina. Ma il testo integrale è molto più ampio. Un intero capitolo spiega il significato delle « rivelazioni » private in rapporto alla « Rivelazione » definitiva che è Gesù Cristo e che trova espressione nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E in più c’è un’analisi della struttura antropologica e psicologica delle « rivelazioni » private.

Al cuore dell’interpretazione di Ratzinger del « segreto » di Fatima c’è una meditazione cristiana sulla storia. Meditazione che prevedibilmente egli tornerà a svolgere nelle omelie e nei discorsi dei prossimi giorni.

Ratzinger, nel suo commento del 2000, escluse drasticamente che la visione dei bambini a Fatima fosse « un film anticipato del futuro », e di un futuro prefissato per sempre, impossibile da cambiare. Al contrario – disse – il messaggio che scaturisce dalla visione è un invito alla libertà degli uomini, perché cambi le cose in bene. Giovanni Paolo II – aggiunse – aveva ragione a ritenersi salvato dalla « mano materna » che deviò il proiettile mortale diretto contro di lui il 13 maggio 1981. Perché « non esiste un destino immutabile » e « fede e preghiera sono potenze che possono influire nella storia ».

Invece che rivelazioni apocalittiche sul futuro, la visioni di Fatima sulle persecuzioni dei cristiani – disse ancora Ratzinger – sono un messaggio di speranza. Il sangue dei martiri è seme di purificazione e di rinnovamento.

E soprattutto, « da quando Dio stesso ha un cuore umano e ha così rivolto la libertà dell’uomo verso il bene, verso Dio, la libertà per il male non ha più l’ultima parola ».

In attesa di ascoltare che cosa dirà Benedetto XVI in Portogallo e a Fatima, ecco qui di seguito un estratto del suo commento del 2000, preceduto dai testi integrali delle tre parti del « segreto » e dal comunicato ufficiale con cui la sua terza parte fu resa pubblica dieci anni fa.

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1. LE PRIME DUE PARTI DEL « SEGRETO » RIVELATO NEL 1917, SCRITTE DA SUOR LUCIA NEL 1941 E RESE NOTE QUELLO STESSO ANNO

Il segreto consta di tre cose distinte, due delle quali sto per rivelare.

La prima dunque, fu la visione dell’inferno.

La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell’incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore.

In seguito alzammo gli occhi alla Madonna che ci disse con bontà e tristezza:

Avete visto l’inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un’altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace.

31 agosto 1941

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2. LA TERZA E ULTIMA PARTE DEL « SEGRETO » RIVELATO NEL 1917, SCRITTA DA SUOR LUCIA NEL 1944 E RESA PUBBLICA NEL 2000

J.M.J.

La terza parte del segreto rivelato il 13 luglio 1917 nella Cova di Iria-Fatima.

Scrivo in atto di obbedienza a Voi mio Dio, che me lo comandate per mezzo di sua Ecc.za Rev.ma il Signor Vescovo di Leiria e della Vostra e mia Santissima Madre.

Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l’Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.

3 gennaio 1944

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3. COMUNICAZIONE FATTA A NOME DI PAPA GIOVANNI PAOLO II DAL CARDINALE ANGELO SODANO, A FATIMA, IL 13 MAGGIO 2000

Nella solenne circostanza della Sua venuta a Fatima, il Sommo Pontefice mi ha incaricato di darvi un annuncio. Come è noto, scopo della Sua venuta a Fatima è stata la beatificazione dei due « pastorinhos ». Egli tuttavia vuole attribuire a questo Suo pellegrinaggio anche il valore di un rinnovato gesto di gratitudine verso la Madonna per la protezione a Lui accordata durante questi anni di pontificato. È una protezione che sembra toccare anche la cosiddetta terza parte del « segreto » di Fatima.

Tale testo costituisce una visione profetica paragonabile a quelle della Sacra Scrittura, che non descrivono in senso fotografico i dettagli degli avvenimenti futuri, ma sintetizzano e condensano su un medesimo sfondo fatti che si distendono nel tempo in una successione e in una durata non precisate. Di conseguenza la chiave di lettura del testo non può che essere di carattere simbolico.

La visione di Fatima riguarda soprattutto la lotta dei sistemi atei contro la Chiesa e i cristiani e descrive l’immane sofferenza dei testimoni della fede dell’ultimo secolo del secondo millennio. È una interminabile Via Crucis guidata dai Papi del ventesimo secolo.

Secondo l’interpretazione dei « pastorinhos », interpretazione confermata anche recentemente da Suor Lucia, il « Vescovo vestito di bianco » che prega per tutti i fedeli è il Papa. Anch’Egli, camminando faticosamente verso la Croce tra i cadaveri dei martirizzati (vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e numerosi laici) cade a terra come morto, sotto i colpi di arma da fuoco.

Dopo l’attentato del 13 maggio 1981, a Sua Santità apparve chiaro che era stata « una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola », permettendo al « Papa agonizzante » di fermarsi « sulla soglia della morte » (Giovanni Paolo II, Meditazione con i Vescovi italiani dal Policlinico Gemelli, in: Insegnamenti, vol. XVII1, 1994, p. 1061). In occasione di un passaggio da Roma dell’allora Vescovo di Leiria-Fatima, il Papa decise di consegnargli la pallottola, che era rimasta nella jeep dopo l’attentato, perché fosse custodita nel Santuario. Per iniziativa del Vescovo essa fu poi incastonata nella corona della statua della Madonna di Fatima.

I successivi avvenimenti del 1989 hanno portato, sia in Unione Sovietica che in numerosi Paesi dell’Est, alla caduta del regime comunista che propugnava l’ateismo. Anche per questo il Sommo Pontefice ringrazia dal profondo del cuore la Vergine Santissima. Tuttavia, in altre parti del mondo gli attacchi contro la Chiesa e i cristiani, con il peso di sofferenza che portano con sé, non sono purtroppo cessati. Anche se le vicende a cui fa riferimento la terza parte del « segreto » di Fatima sembrano ormai appartenere al passato, la chiamata della Madonna alla conversione e alla penitenza, pronunciata all’inizio del ventesimo secolo, conserva ancora oggi una sua stimolante attualità. « La Signora del messaggio sembra leggere con una singolare perspicacia i segni dei tempi, i segni del nostro tempo… L’insistente invito di Maria Santissima alla penitenza non è che la manifestazione della sua sollecitudine materna per le sorti della famiglia umana, bisognosa di conversione e di perdono » (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato 1997, n. 1, in: Insegnamenti, vol. XIX2, 1996, p. 561).

Per consentire ai fedeli di meglio recepire il messaggio della Vergine di Fatima, il Papa ha affidato alla Congregazione per la Dottrina della Fede il compito di rendere pubblica la terza parte del « segreto », dopo averne preparato un opportuno commento.

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4. COMMENTO TEOLOGICO AL COSIDDETTO « SEGRETO » DI FATIMA

di Joseph Card. Ratzinger
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

Chi legge con attenzione il testo del cosiddetto terzo « segreto » di Fatima, che dopo lungo tempo per disposizione del Santo Padre viene qui pubblicato nella sua interezza, resterà presumibilmente deluso o meravigliato dopo tutte le speculazioni che sono state fatte. Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato. Vediamo la Chiesa dei martiri del secolo ora trascorso rappresentata mediante una scena descritta con un linguaggio simbolico di difficile decifrazione. È questo ciò che la Madre del Signore voleva comunicare alla cristianità, all’umanità in un tempo di grandi problemi e angustie? Ci è di aiuto all’inizio del nuovo millennio? Ovvero sono forse solamente proiezioni del mondo interiore di bambini, cresciuti in un ambiente di profonda pietà, ma allo stesso tempo sconvolti dalle bufere che minacciavano il loro tempo? Come dobbiamo intendere la visione, che cosa pensarne? [...]

La prima e la seconda parte del « segreto » di Fatima sono già state discusse così ampiamente dalla letteratura relativa, che non devono qui essere illustrate ancora una volta. Vorrei solo brevemente richiamare l’attenzione sul punto più significativo. I bambini hanno sperimentato per la durata di un terribile attimo una visione dell’inferno. Hanno veduto la caduta delle « anime dei poveri peccatori ». Ed ora viene loro detto perché sono stati esposti a questo istante: per « salvarle » – per mostrare una via di salvezza. Viene in mente la frase della prima lettera di Pietro: « meta della vostra fede è la salvezza delle anime » (1, 9). Come via a questo scopo viene indicato – in modo sorprendente per persone provenienti dall’ambito culturale anglosassone e tedesco –: la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Per capire questo può bastare qui una breve indicazione. « Cuore » significa nel linguaggio della Bibbia il centro dell’esistenza umana, la confluenza di ragione, volontà, temperamento e sensibilità, in cui la persona trova la sua unità ed il suo orientamento interiore. Il « cuore immacolato » è secondo Mt 5, 8 un cuore, che a partire da Dio è giunto ad una perfetta unità interiore e pertanto « vede Dio ». « Devozione » al Cuore Immacolato di Maria pertanto è avvicinarsi a questo atteggiamento del cuore, nel quale il « fiat » – « sia fatta la tua volontà » – diviene il centro informante di tutta quanta l’esistenza. Se qualcuno volesse obiettare che non dovremmo però frapporre un essere umano fra noi e Cristo, allora si dovrebbe ricordare che Paolo non ha timore di dire alle sue comunità: imitatemi (1 Cor 4, 16; Fil 3, 17; 1 Tess 1, 6; 2 Tess 3, 7.9). Nell’apostolo esse possono verificare concretamente che cosa significa seguire Cristo. Da chi però noi potremmo in ogni tempo imparare meglio se non dalla Madre del Signore?

Arriviamo così finalmente alla terza parte del « segreto » di Fatima qui per la prima volta pubblicato integralmente. Come emerge dalla documentazione precedente, l’interpretazione, che il Cardinale Sodano ha offerto nel suo testo del 13 maggio, è stata dapprima presentata personalmente a Suor Lucia. Suor Lucia al riguardo ha innanzitutto osservato che ad essa era stata data la visione, ma non la sua interpretazione. L’interpretazione, diceva, non compete al veggente, ma alla Chiesa. Essa però dopo la lettura del testo ha detto che questa interpretazione corrispondeva a quanto essa aveva sperimentato e che essa da parte sua riconosceva questa interpretazione come corretta. In quanto segue quindi si potrà solo cercare di dare un fondamento in maniera approfondita a questa interpretazione a partire dai criteri finora sviluppati.

Come parola chiave della prima e della seconda parte del « segreto » abbiamo scoperto quella di « salvare le anime », così la parola chiave di questo « segreto » è il triplice grido: « Penitenza, Penitenza, Penitenza! ». Ci ritorna alla mente l’inizio del Vangelo: « paenitemini et credite evangelio » (Mc 1, 15). Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l’urgenza della penitenza – della conversione – della fede. Questa è la risposta giusta al momento storico, che è caratterizzato da grandi pericoli, i quali verranno delineati nelle immagini successive. Mi permetto di inserire qui un ricordo personale; in un colloquio con me Suor Lucia mi ha detto che le appariva sempre più chiaramente come lo scopo di tutte quante le apparizioni sia stato quello di far crescere sempre più nella fede, nella speranza e nella carità – tutto il resto intendeva solo portare a questo.

Esaminiamo ora un poco più da vicino le singole immagini. L’angelo con la spada di fuoco a sinistra della Madre di Dio ricorda analoghe immagini dell’Apocalisse. Esso rappresenta la minaccia del giudizio, che incombe sul mondo. La prospettiva che il mondo potrebbe essere incenerito in un mare di fiamme, oggi non appare assolutamente più come pura fantasia: l’uomo stesso ha preparato con le sue invenzioni la spada di fuoco. La visione mostra poi la forza che si contrappone al potere della distruzione – lo splendore della Madre di Dio, e, proveniente in un certo modo da questo, l’appello alla penitenza. In tal modo viene sottolineata l’importanza della libertà dell’uomo: il futuro non è affatto determinato in modo immutabile, e l’immagine, che i bambini videro, non è affatto un film anticipato del futuro, del quale nulla potrebbe più essere cambiato. Tutta quanta la visione avviene in realtà solo per richiamare sullo scenario la libertà e per volgerla in una direzione positiva. Il senso della visione non è quindi quello di mostrare un film sul futuro irrimediabilmente fissato. Il suo senso è esattamente il contrario, quello di mobilitare le forze del cambiamento in bene. Perciò sono totalmente fuorvianti quelle spiegazioni fatalistiche del « segreto », che ad esempio dicono che l’attentatore del 13 maggio 1981 sarebbe stato in definitiva uno strumento del piano divino guidato dalla Provvidenza e che pertanto non avrebbe potuto agire liberamente, o altre idee simili che circolano. La visione parla piuttosto di pericoli e della via per salvarsi da essi.

Le frasi seguenti del testo mostrano ancora una volta molto chiaramente il carattere simbolico della visione: Dio rimane l’incommensurabile e la luce che supera ogni nostra visione. Le persone umane appaiono come in uno specchio. Dobbiamo tenere continuamente presente questa limitazione interna della visione, i cui confini vengono qui visivamente indicati. Il futuro si mostra solo « come in uno specchio, in maniera confusa » (cfr 1 Cor 13, 12). Prendiamo ora in considerazione le singole immagini, che seguono nel testo del « segreto ». Il luogo dell’azione viene descritto con tre simboli: una ripida montagna, una grande città mezza in rovina e finalmente una grande croce di tronchi grezzi. Montagna e città simboleggiano il luogo della storia umana: la storia come faticosa ascesa verso l’alto, la storia come luogo dell’umana creatività e convivenza, ma allo stesso tempo come luogo delle distruzioni, nelle quali l’uomo annienta l’opera del suo proprio lavoro. La città può essere luogo di comunione e di progresso, ma anche luogo del pericolo e della minaccia più estrema. Sulla montagna sta la croce – meta e punto di orientamento della storia. Nella croce la distruzione è trasformata in salvezza; si erge come segno della miseria della storia e come promessa per essa.

Appaiono poi qui delle persone umane: il vescovo vestito di bianco (« abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre »), altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e finalmente uomini e donne di tutte le classi e gli strati sociali. Il Papa sembra precedere gli altri, tremando e soffrendo per tutti gli orrori, che lo circondano. Non solo le case della città giacciono mezze in rovina – il suo cammino passa in mezzo ai cadaveri dei morti. La via della Chiesa viene così descritta come una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni. Si può trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo. Come i luoghi della terra sono sinteticamente raffigurati nelle due immagini della montagna e della città e sono orientati alla croce, così anche i tempi sono presentati in modo contratto: nella visione noi possiamo riconoscere il secolo trascorso come secolo dei martiri, come secolo delle sofferenze e delle persecuzioni della Chiesa, come il secolo delle guerre mondiali e di molte guerre locali, che ne hanno riempito tutta la seconda metà ed hanno fatto sperimentare nuove forme di crudeltà. Nello « specchio » di questa visione vediamo passare i testimoni della fede di decenni. Al riguardo sembra opportuno menzionare una frase della lettera che Suor Lucia scrisse al Santo Padre il 12 maggio 1982: « la terza parte del ‘segreto’ si riferisce alle parole di Nostra Signora: Se no (la Russia) spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte”.

Nella Via Crucis di un secolo la figura del Papa ha un ruolo speciale. Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all’attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri. Non doveva il Santo Padre, quando dopo l’attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del « segreto », riconoscervi il suo proprio destino? Egli era stato molto vicino alla frontiera della morte ed egli stesso ha spiegato la sua salvezza con le seguenti parole: « … fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte » (13 maggio 1994). Che qui una « mano materna » abbia deviato la pallottola mortale, mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni.

La conclusione del « segreto » ricorda immagini, che Lucia può avere visto in libri di pietà ed il cui contenuto deriva da antiche intuizioni di fede. È una visione consolante, che vuole rendere permeabile alla potenza risanatrice di Dio una storia di sangue e lacrime. Angeli raccolgono sotto i bracci della croce il sangue dei martiri e irrigano così le anime, che si avvicinano a Dio. Il sangue di Cristo ed il sangue dei martiri vengono qui considerati insieme: il sangue dei martiri scorre dalle braccia della croce. Il loro martirio si compie in solidarietà con la passione di Cristo, diventa una cosa sola con essa. Essi completano a favore del corpo di Cristo, ciò che ancora manca alle sue sofferenze (cfr Col 1, 24). La loro vita è divenuta essa stessa eucaristia, inserita nel mistero del chicco di grano che muore e diventa fecondo. Il sangue dei martiri è seme di cristiani, ha detto Tertulliano. Come dalla morte di Cristo, dal suo costato aperto, è nata la Chiesa, così la morte dei testimoni è feconda per la vita futura della Chiesa. La visione della terza parte del « segreto », così angustiante al suo inizio, si conclude quindi con una immagine di speranza: nessuna sofferenza è vana, e proprio una Chiesa sofferente, una Chiesa dei martiri, diviene segno indicatore per la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Nelle amorose mani di Dio non sono accolti soltanto i sofferenti come Lazzaro, che trovò la grande consolazione e misteriosamente rappresenta Cristo, che volle divenire per noi il povero Lazzaro; vi è qualcosa di più: dalla sofferenza dei testimoni deriva una forza di purificazione e di rinnovamento, perché essa è attualizzazione della stessa sofferenza di Cristo e trasmette nel presente la sua efficacia salvifica.

Siamo così giunti ad un’ultima domanda: Che cosa significa nel suo insieme (nelle sue tre parti) il « segreto » di Fatima? Che cosa dice a noi? Innanzitutto dobbiamo affermare con il Cardinale Sodano: « … le vicende a cui fa riferimento la terza parte del ‘segreto’ di Fatima sembrano ormai appartenere al passato ». Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato. Chi aveva atteso eccitanti rivelazioni apocalittiche sulla fine del mondo o sul futuro corso della storia, deve rimanere deluso. Fatima non ci offre tali appagamenti della nostra curiosità, come del resto in generale la fede cristiana non vuole e non può essere pastura per la nostra curiosità. Ciò che rimane l’abbiamo visto subito all’inizio delle nostre riflessioni sul testo del « segreto »: l’esortazione alla preghiera come via per la « salvezza delle anime » e nello stesso senso il richiamo alla penitenza e alla conversione.

Vorrei alla fine riprendere ancora un’altra parola chiave del « segreto » divenuta giustamente famosa: « il Mio Cuore Immacolato trionferà ». Che cosa significa? Il Cuore aperto a Dio, purificato dalla contemplazione di Dio è più forte dei fucili e delle armi di ogni specie. Il « fiat » di Maria, la parola del suo cuore, ha cambiato la storia del mondo, perché essa ha introdotto in questo mondo il Salvatore – perché grazie a questo « Sì » Dio poteva diventare uomo nel nostro spazio e tale ora rimane per sempre. Il maligno ha potere in questo mondo, lo vediamo e lo sperimentiamo continuamente; egli ha potere, perché la nostra libertà si lascia continuamente distogliere da Dio. Ma da quando Dio stesso ha un cuore umano ed ha così rivolto la libertà dell’uomo verso il bene, verso Dio, la libertà per il male non ha più l’ultima parola. Da allora vale la parola: « Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo » (Gv 16, 33). Il messaggio di Fatima ci invita ad affidarci a questa promessa.

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Il testo integrale del commento di Ratzinger è in questo dossier su Fatima curato dalla congregazione per la dottrina della fede, nel sito del Vaticano, con le fotocopie dei manoscritti e altri documenti, tra i quali il resoconto del colloquio del 27 aprile 2000 tra suor Lucia e l’arcivescovo Tarcisio Bertone, all’epoca segretario della congregazione:

 Il messaggio di Fatima

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000626_message-fatima_it.html

Publié dans:Maria Vergine, Sandro Magister |on 10 mai, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Passione di Cristo, passione dell’uomo

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1343134

Passione di Cristo, passione dell’uomo

È il motto dell’ostensione della Sindone, in corso a Torino. Ai milioni di pellegrini da tutto il mondo si unisce il 2 maggio anche il papa. In parallelo, una grande mostra sul corpo e il volto di Gesù nell’arte

di Sandro Magister

ROMA, 30 aprile 2010 – Tra due giorni, quinta domenica di Pasqua, Benedetto XVI si recherà a Torino. Dove nel pomeriggio, nella cattedrale, si inginocchierà davanti alla Sindone, il venerato telo con le misteriose impronte di un uomo crocifisso, di un corpo con tutti i segni della passione di Gesù.

Dal 10 aprile, da quando la Sindone è esposta al pubblico – e lo sarà fino al 23 maggio –, stanno accorrendo a vederla un numero interminabile di persone. Anche non cristiani, anche lontani da Dio, attratti comunque da quel mistero che è la persona di Gesù, il suo corpo, il suo volto.

E al desiderio di « vedere » questo mistero va incontro una mostra d’arte studiata proprio per accompagnare l’ostensione della Sindone. La mostra è nella reggia di Venaria, poco a nord di Torino, e ha per titolo: « Gesù. Il corpo, il volto nell’arte ».

Tra le 180 opere esposte vi sono capolavori di autori come Donatello, Mantegna, Bellini, Giorgione, Correggio, Veronese, Tintoretto. C’è anche il meraviglioso Crocifisso ligneo scolpito da Michelangelo per la basilica fiorentina del Santo Spirito.

In molte di queste opere la Sindone appare. Ad esempio nel Cristo risorto di Pieter Paul Rubens riprodotto qui sopra, del 1615, conservato a Firenze a Palazzo Pitti. Un Gesù atletico, col corpo ancora in parte avvolto dal telo, assiso trionfante sul sepolcro vuoto. Come canta la sequenza della messa di Pasqua: « Mors et vita duello conflixere mirando, dux vitae mortuus regnat vivus ». Morte e vita si sono affrontate in prodigioso duello; il Signore della vita era morto, ma ora vivo trionfa.

Qui di seguito, ecco una guida alla visione del corpo e del volto di Gesù, scritta dal curatore della mostra Timothy Verdon, americano, storico dell’arte, sacerdote dell’arcidiocesi di Firenze e direttore dell’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.

Il testo è tratto dal capitolo introduttivo del catalogo della mostra e da una conferenza dello stesso Verdon nel duomo di Torino, lo scorso 26 aprile.

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GESÙ. IL CORPO, IL VOLTO NELL’ARTE

di Timothy Verdon

A Torino, dove da secoli si conserva e si venera il grande telo noto come la Sindone, è naturale riflettere sul corpo e sul volto di Gesù. La Sindone sottolinea il convincimento che Gesù sia realmente vissuto e morto, ma invita a credere che egli sia anche risorto. Sarebbe in effetti il segno del suo passaggio alla vita nuova, il lenzuolo abbandonato al momento di risorgere.

La possibilità dell’esistenza di una simile reliquia è specialmente significativa per l’arte, perché conferma la visibilità e quindi la rappresentabilità dell’uomo che si diceva Figlio dell’invisibile Dio d’Israele.

Scriveva nel secolo VIII san Giovanni Damasceno, evocando il divieto biblico di ogni raffigurazione della divinità: « Un tempo non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico. Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio », cioè dell’uomo Gesù. Scrivendo nel contesto della proibizione delle immagini da parte dell’imperatore di Bisanzio, l’iconoclasta Leone III, questo autore – nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano – vedeva un nesso tra il dogma teologico dell’incarnazione e l’uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.

La mostra mette in evidenza la continuità di queste idee nell’era medievale e moderna. Porta l’attenzione sull’uomo Gesù, il cui corpo e volto sarebbero tracciati sul venerabile telo, suggerendo come pittori e scultori di vari periodi l’abbiano visualizzato.

Il cristianesimo ha sempre raffigurato il corpo alla luce della propria idea dell’essere umano. A differenza dei miti pagani, che presentavano gli dei con tutti i difetti degli uomini, la cultura biblica giudeo-cristiana ritiene che l’uomo debba aspirare alla perfezione di Dio, e soprattutto alla sua misericordia. « Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso », ha detto infatti Gesù (Luca 6, 36), e questa misericordia caratteristica dell’essere umano aveva una singolare componente corporea. Già nell’Antico Testamento molte parole del Dio incorporeo lo mostrano sensibile al tremore della pelle del povero. Nello stesso spirito Gesù descrive come, nel giudizio finale, il Figlio dell’uomo premierà quanti avranno avuto cura corporale del prossimo: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo mi avete vestito » (Matteo 25, 35-36).

Per i credenti in lui, Gesù, Figlio di Dio, è diventato quel povero a cui bisogna rendere il mantello prima di notte: l’affamato, l’assetato, l’escluso, il senza tetto, l’ignudo da coprire. Dice un teologo greco del IV secolo, il vescovo san Macario: « Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l’abito più acconcio al genere di lavoro. Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l’anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divise il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone ».

Ecco, l’immagine di Dio contemplata nel corpo sofferente di Gesù implica questa dinamica di purificazione e crescita. Implica anche un processo in cui il soggetto umano scopre e comprende se stesso, come suggerisce un padre della Chiesa, Pietro Crisologo, quando immagina Gesù crocifisso che invita i credenti a riconoscere nel suo corpo sacrificato il senso morale della loro vita. « Vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, il vostro sangue, ci dice Gesù. O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L’uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a Dio ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica. Sii, o uomo, sacrificio e sacerdote, fa del tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo come vittima a Dio. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua preghiera, non del tuo sangue. Viene placato dalla volontà, non dalla morte ».

Sono citazioni, queste, utili per capire la concezione di corporeità e di personalità elaborata nei secoli attraverso immagini di Gesù: l’idea del corpo come luogo di una dignità insita nell’essere umano – di una capacità « sacerdotale » di offrirsi – e del volto come specchio di libertà consapevole. Le opere in mostra infatti mettono lo spettatore nelle condizioni di quelle donne e di quegli uomini descritti nel Nuovo Testamento, per cui il corpo e volto di Gesù erano luoghi di sorprendente, anche scandalosa, scoperta.

Quando ad esempio Gesù tornò dal deserto al suo paese, Nazaret, e nella sinagoga lesse ad alta voce i versetti messianici di Isaia, l’evangelista Luca narra che « gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui »  (Luca 4, 16-24). Alle parole d’Isaia, infatti, Gesù aggiunse altre parole, inaspettate e per i presenti certamente incomprensibili: « Oggi – disse – si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi ». Gli occhi dei presenti stavano sopra di lui, fissi sul suo corpo e sul volto, perché la sua affermazione « oggi si è adempiuta questa Scrittura » li obbligava ad associare le antiche promesse di una futura era benedetta con questo giovane uomo seduto in mezzo a loro: con lui come presenza fisica, con il suo corpo, con l’espressione del suo volto. « Non è costui il figlio di Giuseppe? », chiedono subito, incapaci di vedere in Gesù più di quanto credevano di conoscere, così che egli commenta: « Nessun profeta è bene accetto nella sua patria ».

Un’occasione analoga, assai più drammatica, è narrata nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. Due giorni dopo la sua miracolosa moltiplicazione di pani e pesci per sfamare una folla immensa, Gesù spiega che il vero pane offerto dal Padre all’umanità – il pane disceso dal cielo – era lui stesso. Di nuovo allora i suoi ascoltatori si chiedono: « Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come può dire: Sono disceso dal cielo?”. Ma egli insiste: « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita dell’uomo ». E ancora: « Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita, perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui ». L’evangelista Giovanni descrive la negativa reazione a queste parole da parte degli ascoltatori, e come « da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui », e non si fa fatica a capirli, perché Gesù pretendeva che vedessero il suo corpo come alimento, e così pure il suo volto: « Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». Molte opere in mostra prendono luce da questi asserti, anche perché originalmente fatte per altari, dove il corpo e il volto di Gesù raffigurati dall’artista erano visti in prossimità al pane e vino dell’eucaristia, corpo e sangue del Signore.

La mostra invita quindi a riscoprire la particolare intensità con cui i credenti d’altri tempi – i committenti materiali e gli originali fruitori delle opere esposte – guardavano un corpo e un volto ritenuti “vero cibo” e “vera bevanda”; un corpo e un volto che, interiorizzati, li avrebbero trasformati col dono della “vita eterna”. Quest’esperienza, forse pienamente accessibile solo alla fede, può essere immaginata anche da chi non crede; anzi, deve essere immaginata, perché costituisce il normale contesto di comprensione di simili opere d’arte, una componente imprescindibile del loro messaggio.

Imprescindibile è anche la tensione morale che doveva condizionare la lettura originaria di molte delle opere esposte nella mostra. In immagini legate all’eucaristia, infatti, come nella stessa celebrazione della messa, il credente cerca, oltre ciò che vede, qualche cosa di più, e ogni immagine associata al rito si pone come « epifania » ed « apocalisse », come manifestazione e rivelazione di una futura trasformazione. L’arte nel luogo di culto infatti illumina l’attesa dei cristiani, e nei personaggi ed eventi che essa illustra le immagini sacre si offrono come specchi dell’Immagine in cui i fedeli sperano di essere trasformati, Gesù Cristo.

La mostra copre il periodo corrispondente alla fine del Medioevo, al Rinascimento e al Barocco, in cui il corpo e il volto della persona umana tornano ad essere nell’arte occidentale primari portatori di significato. Questi elementi figurativi, perfezionati dai greci cinque secoli prima di Cristo, in un primo periodo erano stati rifiutati dalla nascente cultura cristiana, che al naturalismo pagano preferiva un linguaggio meno ambiguo, col corpo presentato come segno e col volto trasfigurato dalla fede. Tale rifiuto della fisicità e della personalità, che rifletteva anche il severo giudizio cristiano sull’amoralità e sull’individualismo del mondo pagano, fu tra le cause della perdita d’interesse per il corpo e il volto come soggetti d’arte tra il V e l’XI secolo.

Fu la nuova spiritualità incentrata sull’uomo – la spiritualità di stampo francescano del Duecento e del Trecento – a far riscoprire l’arte greco-romana così adatta a descrivere il corpo e le emozioni. Grazie a questo nuovo dialogo con l’antica civiltà pagana, la cristianità europea elaborò anche un diverso rapporto con la storia, in cui valori ritenuti propedeutici alla fede in Gesù verranno considerati componenti di un’unica rivelazione affidata all’essere umano a prescindere dall’origine culturale e religiosa. Contenuto centrale di quest’unica rivelazione è l’umanità stessa, riconoscibile nell’eloquente bellezza e nella vulnerabilità del corpo, nel dolore e nella gioia scritti sul volto; a dimostrare la sua legittimità è la convinzione che lo stesso Figlio di Dio si è fatto uomo.

Le sette aree del percorso espositivo suggeriscono queste idee: il corpo e la persona; Dio prende un corpo; l’uomo Gesù; un corpo dato per amore; il corpo risorto; il corpo mistico; il corpo sacramentale. L’allestimento mira a suggerire il contesto d’uso iniziale della quasi totalità delle opere, il luogo liturgico cattolico, ricollocando i dipinti, le sculture, le oreficerie e i paramenti sacri in spazi che ricordano chiese. La forma delle sale, l’illuminazione e il sottofondo musicale che accompagna la visita sono state pensate in funzione di questo obiettivo, con uno scopo però più scientifico che religioso: quello di riabilitare come dato storico il messaggio teologico ed emotivo inteso dagli artisti e dai committenti delle opere. Alcuni dipinti sono addirittura allestiti sopra altari per evocare il rapporto visivo tra immagine e rito: diverso infatti è l’impatto di una Deposizione o Pietà vista in un museo e quello della stessa opera sopra una mensa eucaristica; nel secondo caso la percezione del corpo di Cristo raffigurato è condizionata dalla fede che lo stesso corpo sia realmente presente, seppur invisibile, nel pane e vino consacrati.

Le molte opere in mostra suggeriscono inoltre qualcosa della densità iconografica tipica delle chiese cattoliche del passato. Tale affollamento di immagini conferiva un carattere visionario a questi luoghi, dove raffigurazioni di Cristo, di Maria e dei santi davano colore e interesse umano ai personaggi e agli eventi di cui parlano le Scritture e la tradizione, offrendo un’immersione così totale che il fedele si percepiva circondato dai personaggi e partecipe degli eventi, membro dell’unica comunione dei santi e parte dell’unica storia della salvezza.

Tuttavia il soggetto dell’esperienza estetica, come dell’esperienza cultuale, rimane l’uomo. È a lui e alla sua corporeità che parlano i colori e le forme. L’arte che fa vedere Cristo – insieme a veri « specchi del suo Vangelo » quale la Sindone – invita a contemplare Cristo che prende forma in noi, speranza di gloria, bellezza di vita eterna. E in lui visto e conosciuto e amato comprenderemo finalmente che il senso della nostra vita anche corporea, della nostra carne, degli affetti, dei ricordi, e del sangue, suo e nostro, di ogni persona umana tradita, sacrificata, uccisa. Il poco sangue della Sindone si rivelerà allora un Mar Rosso attraverso cui Cristo ci conduce alla terra promessa.

Publié dans:Sandro Magister |on 30 avril, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Benedetto XVI a Malta. L’approdo che salva dal naufragio

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1342937

Benedetto XVI a Malta. L’approdo che salva dal naufragio

Il pianto del papa con le vittime degli abusi sessuali. « Dio non rifiuta nessuno. E la Chiesa non rifiuta nessuno. Tuttavia, nel suo grande amore, Dio sfida ciascuno di noi a cambiare e diventare più perfetti »

di Sandro Magister

ROMA, 19 aprile 2010 – L’atto simbolico più forte del suo viaggio a Malta, Benedetto XVI l’ha compiuto al riparo dai media. È stato il suo pianto con otto vittime di abusi sessuali ad opera di sacerdoti, abusi compiuti su di loro quand’erano in giovanissima età.

Il papa li ha incontrati a porte chiuse, nella nunziatura, poco dopo la messa di domenica 18 aprile. È stato uno degli otto, Lawrence Grech, 35 anni, a riferire del pianto del papa. E anche della propria commozione e del riaccendersi in lui della fede.

Il comunicato ufficiale vaticano ha così descritto l’incontro:

« Il Santo Padre era profondamente commosso dai loro racconti ed ha espresso la sua vergogna e dolore per ciò che le vittime e le loro famiglie hanno sofferto. Ha pregato con loro ed ha assicurato loro che la Chiesa sta facendo e continuerà a fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per accertare le accuse, per portare di fronte alla giustizia i responsabili degli abusi e per mettere in pratica misure efficaci finalizzate alla salvaguardia dei giovani nel futuro. Nello spirito della sua recente lettera ai cattolici dell’Irlanda, ha pregato affinché tutte le vittime di abusi possano sperimentare guarigione e riconciliazione, che diano loro la forza per proseguire il cammino con rinnovata speranza ».

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In effetti, il viaggio a Malta è stato compiuto da papa Joseph Ratzinger sotto una pressione mediatica internazionale fortissima, che esigeva da lui dei gesti e delle parole per lo scandalo della pedofilia.

E lui non vi si è sottratto. Ma l’ha fatto con lo stile che gli è proprio.

Non ha mai parlato esplicitamente, in pubblico, della questione della pedofilia. Ha ascoltato, piuttosto, ciò che altri gli hanno detto in proposito: il vescovo della Valletta all’inizio della messa e, nel pomeriggio, un giovane omosessuale, durante l’incontro con i giovani sulla banchina del porto. Quest’ultimo intervento, in particolare, è stato un j’accuse tagliente e circostanziato contro le pecche della Chiesa.

In almeno due occasioni, però, papa Benedetto ha fornito in pubblico la sua chiave di lettura della crisi che ha colpito la Chiesa con lo scandalo della pedofilia.

*

La prima volta è stata sabato pomeriggio, quando ha brevemente parlato ai giornalisti sull’aereo diretto a Malta.

Per spiegare i motivi del suo viaggio, Benedetto XVI ha ricordato il naufragio di san Paolo a Malta nell’anno 60:

« Penso che il motivo del naufragio parla per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede; così possiamo pensare anche noi che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio per noi e possono anche essere utili per nuovi inizi nella nostra vita ».

E poco oltre ha aggiunto:

« So che Malta ama Cristo e ama la sua Chiesa che è il suo Corpo e sa che, anche se questo Corpo è ferito dai nostri peccati, il Signore tuttavia ama questa Chiesa, e il suo Vangelo è la vera forza che purifica e guarisce ».

*

La seconda volta è stata domenica pomeriggio, col discorso ai giovani sul molo del porto della Valletta.

Ha detto il papa, in questo discorso:

« San Paolo, da giovane, ha avuto un’esperienza che lo ha cambiato per sempre. Come sapete, un tempo egli era nemico della Chiesa ed ha fatto di tutto per distruggerla. Mentre era in viaggio verso Damasco, con l’intento di eliminare ogni cristiano che vi avesse trovato, gli apparve il Signore in visione. Una luce accecante brillò attorno a lui ed egli udì una voce dirgli: ‘Perché mi perseguiti? Io sono Gesù, che tu perseguiti’ (Atti 9, 4-5). Paolo venne completamente sopraffatto da questo incontro con il Signore e tutta la sua vita venne trasformata. Divenne un discepolo fino ad essere un grande apostolo e missionario. [...]

« Ogni incontro personale con Gesù è un’esperienza travolgente d’amore. Dapprima, come Paolo stesso ammette, aveva ‘perseguitato ferocemente la Chiesa di Dio e cercato di distruggerla’ (cfr. Galati 1, 13). Ma l’odio e la rabbia espresse in quelle parole furono completamente spazzate via dalla potenza dell’amore di Cristo. Per il resto della sua vita, Paolo ha avuto l’ardente desiderio di portare l’annuncio di questo amore fino ai confini della terra.

« Forse qualcuno di voi mi dirà che San Paolo è stato spesso severo nei suoi scritti. Come posso affermare che egli ha diffuso un messaggio d’amore?

« La mia risposta è questa. Dio ama ognuno di noi con una profondità e intensità che non possiamo neppure immaginare. Egli ci conosce intimamente, conosce ogni nostra capacità ed ogni nostro errore. Poiché egli ci ama così tanto, egli desidera purificarci dai nostri errori e rafforzare le nostre virtù così che possiamo avere vita in abbondanza. Quando ci richiama perché qualche cosa nelle nostre vite dispiace a lui, non ci rifiuta, ma ci chiede di cambiare e divenire più perfetti. Questo è quanto ha chiesto a San Paolo sulla via di Damasco. Dio non rifiuta nessuno. E la Chiesa non rifiuta nessuno. Tuttavia, nel suo grande amore, Dio sfida ciascuno di noi a cambiare e diventare più perfetti.

« San Giovanni ci dice che questo amore perfetto scaccia il timore (cfr. 1 Giovanni 4, 18). E perciò dico a tutti voi ‘Non abbiate paura!’. Quante volte ascoltiamo queste parole nelle Scritture! Sono state indirizzate dall’angelo a Maria nell’Annunciazione, da Gesù a Pietro, quando lo ha chiamato ad essere un discepolo, e dall’angelo a Paolo la vigilia del suo naufragio. A quanti di voi desiderano seguire Cristo, come coppie sposate, genitori, sacerdoti, religiosi e fedeli laici che portano il messaggio del Vangelo al mondo, dico: non abbiate paura! Certamente incontrerete opposizione al messaggio del Vangelo. La cultura odierna, come ogni cultura, promuove idee e valori che sono talvolta in contrasto con quelle vissute e predicate da nostro Signore Gesù Cristo. Spesso sono presentate con un grande potere persuasivo, rinforzato dai media e dalla pressione sociale da gruppi ostili alla fede cristiana. È facile, quando si è giovani e impressionabili, essere influenzati dai coetanei ad accettare idee e valori che sappiamo non sono ciò che il Signore davvero vuole da noi. Ecco perché dico a voi: non abbiate paura, ma rallegratevi del suo amore per voi; fidatevi di lui, rispondete al suo invito ad essere discepoli, trovate nutrimento e aiuto spirituale nei sacramenti della Chiesa.

« Qui a Malta vivete in una società che è segnata dalla fede e dai valori cristiani. Dovreste essere orgogliosi che il vostro Paese difenda sia il bambino non ancora nato, come pure promuova la stabilità della vita di famiglia dicendo no all’aborto e al divorzio. Vi esorto a mantenere questa coraggiosa testimonianza alla santità della vita e alla centralità del matrimonio e della vita famigliare per una società sana. A Malta e a Gozo le famiglie sanno come valorizzare e prendersi cura dei loro membri anziani ed infermi, ed accolgono i bambini come doni di Dio. Altre nazioni possono imparare dal vostro esempio cristiano. Nel contesto della società europea, i valori evangelici ancora una volta stanno diventando una contro-cultura, proprio come lo erano al tempo di San Paolo.

« In quest’Anno Sacerdotale, vi chiedo di essere aperti alla possibilità che il Signore possa chiamare alcuni di voi a darsi totalmente al servizio del suo popolo nel sacerdozio e nella vita consacrata. Il vostro paese ha dato molti eccellenti sacerdoti e religiosi alla chiesa. Siate ispirati dal loro esempio e riconoscete la profonda gioia che proviene nel dedicare la propria vita all’annuncio del messaggio dell’amore di Dio per tutti, senza eccezione ».

*

Naufragio e ferite, odio e volontà di distruggere… Ma per papa Benedetto davvero tutto è grazia e promessa di guarigione, « anche gli attacchi del mondo ai nostri peccati ».

Possono essere la mano di Dio che « desidera purificarci dai nostri errori e rafforzare le nostre virtù, così che possiamo avere vita in abbondanza« .

di Sandro Magister: Dopo una denuncia, in Vaticano procedono così

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1342860

Dopo una denuncia, in Vaticano procedono così

Le linee guida della congregazione per la dottrina della fede circa le procedure da adottare quando vengono denunciati abusi sessuali su minori

di Sandro Magister

ROMA, 13 aprile 2010 – Da ieri, sul sito web della Santa Sede si può leggere il documento riprodotto qui sotto, che riassume le procedure in uso da alcuni anni nella Chiesa cattolica nei casi di abuso sessuale su minori ad opera di persone con i sacri ordini.

Per minori si intendono le persone con meno di 18 anni, mentre per atti di pedofilia si intendono gli abusi compiuti su bambini impuberi.

Sulle circa tremila denunce arrivate alla congregazione per la dottrina della fede  dal 2001 a oggi, per abusi su minori commessi negli ultimi cinquant’anni, i casi di pedofilia vera e propria sono il 10 per cento del totale. Il 60 per cento dei casi sono di attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, mentre il restante 30 per cento riguarda rapporti con giovanissime.

La maggior parte dei casi affrontati si sono conclusi con una sanzione amministrativa e disciplinare a carico dell’imputato: procedura più rapida ed efficace di quando si celebra un vero e proprio processo.

Per la denuncia degli abusi alle autorità civili la Santa Sede ordina di seguire le leggi del luogo. Ciò vuol dire che nei paesi di cultura giuridica anglosassone e in Francia la denuncia è obbligatoria. Mentre dove non lo è, la Santa Sede incoraggia le vittime a rivolgersi esse stesse ai tribunali.

Le modifiche annunciate nell’ultimo paragrafo del documento riguardano in particolare l’abolizione dei termini di prescrizione, che dal 2001 sono di 10 anni,  da contarsi a partire dal compimento dei 18 anni della vittima. Già oggi, però, la prescrizione non è tassativa e le denunce sono accolte anche per atti più lontani nel tempo.

Ecco dunque il testo delle linee guida, tradotto dall’originale inglese:

__________

Guida alle delle procedure di base della congregazione per la dottrina della fede riguardo alle accuse di abusi sessuali

La disposizione che deve essere applicata è il motu proprio « Sacramentorum sanctitatis tutela »  del 30 aprile 2001 insieme al Codice di Diritto Canonico del 1983. La presente è una guida introduttiva che può essere d’aiuto a laici e non canonisti.

A. Procedure preliminari

La diocesi indaga su qualsiasi sospetto di abusi sessuali da parte di un religioso nei riguardi di un minore.

Qualora il sospetto abbia verosimiglianza con la verità, il caso viene deferito alla Cdf. Il vescovo locale trasmette ogni informazione necessaria alla Cdf ed esprime la propria opinione sulle procedure da seguire e le misure da adottare a breve e a lungo termine.

Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte.

Nella fase preliminare e fino a quando il caso sia concluso, il vescovo può imporre misure precauzionali per la salvaguardia della comunità, comprese le vittime. In realtà, al vescovo locale è sempre conferito il potere di tutelare i bambini limitando le attività di qualsiasi sacerdote nella sua diocesi. Questo rientra nella sua autorità ordinaria, che egli è sollecitato a esercitare in qualsiasi misura necessaria per garantire che i bambini non ricevano danno, e questo potere può essere esercitato a discrezione del vescovo prima, durante e dopo qualsiasi procedimento canonico.

B. Procedure autorizzate dalla Cdf

La Cdf studia il caso presentato dal vescovo locale e, dove necessario, richiede informazioni supplementari.

La Cdf ha a disposizione una serie di opzioni:

1. Processi penali

La Cdf può autorizzare il vescovo locale a condurre un processo penale giudiziario davanti a un Tribunale ecclesiale locale. Qualsiasi appello in casi simili dovrà essere eventualmente presentato a un tribunale della Cdf.

La Cdf può autorizzare il vescovo locale a istruire un processo penale amministrativo davanti a un delegato del vescovo locale, assistito da due assessori. Il sacerdote accusato è chiamato a rispondere alle accuse e a esaminare le prove. L’accusato ha il diritto di presentare ricorso alla Cdf contro un decreto che lo condanni a una pena canonica. La decisione dei cardinali membri della Cdf è definitiva.

Qualora il sacerdote venga giudicato colpevole, i due procedimenti — giudiziario e amministrativo penale — possono condannarlo a un certo numero di pene canoniche, la più seria delle quali è la dimissione dallo stato clericale. Anche la questione dei danni subiti può essere trattata direttamente durante queste procedure.

2. Casi riferiti direttamente al Santo Padre

In casi particolarmente gravi, in cui processi civili criminali abbiano ritenuto colpevole di abusi sessuali su minori un religioso, o in cui le prove siano schiaccianti, la Cdf può scegliere di portare questo caso direttamente al Santo Padre con la richiesta che il Papa emetta un decreto di dimissione dallo stato clericale «ex officio». Non esiste ricorso canonico dopo un simile decreto papale.

La Cdf porta al Santo Padre anche richieste di sacerdoti accusati che, consapevoli dei crimini commessi, chiedano di essere dispensati dagli obblighi del sacerdozio e chiedano di tornare allo stato laicale. Il Santo Padre concede tale richiesta per il bene della Chiesa («pro bono Ecclesiae»).

3. Misure disciplinari

In quei casi in cui il sacerdote accusato abbia ammesso i propri crimini e abbia accettato di vivere una vita di preghiera e penitenza, la Cdf autorizza il vescovo locale a emettere un decreto che proibisce o limita il ministero pubblico di tale sacerdote. Tali decreti sono imposti tramite un precetto penale che comprendono una pena canonica per la violazione delle condizioni del decreto, non esclusa la dimissione dallo stato clericale. Contro questi decreti è possibile il ricorso alla Cdf. La decisione della Cdf è definitiva.

C. La revisione del motu proprio

La Cdf ha in corso una revisione di alcuni articoli del motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela, al fine di aggiornare il suddetto motu proprio del 2001 alla luce delle speciali facoltà riconosciute alla Cdf dai Pontefici Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi. Le modifiche proposte e sotto discussione non cambieranno le suddette procedure.

Publié dans:Sandro Magister |on 14 avril, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: La passione di papa Benedetto. Sei accuse, una domanda

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1342796

La passione di papa Benedetto. Sei accuse, una domanda

La pedofilia è solo l’ultima delle armi puntate contro Joseph Ratzinger. E ogni volta egli è attaccato dove più esercita il suo ruolo di guida. Uno ad uno, i punti critici di questo pontificato

di Sandro Magister

ROMA, 7 aprile 2010 – L’attacco che colpisce papa Joseph Ratzinger con l’arma dello scandalo dato da preti della sua Chiesa è una costante di questo pontificato.

È una costante perché ogni volta, su un terreno diverso, è colpito in Benedetto XVI proprio l’uomo che ha operato e opera, su quello stesso terreno, con più lungimiranza, con più risolutezza e con più frutto.

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La tempesta seguita alla sua lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006 è stata la prima della serie. Si accusò Benedetto XVI di essere un nemico dell’islam e un fautore incendiario dello scontro tra le civiltà. Proprio lui che con una lucidità e un coraggio unici aveva svelato dove affonda la radice ultima della violenza, in un’idea di Dio mutilata dalla razionalità, e quindi aveva detto anche come vincerla.

Le aggressioni e persino le uccisioni che seguirono alle sue parole ne confermarono dolorosamente la giustezza. Ma che egli avesse colto nel segno è stato confermato soprattutto dai passi di dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam che si sono registrati in seguito – non contro ma grazie alla lezione di Ratisbona – e di cui la lettera al papa dei 138 saggi musulmani e la visita alla Moschea Blu di Istanbul sono stati i segni più evidenti e promettenti.

Con Benedetto XVI, il dialogo tra il cristianesimo e l’islam, come pure con le altre religioni, procede oggi con una più nitida consapevolezza su ciò che distingue, in forza della fede, e su ciò che può unire, la legge naturale scritta da Dio nel cuore di ogni uomo.

*

Una seconda ondata di accuse contro papa Benedetto lo dipinge come un nemico della ragione moderna e in particolare della sua suprema espressione, la scienza. L’acme di questa campagna ostile fu toccato nel gennaio del 2008, quando dei professori costrinsero il papa a cancellare una visita nella principale università della sua diocesi, l’Università di Roma « La Sapienza ».

Eppure – come già a Ratisbona e poi a Parigi al Collège des Bernardins il 12 settembre 2008 – il discorso che il papa intendeva rivolgere all’Università di Roma era una formidabile difesa del nesso indissolubile tra fede e ragione, tra verità e libertà: « Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità ».

Il paradosso è che Benedetto XVI è un grande « illuminista » in un’epoca in cui la verità ha così pochi estimatori e il dubbio la fa da padrone, fino a volergli togliere la parola.

*

Una terza accusa scagliata sistematicamente contro Benedetto XVI è di essere un tradizionalista ripiegato sul passato, nemico delle novità portate dal Concilio Vaticano II.

Il suo discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 sull’interpretazione del Concilio e poi, nel 2007, la liberalizzazione del rito antico della messa sarebbero le prove nelle mani dei suoi accusatori.

In realtà, la Tradizione alla quale Benedetto XVI è fedele è quella della grande storia della Chiesa, dalle origini a oggi, che non ha nulla a che vedere con un formalistico attaccamento al passato. Nel citato discorso alla curia, per esemplificare la « riforma nella continuità » rappresentata dal Vaticano II, il papa ha richiamato la questione della libertà di religione. Per affermarla in modo pieno – ha spiegato – il Concilio ha dovuto riandare alle origini della Chiesa, ai primi martiri, a quel « patrimonio profondo » della Tradizione cristiana che nei secoli più recenti era andato smarrito, ed è stato ritrovato anche grazie alla critica della ragione illuminista.

Quanto alla liturgia, se c’è un autentico continuatore del grande movimento liturgico che è fiorito nella Chiesa tra Ottocento e Novecento, da Prosper Guéranger a Romano Guardini, questi è proprio Ratzinger.

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Un quarto terreno d’attacco è contiguo al precedente. Si accusa Benedetto XVI di aver affossato l’ecumenismo, di anteporre l’abbraccio con i lefebvriani al dialogo con le altre confessioni cristiane.

Ma i fatti dicono l’opposto. Da quando Ratzinger è papa, il cammino di riconciliazione con le Chiese d’Oriente ha fatto straordinari passi avanti. Sia con le Chiese bizantine che fanno capo al patriarcato ecumenico di Costantinopoli, sia – ed è la novità più sorprendente – con il patriarcato di Mosca.

E se ciò è avvenuto, è proprio per la ravvivata fedeltà alla grande Tradizione – a cominciare da quella del primo millennio – che è un distintivo di questo papa, oltre che l’anima delle Chiese d’Oriente.

Sul versante dell’Occidente, è ancora l’amore della Tradizione ciò che spinge persone e gruppi della Comunione Anglicana a chiedere di entrare nella Chiesa di Roma.

Mentre con i lefebvriani ciò che ostacola un loro reintegro è proprio il loro essere attaccati a forme passate di Chiesa e di dottrina erroneamente identificate con la Tradizione perenne. La revoca della scomunica ai loro quattro vescovi, nel gennaio del 2009, nulla ha tolto allo stato di scisma in cui essi permangono, così come nel 1964 la revoca delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli non ha sanato lo scisma tra Oriente e Occidente ma ha reso possibile un dialogo finalizzato all’unità.

*

Tra i quattro vescovi lefebvriani ai quali Benedetto XVI ha revocato la scomunica c’era l’inglese Richard Williamson, antisemita e negatore della Shoah. Nel rito antico liberalizzato c’è una preghiera affinché gli ebrei « riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini ».

Questi e altri fatti hanno contribuito ad alimentare una ricorrente protesta del mondo ebraico contro l’attuale papa, con punte notevoli di asprezza. Ed è un quinto terreno d’accusa.

L’ultima arma di questa protesta è stato un passaggio del sermone tenuto nella basilica di San Pietro, il Venerdì Santo alla presenza del papa, dal predicatore della casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa. Il passaggio incriminato era una citazione di una lettera scritta da un ebreo, ma nonostante ciò la polemica si è appuntata esclusivamente contro il papa.

Eppure, nulla è più contraddittorio che accusare Benedetto XVI d’inimicizia con gli ebrei.

Perché nessun altro papa, prima di lui, si è spinto tanto avanti nel definire una visione positiva del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, ferma restando la divisione capitale sul riconoscimento o no di Gesù come Figlio di Dio. Nel primo tomo del suo « Gesù di Nazaret » pubblicato nel 2007 – e vicino ad essere completato dal secondo tomo – Benedetto XVI ha scritto in proposito pagine luminose, in dialogo con un rabbino americano vivente.

E numerosi ebrei vedono effettivamente in Ratzinger un amico. Ma sui media internazionali è altra cosa. Lì è quasi soltanto il « fuoco amico » che tambureggia. Di ebrei che colpiscono il papa che più li capisce e li ama.

*

Infine, un sesto capo d’accusa – attualissimo – contro Ratzinger è d’aver « coperto » lo scandalo dei preti che hanno abusato sessualmente di bambini.

Anche qui, l’accusa investe proprio l’uomo che ha fatto più di tutti, nella gerarchia della Chiesa, per sanare questo scandalo.

Con effetti positivi che qua e là già si misurano. In particolare negli Stati Uniti, dove l’incidenza del fenomeno tra il clero cattolico è nettamente diminuita negli ultimi anni.

Là dove invece, come in Irlanda, la piaga è tuttora aperta, è stato sempre Benedetto XVI a imporre alla Chiesa di quel paese di mettersi in stato penitenziale, lungo un severo cammino di rigenerazione da lui tracciato in una lettera pastorale dello scorso 19 marzo, che non ha precedenti.

Sta di fatto che la campagna internazionale contro la pedofilia ha oggi un solo vero bersaglio, il papa. I casi ripescati dal passato sono ogni volta quelli che si calcola di ritorcere contro di lui, sia quand’era arcivescovo di Monaco, sia quand’era prefetto della congregazione per la dottrina della fede, con in più l’appendice di Ratisbona per gli anni il cui il fratello del papa, Georg, dirigeva il coro di bambini della cattedrale.

*

I sei capi d’accusa contro Benedetto XVI, fin qui richiamati, aprono una domanda.

Perché questo papa è così sotto attacco, da fuori la Chiesa ma anche da dentro, nonostante la sua lampante innocenza rispetto alle accuse?

Un principio di risposta è che papa Benedetto è sistematicamente attaccato proprio per ciò che fa, per ciò che dice, per ciò che è.

di Sandro Magister: Genesi di un delitto. La rivoluzione degli anni ’60

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1342641

Genesi di un delitto. La rivoluzione degli anni ’60

Lo scandalo della pedofilia c’è sempre stato, ma a ingigantirlo è stata la svolta culturale di mezzo secolo fa. Lo scrive Benedetto XVI nella sua lettera ai cattolici dell’Irlanda. Due cardinali e un sociologo la commentano

di Sandro Magister

ROMA, 25 marzo 2010 – La legge e la grazia. Dove la giustizia terrena non arriva, può la mano di Dio. Ai cattolici dell’Irlanda Benedetto XVI ha ordinato, con la sua lettera del 19 marzo, ciò che nessun papa dell’età moderna ha mai ordinato a un’intera Chiesa nazionale.

Ha intimato loro non solo di portare i colpevoli davanti ai tribunali canonici e civili, ma di mettersi collettivamente in stato di penitenza e di purificazione. E non nel segreto delle coscienze ma in forma pubblica, sotto gli occhi di tutti, anche degli avversari più implacabili e irridenti. Digiuno, preghiera, lettura della Bibbia e opere di carità tutti i venerdì da qui alla Pasqua dell’anno venturo. Confessione sacramentale frequente. Adorazione continua di Gesù – egli stesso « vittima di ingiustizia e peccato » – davanti alla sacra ostia esposta sugli altari delle chiese. E per tutti i vescovi, i sacerdoti, i religiosi senza eccezioni, un periodo speciale di « missione », un lungo e severo corso di esercizi spirituali per una radicale revisione di vita.

Un passo audace, questo compiuto da papa Benedetto. Perché nemmeno il profeta Giona credeva più che Dio avrebbe perdonato Ninive dei suoi peccati, nonostante la cenere penitenziale e la tela di sacco indossata da tutti, dal re fino all’ultimo dei giumenti.

E anche oggi molti concludono che la Chiesa resta irrimediabilmente sotto condanna, anche dopo la lettera nella quale lo stesso papa si carica di vergogna e rimorso per l’abominio commesso su dei fanciulli da alcuni sacerdoti, nella colpevole negligenza di qualche vescovo.

Eppure anche su Ninive discese il perdono di Dio, e lo scettico Giona dovette ricredersi, e Michelangelo dipinse proprio questo profeta sulla sommità della parete d’altare della Cappella Sistina, a mostrare che il perdono di Dio è la chiave di tutto, dalla creazione del mondo sino al giudizio finale.

Domenica 21 marzo, mentre nelle chiese d’Irlanda era data lettura della sua lettera, Benedetto XVI ha commentato ai fedeli, all’Angelus in piazza San Pietro, il perdono di Gesù all’adultera: « Egli sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo, vuole condannare il peccato, ma salvare il peccatore e smascherare l’ipocrisia ». L’ipocrisia di quelli che volevano lapidare la donna pur essendo i primi a peccare.

Intransigenti con il peccato, « a partire dal nostro », e misericordiosi con le persone. È questa la lezione che Joseph Ratzinger vuole applicare al caso irlandese e, di riflesso, alla Chiesa intera.

Da un lato i rigori della legge. Il prezzo della giustizia dovrà essere pagato fino in fondo. Le diocesi, i seminari, le congregazioni religiose in cui si sono lasciate correre le malefatte sono avvertiti: dal Vaticano arriveranno dei visitatori apostolici a scoperchiare il loro operato, e anche dove non ci sarà materia per la giustizia civile la disciplina canonica punirà i negligenti.

Ma insieme il papa accende il lume della grazia. Apre la porta del perdono di Dio anche al colpevole del peggiore abominio, se sinceramente pentito.

Quanto agli accusatori di prima fila, i più armati di pietre contro la Chiesa, nessuno di loro è senza peccato. Per chi esalta la sessualità come puro istinto, libero da ogni vincolo, è difficile poi condannare ogni suo abuso.

La tragedia di alcuni sacerdoti e religiosi, ha scritto Benedetto XVI nella lettera, è stata anche di cedere a simili diffusi « modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo », fino a giustificare l’ingiustificabile.

Un cedimento che a Ratzinger vescovo e papa non può sicuramente essere imputato, nemmeno dai più accaniti dei suoi avversari, se sinceri.

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Il commento sopra riprodotto è uscito su « L’espresso » n. 13 del 2010, in edicola dal 26 marzo.

Nel finale il commento fa riferimento a un preciso paragrafo, il quarto, della lettera di Benedetto XVI ai cattolici dell’Irlanda.

È il paragrafo nel quale il papa va alle ragioni che hanno favorito, dagli anni Sessanta del secolo scorso, l’espandersi degli abusi sessuali tra il clero e soprattutto l’incomprensione della loro gravità.

Eccolo per intero.

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BENEDETTO XVI. IL PARAGRAFO 4 DELLA SUA LETTERA

« Negli ultimi decenni, la Chiesa nel vostro paese ha dovuto confrontarsi con nuove e gravi sfide alla fede scaturite dalla rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese. Si è verificato un rapidissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici. Molto sovente le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese.

« Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo fu a volte frainteso e in verità, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si stavano verificando, era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti. In particolare, vi fu una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari. È in questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi, che ha contribuito in misura tutt’altro che piccola all’indebolimento della fede e alla perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti.

« Solo esaminando con attenzione i molti elementi che diedero origine alla presente crisi è possibile intraprendere una chiara diagnosi delle sue cause e trovare rimedi efficaci. Certamente, tra i fattori che vi contribuirono possiamo enumerare: procedure inadeguate per determinare l’idoneità dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa; insufficiente formazione umana, morale, intellettuale e spirituale nei seminari e nei noviziati; una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità e una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali, che hanno portato come risultato alla mancata applicazione delle pene canoniche in vigore e alla mancata tutela della dignità di ogni persona. Bisogna agire con urgenza per affrontare questi fattori, che hanno avuto conseguenze tanto tragiche per le vite delle vittime e delle loro famiglie e hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione ».

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Sui fattori culturali analizzati dal papa sono intervenuti, tra altri, due cardinali e uno studioso di sociologia delle religioni.

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IL COMMENTO DEL CARDINALE BAGNASCO

Il primo dei due cardinali è Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della conferenza episcopale italiana.

Lunedì 22 marzo, nella prolusione con cui ha introdotto i lavori del consiglio permanente della CEI, Bagnasco ha così concluso il passaggio dedicato alla lettera del papa ai cattolici dell’Irlanda:

« Da varie parti, anche non cattoliche, si rileva come non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone: ma questo, lungi dall’essere qui evocato per sminuire o relativizzare la specifica gravità dei fatti segnalati in ambito ecclesiastico, è piuttosto un monito a voler cogliere l’obiettivo spessore della tragedia. Nel momento stesso in cui sente su di sé l’umiliazione, la Chiesa impara dal Papa a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla. Questo, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato.

« Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi coltiva l’assoluta autonomia dai criteri del giudizio morale e veicola come buoni e seducenti i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrenati. Ma l’esasperazione della sessualità sganciata dal suo significato antropologico, l’edonismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora insospettabilmente pervasivi.

« Conviene allora che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi ».

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IL COMMENTO DEL CARDINALE RUINI

Il secondo cardinale è Camillo Ruini, presidente del comitato per il progetto culturale della Chiesa italiana, predecessore di Bagnasco alla presidenza della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2008.

In un’intervista al quotidiano « il Foglio » del 16 marzo, pochi giorni prima che il papa pubblicasse la sua lettera, Ruini ha detto tra l’altro:

« A mio avviso la campagna diffamatoria contro la Chiesa cattolica e il papa messa in campo dai media rientra in quella strategia che è in atto oramai da secoli e che già Friedrich Nietzsche teorizzava con il gusto dei dettagli. Secondo Nietzsche l’attacco decisivo al cristianesimo non può essere portato sul piano della verità ma su quello dell’etica cristiana, che sarebbe nemica della gioia di vivere. E allora vorrei domandare a chi scaglia gli scandali della pedofilia principalmente contro la Chiesa cattolica, tirando in ballo magari il celibato dei preti: non sarebbe forse più onesto e realistico riconoscere che certamente queste e altre deviazioni legate alla sessualità accompagnano tutta la storia del genere umano ma anche che nel nostro tempo queste deviazioni sono ulteriormente stimolate dalla tanto conclamata ‘liberazione sessuale’? »

E ancora:

« Quando l’esaltazione della sessualità pervade ogni spazio della vita e quando si rivendica l’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale diventa difficile far comprendere che determinati abusi sono assolutamente da condannare. In realtà la sessualità umana fin dal suo inizio non è semplicemente istintiva, non è identica a quella degli altri animali. È, come tutto l’uomo, una sessualità ‘impastata’ con la ragione e con la morale, che può essere vissuta umanamente, e rendere davvero felici, soltanto se viene vissuta in questo modo ».
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IL COMMENTO DEL PROFESSOR INTROVIGNE

Il sociologo è il professore Massimo Introvigne, presidente del CESNUR, Center for Studies on New Religion.

In un commento apparso il 22 marzo sull’edizione italiana dell’agenzia internazionale « Zenit », Introvigne ha scritto tra l’altro:

« Quelli che gli inglesi e gli americani chiamano ‘the Sixties’, gli anni Sessanta, e gli italiani, concentrandosi sull’anno emblematico, ‘il Sessantotto’ appare sempre di più come il tempo di un profondo sconvolgimento dei costumi, con effetti cruciali e duraturi sulla religione.

« C’è stato del resto un Sessantotto nella società e anche un Sessantotto nella Chiesa: proprio il 1968 è l’anno del dissenso pubblico contro l’enciclica ‘Humanae Vitae’ di Paolo VI, una contestazione che secondo un pregevole e influente studio del filosofo americano recentemente scomparso Ralph McInerny, ‘Vaticano II. Che cosa è andato storto?’, rappresenta un punto di non ritorno nella crisi del principio di autorità nella Chiesa Cattolica. [...]

« Ma perché gli anni Sessanta? Sul tema, per rimanere nelle Isole Britanniche, Hugh McLeod ha pubblicato nel 2007 presso Oxford University Press un importante volume, ‘The Religious Crisis of the 1960s’, che fa il punto sulle discussioni in corso.

« Due tesi si sono contrapposte: quella di Alan Gilbert secondo cui a determinare la rivoluzione degli anni 1960 è stato il boom economico, che ha diffuso il consumismo e ha allontanato le popolazioni dalle chiese, e quella di Callum Brown secondo cui il fattore decisivo è stata l’emancipazione delle donne dopo la diffusione dell’ideologia femminista, del divorzio, della pillola anticoncezionale e dell’aborto.

« McLeod pensa, a mio avviso giustamente, che un solo fattore non può spiegare una rivoluzione di questa portata. C’entrano il boom economico e il femminismo, ma anche aspetti più strettamente culturali sia all’esterno delle Chiese e comunità cristiane (l’incontro fra psicanalisi e marxismo) sia all’interno (le ‘nuove teologie’).

« Senza entrare negli elementi più tecnici di questa discussione, Benedetto XVI nella sua lettera si mostra consapevole del fatto che ci fu negli anni Sessanta un’autentica rivoluzione – non meno importante della Riforma protestante o della Rivoluzione francese – che fu ‘rapidissima’ e che assestò un colpo durissimo alla ‘tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici’. [...]

« Nella Chiesa cattolica non ci fu subito sufficiente consapevolezza della portata di questa rivoluzione. Anzi, essa contagiò – ritiene oggi Benedetto XVI – ‘anche sacerdoti e religiosi’, determinò fraintendimenti nell’interpretazione del Concilio, causò ‘insufficiente formazione, umana, morale e spirituale nei seminari e nei noviziati’.

« In questo clima certamente non tutti i sacerdoti insufficientemente formati o contagiati dal clima successivo agli anni Sessanta, e nemmeno una loro percentuale significativa, divennero pedofili: sappiamo dalle statistiche che il numero reale dei preti pedofili è molto inferiore a quello proposto da certi media. E tuttavia questo numero non è uguale a zero – come tutti vorremmo – e giustifica le severissime parole del papa. Ma lo studio della rivoluzione degli anni Sessanta, e del 1968, è cruciale per capire quanto è successo dopo, pedofilia compresa. E per trovare rimedi reali.

« Se questa rivoluzione, a differenza delle precedenti, è morale e spirituale e tocca l’interiorità dell’uomo, solo dalla restaurazione della moralità, della vita spirituale e di una verità integrale sulla persona umana potranno ultimamente venire i rimedi. Ma per questo i sociologi, come sempre, non bastano: occorrono i padri e i maestri, gli educatori e i santi. E abbiamo tutti molto bisogno del papa: di questo
papa, che ancora una volta – per riprendere il titolo della sua ultima enciclica – dice la verità nella carità e pratica la carità nella verità ».

Publié dans:Sandro Magister |on 27 mars, 2010 |Pas de commentaires »

articolo pubblicato da Sandro Magister: « Gli sia messa al collo una macina da mulino… »

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1342484

« Gli sia messa al collo una macina da mulino… »

« … e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli » (Luca 17, 2). Imputati, processi e condanne in dieci anni di pedofilia tra il clero. Intervista con Charles J. Scicluna, promotore di giustizia della congregazione per la dottrina della fede. Da « Avvenire » del 13 marzo 2010

di Gianni Cardinale

(articolo pubblicato da Sandro Magister)

ROMA – Monsignor Charles J. Scicluna è il « promotore di giustizia » della congregazione per la dottrina della fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del tribunale dell’ex Sant’Uffizio, che ha il compito di indagare sui cosiddetti « delicta graviora », i delitti che la Chiesa cattolica considera i più gravi in assoluto: e cioè quelli contro l’eucaristia, quelli contro la santità del sacramento della penitenza, e il delitto contro il sesto comandamento (« non commettere atti impuri ») di un chierico con un minore di diciotto anni. Delitti che un motu proprio del 2001, « Sacramentorum sanctitatis tutela », ha riservato, come competenza, alla congregazione per la dottrina della fede. Di fatto è il « promotore di giustizia » ad avere a che fare, tra l’altro, con la terribile questione dei sacerdoti accusati di pedofilia periodicamente alla ribalta sui mass media. E monsignor Scicluna, un maltese affabile e gentile nei modi, ha la fama di adempiere il compito affidatogli con il massimo scrupolo, senza guardare in faccia a nessuno.

D. – Monsignore, lei ha la fama di essere un « duro », eppure la Chiesa cattolica viene sistematicamente accusata di essere accomodante nei confronti dei cosiddetti « preti pedofili ».

R. – Può essere che in passato, forse anche per un malinteso senso di difesa del buon nome dell’istituzione, alcuni vescovi, nella prassi, siano stati troppo indulgenti verso questi tristissimi fenomeni. Nella prassi dico, perché sul piano dei principi la condanna per questa tipologia di delitti è stata sempre ferma e inequivocabile. Per rimanere al secolo scorso basta ricordare l’ormai celebre istruzione « Crimen sollicitationis » del 1922.

D. – Ma non era del 1962?

R. – No, la prima edizione risale al pontificato di Pio XI. Poi con il beato Giovanni XXIII il Sant’Uffizio ne curò una nuova edizione per i padri conciliari, ma ne vennero fatte solo duemila copie e non bastarono per la distribuzione che fu rinviata sine die. Si trattava comunque di norme procedurali da seguire nei casi di sollecitazione in confessione e di altri delitti più gravi a sfondo sessuale come l’abuso sessuale di minori.

D. – Norme che raccomandavano però il segreto…

R. – Una cattiva traduzione in inglese di questo testo ha fatto pensare che la Santa Sede imponesse il segreto per occultare i fatti. Ma non era così. Il segreto istruttorio serviva per proteggere la buona fama di tutte le persone coinvolte, prima di tutto le stesse vittime, e poi i chierici accusati, che hanno diritto – come chiunque – alla presunzione di innocenza fino a prova contraria. Alla Chiesa non piace la giustizia spettacolo. La normativa sugli abusi sessuali non è stata mai intesa come divieto di denuncia alle autorità civili.

D. – Quel documento però viene periodicamente rievocato per accusare l’attuale pontefice di essere stato – in qualità di prefetto dell’ex Sant’Uffizio – il responsabile oggettivo di una politica di occultamento dei fatti da parte della Santa Sede.

R. – Si tratta di un’accusa falsa e calunniosa. A questo proposito mi permetto di segnalare alcuni fatti. Tra il 1975 e il 1985 mi risulta che nessuna segnalazione di casi di pedofilia da parte di chierici sia arrivata all’attenzione della nostra congregazione. Comunque dopo la promulgazione del codice di diritto canonico del 1983 c’è stato un periodo di incertezza sull’elenco dei « delicta graviora » riservati alla competenza di questo dicastero. Solo col motu proprio del 2001 il delitto di pedofilia è ritornato alla nostra competenza esclusiva. E da quel momento il cardinale Ratzinger ha mostrato saggezza e fermezza nel gestire questi casi. Di più. Ha mostrato anche grande coraggio nell’affrontare alcuni casi molto difficili e spinosi, « sine acceptione personarum », cioé senza riguardi per nessuno. Quindi accusare l’attuale pontefice di occultamento è, ripeto, falso e calunnioso.

D. – Nel caso che un sacerdote sia accusato di un « delictum gravius », cosa succede?

R. – Se l’accusa è verosimile il vescovo ha l’obbligo di investigare sia l’attendibilità della denuncia che l’oggetto stesso della medesima. E se l’esito di questa indagine previa è attendibile non ha più potere di disporre della materia e deve riferire il caso alla nostra congregazione, dove viene trattato dall’ufficio disciplinare.

D. – Da chi è composto questo ufficio?

R. – Oltre a me, che essendo uno dei superiori del dicastero, mi occupo anche di altre questioni, ci sono un capo ufficio, padre Pedro Miguel Funes Diaz, sette ecclesiastici e un penalista laico che seguono queste pratiche. Altri officiali della congregazione prestano il loro prezioso contributo secondo le esigenze di lingua e di competenza.

D. – Questo ufficio è stato accusato di lavorare poco e con lentezza.

R. – Si tratta di rilievi ingiusti. Nel 2003 e 2004 c’è stata una valanga di casi che ha investito le nostre scrivanie. Molti dei quali venivano dagli Stati Uniti e riguardavano il passato. Negli ultimi anni, grazie a Dio, il fenomeno si è di gran lunga ridotto. E quindi adesso cerchiamo di trattare i casi nuovi in tempo reale.

D. – Quanti casi avete trattato finora?

R. – Complessivamente in questi ultimi nove anni, dal 2001 al 2010, abbiamo valutato le accuse riguardanti circa tremila casi di sacerdoti diocesani e religiosi che si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni.

D. – Quindi di tremila casi di preti pedofili?

R. – Non è corretto dire così. Possiamo dire che grosso modo nel 60 per cento di questi casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30 per cento di rapporti eterosessuali e nel 10 per cento di atti di vera e propria pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi – per carità! – ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere.

D. – Tremila quindi gli accusati. Quanti i processati e condannati?

R. – Intanto si può dire che un processo vero e proprio, penale o amministrativo, si è svolto nel 20 per cento dei casi e normalmente è stato celebrato nelle diocesi di provenienza – sempre sotto la nostra supervisione – e solo rarissimamente qui a Roma. Facciamo così anche per una maggiore speditezza dell’iter. Nel 60 per cento dei casi poi, soprattutto a motivo dell’età avanzata degli accusati, non c’è stato processo, ma, nei loro confronti, sono stati emanati dei provvedimenti amministrativi e disciplinari, come l’obbligo a non celebrare messa coi fedeli, a non confessare, a condurre una vita ritirata e di preghiera. È bene ribadire che in questi casi, tra i quali ce ne sono alcuni particolarmente eclatanti di cui si sono occupati i media, non si tratta di assoluzioni. Certo non c’è stata una condanna formale, ma se si è obbligati al silenzio e alla preghiera qualche motivo ci sarà…

D. – All’appello manca ancora il 20 per cento dei casi.

R. – Diciamo che in un 10 per cento di casi, quelli particolarmente gravi e con prove schiaccianti, il Santo Padre si è assunto la dolorosa responsabilità di autorizzare un decreto di dimissione dallo stato clericale. Un provvedimento gravissimo, preso per via amministrativa, ma inevitabile. Nell’altro 10 per cento dei casi poi, sono stati gli stessi chierici accusati a chiedere la dispensa dagli obblighi derivati dal sacerdozio. Che è stata prontamente accettata. Coinvolti in questi ultimi casi ci sono stati sacerdoti trovati in possesso di materiale pedopornografico e che per questo sono stati condannati dall’autorità civile.

D. – Da dove vengono questi tremila casi?

R. – Soprattutto dagli Stati Uniti che per gli anni 2003-2004 rappresentavano circa l’80 per cento del totale di casi. Per il 2009 la percentuale statunitense è scesa a circa il 25 per cento dei 223 nuovi casi segnalati da tutto il mondo. Negli ultimi due anni, dal 2007 al 2009, infatti, la media annuale dei casi segnalati alla congregazione dal mondo è stata proprio di 250 casi. Molti paesi segnalano solo uno o due casi. Crescono quindi la diversità e il numero dei paesi di provenienza dei casi ma il fenomeno è assai ridotto. Bisogna ricordare infatti che il numero complessivo di sacerdoti diocesani e religiosi nel mondo è di 400 mila. Questo dato statistico non corrisponde alla percezione che si crea quando questi casi così tristi occupano le prime pagine dei giornali.

D. – E dall’Italia?

R. – Finora il fenomeno non sembra abbia dimensioni drammatiche, anche se ciò che mi preoccupa è una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa. La conferenza episcopale italiana offre un ottimo servizio di consulenza tecnico-giuridica per i vescovi che devono trattare questi casi. Noto con grande soddisfazione un impegno sempre maggiore da parte dei vescovi italiani di fare chiarezza sui casi a loro segnalati.

D. – Lei diceva che i processi veri e propri riguardano circa il 20 per cento dei circa tremila casi che avete esaminato negli ultimi nove anni. Sono finiti tutti con la condanna degli accusati?

R. – Molti dei processi ormai celebrati sono finiti con una condanna dell’accusato. Ma non sono mancati quelli in cui il sacerdote è stato dichiarato innocente o dove le accuse non sono state ritenute sufficientemente provate. In tutti i casi comunque si fa non solo lo studio sulla colpevolezza o meno del chierico accusato, ma anche il discernimento sull’idoneità dello stesso al ministero pubblico.

D. – Un’accusa ricorrente fatta alle gerarchie ecclesiastiche è quella di non denunciare anche alle autorità civili i reati di pedofilia di cui vengono a conoscenza.

R. – In alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria.  Si tratta di un dovere gravoso perché questi vescovi sono costretti a compiere un gesto paragonabile a quello compiuto da un genitore che denuncia un proprio figlio. Ciononostante, la nostra indicazione in questi casi è di rispettare la legge.

D. – E nei casi in cui i vescovi non hanno questo obbligo per legge?

R. – In questi casi noi non imponiamo ai vescovi di denunciare i propri sacerdoti, ma li incoraggiamo a rivolgersi alle vittime per invitarle a denunciare quei sacerdoti di cui sono state vittime. Inoltre li invitiamo a dare tutta l’assistenza spirituale, ma non solo spirituale, a queste vittime. In un recente caso riguardante un sacerdote condannato da un tribunale civile italiano, è stata proprio questa congregazione a suggerire ai denunciatori, che si erano rivolti a noi per un processo canonico, di adire anche alle autorità civili nell’interesse delle vittime e per evitare altri reati.

D. – Un’ultima domanda: è prevista la prescrizione per i « delicta graviora »?

R. – Lei tocca un punto – a mio avviso – dolente. In passato, cioè prima del 1898, quello della prescrizione dell’azione penale era un istituto estraneo al diritto canonico. E per i delitti più gravi solo con il motu proprio del 2001 è stata introdotta una prescrizione di dieci anni. In base a queste norme nei casi di abuso sessuale il decennio incomincia a decorrere dal giorno in cui il minore compie i diciotto anni.

D. – È sufficiente?

R. – La prassi indica che il termine di dieci anni non è adeguato a questo tipo di casi e sarebbe auspicabile un ritorno al sistema precedente dell’imprescrittibilità dei « delicta graviora ». Il 7 novembre 2002, comunque, il servo di Dio venerabile Giovanni Paolo II ha concesso a questo dicastero la facoltà di derogare dalla prescrizione caso per caso, su motivata domanda dei singoli vescovi. E la deroga viene normalmente concessa.

Publié dans:Sandro Magister |on 15 mars, 2010 |Pas de commentaires »
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