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Dopo Madrid. Come Benedetto XVI ha innovato le GMG (di Sandro Magister)

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Dopo Madrid. Come Benedetto XVI ha innovato le GMG

Sono almeno tre le novità che con questo papa caratterizzano le Giornate Mondiali della Gioventù: gli spazi di silenzio, l’età giovanissima, la passione di testimoniare la fede nel mondo

di Sandro Magister

ROMA, 24 agosto 2011 – Dopo ogni suo viaggio fuori d’Italia, Benedetto XVI ama tracciarne un bilancio nell’udienza generale del mercoledì successivo.
Fece così dopo la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, nell’agosto del 2005:
> Riflessione sul pellegrinaggio a Colonia

Non lo fece invece tre anni dopo, di ritorno da Sydney, perché era luglio e in questo mese le udienze generali sono sospese. Ma il papa commentò più tardi quella sua trasferta australiana nel discorso che tenne alla curia romana per gli auguri di Natale del 2008, riprodotto in questo recente servizio di www.chiesa:
> A Madrid risplende una stella
Questa volta, di ritorno da Madrid, ecco la riflessione che mercoledì 24 agosto Benedetto XVI ha dedicato alla terza Giornata Mondiale della Gioventù del suo pontificato:
> « Oggi vorrei riandare brevemente con il pensiero… »
Da questa e dalle sue precedenti riflessioni, è evidente che Benedetto XVI vede le Giornate Mondiali della Gioventù come un momento saliente della sua missione di successore di Pietro.
A una semplice osservazione esterna, questi ultimi raduni mondiali manifestano almeno tre caratteri distintivi e nuovi, che a Madrid sono apparsi con particolare visibilità.

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Il primo è il silenzio. Un silenzio prolungato, intensissimo, che cala nei momenti chiave, in una marea di giovani che fino a subito prima esplodevano di gioia festante.
La Via Crucis è uno di questi momenti. Un altro, ancor più impressionante, è quello dell’adorazione dell’ostia santa durante la veglia notturna. Un terzo è stato quello della comunione durante la messa conclusiva.
L’adorazione silenziosa dell’ostia santa è un’innovazione introdotta nelle Giornate Mondiali della Gioventù da Benedetto XVI. Il papa si inginocchia e con lui si inginocchiano sulla nuda terra centinaia di migliaia di giovani. Tutti protesi non al papa ma a quel « nostro pane quotidiano » che è Gesù.
Il violento scroscio temporalesco che a Madrid ha preceduto l’adorazione eucaristica, creando notevole scompiglio, ha reso ancor più impressionante l’irrompere di tale silenzio. E altrettanto è accaduto la mattina dopo, nella messa. L’inaspettata cancellazione della distribuzione della comunione – per non chiarite ragioni di sicurezza – non ha prodotto disordine e distrazione nella distesa sterminata dei giovani ma, al contrario, un silenzio di compostezza e intensità sorprendenti, una « comunione spirituale » di massa di cui non si ricordano precedenti.
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Un secondo carattere distintivo di quest’ultima Giornata Mondiale della Gioventù è l’età media molto bassa dei convenuti, 22 anni.
Questo significa che molti di essi vi hanno preso parte per la prima volta. Il loro papa è Benedetto XVI, non Giovanni Paolo II, che hanno conosciuto solo da bambini. Essi sono parte di una generazione di giovani e giovanissimi molto esposta a una cultura secolarizzata. Ma sono nello stesso tempo il segnale che le domande su Dio e i destini ultimi sono vive e presenti anche in questa generazione. E ciò che muove questi giovani sono proprio queste domande, alle quali un papa come Benedetto XVI offre risposte semplici eppure potentemente impegnative e attrattive.
I veterani delle Giornate Mondiali della Gioventù c’erano, a Madrid. Ma soprattutto tra le decine di migliaia di volontari che si sono prestati per l’organizzazione. O tra i numerosi sacerdoti e religiose che hanno accompagnato i giovani, e le cui vocazioni sono sbocciate proprio in precedenti Giornate Mondiali della Gioventù. È ormai assodato che questi appuntamenti sono un vivaio per le future leadership delle comunità cattoliche nel mondo.
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Un terzo carattere distintivo è la proiezione « ad extra » di questi giovani. A loro non interessano affatto le battaglie interne alla Chiesa per un suo ammodernamento al passo con i tempi. Sono lontani anni luce dal « cahier de doléances » di certi loro fratelli maggiori: per i preti sposati, per le donne prete, per la comunione ai divorziati risposati, per l’elezione popolare dei vescovi, per la democrazia nella Chiesa, eccetera eccetera.
Per loro, tutto questo è irrilevante. A loro basta essere cattolici come papa Benedetto fa vedere e capire. Senza diversivi, senza sconti. Se alto è il prezzo con il quale siamo stati salvati, il sangue di Cristo, alta dev’essere anche l’offerta di vita dei veri cristiani.
Non è la riorganizzazione interna della Chiesa, ma la passione di testimoniare la fede nel mondo a muovere questi giovani. Il papa glielo stava per dire con queste parole, nel discorso interrotto dal temporale:
« Cari amici, non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo nome in tutta la terra ».

A Madrid risplende una stella (di Sandro Magister)

dal sito:

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A Madrid risplende una stella

Ma la star non sono io, avverte il papa: « Io sono solamente vicario. Rimando all’Altro che sta in mezzo a noi ». Alla vigilia della Giornata Mondiale della Gioventù, Benedetto XVI spiega perché ci va

di Sandro Magister

ROMA, 9 agosto 2011 – La preparazione della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, alla quale Benedetto XVI interverrà, è entrata nella sua fase ultima e più febbrile.
Ma entrano nel vivo anche le domande sul perché di simili adunate di giovani attorno al papa.
Già col cambio di pontificato molti avevano pensato e detto che tali Giornate si addicessero meglio a Giovanni Paolo II che al suo successore.
Ma Benedetto XVI non le ha interrotte. Nè ha rinunciato ad andarvi. Questa di Madrid è ormai la terza Giornata Mondiale della Gioventù alla quale egli partecipa, dopo quella di Colonia del 2005 e quella di Sydney del 2008.
Anzi, non ha mancato di introdurre in esse delle novità. Da Colonia in poi l’adorazione silenziosa e prolungata dell’eucaristia. E a Madrid la confessione sacramentale di alcuni giovani, da parte del papa in persona.
Le obiezioni, comunque, non sono sparite. Anche in campo cattolico gli scettici continuano a essere numerosi. Ritengono che le Giornate Mondiali della Gioventù siano « una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale con il papa quale star », oppure « un grande spettacolo, anche bello, ma di poco significato per la domande sulla fede ».
A queste obiezioni Benedetto XVI non si è mai sottratto. Tant’è vero che le citazioni sopra riportate sono sue, testuali. Sintetizzare le critiche, per poi rispondervi, è nel suo stile.
L’ha fatto dopo la Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney, nel discorso che ha tenuto alla curia romana in occasione del Natale del 2008.
Oltre che in Australia, quell’anno papa Joseph Ratzinger si era recato negli Stati Uniti e in Francia. Qui, a Parigi, al Collège des Bernardins, aveva tenuto il 12 settembre il discorso forse più importante del suo pontificato, assieme a quello di Ratisbona.
Ebbene, riflettendo su questi suoi viaggi nel discorso alla curia romana, il papa disse che « il loro vero senso » è uno solo: « servire la presenza di Dio nell’attuale ora della storia ». Nei viaggi papali, infatti, « la Chiesa si rende pubblicamente percepibile, con essa la fede e perciò almeno la questione su Dio. Questo manifestarsi in pubblico della fede chiama in causa tutti coloro che cercano di capire il tempo presente e le forze che operano in esso ».
E subito dopo queste considerazioni, spiegò come egli vede le Giornate Mondiali della Gioventù.
Era la prima volta che rifletteva su di esse così a fondo e con parole così dirette.
Per capire con quale spirito papa Benedetto si recherà a Madrid, non resta che riascoltarlo.

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« UNA GIOIA CHE NON È PARAGONABILE CON L’ESTASI DI UN FESTIVAL ROCK »

di Benedetto XVI

[...] Il fenomeno delle Giornate Mondiali della Gioventù diventa sempre più oggetto di analisi, in cui si cerca di capire questa specie, per così dire, di cultura giovanile.
L’Australia mai prima aveva visto tanta gente da tutti i continenti come durante la Giornata Mondiale della Gioventù, neppure in occasione dell’Olimpiade. E se precedentemente c’era stato il timore che la comparsa in massa di giovani potesse comportare qualche disturbo dell’ordine pubblico, paralizzare il traffico, ostacolare la vita quotidiana, provocare violenza e dar spazio alla droga, tutto ciò si è dimostrato infondato.
È stata una festa della gioia, una gioia che infine ha coinvolto anche i riluttanti: alla fine nessuno si è sentito molestato. Le giornate sono diventate una festa per tutti, anzi solo allora ci si è veramente resi conto di che cosa sia una festa: un avvenimento in cui tutti sono, per così dire, fuori di sé, al di là di se stessi e proprio così con sé e con gli altri.
Qual è quindi la natura di ciò che succede in una Giornata Mondiale della Gioventù? Quali sono le forze che vi agiscono? Analisi in voga tendono a considerare queste giornate come una variante della moderna cultura giovanile, come una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale con il papa quale star. Con o senza la fede, questi festival sarebbero in fondo sempre la stessa cosa, e così si pensa di poter rimuovere la questione su Dio. Ci sono anche voci cattoliche che vanno in questa direzione valutando tutto ciò come un grande spettacolo, anche bello, ma di poco significato per la questione sulla fede e sulla presenza del Vangelo nel nostro tempo. Sarebbero momenti di una festosa estasi, che però in fin dei conti lascerebbero poi tutto come prima, senza influire in modo più profondo sulla vita.
Con ciò, tuttavia, la peculiarità di quelle giornate e il carattere particolare della loro gioia, della loro forza creatrice di comunione, non trovano alcuna spiegazione.
Anzitutto è importante tener conto del fatto che le Giornate Mondiali della Gioventù non consistono soltanto in quell’unica settimana in cui si rendono pubblicamente visibili al mondo. C’è un lungo cammino esteriore ed interiore che conduce ad esse. La croce, accompagnata dall’immagine della Madre del Signore, fa un pellegrinaggio attraverso i paesi. La fede, a modo suo, ha bisogno del vedere e del toccare. L’incontro con la croce, che viene toccata e portata, diventa un incontro interiore con colui che sulla croce è morto per noi. L’incontro con la croce suscita nell’intimo dei giovani la memoria di quel Dio che ha voluto farsi uomo e soffrire con noi. E vediamo la donna che egli ci ha dato come Madre.
Le Giornate solenni sono soltanto il culmine di un lungo cammino, col quale si va incontro gli uni agli altri e insieme si va incontro a Cristo. In Australia non per caso la lunga Via Crucis attraverso la città è diventata l’evento culminante di quelle giornate. Essa riassumeva ancora una volta tutto ciò che era accaduto negli anni precedenti ed indicava colui che riunisce insieme tutti noi: quel Dio che ci ama sino alla croce. Così anche il papa non è la star intorno alla quale gira il tutto. Egli è totalmente e solamente vicario. Rimanda all’Altro che sta in mezzo a noi.
Infine la liturgia solenne è il centro dell’insieme, perché in essa avviene ciò che noi non possiamo realizzare e di cui, tuttavia, siamo sempre in attesa. Lui è presente. Lui entra in mezzo a noi. È squarciato il cielo e questo rende luminosa la terra. È questo che rende lieta e aperta la vita e unisce gli uni con gli altri in una gioia che non è paragonabile con l’estasi di un festival rock. Friedrich Nietzsche ha detto una volta: “L’abilità non sta nell’organizzare una festa, ma nel trovare le persone capaci di trarne gioia”. Secondo la Scrittura, la gioia è frutto dello Spirito Santo (cfr. Galati 5, 22): questo frutto era abbondantemente percepibile nei giorni di Sydney.
Come un lungo cammino precede le Giornate Mondiali della Gioventù, così ne deriva anche il camminare successivo. Si formano delle amicizie che incoraggiano ad uno stile di vita diverso e lo sostengono dal di dentro. Le grandi Giornate hanno, non da ultimo, lo scopo di suscitare tali amicizie e di far sorgere in questo modo nel mondo luoghi di vita nella fede, che sono insieme luoghi di speranza e di carità vissuta. [...]

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Publié dans:GMG 2011, Sandro Magister |on 17 août, 2011 |Pas de commentaires »

Sei anni sulla cattedra di Pietro. Un’interpretazione (Sandro Magister)

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Sei anni sulla cattedra di Pietro. Un’interpretazione

Benedetto XVI maestro della parola, ma anche uomo di governo. Autore di nuove leggi in campo liturgico, finanziario, penale, ecumenico. Con un criterio guida: « riforma nella continuità »

di Sandro Magister
 

ROMA, 1 luglio 2011 – La festa dei santi Pietro e Paolo, « colonne » della Chiesa, è coincisa quest’anno con il sessantesimo anniversario dell’ordinazione di Benedetto XVI al sacerdozio.
Anche questa volta papa Joseph Ratzinger, nell’omelia della messa, ha insistito sulla missione di chi è chiamato a guidare la Chiesa come successore di Pietro.
Un motivo in più per tentare una interpretazione di questo pontificato, ormai entrato nel settimo anno, da un’angolatura particolare: quella del governo.
A una prima impressione, Benedetto XVI non sembra brillare come uomo di governo. Il disordine della curia vaticana ne è prova.
D’altra parte, però, il pontificato di papa Benedetto si caratterizza per una serie importante di provvedimenti normativi, tipici di un’azione di comando:
- nel 2007 il motu proprio « Summorum pontificum » sull’uso del messale romano di rito antico;
- nel 2009 la costituzione apostolica « Anglicanorum coetibus » sul passaggio alla Chiesa cattolica di comunità anglicane;
- nel 2010 le nuove norme sui « delicta graviora » e in particolare sugli abusi sessuali;
- ancora nel 2010 la creazione di un nuovo ufficio della curia romana: il pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione;
- sempre nel 2010 il motu proprio per la prevenzione dei reati finanziari in tutti gli istituti della Santa Sede o ad essa connessi;
- nel 2011 l’istruzione « Universæ Ecclesiæ » ad integrazione delle norme sulla messa in rito antico.
Si tratta di norme con elementi fortemente innovativi, alcune accolte da vivaci resistenze, tali da smentire per l’ennesima volta che Benedetto XVI sia un papa di pura conservazione dell’esistente.
Al contrario. Il criterio che più identifica questo pontificato sotto il profilo del governo è quello della « riforma nella continuità »: lo stesso criterio che egli ha adottato per interpretare le novità Concilio Vaticano II e in genere i cambiamenti nel magistero della Chiesa nel procedere della storia.
Su Benedetto XVI come « legislatore canonico » illustri studiosi del diritto – tra i quali l’arcivescovo Francesco Coccopalmerio, presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi – hanno recentemente tenuto un convegno nell’Università di Pavia, la città dove è sepolto sant’Agostino.
Ecco qui di seguito la relazione conclusiva, affidata a un non specialista.
Nella quale si tenta una lettura unitaria dell’azione normativa di papa Benedetto, alla luce della visione « bonaventuriana » che egli ha di se stesso come timoniere della barca di Pietro.
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BENEDETTO XVI LEGISLATORE CANONICO

L’ermeneutica della « riforma nella continuità ». Dal motu proprio “Summorum Pontificum” alla nuova evangelizzazione dell’Occidente

di Sandro Magister

Quella di « legislatore canonico » può sembrare una definizione sorprendente, applicata a Benedetto XVI. Eppure definisce un tratto essenziale del suo profilo, della sua visione su come governare la Chiesa.
Se la tempesta che da qualche decennio tormenta la Chiesa è dovuta a delle « rotture » rispetto alla sua tradizione e identità propria – come Benedetto XVI ha detto in ripetute occasioni, a partire del memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 sull’interpretazione del Concilio Vaticano II –, una di queste linee di rottura il papa la vede proprio sul terreno del diritto canonico.
L’ha scritto nella lettera aperta da lui indirizzata alla Chiesa d’Irlanda il 19 marzo 2010.
E l’ha spiegato con parole ancor più dirette nel libro-intervista « Luce del mondo » pubblicato alla fine del 2010:
« È interessante a questo proposito – ha risposto il papa a una domanda – quello che mi ha detto l’arcivescovo di Dublino. Diceva che il diritto penale canonico sino alla fine degli anni Cinquanta ha funzionato; certo, non era perfetto – in molti punti lo si potrebbe criticare – ma in ogni caso veniva applicato. A partire dagli anni Sessanta semplicemente non è stato più applicato. Dominava la convinzione che la Chiesa non dovesse essere una Chiesa del diritto, ma una Chiesa dell’amore; che non dovesse punire. [...] In quell’epoca anche persone molto valide hanno subito uno strano oscuramento del pensiero, [...] per cui è subentrato un oscuramento del diritto e della necessità della pena. E in fin dei conti anche un restringimento del concetto di amore, che non è soltanto gentilezza e cortesia, ma che è amore nella verità ».
Pochi giorni prima della lettera alla Chiesa d’Irlanda, il 10 marzo 2010, in un’udienza generale del mercoledì, Benedetto XVI ha sviluppato più a fondo la sua lettura della vicenda della Chiesa negli ultimi decenni.
Quell’udienza il papa la dedicò a san Bonaventura, uno dei tre santi da lui personalmente più amati assieme ad Agostino e a Tommaso d’Aquino: il santo sul quale da giovane pubblicò la tesi di dottorato, sulla sua teologia della storia messa a confronto con quella influentissima di Gioacchino da Fiore.
Secondo Gioacchino da Fiore, dopo le età del Padre e del Figlio, quest’ultima coincidente col tempo della Chiesa, era imminente l’alba di una terza e ultima età del mondo, quella dello Spirito Santo: un’era di piena libertà, con una nuova Chiesa spirituale senza più gerarchia né dogmi, un’era di pace definitiva tra gli uomini, di riconciliazione dei popoli e delle religioni.
Dallo spiritualismo all’anarchia il passo è breve, spiegò Benedetto XVI in quell’udienza. E san Bonaventura, nel suo tempo, faticò non poco per arginare questa deriva, molto presente nel suo ordine francescano.
Ma anche oggi, proseguì il papa, riaffiora nella Chiesa questo « utopismo spiritualista »:
« Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa preconciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente ‘altra’. Un utopismo anarchico! Ma grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa ».
Novità e continuità. Perché non è vero che la Chiesa di Dio debba essere « immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa ». Il papa citò di nuovo san Bonaventura: « Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt », le opere di Cristo non vanno a ritroso, non si consumano, ma avanzano e progrediscono. Assicurano « novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia ».
Basta questo per capire che papa Joseph Ratzinger non è affatto un custode della tradizione e basta. La sua visione della Chiesa è dinamica. Non teme di usare la parola « riforma » per definire la sua ermeneutica del Concilio Vaticano II.
È ciò che ha fatto in quel discorso capitale che rivolse alla curia romana il 22 dicembre 2005, vigilia del suo primo Natale da papa.
“Il Concilio Vaticano II – disse in quell’occasione Benedetto XVI –, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi ».
La discontinuità solamente “apparente” di cui parla il papa si riferisce precisamente alla “intima natura” della Chiesa e alla “sua vera identità”, che sono rimaste intatte, dice, nonostante le correzioni fatte dal Vaticano II di “alcune decisioni storiche” della Chiesa stessa.
Nello stesso tempo però – disse Benedetto XVI sempre in quel discorso – accanto a questa discontinuità solamente « apparente » vi è stata anche una discontinuità vera, almeno in un caso, tra il Concilio e il magistero precedente dei papi.
Il caso che papa Ratzinger citò e analizzò è quello della libertà religiosa, affermata dalla dichiarazione « Dignitatis humanae ». Lì la discontinuità con il magistero dei papi tra l’Ottocento e il Novecento è incontestabile. La « Dignitatis humanae » afferma e proclama ciò che l’enciclica « Quanta cura » di Pio IX del 1864, con il relativo « Syllabus errorum », aveva rifiutato e condannato.
Tale discontinuità tuttavia, ha spiegato Benedetto XVI, riguarda non la natura e l’identità della Chiesa ma la concezione dello Stato e dei suoi rapporti con le religioni. Il soggetto Chiesa, anzi, esce da questo cambiamento ancora più nitido e luminoso, poiché, dice il papa, il Vaticano II, « riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa ». Si è cioè rimesso « in piena sintonia » non solo con l’insegnamento di Gesù sulla distinzione tra Dio e Cesare, ma « anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi », poiché essi sono morti proprio « per la libertà di professione della propria fede: una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza ».
Questa innovazione del Concilio fu vista comunque da molti, durante l’assise e dopo, come una rottura rispetto alla tradizione della Chiesa. Con grande giubilo per chi vedeva nel Vaticano II un radioso « nuovo inizio » epocale ed ecclesiale. Con grande costernazione per chi vi vedeva un nefasto abbandono della retta dottrina.
E la tentazione era facile per entrambe le parti. Benedetto XVI, sempre nel discorso del 22 dicembre 2005, riconobbe che in effetti, « se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo », allora essa può dar luogo all’idea – inaccettabile – che tutte le religioni hanno pari valore e che la propagazione missionaria della fede cattolica non abbia più ragione d’essere.
Idea non priva di ripercussioni gravi sulla vita della Chiesa, se Giovanni Paolo II si sentì in dovere nel 1990 di dedicare un’enciclica, la « Redemptoris missio », all’osservanza del mandato di Gesù a far discepoli e a battezzare tutti i popoli, e se nel 2000 lo stesso papa, con l’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cardinale Ratzinger, si sentì in obbligo di ribadire, con la dichiarazione « Dominus Iesus », che il Signore Gesù è l’unico salvatore di tutti gli uomini.
Da successore di Pietro, Ratzinger ha proseguito con decisione su questa strada. Ha detto e argomentato senza posa che il riconoscimento da parte della Chiesa della libertà per ogni cittadino di ogni Stato del mondo di osservare la religione che considera in coscienza quella vera, e di propagarla, non è in contraddizione con la natura missionaria della Chiesa e con la fede che solo Gesù è « la via, la verità, la vita ». Questo riconoscimento della libertà religiosa stimola però i cristiani a pensare nel modo più genuino la loro stessa azione missionaria, consapevoli che la professione della fede in Cristo « da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza ».
E quindi, proseguì Benedetto XVI sempre in quello straordinario discorso del 22 dicembre 2005:
« Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano: una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l’unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli ».
La « nuova evangelizzazione » voluta da Benedetto XVI ha questo di moderno: essa definitivamente si spoglia di ogni braccio secolare, di ogni tipo di imposizione anche sofisticata e lieve, in ciò perfettamente in linea con le moderne concezioni liberali di cittadinanza, e affida la verità a ogni uomo « solo mediante il processo del convincimento ».
Ma nello stesso tempo la « nuova evangelizzazione » di papa Benedetto riprende e rinvigorisce i tratti originari del mandato di Gesù ai discepoli. Perché questa cos’è se non la pedagogia di Dio dall’Antico al Nuovo Testamento? E cos’è se non lo stile di Gesù, nella sua predicazione del Regno? E cos’è se non il dialogo degli autori biblici e poi dei Padri della Chiesa con la sapienza dei filosofi greci e le profezie delle Sibille? E cos’è se non l’innesto dell’arte cristiana sulla classicità?
La lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006 è l’altro discorso capitale del pontificato di Benedetto XVI, in perfetta continuità con quello fin qui citato. Il meglio del pensiero greco « è parte integrante della fede cristiana », affermò il papa in quell’università dei saperi nella quale aveva insegnato. Il « logos » umano è il riflesso del « Logos » eterno. Quindi anche nell’uomo più lontano da Dio mai si spegne questo lume razionale che a Dio rimanda. Delle ragioni della fede, l’annuncio del cristianesimo non deve e non può fare a meno. Ancor più in un mondo come quello di oggi e in una regione come l’Europa, alla quale il cristianesimo ha dato l’impronta ma che dal cristianesimo si è ampiamente allontanata.
Un aspetto, non l’unico, della « nuova evangelizzazione » di Benedetto XVI è quello che egli ha chiamato il « cortile dei gentili ». L’ha annunciato alla fine del 2009 dopo aver visitato Praga, capitale di una delle regioni d’Europa più scristianizzate. E l’ha voluto per quelle « persone che conoscono Dio soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il ‘Dio ignoto’ ».
L’immagine del « cortile dei gentili », il cortile esterno del tempio di Gerusalemme, per i « timorati di Dio », non israeliti, che non potevano prendere parte al culto mosaico ma lo avvicinavano nella preghiera, porta a un altro grande asse del pontificato di Benedetto XVI, anch’esso in equilibrio tra novità e continuità: l’asse della liturgia.
Che il Concilio Vaticano II abbia dedicato al tema della liturgia il suo esordio e il suo primo documento « si rivelò come la cosa anche intrinsecamente più giusta », ha scritto papa Ratzinger nella prefazione al primo volume, volutamente tutto liturgico, della sua « opera omnia ». Perché Dio è la priorità assoluta. Perché l’ortodossia della fede, come dice l’etimologia della parola, è « doxa », è glorificazione di Dio. E quindi il modo giusto dell’adorazione è la vera misura della fede: « lex orandi, lex credendi ».
Per questa stessa ragione, Ratzinger ha più volte sostenuto che la crisi della Chiesa degli ultimi decenni ha origine da sbandamenti proprio nel campo della liturgia, e in particolare dall’opinione diffusa che la nuova liturgia prodotta dalle riforme conciliari abbia segnato una cesura radicale con la liturgia precedente.
In effetti, le variazioni introdotte nella liturgia a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno qua e là marcato un’evidente rottura col passato. Alla messa intesa soprattutto come sacrificio di redenzione e celebrata « rivolti al Signore » si è sostituita una messa come pasto fraterno, su un altare a forma di tavolo avvicinato il più possibile ai fedeli. Alla liturgia come « opus Dei » si è sostituita una dinamica assembleare con la comunità come protagonista.
In alcuni luoghi e momenti queste variazioni si sono spinte all’estremo. Un caso esemplare è quello illustrato dall’opuscolo « Kerk en Ambt », Chiesa e ministero, distribuito nel 2007 nelle parrocchie olandesi a cura dei domenicani di quella nazione. Nel quale si proponeva di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si praticava e si pratica: la messa presieduta indifferentemente da un sacerdote o da un laico, « non importa se uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe ». Con le parole dell’istituzione eucaristica pronunciate dall’uno o dall’altro dei presenti, designati « dal basso », o anche dall’insieme dell’assemblea e liberamente sostituite da « espressioni più facili da capire e più in sintonia con la moderna esperienza di fede ».
Non sorprende quindi che Benedetto XVI abbia fornito questa descrizione allarmata dello sbandamento liturgico seguito al Concilio, in una lettera indirizzata ai vescovi di tutto il mondo in quello stesso 2007:
« In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa ».
La lettera ora citata è quella con cui Benedetto XVI ha accompagnato la promulgazione del motu proprio « Summorum Pontificum » del 7 luglio 2007, col quale ha liberalizzato la celebrazione della messa secondo il messale del 1962, quello antecedente il Vaticano II, peraltro pacificamente usato durante tutta l’assise conciliare.
Il proposito di Benedetto XVI, espresso nella lettera, è che le due forme del rito romano, l’antica e la moderna, convivendo « possono arricchirsi a vicenda ».
In particolare, l’auspicio del papa è che « nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso ».
Il che è precisamente ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito « moderno » ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.
Nell’istruzione « Universæ Ecclesiæ » diffusa lo scorso 13 maggio, a ulteriore precisazione e applicazione del motu proprio « Summorum Pontificum », è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:
« Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso ».
E viceversa – ribadisce l’istruzione « Universæ Ecclesiæ » – i fedeli che celebrano la messa in rito antico « non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria ».
Si capisce chiaramente, da queste citazioni, che la « riforma nella continuità » è anche in campo liturgico il criterio ermeneutico con cui Benedetto XVI vuole guidare la Chiesa fuori dall’attuale crisi.
La contrastata accoglienza che hanno registrato nella Chiesa sia il motu proprio che la successiva istruzione sono la prova di quanto sia serio e urgente il proposito di Benedetto XVI.
In campo liturgico, infatti, l’ermeneutica della rottura è pane quotidiano, tuttora, sia di quei tradizionalisti che vedono nel nuovo rito della messa l’affiorare di elementi eretici, sia dei progressisti che vedono nella liberalizzazione del rito antico il rinnegamento del « nuovo inizio » ecclesiale inaugurato dal Vaticano II.
Tra i liturgisti, quest’ultima opinione è molto presente. Per loro, la forma moderna del rito ha soppiantato l’antica e non può sopportare che questa persista. Ne è prova recente la « vis » polemica con cui Andrea Grillo, liturgista, professore alla facoltà teologica di Sant’Anselmo, ha reagito a PierAngelo Sequeri, teologo, colpevole quest’ultimo di aver difeso la « lezione di stile cattolico » impartita da Benedetto XVI col ridare « ospitalità ecclesiale » alla forma antica del rito romano.
Aveva scritto Sequeri, sulla prima pagina di « Avvenire » del 14 maggio:
« Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene – e dove ci porta – questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure? ».
Il proposito di Benedetto XVI – lo si sa e l’ha ribadito il 14 maggio il cardinale Kurt Koch, presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, in un convegno romano sul motu proprio « Summorum Pontificum » – non è infatti quello di far convivere indefinitamente le due forme del rito, la moderna e l’antica. In futuro, la Chiesa avrà di nuovo un suo rito romano unico. Ma il cammino che il papa vede davanti per integrare le due forme attuali del rito è lungo e difficoltoso. Ed esige la nascita di un nuovo movimento liturgico di qualità alta come quello che preparò il Concilio Vaticano II e al quale lo stesso Ratzinger attinse, il movimento liturgico di Guardini e di Jungmann, di Casel e di Vagaggini, di Bouyer e di Daniélou, di quei grandi che non a caso furono anche critici severi degli sviluppi liturgici postconciliari.
Come la liturgia è stata in questi decenni il campo delle più evidenti rotture tra il presente della Chiesa e la tradizione, così l’ermeneutica della « riforma nella continuità » ha nella liturgia, con Benedetto XVI, il suo più drammatico terreno di prova.

Pavia, 21 maggio 2011

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sandro Magister |on 7 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

« Discese agli inferi ». La sorpresa di Pasqua (di Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347627

« Discese agli inferi ». La sorpresa di Pasqua

Nel cuore della Settimana Santa, il fuori programma di Benedetto XVI in tv. Con due risposte insolite su Gesù risorto. I brani salienti delle sue omelie del triduo sacro

di Sandro Magister

ROMA, 24 aprile 2011 – Nel mezzo delle celebrazioni della Settimana Santa, quest’anno Benedetto XVI ha inserito un fuori programma. Proprio nel primo pomeriggio del Venerdì, nell’ora della morte di Gesù.
A quell’ora, sul primo canale della tv di stato italiana, all’interno di una trasmissione dal titolo « A sua immagine », con un milione e mezzo di ascoltatori, papa Joseph Ratzinger ha risposto a sette domande che gli sono state rivolte da persone di paesi diversi, su temi tutti cruciali.
Una bambina gli ha chiesto dal Giappone il perché del terremoto.
Una madre gli ha chiesto dall’Italia se l’anima ha già abbandonato il corpo di suo figlio da due anni in stato vegetativo.
Tre giovani di Baghdad hanno chiesto al papa che fare, con le aggressioni che colpiscono i cristiani.
Una musulmana gli ha chiesto dalla Costa d’Avorio come riportare la pace e l’armonia tra cristiani e islamici.
Le risposte del papa a queste prime quattro domande sono state le più rilanciate dai media.
Ma anche le tre sue successive risposte meritano attenzione. Le prime due – riprodotte integralmente più sotto – toccano temi che stanno particolarmente a cuore a Benedetto XVI, anche perché troppo trascurati dalla predicazione corrente, negli ultimi decenni.
Sono i temi delle realtà ultime della vita di ogni uomo – i cosiddetti « novissimi » – avvicinate e spiegate alla luce di Gesù morto e risorto.
A questi stessi temi Benedetto XVI ha dedicato un’ampia parte della « Spe salvi », la più originale delle sue encicliche, interamente scritta di suo pugno. Ma non solo. Vi è tornato sopra in ripetute occasioni. Ad esempio in un’udienza generale, quella di mercoledì 12 gennaio 2011, dedicata al purgatorio.
Questa volta, nelle sue risposte televisive di questo Venerdì Santo, il papa ha focalizzato l’attenzione su Gesù « disceso agli inferi » – che per le Chiese d’oriente è il modo di raffigurare la sua risurrezione, come mostra l’icona russa riprodotta in questa pagina – e sul suo corpo risorto e « glorioso ».
Nello stesso tempo, però, il papa ha evidenziato gli effetti che la risurrezione di Gesù ha sugli uomini. Sui loro destini ultimi come sul loro cammino terreno.
Su questa terra – spiega Benedetto XVI – è l’eucaristia che mette i cristiani in contatto vitale col corpo glorioso di Gesù. Lì il mondo nuovo della risurrezione è già cominciato.

*
Con quest’ultima intervista televisiva, Benedetto XVI ha ulteriormente ampliato i suoi stili comunicativi. Che comprendono pronunciamenti magisteriali, discorsi ufficiali, encicliche, esortazioni, lettere aperte, saggi di teologia, lezioni sui Padri della Chiesa, vite di santi, commenti alle Sacre Scritture…
E poi: un libro su Gesù in tre tomi e un altro libro in forma di intervista.
E ancora: incontri a domande e risposte con i preti, con i giovani, con i bambini, conferenze stampa, interviste, filmati, e ora anche questo primo botta e risposta televisivo.
Benedetto XVI è il papa della parola. È quindi naturale che il suo parlare e scrivere assuma queste forme molteplici. Comprese quelle che gli consentono di raggiungere i suoi ascoltatori e lettori in modo diretto, senza intermediazioni.
Se c’è però una parola che svetta sopra tutte, per lui, è quella delle omelie. Perché nella liturgia la parola si fa realtà e « il Verbo si fa carne ».
Non deve quindi stupire che Benedetto XVI dedichi alle omelie una cura senza pari.
Come si è potuto notare anche in quest’ultima Settimana Santa. Di cui
www.chiesa ha già anticipato alcuni spunti. E altri ne dà in questa stessa pagina, più sotto.

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DALL’INTERVISTA DI BENEDETTO XVI ALLA TV ITALIANA

Venerdì 22 aprile 2011

D. – Santità, che cosa fa Gesù nel lasso di tempo tra la morte e la risurrezione? E visto che nella recita del Credo si dice che Gesù, dopo la morte, « discese agli inferi », possiamo pensare che sarà una cosa che accadrà anche a noi, dopo la morte, prima di salire al Cielo?

R. – Innanzitutto, questa discesa dell’anima di Gesù non si deve immaginare come un viaggio geografico, locale, da un continente all’altro. È un viaggio dell’anima. Dobbiamo tener presente che l’anima di Gesù tocca sempre il Padre, è sempre in contatto con il Padre, ma nello stesso tempo quest’anima umana si estende fino agli ultimi confini dell’essere umano. In questo senso va in profondità, va ai perduti, va a tutti quanti non sono arrivati alla meta della loro vita, e trascende così i continenti del passato.
Questa parola della discesa del Signore agli inferi vuol soprattutto dire che anche il passato è raggiunto da Gesù, che l’efficacia della redenzione non comincia nell’anno zero o trenta, ma va anche al passato, abbraccia il passato, tutti gli uomini di tutti i tempi.
I Padri dicono, con un’immagine molto bella, che Gesù prende per mano Adamo ed Eva, cioè l’umanità, e la guida avanti, la guida in alto. E crea così l’accesso a Dio, perché l’uomo, di per sé, non può arrivare fino all’altezza di Dio. Lui stesso, essendo uomo, prendendo in mano l’uomo, apre l’accesso, apre cosa?, la realtà che noi chiamiamo « cielo ». Quindi questa discesa agli inferi, cioè nelle profondità dell’essere umano, nelle profondità del passato dell’umanità, è una parte essenziale della missione di Gesù, della sua missione di redentore, e non si applica a noi. La nostra vita è diversa, noi siamo già redenti dal Signore e noi arriviamo davanti al volto del Giudice, dopo la nostra morte, sotto lo sguardo di Gesù, e questo sguardo da una parte sarà purificante. Penso che tutti noi, in maggiore o minore misura, avremo bisogno di purificazione. Lo sguardo di Gesù ci purifica e poi ci rende capaci di vivere con Dio, di vivere con i santi, di vivere soprattutto in comunione con i nostri cari che ci hanno preceduto.
D. – Santità, quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire? Cosa significa, esattamente, corpo glorioso? E la risurrezione sarà per noi così?
R. – Naturalmente, non possiamo definire il corpo glorioso, perché sta oltre le nostre esperienze. Possiamo solo registrare i segni che Gesù ci ha dato per capire almeno un po’ in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà.
Primo segno: la tomba è vuota. Cioè, Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta. Gesù ha preso anche la materia con sé, e così la materia ha anche la promessa dell’eternità.
Ma poi ha assunto questa materia in una nuova condizione di vita, questo è il secondo punto: Gesù non muore più, cioè sta sopra le leggi della biologia, della fisica, perché sottomesso a queste uno muore. Quindi c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra nel fatto di Gesù, ed è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino. E, essendo in queste condizioni, Gesù ha la possibilità di farsi palpare, di dare la mano ai suoi, di mangiare con i suoi, ma tuttavia sta sopra le condizioni della vita biologica, come noi la viviamo. E sappiamo che, da una parte, è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa.
È importante capire questo, almeno quanto si può, per l’eucaristia. Nell’eucaristia il Signore ci dona il suo corpo glorioso, non ci dona carne da mangiare nel senso della biologia, ci dà se stesso. Questa novità che lui è entra nel nostro essere uomini, nel nostro, nel mio essere persona, come persona, e ci tocca interiormente con il suo essere, così che possiamo lasciarci penetrare dalla sua presenza, trasformare nella sua presenza. È un punto importante, perché così siamo già in contatto con questa nuova vita, questo nuovo tipo di vita, essendo lui entrato in me, e io sono uscito da me e mi estendo verso una nuova dimensione di vita.
Io penso che questo aspetto della promessa, della realtà che lui si dà a me e mi tira fuori da me, in alto, è il punto più importante: non si tratta di registrare cose che non possiamo capire, ma di essere in cammino verso la novità che comincia, sempre, di nuovo, nell’eucaristia.

Publié dans:Sandro Magister |on 16 mai, 2011 |Pas de commentaires »

« Lectio divina ». Il papa riporta tutti a scuola (Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347134

« Lectio divina ». Il papa riporta tutti a scuola

Ai parroci di Roma Benedetto XVI ha insegnato come si leggono le Sacre Scritture. E così ai seminaristi. Ma la sua lezione è per tutti. E l’ha messa in pratica nel suo libro su Gesù

di Sandro Magister

ROMA, 17 marzo 2011 – Nel secondo volume di « Gesù di Nazaret », come già nel primo, Benedetto XVI propone una lettura dei Vangeli non solamente storico-critica, né soltanto spirituale, ma storica e teologica insieme: l’unica lettura a suo giudizio capace di far incontrare il Gesù « reale ».
« Si tratta di riprendere finalmente – scrive nella prefazione del libro – i principi metodologici per l’esegesi formulati dal Concilio Vaticano II in ‘Dei Verbum’ 12. Un compito finora purtroppo quasi per nulla affrontato ».
Questi principi, papa Joseph Ratzinger li aveva richiamati con forza intervenendo al sinodo dei vescovi del 2008, dedicato proprio alla lettura delle Sacre Scritture.
E li ha ribaditi nell’esortazione apostolica postsinodale « Verbum Domini », diffusa lo scorso anno a consuntivo di quel sinodo.
Benedetto XVI ha talmente a cuore questo tipo di lettura delle Sacre Scritture che lo adotta sempre più di frequente anche negli incontri che ha con i sacerdoti e i seminaristi.
Nei giorni scorsi l’ha fatto due volte: il 4 marzo con gli studenti del Pontificio Seminario Romano e il 10 marzo con i preti della diocesi di Roma.
Papa Ratzinger usa riunire attorno a sé i preti di Roma ad ogni inizio di Quaresima. Negli anni passati aveva risposto alle loro domande. Quest’anno, invece, ha tenuto loro una « lectio divina », a commento di un passo degli Atti degli Apostoli.
Che cosa sia una « lectio divina », Benedetto XVI l’ha rispiegato nella « Verbum Domini ». È una « lettura orante » delle Sacre Scritture che si compone di quattro momenti fondamentali:

– la « lectio »: che cosa dice il testo biblico in sé;
– la « meditatio »: che cosa dice il testo biblico a noi;
– la « oratio »: che cosa diciamo noi a Dio in risposta alla sua Parola;
– la « contemplatio »: la conversione della mente, del cuore e della vita che Dio chiede a noi.

Agli studenti del Pontificio Seminario Romano, cioè ai futuri nuovi sacerdoti della diocesi di Roma, incontrati la sera del 4 marzo, Benedetto XVI ha tenuto una « lectio divina » su un passo del capitolo 4 della lettera di Paolo agli Efesini.
Il papa si è soffermato su alcune parole chiave, nella loro lingua originale: la chiamata (che in greco, ha detto, ha la stessa radice del « Paraclito », lo Spirito Santo), l’umiltà (la stessa parola greca che san Paolo adopera per indicare l’abbassamento del Figlio di Dio fino a farsi uomo e a morire sulla croce), la dolcezza (la stessa parola greca che si ritrova nelle Beatitudini).

Il testo integrale della « lectio divina » del papa con i seminaristi di Roma è ora nel sito del Vaticano, in più lingue:

> « Sono molto felice di essere qui… »

Ai preti di Roma, invece, papa Ratzinger ha commentato il cosiddetto « testamento pastorale » di san Paolo, il suo commovente discorso d’addio ai cristiani di Efeso e di Mileto, riportato negli Atti degli Apostoli al capitolo 20.
La « lectio » è stata tenuta nell’Aula della Benedizione, dietro la fronte superiore della basilica di San Pietro, quella da cui i papi si affacciano dopo che sono stati eletti e per le benedizioni solenni.
Benedetto XVI ha parlato per oltre un’ora, a braccio, con davanti semplicemente un foglio con degli appunti.
La trascrizione, con i necessari controlli, ha quindi richiesto tempo. E così, quando è stata resa pubblica, era ormai ritenuta dai media troppo « vecchia » per fare notizia.
Di conseguenza quasi nessuno, oltre i sacerdoti presenti, ne ha saputo qualcosa.
Eppure la « lectio divina » tenuta nell’occasione dal papa è di quelle che meritano di essere lette e gustate per intero. È un esempio di prim’ordine di aderenza sia alla lettera che allo spirito delle Sacre Scritture, sulla scia di Origene, Ambrogio, Agostino, Gregorio, dei Padri della Chiesa e dei grandi teologi medievali. Con un’attenzione viva alle sfide del tempo presente e all’incidenza della Parola di Dio sulla nostra vita.

Eccone qui di seguito alcuni passaggi, con lo stile tipico del linguaggio parlato.
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« NON UN CRISTIANESIMO ‘À LA CARTE’, SECONDO I PROPRI GUSTI… »

di Benedetto XVI

Cari fratelli, [...] abbiamo ascoltato il brano degli Atti degli Apostoli (20, 17-38), nel quale san Paolo parla ai presbiteri di Efeso, raccontato volutamente da san Luca come testamento dell’apostolo, come discorso destinato non solo ai presbiteri di Efeso, ma ai presbiteri di ogni tempo. San Paolo parla non solo con coloro che erano presenti in quel luogo, egli parla realmente con noi. Cerchiamo quindi di capire un po’ quanto dice a noi, in quest’ora. [...]
“Ho servito il Signore con tutta umiltà” (v. 19). “Umiltà” è una parola-chiave del Vangelo, di tutto il Nuovo Testamento. [...] Nella lettera ai Filippesi, san Paolo ci ricorda che Cristo, il quale era sopra a noi tutti, era realmente divino nella gloria di Dio, si è umiliato, è sceso facendosi uomo, accettando tutta la fragilità dell’essere umano, andando fino all’obbedienza ultima della croce (2, 5-8). Umiltà non vuol dire una falsa modestia – siamo grati per i doni che il Signore ci ha dato –, ma indica che siamo consapevoli che tutto quanto possiamo fare è dono di Dio, è donato per il Regno di Dio. In questa umiltà, in questo non voler apparire, noi lavoriamo. Non chiediamo lode, non vogliamo “farci vedere”, non è per noi criterio decisivo pensare a che cosa diranno di noi sui giornali o altrove, ma che cosa dice Dio. Questa è la vera umiltà: non apparire davanti agli uomini, ma stare sotto lo sguardo di Dio e lavorare con umiltà per Dio, e così realmente servire anche l’umanità e gli uomini.
“Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi” (v. 20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: “Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio” (v. 27). Questo è importante: l’apostolo non predica un cristianesimo “à la carte”, secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto.
È la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità. [...] E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto. [...] Questa curiosità dovrebbe essere anche la nostra: [...] di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita. Quindi dovremmo far conoscere e capire – per quanto possiamo – il contenuto del « Credo » della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera – le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica – indicano questa totalità della volontà di Dio.
E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Entrare in questa semplicità – io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà – ha dei contenuti e, a seconda delle situazioni, possiamo poi entrare nei dettagli o meno, ma è essenziale che si faccia capire anzitutto la semplicità ultima della fede. Credere in Dio come si è mostrato in Cristo è anche la ricchezza interiore di questa fede, dà le risposte alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada. Quando entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.
Poi l’apostolo dice: “Ho predicato in pubblico e nelle case, testimoniando a giudei e greci la conversione a Dio e la fede nel Signore Nostro Gesù” (v. 20-21). Qui c’è un riassunto dell’essenziale: conversione a Dio, fede in Gesù. Ma rimaniamo un attimo sulla parola “conversione”, che è la parola centrale o una delle parole centrali del Nuovo Testamento, [...] in greco “metànoia”, cambiamento del pensiero, [...] cioè reale cambiamento della nostra visione della realtà.
Siccome siamo nati nel peccato originale, per noi realtà sono le cose che possiamo toccare, sono i soldi, sono la mia posizione, sono le cose di ogni giorno che vediamo nel telegiornale: questa è la realtà. E le cose spirituali appaiono un po’ dietro la realtà. “Metànoia”, cambiamento del pensiero, vuol dire invertire questa impressione. Non le cose materiali, non i soldi, non l’edificio, non quanto posso avere è l’essenziale, è la realtà. La realtà delle realtà è Dio. Questa realtà invisibile, apparentemente lontana da noi, è la realtà.
Imparare questo, e così invertire il nostro pensiero, giudicare veramente come il reale che deve orientare tutto è Dio, questo è la parola di Dio. Questo è il criterio, Dio, il criterio di tutto quanto faccio. Questo realmente è conversione: se il mio concetto di realtà è cambiato, se il mio pensiero è cambiato. E questo deve poi penetrare tutte le singole cose della mia vita: nel giudizio di ogni singola cosa prendere come criterio che cosa dice Dio su questo. Questa è la cosa essenziale, non quanto ricavo adesso per me, non il vantaggio o lo svantaggio che avrò, ma la vera realtà, orientarci a questa realtà.
Dobbiamo proprio – mi sembra – nella Quaresima, che è cammino di conversione, esercitare ogni anno di nuovo questa inversione del concetto di realtà, cioè che Dio è la realtà, Cristo è la realtà e il criterio del mio agire e del mio pensare; esercitare questo nuovo orientamento della nostra vita.

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La trascrizione integrale della « lectio divina » tenuta da Benedetto XVI ai preti di Roma, il 10 marzo 2011:

> « È per me una grande gioia… »

Il nuovo politeismo e i suoi idoli tentatori (Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1345887

Il nuovo politeismo e i suoi idoli tentatori

Benedetto XVI lancia l’allarme. La dimenticanza dell’unico Dio apre lo spazio a un mondo dominato da una pluralità di nuovi dèi dal volto seducente. Viaggio tra i cultori del moderno paganesimo

di Sandro Magister

ROMA, 9 dicembre 2010 – « Politeismo »: questa parola è balenata come un lampo, lo scorso ottobre, in un discorso di Benedetto XVI al sinodo dei vescovi del Medio Oriente, cioè proprio la terra natale dell’unico Dio fatto uomo, Gesù, e dei più potenti monoteismi della storia, quello ebraico, quello musulmano.
« Credo in unum Deum » è il poderoso accordo da cui ha principio la dottrina cristiana. Ma per Joseph Ratzinger, papa teologo, il politeismo è tutt’altro che morto. È la sfida perenne che anche oggi si erge contro le fedi nell’unico Dio.
« Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi », proseguì il papa nel sinodo. I capitali anonimi, la violenza terroristica, la droga, la tirannia dell’opinione pubblica sono le moderne divinità che schiavizzano l’uomo. Devono cadere. Devono essere fatte cadere. La caduta degli dèi è l’imperativo di ieri, di oggi, di sempre dei credenti nell’unico Dio vero.
Ma il politeismo di oggi non è solo fatto di potenze oscure. I suoi molti dèi hanno anche volto benevolo e capacità di seduzione.
È la « gaia scienza » vaticinata da Nietzsche più di un secolo fa, che offre a ogni singolo uomo « il più grande vantaggio »: quello di « erigere il suo proprio ideale e derivare da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti ».
È il trionfo del libero arbitrio individuale, senza più il giogo di una tavola della legge, una sola per tutti perché scritta da un unico intrattabile Dio.
Quell’ammirazione per il « Genio del cristianesimo » che aveva infiammato Chateaubriand e i romantici cede oggi il passo a una riscoperta entusiasta del « Genio del paganesimo », titolo di un’operetta dell’antropologo francese Marc Augé.
In Italia un altro antropologo, Francesco Remotti, si scaglia contro « L’ossessione identitaria », titolo del suo ultimo libro, e rimprovera il papa, in un altro suo libro in forma di lettera, per il suo ostinato procedere « contro natura », contro una modernità che fa invece gustare le meraviglie del politeismo, così liquido, pluralista, tollerante, liberatorio.

LO « SPIRITO DI ASSISI »
Certo, l’attuale reviviscenza del politeismo non riporta in voga i culti a Giove e a Giunone, a Venere e a Marte. Ma la filosofia dei pagani colti dell’impero di Roma riaffiora intatta nei ragionamenti di tanti moderni fautori del « pensiero debole ». E non solo di questi. Chi oggi rilegge, sedici secoli dopo, la disputa tra il monoteista Ambrogio, il santo patrono di Milano, e il politeista Simmaco, senatore della Roma pagana, è fortemente tentato di dare ragione al secondo, quando dice: « Che cosa importa per quale via ciascuno ricerchi, secondo il proprio giudizio, la verità? Non per una sola strada si può giungere a un così grande mistero ».
La magnanima parità tra tutte le religioni e gli dèi che queste parole sembrano ispirare incanta anche molti cristiani. Lo « spirito di Assisi » nato dall’adunanza multireligiosa che là si tenne nel 1986 ha così contagiato il diffuso sentire che nel 2000 la Chiesa di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinale Joseph Ratzinger si sentì in dovere di ricordare ai cattolici che di salvatore dell’umanità ce n’è uno solo, ed è il Dio fatto uomo in Gesù: una verità su cui l’intero Nuovo Testamento sta o cade, una verità che in due millenni mai la Chiesa aveva sentito la necessità di ribadire con un pronunciamento « ad hoc ». Eppure, quella dichiarazione del 2000, la « Dominus Iesus », fu accolta da un fuoco di fila di proteste, dentro la Chiesa e fuori, per la sua esclusione di una pluralità di vie di salvezza tutte in sé sufficienti e piene di grazia e verità.
Che in questi sentimenti si annidi la nostalgia per una pluralità di dèi è possibile, ma l’odierno politeismo, a livello di massa, è più sfumato.
L’idea corrente è che le varie religioni siano a loro modo tutte espressione di un « divino ». E tuttavia questa divinità somma, come già spiegava ad Ambrogio il pagano Simmaco, è inconoscibile e lontana, troppo lontana per appassionare gli uomini e prendere cura di loro.
Da uno scrittore latino del III secolo, Minucio Felice, ci è giunto un altro dialogo, molto raffinato, nel quale il pagano Cecilio, passeggiando sul litorale di Ostia, dopo aver reso omaggio a una statua di Serapide, spiega che « nelle cose umane tutto è dubbioso, incerto, indeciso » ma proprio per questo è bene seguire la religione degli antichi e adorare « quegli dèi che i nostri padri ci hanno insegnato a temere, piuttosto che a conoscere troppo da vicino ».
In un’omelia in piazza San Pietro dello scorso 11 giugno, Benedetto XVI ha detto che « stranamente questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo ». E in effetti un campione dell’età dei lumi come il miscredente Voltaire ordinava ai suoi familiari e alla servitù di ossequiare il cristianesimo e i suoi precetti, per motivi di buona creanza civica. Dio c’è, forse. E forse è lui che ha creato il mondo. Ma poi se ne è talmente disinteressato da sparire dall’orizzonte vitale. La sua bontà è tutta nel non produrre disturbo alcuno.
E così, sotto il cielo di questa divinità vaga e remota, la terra si è popolata di nuovi dèi. In divisa laica e pragmatica.

POLITEISMO DEI VALORI
Già nell’Ottocento, nei suoi « Saggi sulla religione », l’economista e filosofo John Stuart Mill scrisse che il politeismo era di gran lunga più funzionale del monotesimo nel descrivere quella pluralità di etiche che caratterizzava lo scenario di vita della prima società industriale. E Max Weber, nel primo Novecento, coniò la formula di « Polytheismus der Werte », politeismo dei valori, proprio per indicare il pantheon della moderna società.
In un mondo ormai disincantato, senza più un unico Dio che proclami comandamenti validi per tutti, ciascuna delle sfere sociali – dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza alla stessa religione – è retta da un suo dio con i suoi oracoli. Oracoli spesso tra loro in conflitto, con l’uomo drammaticamente solo nell’ora della decisione.
Weber, con l’impeccabile distacco dello studioso, non disse se questo moderno politeismo fosse un bene o un male. Ma altri pensatori venuti dopo di lui non nascondono più a cosa vanno le loro simpatie.
Nel secondo Novecento, alla « teologia politica del monoteismo » propugnata da Erik Peterson (un autore tra i più letti e ammirati da Joseph Ratzinger fin da giovane professore), il filosofo tedesco Odo Marquard contrappone una « teologia politica del politeismo », e nel titolo del suo saggio loda tale politeismo con la qualifica di « illuminato ». A suo giudizio, l’uomo ha sempre bisogno di miti, e l’importante è che tali miti siano molti e aperti a infinite variazioni, come nella mitologia antica, all’opposto dell’ebraismo e del cristianesimo che poggiano su fatti storici unici e incontrovertibili.
In Spagna, la filosofa Maria Zambrano ha puntato il dito contro l’ascetismo di matrice medievale della spiritualità cristiana, distruttivo dei sentimenti. È la poesia, a suo giudizio, che può liberare l’uomo dal « monolitismo » e restituirlo al suo gioioso politeismo nativo.
In Italia è Salvatore Natoli il filosofo che difende una « etica del finito », un insieme cioè di riferimenti « politeistici », multipli, che offrano all’uomo dei punti d’appoggio, mai definitivi ma pur sempre capaci di salvarlo provvisoriamente dall’anarchia degli istinti.
Sicuramente, però, l’opera che ha più instillato nella cultura italiana contemporanea una rivalutazione del politeismo è più letteraria che filosofica: sono « Le nozze di Cadmo e Armonia » di Roberto Calasso, del 1988, con la loro evocazione gloriosa della mitologia classica.

PER UN REINCANTO DEL MONDO
A dispetto del « disincanto del mondo » descritto da Weber, infatti, la società moderna non appare immune dall’opposta seduzione di un mondo nuovamente incantato.
Alain de Benoist, pensatore della « nouvelle droite » francese, è il più acceso banditore di questo ritorno alla sacralità neopagana.
Per la corrente culturale da lui rappresentata il grande nemico è proprio il giudeocristianesimo con la sua idea « desacralizzante » della creazione. Se non c’è altro Dio all’infuori del Dio unico, infatti, le creature non hanno più nulla di divino e perfino gli astri, come dice la prima pagina della Genesi, sono semplici « luminari » appesi dal Creatore alla volta celeste per segnare il giorno e la notte. Il mondo è definitivamente consegnato alla sua profanità.
Osserva Leonardo Lugaresi, docente a Bologna e Parigi e specialista di cristianesimo antico: « Nel rimprovero mosso oggi al cristianesimo di essere responsabile della desacralizzazione del mondo, quella che torna in gioco, sotto nuove forme, non è altro che la vecchia accusa di ateismo mossa ai cristiani dei primi secoli ».
E aggiunge: « Come allora, anche per una certa mentalità neopagana di oggi il cristianesimo è nocivo perché ha tolto alla terra il suo incanto, i suoi dèi, e ha privato l’uomo di un rapporto religioso con la natura. Di conseguenza, il nuovo paganesimo vuole guarire il mondo dalla ‘rottura monoteistica’, cioè restituirgli quella sacralità e divinità che il cristianesimo gli ha tolto ».

NON UN QUALSIASI DIO

La formula « rottura monoteistica » rimanda agli studi di un grande egittologo, il tedesco Jan Assmann, che ha indagato a fondo sulla novità rivoluzionaria introdotta dall’unico Dio della religione di Mosè rispetto al politeismo dell’Egitto dell’epoca. Non sorprende, quindi, che l’editrice il Mulino, nel pubblicare quest’anno dieci saggi affidati ad altrettanti autori sui dieci comandamenti del decalogo mosaico, abbia assegnato proprio ad Assmann il commento del « Non avrai altro Dio ».
Assmann non è un apologeta del politeismo. Ma vede nel monoteismo mosaico, fin dal suo nascere, un contrapporsi esclusivo e intollerante alle altre religioni. Tutti i monoteismi storicamente venuti alla luce, dall’ebraismo, al cristianesimo, all’islam, portano in sé, a suo giudizio, il veleno della violenza. E allora egli chiede ai monoteismi di superare i loro assoluti e « raggiungere il punto trascendentale grazie al quale diviene possibile la vera tolleranza », di elevarsi cioè alla forma superiore di « sapienza religiosa » o di « religione profonda » incarnata da sapienti come Albert Schweitzer, il Mahatma Gandhi e Rabindranath Tagore, insomma, di elevarsi « all’ideale settecentesco di tolleranza espresso dal massone Lessing nella parabola dei tre anelli, nel racconto di Nathan il saggio ».
E cos’è questa se non la religione senza norme né dogmi dell’Illuminismo, con il suo Dio remoto? E a che cosa può aprire lo spazio, questa religione vaga, se non a un nuovo politeismo dell’arbitrio?
Lo scorso 13 settembre, nel ricevere il nuovo ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Walter Jürgen Schmid, Benedetto XVI ha alzato gli occhi dal testo scritto e ha così proseguito: « Molti uomini mostrano oggi un’inclinazione verso concezioni religiose più permissive anche per se stessi. Al posto del Dio personale del cristianesimo, che si rivela nella Bibbia, subentra un essere supremo, misterioso e indeterminato, che ha solo una vaga relazione con la vita personale dell’essere umano. Se però uno abbandona la fede verso un Dio personale, sorge l’alternativa di un ‘dio’ che non conosce non sente e non parla. E, più che mai, non ha un volere. Se Dio non ha una propria volontà, il bene e il male alla fine non sono più distinguibili. L’uomo perde così la sua forza morale e spirituale, necessaria per uno sviluppo complessivo della persona. L’agire sociale viene dominato sempre di più dall’interesse privato o dal calcolo del potere ».
Da queste parole si capisce ancor più il motivo per cui oggi, per papa Benedetto, « la priorità suprema e fondamentale » sia di riaprire a una umanità disorientata l’accesso a Dio.
E « non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto ».

(Da « L’espresso » n. 50 del 2010).

Publié dans:Sandro Magister |on 11 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire (di Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/213008

Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire

Si cantano una al giorno, al Magnificat dei vespri. Sono molto antiche e ricchissime di riferimenti alle profezie del Messia. Le loro iniziali formano un acrostico. Eccole trascritte, con la chiave di lettura

di Sandro Magister

ROMA, 17 dicembre 2008 – Da oggi fino all’antivigilia di Natale, al Magnificat dei vespri di rito romano si cantano sette antifone, una per giorno, che cominciano tutte con un’invocazione a Gesù, pur mai chiamato per nome.
Questo settenario è molto antico, risale al tempo di papa Gregorio Magno, attorno al 600. Le antifone sono in latino e si ispirano a testi dell’Antico Testamento che annunciano il Messia.
All’inizio di ciascuna antifona, nell’ordine, Gesù è invocato come Sapienza, Signore, Germoglio, Chiave, Astro, Re, Emmanuele. Nell’originale latino: Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel.
Lette a partire dall’ultima, le iniziali latine di queste parole formano un acrostico: « Ero cras », cioè: « [Ci] sarò domani ». Sono l’annuncio del Signore che viene. L’ultima antifona, che completa l’acrostico, si canta il 23 dicembre. E l’indomani, con i primi vespri, comincia la festività del Natale.
A trarre queste antifone fuori dall’oblio è stata, inaspettatamente, « La Civiltà Cattolica », la rivista dei gesuiti di Roma che si stampa con il previo controllo della segreteria di stato vaticana.
Inusitato anche il posto d’onore dato all’articolo che illustra le sette antifone, scritto da padre Maurice Gilbert, direttore della sede di Gerusalemme del Pontificio Istituto Biblico. L’articolo apre il quaderno prenatalizio della rivista, dove di solito c’è l’editoriale.
Nell’articolo, padre Gilbert illustra ad una ad una le antifone. Ne mostra i ricchissimi riferimenti ai testi dell’Antico Testamento. E fa rimarcare una particolarità: le ultime tre antifone – quelle del « Ci sarò » dell’acrostico – comprendono alcune espressioni che si spiegano unicamente alla luce del Nuovo Testamento.
L’antifona « O Oriens » del 21 dicembre include un chiaro riferimento al cantico di Zaccaria nel capitolo primo del Vangelo di Luca, il « Benedictus »: « Ci visiterà un sole che sorge dall’alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte ».
L’antifona « O Rex » del 22 dicembre include un passaggio dell’inno a Gesù del capitolo secondo della lettera di Paolo agli Efesini: « Colui che di due [cioè di ebrei e pagani] ha fatto una cosa sola ».
L’antifona « O Emmanuel » del 23 dicembre si conclude infine con l’invocazione « Dominus Deus noster »: un’invocazione esclusivamente cristiana poiché soltanto i seguaci di Gesù riconoscono nell’Emmanuele il loro Signore Dio.
Ecco dunque qui di seguito i testi integrali delle sette antifone, in latino e tradotte, con evidenziate le iniziali che formano l’acrostico « Ero cras » e con tra parentesi i principali riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento:

I – 17 dicembre

O SAPIENTIA, quae ex ore Altissimi prodiisti,
attingens a fine usque ad finem fortiter suaviterque disponens omnia:
veni ad docendum nos viam prudentiae.

O Sapienza, che uscisti dalla bocca dell’Altissimo (Siracide 24, 5),
ti estendi da un estremo all’altro estremo e tutto disponi con forza e dolcezza (Sapienza 8, 1):
vieni a insegnarci la via della saggezza (Proverbi 9, 6).

II – 18 dicembre

O ADONAI, dux domus Israel,
qui Moysi in igne flammae rubi apparuisti, et in Sina legem dedisti:
veni ad redimendum nos in brachio extenso.

O Signore (« Adonai » in Esodo 6, 2 Vulgata), guida della casa d’Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco di fiamma del roveto (Esodo 3, 2) e sul monte Sinai gli hai dato la legge (Esodo 20):
vieni a redimerci con braccio potente (Esodo 15, 12-13).

III – 19 dicembre

O RADIX Iesse, qui stas in signum populorum,
super quem continebunt reges os suum, quem gentes deprecabuntur:
veni ad liberandum nos, iam noli tardare.

O Germoglio di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli (Isaia 11, 10),
tacciono davanti a te i re della terra (Isaia 52, 15) e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci, non tardare (Abacuc 2, 3).

IV – 20 dicembre

O CLAVIS David et sceptrum domus Israel,
qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit:
veni et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris et umbra mortis.

O Chiave di Davide (Isaia 22, 22) e scettro della casa d’Israele (Genesi 49. 10),
che apri e nessuno chiude; chiudi e nessuno apre:
vieni e strappa dal carcere l’uomo prigioniero, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Salmo 107, 10.14).

V – 21 dicembre

O ORIENS, splendor lucis aeternae et sol iustitiae:
veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis.

O Astro che sorgi (Zaccaria 3, 8; Geremia 23, 5), splendore della luce eterna (Sapienza 7, 26) e sole di giustizia (Malachia 3, 20):
vieni e illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Isaia 9, 1; Luca 1, 79).

VI – 22 dicembre

O REX gentium et desideratus earum,
lapis angularis qui facis utraque unum:
veni et salva hominem quem de limo formasti.

O Re delle genti (Geremia 10, 7) e da esse desiderato (Aggeo 2, 7),
pietra angolare (Isaia 28, 16) che fai dei due uno (Efesini 2, 14):
vieni, e salva l’uomo che hai formato dalla terra (Genesi 2, 7).

VII – 23 dicembre

O EMMANUEL, rex et legifer noster,
expectatio gentium et salvator earum:
veni ad salvandum nos, Dominus Deus noster.

O Emmanuele (Isaia 7, 14), re e legislatore nostro (Isaia 33, 22),
speranza e salvezza dei popoli (Genesi 49, 10; Giovanni 4, 42):
vieni a salvarci, o Signore nostro Dio (Isaia 37, 20).
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La rivista su cui è apparso l’articolo di padre Maurice Gilbert, « Le antifone maggiori dell’Avvento »: > La Civiltà Cattolica
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POST SCRIPTUM – Domenica 21 dicembre anche Marina Corradi è intervenuta sulle sette antifone maggiori dell’ultima settimana di Avvento. Con questo editoriale su « Avvenire »:

La promessa a noi vacillanti: « Ci sarò domani, e sempre »

di Marina Corradi

« Ero cras », « Ci sarò domani ». Forse questa promessa in latino alla maggioranza dei credenti oggi non dice niente. Ma è una promessa molto antica, risalente ai tempi di Gregorio Magno, e nascosta tra le righe di sette antifone che tradizionalmente accompagnano, nell’ultima settimana di Avvento, il Magnificat ai vespri di rito romano. Un articolo su « La Civiltà Cattolica » del biblista padre Maurice Gilbert richiama dal passato la storia di questa promessa d’Avvento, a noi cristiani del Terzo millennio per lo più sconosciuta. Dunque il segreto delle « antifone maggiori », dette anche « antifone O », sta nella parola posta all’inizio di ciascuna di esse.
« O Sapientia », comincia la prima, e le successive: « O Adonai, O Radix, O Clavis, O Oriens, O Rex, O Emmanuel ». Germoglio, Chiave, Re, Emmanuele: tutte le antifone iniziano con un’invocazione a Cristo. Ma capovolgendo l’ordine delle parole e prendendo di ciascuna la lettera iniziale, emerge l’acronimo « Ero cras », « Ci sarò domani ». Non è enigmistica. Ogni antifona è una sintesi di passi dell’Antico e Nuovo Testamento, un concentrato di fede cristiana che gli antichi fedeli ripetevano nella penombra dei vespri dell’Avvento, quando la notte calata sulle brevi giornate d’inverno, rischiarato solo da candele, evocava un’altra ombra, che incuteva timore. Dalle buie sere che precedono il solstizio, dal colmo dell’oscurità, nelle chiese si invocava: Germoglio, Sapienza, Re, vieni a liberarci dalla tenebre. E nella quinta antifona, quella del 21 dicembre – giorno esatto del solstizio, in cui, toccato il vertice del buio, il sole comincia a risalire in cielo – si cantava: « O Oriens, splendor lucis aeternae et Sol Iustitiae: veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis »; « O astro che sorgi, splendore di luce eterna e sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte ». E infine, nascosta nelle iniziali delle prime parole delle antifone: « Ero cras ». Ci sarò domani, ci sarò sempre: nel fondo del buio, di generazione in generazione, il ripetersi di una promessa di luce.
Il segreto – almeno per noi profani – rivelato dal teologo gesuita commuove per la bellezza, la bellezza della forma della antica tradizione cristiana che troppo abbiamo dimenticato. Con quella aderenza profonda alla realtà concreta degli uomini; forse anche noi, in queste giornate così brevi e già alle quattro buie, non ci sentiamo addosso come un’ombra, e l’ansia che il sole si rialzi, che la luce della primavera torni e rassicuri? « Vieni, illumina le tenebre », chiedevano. « Ci sarò domani, ci sarò sempre », era la risposta già segretamente scritta nella domanda. E noi? ti viene da domandarti. L’attesa che colma questi antichi canti d’Avvento, ci appartiene ancora? O, sfumata la memoria di un male originario che ci opprime, non percepiamo più davvero il buio che nelle antifone del tempo di Gregorio Magno pare così incombente, tanto che è evidente come quei versi anelano la luce? Non più pienamente coscienti del buio, sappiamo ancora desiderare la luce? La nascita di Cristo, nel colmo dell’inverno, è il venire al mondo di colui che vince la morte. Ce ne ricordiamo pienamente, noi credenti del 2008, pressati negli ipermercati in cui infuria « Jingle bells », o angosciati dalla crisi e dal vacillare del nostro benessere? Che la promessa antica e segreta delle « antifone O », l’augurio, ci accompagni nel nostro affannarci della vigilia del Natale. « Ero cras », ci sarò domani e sempre. E grazie al dotto studioso che ha ricordato a noi credenti analfabeti un segreto tesoro, a illuminare questi giorni di buio.
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17.12.2008

Publié dans:Sandro Magister |on 29 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

« Luce del mondo ». La prima volta di un papa (di Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1345703

« Luce del mondo ». La prima volta di un papa

Un libro così « a rischio » non ha precedenti per un successore di Pietro. « Ognuno è libero di contraddirmi », è il suo motto. Sulla questione controversa del preservativo, il professor Rhonheimer spiega perché Benedetto XVI ha ragione

di Sandro Magister

ROMA, 25 novembre 2010 – Verso la fine del suo libro-intervista « Luce del mondo », da pochi giorni in vendita in varie lingue, Benedetto XVI fa cenno all’altro suo libro su Gesù, la sua « ultima opera maggiore ».
Ricorda che « in modo del tutto consapevole » ha voluto che quel libro fosse non un atto di magistero, ma l’offerta di una sua interpretazione personale.
E aggiunge: « Questo naturalmente rappresenta un rischio enorme ».
Nel pomeriggio di lunedì 22 novembre, a tu per tu col papa, il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, gli ha chiesto se si rendeva conto di affrontare un rischio ancor più grande con il libro-intervista che stava per uscire.
« A questa mia domanda il papa ha sorriso », ha raccontato padre Lombardi.
Proprio così. « Luce del mondo » è un libro senza precedenti, per un papa. È la trascrizione integrale di sei ore di intervista spontanea e senza censure. Su un arco incredibilmente ampio di temi, anche i più scomodi.
Le risposte sono rapide ed essenziali. Il linguaggio è colloquiale ma preciso, semplice, del tutto privo di tecnicismi. Qua e là balenano lampi di ironia.
Certo, il lancio del libro non è stato impeccabile. Lo stesso padre Lombardi ha riconosciuto che l’anticipazione di alcuni brani ad opera de « L’Osservatore Romano », nel pomeriggio di sabato 20 novembre, in pieno concistoro, « non è stata gestita bene ». Sul brano riguardante il preservativo, rimbombato fragorosamente sui media di tutto il mondo, si è dovuto correre ai ripari, domenica 21, con una nota di precisazione approvata parola per parola dal papa.
Un « rischio », quindi, il libro l’ha immediatamente sperimentato. Il papa si è visto subito gettato nella mischia, su un tema da lui toccato in sole due pagine su 250, lo stesso tema che nella primavera del 2009, all’inizio di un suo viaggio in Africa, gli aveva procurato un uragano di critiche.
Ma se si guarda a ciò che è accaduto nei giorni scorsi, il test ha avuto effetti sorprendentemente benefici fuori e dentro la Chiesa.
Fuori, le voci generalmente ostili a questo pontificato hanno questa volta riconosciuto a Benedetto XVI il merito di una « apertura ». E soprattutto sono state indotte a leggerne le argomentazioni. Fa impressione vedere come in così breve tempo siano risuscitate le fortune mediatiche di questo papa, del quale solo pochi mesi fa si reclamavano le dimissioni.
Dentro la Chiesa è uscita finalmente alla luce del sole la discussione su un tema rimasto fin lì sotto traccia. Il papa non ha fatto nessuna « svolta rivoluzionaria », sulla questione del preservativo. Ma il comunicato di domenica 21 novembre ha fatto notare che comunque una novità è accaduta, quando dice: « Numerosi teologi morali e autorevoli personalità ecclesiastiche hanno sostenuto e sostengono posizioni analoghe; è vero tuttavia che non le avevamo ancora ascoltate con tanta chiarezza dalla bocca di un papa, anche se in una forma colloquiale e non magisteriale ».
Non solo. Quella ora portata alla luce dal papa è una discussione vera, con pareri anche vivacemente contrapposti. « Ognuno è libero di contraddirmi », scrisse Benedetto XVI nella prefazione a « Gesù di Nazaret ». Sul preservativo è ciò che sta oggi accadendo, con gruppi ed esponenti « pro life » molto critici nei confronti delle posizioni espresse dal papa nel libro-intervista.
Naturalmente « Luce del mondo » non si riduce a questo. È l’intero profilo di questo pontificato che balza fuori, in magnifica sintesi. Anche le singole questioni, affrontate dal papa ad una ad una, recano l’impronta del tutto.
I due testi riprodotti qui di seguito ne danno la conferma.
Il primo è il commento a « Luce del mondo » uscito in Italia su « L’espresso », settimanale di punta della cultura laica.
Il secondo è un articolo di padre Martin Rhonheimer, svizzero, professore di etica e filosofia politica alla Pontificia Università della Santa Croce, l’università romana dell’Opus Dei.
L’articolo è apparso nel 2004 su « The Tablet », rivista cattolica « liberal » di Londra, ed espone con la maestria dello specialista di teologia morale gli argomenti che sono alla base della « apertura » di Benedetto XVI all’uso del preservativo in determinati casi e per una determinata finalità.
Colpisce come tra l’articolo di Rhonheimer di sei anni fa e le odierne parole di Benedetto XVI vi sia una consonanza addirittura verbale. A cominciare da quell’ »atto di responsabilità » riconosciuto a merito del « prostituto » che usa il preservativo per non mettere a rischio la vita del partner, portato come esempio dal papa.
A proposito di questo esempio, padre Lombardi ha riferito che per il papa non è importante che il soggetto sia al maschile o al femminile: « Il punto è la responsabilità nel tener conto del rischio della vita dell’altro con cui si ha il rapporto. Se lo fa un uomo, una donna o un transessuale è lo stesso ».
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IL BUON PASTORE E LA PECORA SMARRITA

di Sandro Magister

In sei ore di colloquio col giornalista bavarese Peter Seewald nella quiete estiva di Castel Gandolfo, distribuite in sei giorni come quelli della creazione e trascritte tali e quali in un libro fresco di stampa, Benedetto XVI ha consegnato al mondo la propria immagine più veritiera. Quella di un uomo incantato dalle meraviglie del creato, gioioso, incapace di sopportare una vita vissuta sempre e soltanto « contro », felicemente convinto che nella Chiesa « molti che sembrano stare dentro, sono fuori; e molti che sembrano stare fuori, sono dentro ».
« Siamo peccatori », dice papa Benedetto quando l’intervistatore lo mette all’angolo sull’enciclica « Humanae vitae », quella che condanna tutti gli atti contraccettivi non naturali. Paolo VI la scrisse e pubblicò nel 1968, e da quell’anno fatidico essa è diventata l’emblema dell’incompatibilità tra la Chiesa e la cultura moderna. Joseph Ratzinger non smentisce una virgola, della « Humanae vitae ». La « verità » è quella e tale rimane. « Affascinante », dice, per le minoranze che ne sono intimamente persuase. Ma subito il papa sposta il suo sguardo sulle masse sterminate di uomini e donne che quella « morale alta » non vivono. Per dire che « dovremmo cercare di fare tutti il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda ».
È questo il papa che emerge dal libro-intervista « Luce del mondo ». È lo stesso che si era rivelato così nella sua prima messa celebrata dopo la nomina a successore di Pietro. Un pastore che va alla ricerca della pecora smarrita, e la prende sulle spalle come la lana d’agnello del pallio che indossa, e prova molta più gioia per la pecora ritrovata che per le novantanove nell’ovile.
Solo che allora pochi l’avevano capito. Il Ratzinger delle figurine è rimasto a lungo il professore gelido, l’inquisitore ferrigno, il giudice spietato. C’è voluta, cinque anni dopo, la tempesta perfetta dei preti pedofili per stracciare definitivamente questa falsa immagine.
A differenza di tanti altri personaggi di Chiesa, Benedetto XVI non lamenta complotti, non ritorce le accuse contro gli accusatori. Anzi, nel libro dice che « sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere con loro riconoscenti ». E spiega: « La verità, unita all’amore inteso correttamente, è il valore numero uno. E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato. Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei ».
Dette dall’uomo che al vertice della Chiesa cattolica è stato il primo a diagnosticare e combattere questa « sporcizia », e poi da papa a portare il peso maggiore di colpe e omissioni non sue, sono parole che fanno impressione. Ma questo è lo stile con cui Benedetto XVI tratta altre questioni scottanti, nel libro. Va direttamente al cuore dei punti più controversi. Il sacerdozio femminile? Pio XII e gli ebrei? L’omosessualità? Il burka? Il preservativo? L’intervistatore lo incalza e il papa non si sottrae. A proposito del burka dice di non vedere le ragioni di una proibizione generalizzata. Se imposto alle donne con la violenza, « è chiaro che non si può essere d’accordo ». Ma se è indossato volontariamente, « non vedo perché glielo si debba impedire ».
Al papa si potrà obiettare che un velo che ricopra completamente il volto ponga problemi di sicurezza in campo civile. Obiezione legittima, perché l’intervista lui l’ha data anche per aprire discussioni, non per chiuderle. Nella prefazione a un altro suo libro, quello su Gesù uscito nel 2007, Ratzinger scrisse che « ognuno è libero di contraddirmi ». E tenne a precisare che non si trattava di un « atto magisteriale » ma « unicamente di un’espressione della mia ricerca personale ».
Dove il magistero della Chiesa sembra tremare, nell’intervista, è quando il papa parla del preservativo, giustificandone l’uso in casi particolari. Nessuna « svolta rivoluzionaria », ha prontamente chiosato padre Federico Lombardi, voce ufficiale della sede di Pietro. Infatti, già molti cardinali e vescovi e teologi, ma soprattutto schiere di parroci e missionari ammettono pacificamente da tempo l’uso del preservativo, per tante persone concrete incontrate nella « cura d’anime ». Ma un conto è che lo facciano loro, un conto che lo dica a voce alta un papa. Benedetto XVI è il primo pontefice nella storia a varcare questo Rubicone, con disarmante tranquillità: lui che solo due primavere fa aveva aveva scatenato nel mondo un fragoroso coro di proteste per aver detto, in volo verso l’Africa, che « non si può risolvere il flagello dell’AIDS con la distribuzione di preservativi: ma al contrario, il rischio è di aumentare il problema ».
Era il marzo del 2009. Si accusò Benedetto XVI di condannare a morte miriadi di africani in nome della cieca condanna del protettivo di lattice. Quando in realtà il papa voleva richiamare l’attenzione sul pericolo – in Africa comprovato dai fatti – che a un più largo uso del preservativo si accompagni non un calo ma un aumento del sesso occasionale e promiscuo e dei tassi di infezione.
Nell’intervista, Ratzinger riprende il filo di quel suo ragionamento, all’epoca largamente frainteso, e osserva che anche fuori della Chiesa, tra i maggiori esperti mondiali della lotta contro l’AIDS, è sempre più condivisa la maggiore efficacia di una campagna centrata sulla continenza sessuale e sulla fedeltà coniugale, rispetto alla indiscriminata distribuzione del preservativo.
« Concentrarsi solo sul profilattico – prosegue il papa – vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé ».
A questo punto uno si aspetterebbe che Benedetto XVI ribadisca la condanna assoluta del preservativo. E invece no. Prendendo il lettore di sorpresa, egli dice che in vari casi il suo uso può essere ammesso, per ragioni diverse da quelle contraccettive. E porta l’esempio di « un prostituto » che utilizza il profilattico per evitare il contagio: l’esempio, cioè, di un’azione che resta comunque peccaminosa, nella quale però il peccatore ha un sussulto di responsabilità, che il papa giudica « un primo passo verso un modo diverso, più umano, di vivere la sessualità ».
Se questa comprensione amorevole vale per un peccatore, a maggior ragione deve quindi valere per il caso classico incontrato in Africa e altrove da parroci e missionari: quello di due coniugi uno dei quali è malato di AIDS e usa il profilattico per non mettere in pericolo la vita dell’altro. Tra i cardinali che hanno sinora prospettato, più o meno velatamente, la liceità di questo e di altri comportamenti analoghi vi sono gli italiani Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi, il messicano Javier Lozano Barragán, lo svizzero Georges Cottier. Quando però nel 2006 « La Civiltà Cattolica », la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo della segreteria di stato vaticana, affidò l’argomento a un grande esperto sul campo, padre Michael F. Czerny, direttore dell’African Jesuit AIDS Network con sede a Nairobi, l’articolo uscì purgato dei passaggi che ammettevano l’uso del preservativo per frenare il contagio.
C’è voluto papa Benedetto per dire quello che nessuno aveva fin qui osato, al vertice della Chiesa. E basta questo per fare di lui un umile, mite rivoluzionario.

(Da « L’espresso » n. 48 del 2010).
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LA VERITÀ SUL PRESERVATIVO

di Martin Rhonheimer

La maggior parte della gente è convinta che una persona infetta da HIV e che abbia rapporti sessuali debba fare uso del preservativo per proteggere il partner dall’infezione. Indipendentemente dalle opinioni che si possono avere sulla promiscuità come stile di vita, sull’omosessualità o sulla prostituzione, quella persona almeno agisce con un certo senso di responsabilità nel cercare di evitare di trasmettere ad altri la sua infezione.
Si ritiene comunemente che la Chiesa cattolica non appoggi una tale opinione. [...] Si crede che la Chiesa insegni che gli omosessuali sessualmente attivi e le prostitute dovrebbero evitare l’uso del preservativo, in quanto quest’ultimo sarebbe “intrinsecamente cattivo”. Anche molti cattolici sono persuasi [...] che l’uso del preservativo, anche esclusivamente diretto a prevenire l’infezione del partner, non rispetta la struttura fertile che gli atti coniugali debbono avere, non può costituire il reciproco e completo dono personale di sé e pertanto viola il sesto comandamento.
Ma questo non è un insegnamento della Chiesa cattolica. Non c’è alcun magistero ufficiale sul preservativo, sulla pillola anti-ovulazione o sul diaframma. Il preservativo non può essere intrinsecamente cattivo, solo le azioni umane possono esserlo. Il preservativo non è un’azione umana, ma una cosa.
Ciò che il magistero della Chiesa cattolica designa chiaramente come “intrinsecamente cattivo” è un tipo specifico di azione umana, definito da Paolo VI nella sua enciclica « Humanae vitae » (e successivamente nel n. 2370 del Catechismo della Chiesa cattolica) come una “azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo, o come mezzo, di impedire la procreazione”.
La contraccezione è un tipo specifico di azione umana che, come tale, comprende due elementi: la volontà di prendere parte ad atti sessuali e l’intenzione di impedire la procreazione. Un’azione contraccettiva, quindi, incorpora una scelta contraccettiva. Come ho affermato in un articolo uscito su « Linacre Quarterly » nel 1989, “una scelta contraccettiva è la scelta di un’azione intesa ad impedire le conseguenze procreative previste di rapporti sessuali liberamente consenzienti, ed è una scelta operata proprio per questa ragione”.
Ecco perché la contraccezione, intesa come un’azione umana qualificata come “intrinsecamente cattiva” o disordinata, non è determinata da ciò che accade sul piano fisico. Non fa alcuna differenza se una persona previene la fertilità del rapporto sessuale prendendo la pillola o interrompendo onanisticamente il rapporto.  Inoltre, la definizione appena data non differenzia tra “fare” e “astenersi dal fare”, in quanto il coito interrotto è un tipo di astensione, almeno parziale.
La definizione di atto contraccettivo non comprende quindi, ad esempio, l’uso di contraccettivi inteso a prevenire le conseguenze procreative di una violenza carnale prevista. In una circostanza del genere, la persona violentata non sceglie di partecipare al rapporto sessuale né di prevenire una possibile conseguenza del proprio comportamento sessuale, ma si sta semplicemente difendendo da un’aggressione sul proprio corpo e dalle sue conseguenze indesiderabili. Anche una atleta che partecipi ai Giochi Olimpici e che prenda la pillola anti-ovulazione per prevenire il ciclo mestruale non sta facendo un atto “contraccettivo”, se non ha alcuna intenzione simultanea di avere rapporti sessuali.
L’insegnamento della Chiesa non concerne il preservativo o simili strumenti fisici o chimici, ma l’amore sponsale e il significato essenzialmente sponsale della sessualità umana. Il magistero ecclesiale afferma che, se due coniugi hanno una ragione seria per non fare figli, essi dovrebbero modificare il loro comportamento sessuale tramite l’astinenza, almeno periodica, dall’atto sessuale. Per evitare di distruggere sia il significato unitivo sia quello procreativo dell’atto sessuale e quindi la pienezza del dono reciproco di sé, i coniugi non devono prevenire la fertilità dei rapporti sessuali, qualora ne abbiano.
Ma che dire delle persone promiscue, degli omosessuali sessualmente attivi e delle prostitute? Ciò che la Chiesa cattolica insegna loro è semplicemente che le persone non dovrebbero essere promiscue, ma fedeli a un solo partner sessuale; che la prostituzione è un comportamento gravemente lesivo della dignità dell’uomo, soprattutto della dignità della donna, e che quindi non dovrebbe essere praticata; e che gli omosessuali, come tutte le altre persone, sono figli di Dio e sono amati da lui come ogni altro, ma dovrebbero vivere in continenza come qualsiasi altra persona non sposata.
Ma se queste persone ignorano questo insegnamento, e sono a rischio di HIV, dovrebbero usare il preservativo per prevenire l’infezione? La norma morale che condanna la contraccezione come atto intrinsecamente cattivo non comprende questi casi. Né può esservi insegnamento della Chiesa su di ciò; sarebbe semplicemente privo di senso stabilire delle norme morali per dei comportamenti intrinsecamente immorali. Dovrebbe forse la Chiesa insegnare che uno stupratore non deve mai fare uso del preservativo, poiché altrimenti, oltre a commettere il peccato della violenza carnale, verrebbe anche meno al rispetto del dono personale di sé reciproco e completo e così violerebbe il sesto comandamento? Certo che no.
Cosa dico io, come sacerdote cattolico, a persone promiscue, o ad omosessuali, infetti da AIDS i quali usano il preservativo? Cercherò di aiutare costoro a vivere una vita sessuale morale e ben ordinata. Ma non dirò loro di non usare il preservativo. Semplicemente, non parlerò loro di ciò e presumerò che, qualora scelgano di avere rapporti sessuali, manterranno almeno un certo senso di responsabilità. Con un atteggiamento del genere, rispetto in pieno l’insegnamento della Chiesa cattolica sulla contraccezione.
Questo non è un appello a favore di “eccezioni” alla norma che proibisce la contraccezione. La norma sulla contraccezione vale senza eccezioni: la scelta contraccettiva è intrinsecamente cattiva. Ma, com’è ovvio, la norma vale solo per gli atti contraccettivi, come questi sono definiti nella « Humanae vitae », i quali incorporano una scelta contraccettiva. Non tutte le azioni in cui viene usato un dispositivo il quale, da un punto di vista puramente fisico, è “contraccettivo”, sono da un punto di vista morale atti contraccettivi che cadono sotto la norma insegnata dalla « Humanae vitae ».
Ugualmente, un uomo sposato che è infetto da HIV e usa il preservativo per proteggere sua moglie dall’infezione non agisce per impedire la procreazione, ma per prevenire l’infezione. Se il concepimento è prevenuto, questo sarà un effetto collaterale (non intenzionale), e quindi non determinerà il significato morale dell’azione come un atto contraccettivo. Possono esservi altre ragioni per ammonire contro l’uso del preservativo in un caso del genere, o per raccomandare la continenza totale, ma queste non dipenderanno dall’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, ma da ragioni pastorali o semplicemente prudenziali (il rischio, ad esempio, che il preservativo non funzioni). Ovviamente, quest’ultimo ragionamento non si applica alle persone promiscue, perché, anche se i preservativi non sempre funzionano, il loro uso aiuterà comunque a ridurre le conseguenze negative di comportamenti moralmente cattivi.
Fermare l’epidemia mondiale di AIDS non è una questione concernente la moralità dell’uso del preservativo, ma piuttosto la maniera di prevenire efficacemente una situazione in cui le persone provocano conseguenze disastrose con il loro comportamento sessuale immorale. Papa Giovanni Paolo II ha ripetutamente insistito che la promozione dell’uso del preservativo non è una soluzione a questo problema in quanto ritiene che non risolva il problema morale della promiscuità. Se, in generale, le campagne che promuovono l’uso del preservativo incoraggino comportamenti rischiosi e peggiorino l’epidemia mondiale di Aids è una questione decidibile sulla base di evidenze statistiche non sempre facilmente accessibili. Che riducano, a breve termine, i tassi di trasmissione entro gruppi altamente infettivi come prostitute ed omosessuali, è impossibile negare. Se possano diminuire i tassi di infezione fra popolazioni promiscue “sessualmente liberate” o, al contrario, incoraggiare comportamenti a rischio, dipende da molti fattori.
Nei paesi africani le campagne anti-AIDS basate sull’uso del preservativo sono generalmente inefficaci, in parte perché per l’uomo africano la mascolinità è tradizionalmente espressa dalla procreazione del massimo numero di figli possibile. Per il maschio africano tradizionale il preservativo trasforma il sesso in un’attività priva di significato. Questa è la ragione per cui – e ciò costituisce una prova notevole a favore dell’argomento del papa – fra i pochi programmi efficaci in Africa c’è quello dell’Uganda. Benché non escluda il preservativo, questo programma incoraggia un cambiamento positivo nel comportamento sessuale (fedeltà ed astinenza), differenziandosi così dalle campagne per il preservativo, le quali contribuiscono ad oscurare o anche a distruggere il significato dell’amore umano.
Le campagne che promuovono l’astinenza e la fedeltà sono in definitiva l’unico mezzo efficace per combattere l’AIDS a lungo termine. Non c’è quindi alcuna ragione per cui la Chiesa debba considerare le campagne che promuovono il preservativo come utili per il futuro della società umana. Ma la Chiesa non può neanche insegnare che chi partecipa a stili di vita immorali dovrebbe astenersi dall’uso del preservativo.

(Da « The Tablet », 10 luglio 2004, traduzione di Paolo Baracchi).

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sandro Magister |on 25 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Missione Britannia. A Glasgow splende il sole

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1344754

Missione Britannia. A Glasgow splende il sole

Il viaggio di Benedetto XVI comincia in Scozia. L’incontro con la regina. La messa di popolo. Una festa della fede nel regno degli increduli. Con un prologo sullo scandalo della pedofilia

di Sandro Magister

ROMA, 16 settembre 2010 – In volo da Roma verso il Regno Unito, in quello che è stato pronosticato come il viaggio più difficile del suo pontificato, in terra ostile, Benedetto XVI ha subito messo in chiaro che la sua stella polare nn sono gli indici di gradimento:

« Una Chiesa che cerchi soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata ».

E ha subito spiegato perché:

« Perché la Chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro. Serve non per sé, per essere un corpo forte, ma per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità, le grandi forze di amore di riconciliazione apparse in questa figura e che sempre vengono dalla presenza di Gesù Cristo. ».

Su questa base, ha proseguito, si realizza il vero ecumenismo:

« Se anglicani e cattolici vedono ambedue che non servono per se stessi ma sono strumenti per Cristo, non sono più concorrenti, ognuno cercando il maggiore numero, ma sono congiunti nell’impegno per la verità di Cristo che entra in questo mondo, e così si trovano anche reciprocamente in un vero e fecondo ecumenismo ».

*

Questa è stata una delle cinque risposte date da papa Joseph Ratzinger ai giornalisti sull’aereo in volo da Roma a Edimburgo, la mattina di giovedì 16 settembre.

Un’altra risposta ha riguardato la figura di John Henry Newman, in procinto di essere beatificato: « un uomo moderno che ha vissuto tutto il problema della modernità, un dottore della Chiesa per noi e per tutti e un ponte tra anglicani e cattolici ».

Altre due hanno riguardato l’impatto con un paese come il Regno Unito con forti venature atee e anticattoliche, e le possibili collaborazioni tra politica e religione.

Infine, a una domanda sullo scandalo della pedofilia il papa ha risposto così, visibilmente commosso:

« Innanzitutto devo dire che queste rivelazioni sono state per me uno choc. Sono una grande tristezza, è difficile capire come questa perversione del ministero sacerdotale era possibile. Il sacerdote, nel momento dell’ordinazione, preparato per anni a questo momento, dice sì a Cristo per farsi la sua voce, la sua bocca, la sua mano e servirlo con tutta l’esistenza perché il Buon Pastore, che ama e aiuta e guida alla verità, sia presente nel mondo. Come un uomo che ha fatto e detto questo possa poi cadere in questa perversione, è difficile capire, è una grande tristezza, tristezza anche che l’autorità della Chiesa non era sufficientemente vigilante e non sufficientemente veloce, decisa, nel prendere le misure necessarie. Per tutto questo siamo in un momento di penitenza, di umiltà e di rinnovata sincerità, come ho scritto ai vescovi irlandesi. Mi sembra che dobbiamo adesso realizzare proprio un tempo di penitenza, un tempo di umiltà, e rinnovare e reimparare un’assoluta sincerità. Quanto alle vittime, direi, tre cose sono importanti. Primo interesse sono le vittime, come possiamo riparare, che cosa possiamo fare per aiutare queste persone a superare questo trauma, a ritrovare la vita, a ritrovare anche la fiducia nel messaggio di Cristo. Cura, impegno per le vittime è la prima priorità con aiuti materiali, psicologici, spirituali. Secondo, è il problema delle persone colpevoli: la giusta pena, escluderli da ogni possibilità di accesso ai giovani, perché sappiamo che questa è una malattia e la libera volontà non funziona dove c’è questa malattia; quindi dobbiamo proteggere queste persone contro se stesse, e trovare il modo di aiutarle e di proteggerle contro se stesse ed escluderle da ogni accesso ai giovani. E il terzo punto è la prevenzione nella educazione e nella scelta dei candidati al sacerdozio. Essere così attenti che secondo le possibilità umane si escludano futuri casi. E vorrei in questo momento anche ringraziare l’episcopato britannico per la sua attenzione, per la sua collaborazione, sia con la Sede di San Pietro, sia con le istanze pubbliche, e per l’attenzione per le vittime e per il diritto. Mi sembra che l’episcopato britannico abbia fatto e  faccia un grande lavoro e gli sono molto grato ».

*
Atterrato in Scozia a Edimburgo, il primo atto della visita di Benedetto XVI – che è anche formalmente visita di Stato, cosa inusuale nei viaggi pontifici – è stato l’incontro con la regina Elisabetta II.

Nel discorso rivolto alla regina, nel palazzo reale di Holyroodhouse, il papa ha messo in guardia dal rischio che il Regno Unito smarrisca la sua impronta cristiana, rivelatasi decisiva in passaggi cruciali della sua storia anche recente:  

« Il nome di Holyroodhouse, residenza ufficiale di Vostra Maestà in Scozia, evoca la ‘Santa Croce’ e fa volgere lo sguardo alle profonde radici cristiane che sono tuttora presenti in ogni strato della vita britannica. [...] Possiamo ricordare come la Gran Bretagna e i suoi capi si opposero a una tirannia nazista che aveva in animo di sradicare Dio dalla società e negava a molti la nostra comune umanità, specialmente agli ebrei, che venivano considerati non degni di vivere. Desidero, inoltre, ricordare l’atteggiamento del regime verso pastori cristiani e verso religiosi che proclamarono la verità nell’amore; si opposero ai nazisti e pagarono con la propria vita la loro opposizione. Mentre riflettiamo sui moniti dell’estremismo ateo del ventesimo secolo, non possiamo mai dimenticare come l’esclusione di Dio, della religione e della virtù dalla vita pubblica conduce in ultima analisi a una visione monca dell’uomo e della società, e pertanto a ‘una visione riduttiva della persona e del suo destino (Caritas in veritate, 29) ».

Ha lanciato un ammonimento ai media britannici, per la loro influenza sull’opinione pubblica di tutto il mondo:

« Il governo e il popolo sono coloro che forgiano le idee che hanno tutt’oggi un impatto ben al di là delle Isole britanniche. Ciò impone loro un dovere particolare di agire con saggezza per il bene comune. Allo stesso modo, poiché le loro opinioni raggiungono un così vasto uditorio, i media britannici hanno una responsabilità più grave di altri e una opportunità più ampia per promuovere la pace delle nazioni, lo sviluppo integrale dei popoli e la diffusione di autentici diritti umani. Possano tutti i britannici continuare a vivere dei valori dell’onestà, del rispetto e dell’equilibrio che hanno guadagnato loro la stima e l’ammirazione di molti ».

E ha chiesto rispetto per le culture e le tradizioni minacciate dall’intolleranza del moderno secolarismo:

« Oggi il Regno Unito si sforza di essere una società moderna e multiculturale. In questo compito stimolante, possa mantenere sempre il rispetto per quei valori tradizionali e per quelle espressioni culturali che forme più aggressive di secolarismo non stimano più, né tollerano più. Non si lasci oscurare il fondamento cristiano che sta alla base delle sue libertà; e possa quel patrimonio, che ha sempre servito bene la nazione, plasmare costantemente l’esempio del Suo governo e del Suo popolo nei confronti dei due miliardi di membri del Commonwealth, come pure della grande famiglia di nazioni anglofone in tutto il mondo. Dio benedica Vostra Maestà e tutte le persone del Vostro reame ».

*

Il terzo atto della prima giornata del viaggio di Benedetto XVI è stata la messa nel Bellahouston Park di Glasgow, nel giorno della festa di san Ninian, uno dei primi evangelizzatori della Scozia.

Nell’omelia, il papa ha esortato i cristiani a essere « esempio pubblico di fede », per evitare che il mondo diventi una « giungla di libertà auto-distruttive ed arbitrarie »:

« L’evangelizzazione della cultura è tanto più importante nella nostra epoca, in cui una ‘dittatura del relativismo’ minaccia di oscurare l’immutabile verità sulla natura dell’uomo, il suo destino e il suo bene ultimo. Vi sono oggi alcuni che cercano di escludere il credo religioso dalla sfera pubblica, di privatizzarlo o addirittura di presentarlo come una minaccia all’uguaglianza e alla libertà. Al contrario, la religione è in verità una garanzia di autentica libertà e rispetto, che ci porta a guardare ogni persona come un fratello od una sorella. Per questo motivo faccio appello in particolare a voi, fedeli laici, affinché, in conformità con la vostra vocazione e missione battesimale, non solo possiate essere esempio pubblico di fede, ma sappiate anche farvi avvocati nella sfera pubblica della promozione della sapienza e della visione del mondo che derivano dalla fede. La società odierna necessita di voci chiare, che propongano il nostro diritto a vivere non in una giungla di libertà auto-distruttive ed arbitrarie, ma in una società che lavora per il vero benessere dei suoi cittadini, offrendo loro guida e protezione di fronte alle loro debolezze e fragilità. Non abbiate paura di dedicarvi a questo servizio in favore dei vostri fratelli e sorelle, e del futuro della vostra amata nazione ».

E ha invitato a « una testimonianza concorde alla verità salvifica della Parola di Dio » i cristiani delle diverse denominazioni presenti in Scozia, presbiteriani, anglicani e cattolici:

« Noto con grande soddisfazione come l’esortazione che vi rivolse papa Giovanni Paolo II, a camminare mano nella mano con i vostri fratelli cristiani, abbia portato a una maggiore fiducia e amicizia con i membri della Chiesa di Scozia, della Chiesa episcopale scozzese e delle altre comunità cristiane. Permettetemi di incoraggiarvi a continuare a pregare e lavorare con loro nel costruire un futuro più luminoso per la Scozia, fondato sulla nostra comune eredità cristiana. Nella prima lettura oggi proclamata abbiamo ascoltato l’invito rivolto da san Paolo ai Romani a riconoscere che, come membra del corpo di Cristo, apparteniamo gli uni agli altri (Rm 12, 5), e a vivere con rispetto ed amore vicendevole. In questo spirito saluto i rappresentanti delle altre confessioni cristiane, che ci onorano della loro presenza. Quest’anno ricorre il 450° anniversario del ‘Reformation Parliament’, ma anche il centenario della Conferenza Missionaria Mondiale di Edimburgo, che è generalmente considerata come la nascita del movimento ecumenico moderno. Rendiamo grazie al Signore per la promessa che rappresenta l’intesa e la cooperazione ecumenica, in vista di una testimonianza concorde alla verità salvifica della parola di Dio nell’odierna società in rapido mutamento ».

*

In Scozia i cattolici sono proporzionalmente più numerosi. Sono il 17 per cento della popolazione, mentre in Inghilterra e Galles sono l’8 per cento. Un secolo fa erano ovunque parecchi di meno.

L’incremento dei cattolici nell’intero Regno Unito è avvenuto sia nei ceti intellettuali, sia negli strati più umili.

Tra i primi vi sono stati illustri convertiti dall’anglicanesimo: da Newman a Benson, da Oscar Wilde a Chesterton, da Graham Greene a Evelyn Vaugh. Tra i secondi sono stati determinanti gli immigrati irlandesi, tutti di religione cattolica. A Glasgow i cattolici d’origine irlandese sono oggi il 28 per cento, a Liverpool il 46 per cento.

Rispetto agli anglicani i cattolici sono più assidui alle messe. Tra i praticanti domenicali il sorpasso è avvenuto nel 2006: 862 mila i cattolici (il 15 per cento del totale), 852 mila gli anglicani.

In più, oggi la Chiesa cattolica fa da polo d’attrazione per consistenti gruppi di anglicani, con vescovi e sacerdoti, che si sentono a disagio per le derive moderniste di alcuni loro correligionari e non sopportano le donne vescovo e i matrimoni omosessuali.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sandro Magister |on 17 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Per papa Benedetto l’orribile 2010 è anno di grazia

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1344000

Per papa Benedetto l’orribile 2010 è anno di grazia

Penitenza, perdono e nuova evangelizzazione. Come e più che nel Giubileo del 2000. Un raffronto sorprendente. Con un’intervista del cardinale Ruini

di Sandro Magister

ROMA, 8 luglio 2010 – La via dolorosa della Chiesa di oggi fa da crudele contrasto con il glorioso tripudio del Giubileo del 2000, apogeo del pontificato di Giovanni Paolo II.

Eppure, se appena si scava in cosa fu davvero quell’anno di grazia, si scopre che la Chiesa di Benedetto XVI semplicemente ne realizza gli annunci.

Il Giubileo fu anno di pentimento e perdono. Di perdono dato e richiesto, per i tanti peccati dei figli della Chiesa nella storia. La prima domenica di Quaresima di quell’anno, il 12 marzo, papa Karol Wojtyla officiò sotto gli occhi del mondo una liturgia penitenziale senza precedenti. Per sette volte come i sette vizi capitali confessò le colpe commesse dai cristiani secolo dopo secolo, e per tutte chiese perdono a Dio. Sterminio degli eretici, persecuzione degli ebrei, guerre di religione, umiliazione delle donne…

Il volto dolente del papa, segnato dalla malattia, era l’icona di questo atto di pentimento. Il mondo lo guardò con rispetto. Con compiacimento, anche. Talora rincarando la pretesa: il papa avrebbe dovuto fare di più.

E in effetti, sui media mondiali, era questa la musica dominante. Bene faceva Giovanni Paolo II a umiliarsi per certe pagine nere della storia cristiana, ma ogni volta c’era chi pretendeva che doveva battersi il petto di più e per altro ancora. La lista non era mai bastante. Ripassando tutte le volte in cui papa Wojtyla chiese perdono per qualcosa, prima e dopo il Giubileo del 2000, si trova che lo fece per crociate, dittature, scismi, eresie, donne, ebrei, Galileo, guerre di religione, Lutero, Calvino, indios, ingiustizie, inquisizione, integralismo, islam, mafia, razzismo, Ruanda, schiavismo. E forse manca qualche voce. Di sicuro però mai chiese pubblicamente perdono per gli abusi sessuali sui bambini. Né si ricorda che qualcuno sia mai saltato su a rimproverargli questo silenzio, né tanto meno ad esigere che il papa aggiungesse alla lista la pedofilia.

Era solo dieci anni fa. Ma questo era lo spirito del tempo, dentro e fuori la Chiesa. Uno spirito poco attento allo scandalo dei giovanissimi abusati, nonostante fossero già esplosi in Austria il caso Groër, l’arcivescovo di Vienna colpito da accuse mai accertate, negli Stati Uniti il caso Bernardin, l’arcivescovo di Chicago falsamente accusato che perdonò il suo accusatore, e ovunque il caso Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo di cui si verificò poi la colpevolezza.

C’era però a Roma un cardinale che vedeva lontano, di nome Joseph Ratzinger.

Più che ai peccati dei cristiani del passato, sui quali il giudizio storico è sempre problematico, egli guardava ai peccati del presente. E tra questi egli ne vedeva alcuni che più di altri sporcavano il volto della Chiesa « santa », tanto più quando commessi da chierici.

Nel 2001, da prefetto della congregazione per la dottrina della fede, egli rese più stringenti le procedure con cui affrontare i casi di pedofilia tra il clero.

Quando nel 2002 negli Stati Uniti scoppiò lo scandalo in proporzioni clamorose, sostenne la linea del rigore.

Il venerdì santo del 2005, nello scrivere il testo dell’ultima Via Crucis del pontificato di Giovanni Paolo II, denunciò la « sporcizia » nella Chiesa con gli accenti di una lamentazione profetica.

Poche settimane dopo fu eletto papa e cinque anni dopo, nel decennale del Giubileo del 2000, lo scandalo della pedofilia investì la Chiesa e lui con un’asprezza senza precedenti.

Ebbene, sotto l’ondata travolgente delle accuse, Benedetto XVI ha fatto per le colpe dei cristiani di oggi quello che il Giubileo del 2000 fece per le colpe dei cristiani del passato.

Ha predicato che la più grande tribolazione per la Chiesa non nasce da fuori, ma dai peccati commessi dentro di lei.

Ha messo la Chiesa in stato penitenziale. Ha chiesto a tutti i cristiani di purificare sì la « memoria », ma più ancora la loro vita presente.

Ai cattolici dell’Irlanda, più di altri contagiati dallo scandalo, ha ordinato di far pulizia di tutto, di confessarsi spesso, di fare penitenza tutti i venerdì per un anno intero e ai loro vescovi e sacerdoti di sottoporsi a speciali esercizi spirituali.

Ai preti, soprattutto, ha dedicato una cura particolarissima. Prima ancora che le polemiche toccassero l’apice, Benedetto XVI ha indetto un Anno Sacerdotale per ravvivare nei chierici l’amore per la loro missione e la fedeltà ai loro impegni, castità compresa. Come modello di vita ha offerto loro l’esempio del santo Curato d’Ars, un umile curato di campagna nella Francia anticlericale dell’Ottocento, che passava le intere sue giornate nel confessionale, ad accogliere i peccatori e a perdonare.

*

Ma il perdono non fu il solo elemento che caratterizzò il Giubileo del 2000. Giovanni Paolo II volle quell’Anno Santo soprattutto per ridare slancio all’evangelizzazione del mondo.

E anche qui, di nuovo, il pontificato di Benedetto XVI non è altro che l’attuazione sistematica di quel progetto.

Quale sia infatti la « priorità » che papa Ratzinger si è assegnata, come successore di Pietro, non è un mistero. L’ha ribadita lui stesso con queste parole, nella lettera ai vescovi di tutto il mondo del 10 marzo 2009:

« Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto ».

Benedetto XVI è talmente convinto che condurre gli uomini a Dio sia « la priorità suprema e fondamentale » della Chiesa e del successore di Pietro, che non solo ne ha fatto il centro della sua predicazione ma ne ha tratto la decisione di creare nella curia romana un dicastero espressamente finalizzato alla « nuova evangelizzazione » dei paesi dove è più marcata la moderna eclisse di Dio.

Il nuovo ufficio l’ha istituito lo scorso 30 giugno e lo stesso giorno ha chiamato a Roma, a occuparsi della selezione dei futuri vescovi in tutto il mondo, il cardinale canadese Marc Ouellet, teologo molto in sintonia con lui, ma soprattutto diretto conoscitore del Québec, una delle aree dell’Occidente in cui la scristianizzazione è avvenuta in forma più drammatica e repentina.

Tornando lo scorso autunno da un viaggio in un’altra delle regioni più scristianizzate, Praga e la Boemia, Benedetto XVI ha maturato anche un’altra idea: quella di istituire un simbolico « cortile dei gentili », chiamato come il cortile aperto ai pagani dell’antico tempio di Gerusalemme, nel quale aprire un dialogo con gli uomini più lontani da Dio.

Anche questo progetto sta prendendo corpo. Il papa l’ha affidato al suo ministro della cultura, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi. Il « cortile dei gentili » sarà inaugurato a Parigi nel marzo del 2011 in tre sedi volutamente prive di ogni insegna religiosa: la Sorbona, l’Unesco e l’Académie Française. Vi hanno già aderito importanti personalità agnostiche e non credenti, a cominciare dalla psicoanalista e semiologa Julia Kristeva.

Quanto alle giovani generazioni, pupilla di Giovanni Paolo II, che per esse istituì le Giornate Mondiali della Gioventù delle quali la più grandiosa fu proprio quella del Giubileo, Benedetto XVI sa bene che il futuro della fede in Occidente si gioca in buona misura qui.

Anche in Italia, il paese d’Europa in cui la Chiesa continua ad avere una presenza solida e diffusa, già si intravedono i segnali del crollo. Un’indagine per « Il Regno » del professor Paolo Segatti, dell’Università di Milano, ha evidenziato il distacco nettissimo, tra i nati dopo il 1981, dalla pratica religiosa, dalla preghiera, dalla fede in Dio, dalla fiducia nella Chiesa.

Quando questi giovani avranno anch’essi dei figli, la trasmissione della fede cattolica alle future generazioni subirà una drastica cesura. Il « cortile dei gentili » dovrà far posto anche a loro.

__________

« UN RITORNO ALLE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO »

Intervista con Camillo Ruini

Nel 2000 Camillo Ruini era il cardinale vicario di Giovanni Paolo II. Era il suo primo collaboratore a Roma e in Italia. Niente è andato perduto di quell’Anno Santo, dice: « Il pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, istituito in questi giorni da Benedetto XVI, ne è l’ultimo grande rilancio ».

D. – Cardinale Ruini, che cosa è stato per la Chiesa il Giubileo del 2000?

R. – È stato per la Chiesa cattolica un tempo di straordinaria intensità, fortemente voluto e accuratamente preparato da Giovanni Paolo II, in particolare attraverso la lettera apostolica « Tertio millennio adveniente » che ha precisato il senso del Giubileo e scandito l’itinerario della sua preparazione. Nello spirito del Concilio Vaticano II, si è trattato di un ritorno alle origini, cioè di mettere al centro Gesù Cristo, cuore e fonte perenne della fede e della vita cristiana, in funzione di proporre il medesimo Cristo agli uomini del nostro tempo, quindi di quella nuova evangelizzazione che è l’anima del pontificato di Giovanni Paolo II, come già di Paolo VI e anzitutto del Concilio Vaticano II. Ad esempio, l’evento che più mi ha coinvolto, cioè la Giornata mondiale della gioventù a Tor Vergata, è stato il vertice del tentativo di evangelizzare e coinvolgere con Cristo i giovani, ossia il nuovo mondo che sta nascendo. Ma tanti altri eventi che hanno caratterizzato il grande Giubileo, dalla richiesta di perdono per i peccati dei membri della Chiesa alla memoria dei martiri del XX secolo, si iscrivono nella medesima prospettiva di evangelizzazione attraverso il ritorno alle sorgenti del cristianesimo.

D. – E che cosa resta di tutto ciò, dieci anni dopo?

R. – La sostanza rimane tutta: restare ancorati a Cristo e annunciare la fede in lui a tutti gli uomini, proponendola tutta intera, senza timori e senza omissioni. Certo, l’impressione è che oggi le condizioni siano meno favorevoli, ed effettivamente allora alcune grandi difficoltà erano ancora fuori dai nostri orizzonti, o comunque non apparivano centrali come oggi. Basti pensare all’11 settembre 2001, o all’irrompere di quella che amo chiamare la nuova questione antropologica, cioè la grande domanda, e la grande sfida, su chi è l’uomo: un semplice epifenomeno della natura o l’essere che, pur appartenendo alla natura, la supera infinitamente, con tutte le conseguenze che derivano dall’una o dall’altra alternativa. È normale, del resto, che il futuro sia imprevedibile: per definizione esso ci è nascosto, ma è anche sempre aperto, è il campo della libertà dell’uomo, e prima ancora della libertà di Dio, al di là di tutti i determinismi che pur esistono nella natura e nella storia. Perciò nei momenti difficili il cristiano non può disperare o rassegnarsi, deve piuttosto approfondire la sua conversione a Dio e ricavare da essa le energie per un impegno più forte.

D. – Giovanni Paolo II chiese perdono a Dio e al mondo per tutta una fila di colpe passate dei cristiani. Ma oggi le accuse alla Chiesa sono ancor più martellanti e mirate. E Benedetto XVI che fa?

R. – Con quella sua iniziativa Giovanni Paolo II sorprese anche il mondo ecclesiale. A molti parve un gesto gratuito, non necessario, e potenzialmente pericoloso, ma poi si è capito che non era così. In ogni caso egli chiese perdono per colpe commesse dai cristiani nel passato. Oggi è diverso. L’attenzione è focalizzata su alcune colpe non di ieri ma di oggi. Benedetto XVI riconosce i peccati commessi nel presente e per questi chiede perdono anzitutto a Dio e quindi anche ai fratelli nella Chiesa e nell’umanità. Il perdono implica la volontà di riparare il male causato alle vittime, richiede la fede e la conversione del cuore. Altra cosa è però l’atteggiamento di coloro che accusano la Chiesa per colpirla, non per una positiva volontà di costruire. Di fronte a questi attacchi occorre forza spirituale, non debolezza. Maritain affermava giustamente che la Chiesa non deve genuflettersi di fronte al mondo.

D. – Il Giubileo fu un grande appello alla conversione dei cuori e a un’autoriforma della Chiesa. Se ne vedono oggi i frutti? Quale riforma della Chiesa ha in mente Benedetto XVI?

R. – La riforma della Chiesa che Benedetto XVI vuole non è in primo luogo una riforma di strutture esteriori, di apparati organizzativi. La vera riforma riguarda anzitutto l’anima profonda della Chiesa, il suo rapporto con Dio. D’altra parte la parola « autoriforma » non è la più esatta: la Chiesa non può far da sé. Deve lasciarsi plasmare e riformare dall’alto, prendendo vita e forma dallo Spirito di Dio.

D. – L’anno giubilare fu anche l’anno della « Dominus Iesus », della riaffermazione di Gesù come unico salvatore del mondo, un documento che fu molto contestato. Ce n’era bisogno?

R. – Certamente. Ce n’era bisogno e ce n’è bisogno anche oggi. Semmai, si potrebbe dire che sia arrivato in ritardo, perché ormai da qualche decennio c’era, anche nella Chiesa, chi metteva in dubbio una verità, quella di Cristo unico salvatore, che per i credenti in Cristo è fondamentale e vorrei dire ovvia, dato che fa parte del messaggio cristiano primigenio. Il Nuovo Testamento è tutto centrato su questo: all’infuori di Gesù Cristo non c’è sotto il cielo altro nome nel quale gli uomini possano essere salvati.

D. – Ma il cristianesimo non è credibile se i cristiani si presentano al mondo disuniti. Che ne è oggi del cammino ecumenico di riconciliazione tra le Chiese?

R. – In dieci anni molti passi avanti sono stati compiuti, in particolare con le Chiese ortodosse e con quelle precalcedonesi d’Oriente, tutte di origine apostolica. Meno positivo è il bilancio con le Chiese uscite dalla riforma protestante. Le difficoltà principali su questo versante sono due. La prima è il progressivo allontanamento di queste Chiese dal modello apostolico quanto al modo di concepire e attuare i ministeri ecclesiastici. La seconda riguarda l’antropologia, le questioni su chi è l’uomo, sulla bioetica, sulla famiglia. Su entrambi questi fronti varie comunità protestanti hanno intrapreso un cammino di apparente modernizzazione che in realtà le porta sempre più lontane dal centro del cristianesimo.

D. – E con gli ebrei? E con l’islam? Giovanni Paolo II sognava un incontro sul Sinai fra le tre religioni…

R. – Con gli ebrei vi sono stati certamente dei progressi di sostanza, anche se in certi momenti tormentati da incomprensioni, errori procedurali e fraintendimenti. Con l’islam, rispetto al Giubileo di dieci anni fa, il quadro è stato segnato dall’11 settembre del 2001. Ma sia la Chiesa sia alcune componenti dell’islam hanno cercato e cercano di superare questa frattura e di giungere a una migliore comprensione reciproca. La convinzione comune è che abbiamo tutti il dovere di servire l’unità del genere umano, in un mondo sempre più piccolo e interdipendente, nel quale abbiamo sempre più bisogno gli uni degli altri.

Publié dans:Sandro Magister |on 8 juillet, 2010 |Pas de commentaires »
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