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Ultimo appello: salvate il cristiano d’Iraq – È l’unico paese dove ancora si celebrano le liturgie in aramaico

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/dettaglio.jsp?id=143981

Ultimo appello: salvate il cristiano d’Iraq
È l’unico paese dove ancora si celebrano le liturgie in aramaico, la lingua di Gesù. Ma lì la cristianità rischia di morire. Uccisioni, aggressioni, sequestri. E ora anche la « jiza », la tassa storicamente imposta dai musulmani ai sudditi « infedeli », quelli che ancora non sono fuggiti all’estero

di Sandro Magister

ROMA, 28 maggio 2007 – Nella guerra che insanguina l’Iraq, combattuta principalmente da gruppi musulmani contro altri musulmani e gli « infedeli », i cristiani iracheni sono gli unici che non utilizzano né armi né bombe, nemmeno per difendersi. Non esistono in Iraq milizie cristiane armate. Di fatto essi sono il gruppo più vulnerabile e perseguitato. Nel 2000 erano più di un milione e mezzo, il 3 per cento della popolazione. Oggi si stima che siano rimasti in meno di 500 mila.

In un comunicato ufficiale diffuso il 24 maggio, il governo iracheno ha promesso protezione alle famiglie cristiane minacciate e cacciate da gruppi terroristici islamici. Anche alcuni esponenti musulmani hanno espresso solidarietà. Il passo del governo – privo però di iniziative concrete – fa seguito al drammatico appello lanciato domenica 6 maggio da Emmanuel III Delly, patriarca dei caldei, la più cospicua comunità cattolica irachena, nell’omelia della messa celebrata nella chiesa di Mar Qardagh, ad Erbil, nel Kurdistan.

La regione curda, a settentrione di Baghdad, è la sola in Iraq dove oggi i cristiani vivono in relativa sicurezza. Ad Erbil è stato trasferito il seminario caldeo di Baghdad, il Babel College con la biblioteca, i cui edifici, nella capitale, sono divenuti piazzaforte delle truppe americane, nonostante le proteste del patriarcato.

Nelle città curde di Erbil, Zahu, Dahuk, Sulaymaniya, Ahmadiya e nei villaggi cristiani del circondario affluiscono i profughi cristiani dal centro e dal sud del paese.

Poco più a nord, però, nella regione di Mosul e nella piana di Ninive, il pericolo si fa di nuovo palpabile. Qui è la culla storica del cristianesimo in Iraq. Vi sono chiese e monasteri che risalgono ai primissimi secoli. In alcuni villaggi si parla ancora un dialetto aramaico chiamato sureth e nelle liturgie si usa l’aramaico, che era la lingua di Gesù. Sono presenti comunità di vari riti e dottrine: caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, assiri d’Oriente, armeni cattolici e ortodossi, greco-melchiti.

I villaggi cristiani sono però circondati da popolazioni musulmane ostili. E ancor più pericolosa è la vita dei cristiani nella capitale della regione, Mosul. I sequestri di persona sono frequentissimi. Il rilascio avviene dopo che i famigliari hanno versato una somma tra i 10 e i 20 mila dollari, oppure hanno accettato di cedere le loro case e lasciare la città. Ma il sequestro può anche finire nel sangue. Nel settembre del 2006, dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, un gruppo denominato « Leoni dell’islam » sequestrò padre Paulos Iskandar, siro-ortodosso. I rapitori pretesero che trenta fogli di scuse per le offese arrecate all’islam fossero affissi sulle chiese di Mosul. Poi lo decapitarono. Lo stesso giorno, a Baghdad, fu ucciso un altro sacerdote, padre Joseph Petros. Disse una suora all’agenzia vaticana Fides: « Gli imam nelle moschee predicano che uccidere un cristiano non è reato. È una caccia all’uomo ».

Pascale Warda, una cristiana assira, ministro dell’immigrazione nel penultimo governo iracheno, crede che sia necessario creare una provincia autonoma nella piana di Ninive, una specie di area protetta non solo per i cristiani ma anche per altre minoranze religiose come gli yazidi, cultori di un’antichissima religione prezoroastriana. Ma l’intensificarsi delle aggressioni da parte di musulmani che vivono nella stessa regione rende l’ipotesi impraticabile. Lo scorso aprile, 22 yazidi sono stati fatti scendere da un bus e uccisi su una strada vicino a Mosul. Nel 2005, un assalto terrorista massacrò i quattro assiri che scortavano la ministro.

A Mosul gruppi islamici hanno cominciato ad esigere dai cristiani il pagamento di una tassa, la jiza, il tributo storicamente imposto dai musulmani ai loro sudditi cristiani, ebrei e sabei che accettavano di vivere in regime di sottomissione, come « dhimmi ».

Ma è soprattutto a Baghdad che la jiza è imposta ai cristiani in modo sempre più generalizzato. Nel quartiere di Dora, 10 chilometri a sud-ovest della capitale, ad alta concentrazione di cristiani, gruppi legati ad al Qaeda hanno instaurato un sedicente « Stato islamico nell’Iraq » e riscuotono sistematicamente la tassa, fissata tra i 150 e i 200 dollari l’anno, l’equivalente del costo vita di un mese per una famiglia di sei persone. L’esazione del tributo si sta estendendo ad altri quartieri di Baghdad, verso al-Baya’a e al-Thurat.

Ad alcune famiglie cristiane di Dora è stato detto che possono restare solo se danno in sposa una figlia a un musulmano, in vista di una progressiva conversione all’islam dell’intera famiglia. Una fatwa vieta di portare al collo la croce. Quanto alle chiese, avvertimenti a colpi di granata hanno imposto di togliere le croci dalle cupole e dalle facciate. A metà maggio, la chiesa assira di San Giorgio è stata data alle fiamme. Sette sacerdoti sono stati finora sequestrati nella capitale. L’ultimo, nella seconda metà di maggio, è stato padre Nawzat Hanna, cattolico caldeo.

Secondo una stima del governo iracheno, la metà dei cristiani hanno lasciato Baghdad e i tre quarti se ne sono andati via da Bassora e dal sud. Chi non si ferma nel Kurdistan se ne va all’estero. Si calcola che in Siria vi siano fino a 700 mila cristiani arrivati dall’Iraq, altrettanti in Giordania, 80 mila in Egitto, 40 mila in Libano. I più restano lì bloccati, senza assistenza né diritti, in attesa di un improbabile visto per l’Europa, l’Australia, le Americhe.

In Iraq i cristiani sono tradizionalmente presenti nelle professioni. Molti sono medici e ingegneri. Nelle scuole sono – erano – il 20 per cento degli insegnanti. Sono attivi nei settori informatico, edilizio, alberghiero, agricolo specializzato. Gestiscono radio e tv. Fanno i traduttori e gli interpreti, professione particolarmente vulnerabile che ha già contato trecento vittime.

La costituzione irachena stabilisce per tutte le religioni una parità di diritti che non ha eguali nelle legislazioni degli altri paesi arabi e musulmani. Ma la realtà è opposta. Ha scritto la rivista di geopolitica « Limes » in un servizio sul suo ultimo numero, il terzo del 2007:

« L’annientamento del piccolo grande popolo cristiano iracheno, erede della speranza dei profeti, corrisponderebbe alla fine della possibilità che il nuovo Iraq diventi una nazione libera e democratica ».

E sarebbe una drammatica sconfitta anche per
la Chiesa.
 

« L’ipotesi migliore »: l’umile proposta della Chiesa di Ratzinger e Ruini

come spesso accade l’articolo di Sandro Magister è un po’ lungo, ma come spesso, lo ritento interessante e competente: 

« L’ipotesi migliore »: l’umile proposta della Chiesa di Ratzinger e Ruini

Il cardinale vicario del papa la rilancia al mondo laico che ha come suoi fari la ragione critica e la libertà scientifica illimitata. In cambio, chiede che questa ragione rinunci a una pretesa di dominio esclusivo e si apra alle questioni chiave di ogni teologia e cultura: Dio e l’uomo

di Sandro Magister

ROMA, 21 maggio 2007
Lo stesso giorno in cui a San Paolo del Brasile Benedetto XVI rivolgeva ai vescovi di quella nazione il discorso chiave del suo viaggio, in Italia il suo cardinale vicario Camillo Ruini dettava le linee di un incontro positivo del cristianesimo con i tratti dominanti della cultura contemporanea.

Quel giorno era l’11 maggi« L’ipotesi migliore »: l’umile proposta della Chiesa di Ratzinger e Ruinio. E i due discorsi, del papa e del suo vicario, pur geograficamente così lontani, erano in realtà vicinissimi.

In un mondo globalizzato, infatti, tendenze come il relativismo e il nichilismo, il dominio delle scienze e, viceversa, il risveglio pubblico delle religioni non hanno più confini e aree riservate. Incidono sulla vita di tutti, in tutti i continenti.

E quindi una Chiesa a dimensione universale come la cattolica non può non affrontare la sfida. Lo ha fatto fin dalle sue origini, come il cardinale Ruini spiega nella parte iniziale del suo discorso, che traccia a grandissime linee una storia dell’incontro tra la teologia cristiana e le culture, dall’impero romano all’età moderna, per poi concentrare l’attenzione soprattutto sulla stagione che corre dal Concilio Vaticano II a oggi.

Ruini descrive le interpretazioni divergenti che il Concilio ha avuto dentro il pensiero cattolico: interpretazioni « che hanno diviso la teologia cattolica e fortemente influenzato la vita della Chiesa ».

Egli dedica un passaggio anche alla teologia della liberazione fiorita in America latina negli anni Settanta ed Ottanta, allo choc da essa subita nel 1989 con il crollo del sistema marxista e al successivo suo confluire nella teologia delle religioni intese come molteplici e valide vie di salvezza « extra Ecclesiam »: confluenza puntualmente confermata dalle critiche rivolte a Benedetto XVI, dopo il suo viaggio in Brasile, da esponenti delle teologie « indigeniste ».

Ma non si limita a descrivere lo stato delle cose. Il suo discorso si conclude con proposte positive e si riallaccia al grande magistero di Joseph Ratzinger.

L’immagine che se ne ricava da entrambi dal papa teologo e dal suo vicario filosofo non è quella di una Chiesa arroccata nelle sue mura e sotto assedio.

E nemmeno quella di una Chiesa intenta soltanto a dire il paradosso e la bellezza della verità cristiana, accada quel che accada.

Ma al contrario:

« Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti nel nostro tempo è necessario che entrino in dialogo con la ragione critica e con la ricerca di libertà che lo caratterizzano, in modo da aprire questa ragione e questa libertà, e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono ».

Così il cardinale Ruini in un passaggio chiave del suo discorso dell’11 maggio, qui sotto riprodotto per intero.

Il discorso è stato pronunciato in una sede e a un pubblico non ecclesiali ma laici: a Torino, alla Fiera Internazionale del Libro.

Teologia e cultura: terre di confine

di Camillo Ruini

1. Le radici storiche

Il rapporto tra teologia e cultura è stato fondamentale nel passato, sia per la teologia, e più ampiamente per il cristianesimo e la sua espansione missionaria, sia per la cultura, o meglio per le varie culture e civiltà nelle quali il cristianesimo si è inserito e che ha esso stesso in larga misura plasmato o anche generato.

Ciò è avvenuto già nellepoca neotestamentaria, quando la fede in Gesù Cristo è nata nel mondo culturale giudaico e subito dopo è entrata in quello ellenistico-romano, iniziando a trasformare entrambe queste culture, che del resto non erano rigidamente separate ma già tra loro assai intrecciate.

Poi questo processo ha caratterizzato tutta lepoca patristica, attraverso un confronto serrato della teologia dei Padri (non solo gli Apologeti) con la filosofia e gli stili di vita allora dominanti. Ciò è andato di pari passo con laffermarsi della missione cristiana e ne ha anzi costituito una dimensione essenziale. Al termine di questo itinerario la fede cristiana era diventata il fattore più influente e determinante di quella cultura, che pure manteneva i suoi tratti propri e specifici e naturalmente il suo dinamismo di evoluzione storica.

A lungo e attraverso complesse fasi successive che hanno a che fare con le grandi migrazioni di popoli avvenute al passaggio tra lAntichità e il Medioevo e con le ulteriori fasi di espansione missionaria del cristianesimo tra i popoli germanici e slavi è perdurato e si è per vari aspetti esteso e anche istituzionalizzato questo ruolo centrale del cristianesimo nella cultura. Una formulazione classica ed esemplare di tale centralità si può vedere nella prima questione della « Summa Theologiae » di San Tommaso dAquino, dedicata alla « Sacra doctrina », dove si afferma non solo che questa dottrina è scienza, in un senso superiore, e sapienza, ma che, essendo una in se stessa, essa si estende a tutto ciò che appartiene alle diverse scienze filosofiche, speculative e pratiche, e al contempo ha rispetto ad esse una dignità che le trascende e un radicale primato, e tuttavia deve avvalersi di loro, secondo il principio che la grazia non toglie ma perfeziona la natura.

Sappiamo bene come non solo questo primato ma il rapporto stesso tra cristianesimo e cultura, teologia e cultura, sia progressivamente entrato in crisi fin dai primi inizi dellepoca moderna, a partire da quella che è stata chiamata la svolta antropologica, che ha posto luomo al centro, oltre che dalla nascita della scienza detta galileiana e dalle guerre di religione europee, che hanno reso in qualche modo necessario concepire e gestire la sfera pubblica « etsi Deus non daretur », come se Dio non ci fosse.

Non è il caso di soffermarsi qui su queste ben note problematiche. Vorrei piuttosto ricordare che allinterno della teologia medievale, e in forma eminente con San Tommaso, la distinzione e nella distinzione il rapporto reciproco tra ragione e fede, filosofia e teologia, sono stati oggetto di approfondimento sistematico. Come ha mostrato magistralmente É. Gilson in uno studio pubblicato già nel 1927 sui motivi per i quali San Tommaso ha criticato SantAgostino (« Pourquoi saint Thomas a critiqué saint Augustin », in AHDLM, 1, pp. 5-127), la base teoretica di questo approfondimento è da ritrovarsi nella gnoseologia ed ontologia di matrice aristotelica, che ha consentito appunto una distinzione più chiara e sistematica tra le capacità conoscitive intrinseche alluomo e la luce che egli riceve dalla presenza divina in lui.

Una tesi storico-teologica largamente diffusa, e sviluppata soprattutto da un autore della portata di H. de Lubac, sulle orme di M. Blondel, ritiene che linsistenza unilaterale su questa distinzione, affermatasi nella seconda scolastica, cioè appunto ai primi inizi delletà moderna, abbia contribuito allemarginazione del cristianesimo e della teologia dagli sviluppi della cultura, rappresentandone involontariamente una legittimazione teologica.

Personalmente posso concordare con questa valutazione, a patto di non esagerare il suo concreto peso storico. Mi preme sottolineare però che essa non deve portare a un giudizio negativo sulla validità intrinseca e anche sulla necessità e fecondità storica di quella distinzione sistematica.

Essa infatti nasce in ultima analisi dal riconoscimento del carattere divino e trascendente della rivelazione cristiana, anzitutto nel suo centro che è Gesù Cristo ma anche per quanto riguarda la vocazione dellumanità a partecipare gratuitamente, nello Spirito Santo, al rapporto filiale che Cristo ha con il Padre.

Dallaltra parte essa scaturisce dal riconoscimento della consistenza interna delle creature, proprio perché esse sono opera di Dio (cfr « Gaudium et spes », 36).

Soltanto sulla base di questa distinzione, inoltre, è possibile un rapporto con la ragione moderna e contemporanea e con la rivendicazione di libertà che pervade la nostra cultura, rispettando e valorizzando quei loro dinamismi che hanno consentito di conseguire, negli ultimi secoli, risultati straordinari

2. Letà moderna

Nella crisi dei rapporti tra cristianesimo e cultura occidentale è comunque importante distinguere almeno due principali fasi storiche.

La prima riconosce ancora il valore e limportanza della fede cristiana e a suo modo cerca di salvarne anche la verità. Ancora in Hegel si riscontra in qualche modo questo atteggiamento, sebbene in lui appaia particolarmente chiaro che la verità e validità del cristianesimo è subordinata al primato della filosofia e comporta in realtà uno svuotamento dallinterno del cristianesimo stesso, ossia il suo trascendimento filosofico.

Già prima di Hegel però lilluminismo, soprattutto in Francia, aveva visto lemergere di una critica radicale alla Chiesa e alla fede cristiana. Questa critica, che si conclude nella negazione della divinità di Cristo e dellesistenza stessa di Dio, con la riconduzione delluomo a un semplice essere del mondo, ha però il suo sviluppo culturalmente più significativo in Germania, nella parabola storica che va da Hegel a Nietzsche e che è stata descritta da K. Löwith con rara profondità (« Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX », ed. Einaudi).

Il secolo XIX è anche il tempo nel quale il cristianesimo occidentale ha preso piena coscienza della radicalità di questa minaccia ed ha cercato di reagirvi, secondo due grandi direttrici che, semplificando, possono ricondursi luna principalmente al protestantesimo e laltra soprattutto al cattolicesimo.

La prima è caratterizzata dal tentativo di riformulare il cristianesimo, in modo da renderlo accettabile al nuovo contesto culturale ed idoneo non solo a sopravvivere in esso ma a porsi come la sua dimensione più alta: è la linea del protestantesimo liberale, da Schleiermacher ad Harnack, che ha avuto certamente notevole influsso anche in ambito cattolico, soprattutto nella vicenda del modernismo. Questa linea ha comportato in realtà uno svuotamento del centro vitale del cristianesimo, cioè del suo contenuto di fede, di quello che possiamo chiamare il cristianesimo credente. Dal punto di vista storico essa si è conclusa, in realtà provvisoriamente, con la prima guerra mondiale e con la forte affermazione della fede promossa soprattutto da K. Barth.

Laltra direttrice, che ha trovato la sua espressione più significativa ed autorevole nel Concilio Vaticano I, particolarmente nella costituzione dogmatica « Dei Filius » sulla fede cattolica, è consistita invece nel riproporre quelle verità fondamentali del cristianesimo che apparivano negate o messe in dubbio dalle forme di pensiero allora prevalenti. Lapproccio a tali forme di pensiero fu pertanto fortemente dialettico, improntato alla contestazione e alla critica assai più che allimpegno di valorizzare gli aspetti positivi che possono esservi presenti. Un impegno di questo genere certamente non è mancato nel cattolicesimo del secolo XIX, basti ricordare la scuola teologica cattolica di Tubinga, o due pensatori come J. H. Newman ed Antonio Rosmini, ma la linea prevalente è stata diversa. Vorrei evitare però le caricature e le semplificazioni sommarie: in realtà il lavoro teologico e filosofico sotteso al Concilio Vaticano I e continuato poi con laffermarsi del neotomismo ha avuto una grande vivacità culturale, esplicatasi per un verso nel mettere a nudo limiti e contraddizioni presenti nel pensiero moderno, per laltro nel ricuperare e ripensare la grande eredità della teologia medievale, in dialogo con le problematiche del nostro tempo.

3. Concilio e dopo-Concilio

Nel periodo tra le due guerre mondiali il cristianesimo occidentale, sia cattolico che protestante, ha conosciuto un periodo complessivamente più favorevole, come interna vitalità religiosa e come accoglienza nel contesto generale della cultura. Proprio in questo periodo sono avvenute quella svolta allinterno della teologia e filosofia neotomista e contestualmente quellopera di riappropriazione e valorizzazione delle grandi ricchezze bibliche, patristiche e liturgiche, che hanno costituito la piattaforma di base del decisivo e per molti versi inatteso sviluppo costituito dal Concilio Vaticano II.

Con esso è cambiato profondamente lapproccio alla cultura del nostro tempo, passando da un atteggiamento prevalentemente critico alla ricerca di un terreno di incontro, attraverso un dialogo improntato alla simpatia e allapprezzamento, che non ha significato però unaccettazione unilaterale e acritica. Ciò riguardo alla centralità delluomo, cardine della svolta antropologica dellepoca moderna, allautonomia delle realtà terrene, alla libertà religiosa e alla valutazione favorevole della democrazia e dello Stato di diritto. La forza del Vaticano II è consistita nellaver operato questapertura proprio a partire dal centro vitale del cristianesimo, ripensato nella sua straordinaria fecondità anche umana e culturale.

Subito dopo la conclusione del Vaticano II, e non senza rapporto con quel fenomeno storico e culturale che viene indicato facendo riferimento allanno 1968, si è posto acutamente il problema dellinterpretazione del Concilio stesso, con laffermarsi di linee divergenti che hanno diviso la teologia cattolica e fortemente influenzato la vita stessa della Chiesa.

Così, mentre vi erano coloro che sostanzialmente, o anche apertamente e frontalmente, rifiutavano il Concilio come una rottura della tradizione cattolica, altri, assai più numerosi ed influenti, ritenevano che la novità portata dal Vaticano II dovesse condurre ad unapertura radicale verso la cultura del nostro tempo, come anche al superamento ad ogni costo delle differenze tra le diverse confessioni cristiane, fino a quella che a mio avviso avrebbe rappresentato una rottura della forma cattolica del cristianesimo. Viene spontaneo ricordare in proposito il libro « Infallibile? Una domanda » di H. Küng, uscito nel 1970, ma è indicativo anche ciò che scriveva un teologo come O. H. Pesch nel nono volume del « Mysterium Salutis », pubblicato in tedesco nel 1973 e in italiano nel 1975: Rispetto al concetto corrente di ortodossia si deve dire oggi che nessuno può più ignorare la quantità di eresia, non solo materiale ma anche formale, che esiste oggi nella Chiesa (pp. 388-389 delledizione italiana). Si tratta per lui di una situazione positiva, che consente in particolare di affermare finalmente, anche allinterno della Chiesa cattolica, il primato della fede personale che salva rispetto ad ogni norma o condizione ecclesiale.

In effetti è iniziata e si è diffusa rapidamente subito dopo il Concilio la prassi di uninterpretazione assai disinvolta, riduttiva e anche elusiva delle stesse verità essenziali della fede. Si è verificata così, inevitabilmente, una frattura tra quei teologi che più avevano contribuito a far maturare le premesse del Concilio, oltre che al suo svolgimento.

Nei decenni più recenti questa situazione si sta, sia pure faticosamente, ricomponendo: per il suo pieno e positivo superamento, che non significa affatto la soppressione della giusta e indispensabile libertà di ricerca e di un sano pluralismo teologico, è assai importante quella linea di ermeneutica del Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 e che egli stesso ha qualificato come ermeneutica della riforma.

Come ha detto molto nettamente il papa in quel discorso, il grande programma del Concilio di un sì” fondamentale, anche se non acritico, alletà moderna non è assolutamente da abbandonare, anzi è da sviluppare e concretizzare nei suoi diversi versanti, da quello dei rapporti con le scienze empiriche e con le scienze storiche a quello delle relazioni tra la Chiesa e le istituzioni politiche. Su questi versanti Benedetto XVI rileva che non mancano positivi sviluppi, come la maggiore consapevolezza acquisita dalle scienze empiriche dei limiti intrinseci ai loro metodi o come la percezione diffusa che escludere il contributo della religione dalla vita sociale e pubblica risulta dannoso per la società stessa e alla fine anacronistico.

4. Per un discernimento del tempo che stiamo vivendo

Per procedere su questa strada occorre tentare un discernimento, sempre difficile e azzardato, del tempo in cui stiamo vivendo. Lallora Prof. W. Kasper, nel libro « Introduzione alla fede » uscito nel 1972 (pp. 27-31), parlava del nostro tempo come di un secondo illuminismo, cioè di uno svelamento dellilluminismo a se stesso, di una metacritica della critica illuministica, che si esercita riguardo ad entrambe le grandi rivendicazioni dellilluminismo, la ragione e la libertà, in quanto la critica stessa ha mostrato come ambedue siano largamente condizionate e gravate da molteplici presupposti, alla fine dunque altamente problematiche.

Così ci siamo resi di nuovo consapevoli della fondamentale finitezza delluomo, della storicità e fatticità irriducibile della realtà in cui viviamo e della provvisorietà dei nostri schemi di pensiero e progetti di vita, personale e pubblica. In una tale situazione, a giudizio di Kasper si aprono davanti allumanità occidentale due strade possibili.

Una è quella di attestarsi dentro ai propri limiti, accontentandosi per così dire di essi e ritenendoli invalicabili; rifiutando pertanto come prive di senso le problematiche religiose come quelle metafisiche.

Laltra riconosce la propria limitatezza, anzi miseria profonda, ma resta anche aperta agli interrogativi e alle aspirazioni che luomo continua a portare dentro di sé, in ultima analisi al bisogno di salvezza, allesigenza di cercare unesistenza felice e compiuta e una risposta alle domande sul senso della propria vita e sullorigine della realtà.

A mio parere questa diagnosi di W. Kasper, a suo tempo anticipatrice basti pensare a quanto diffusa fosse allora la convinzione del primato culturale del marxismo , a distanza di 35 anni rimane ancora in buona parte valida.

Nel frattempo sono intervenute però novità importanti, non solo negli atteggiamenti dello spirito ma nei fatti della storia.

Mi riferisco allemergere della nuova questione antropologica e delle connesse problematiche di etica pubblica, a seguito di quegli sviluppi delle scienze e delle biotecnologie che hanno reso possibili interventi diretti sulla realtà fisica e biologica del nostro essere, come anche ai grandi mutamenti degli scenari mondiali, che hanno una loro data emblematica nell11 settembre 2001 ma che riguardano assai più ampiamente il rapido affermarsi di grandi nazioni e civiltà sempre meno disposte ad accettare il predominio dellOccidente.

Quanto agli atteggiamenti dello spirito, nei decenni successivi a quella diagnosi di W. Kasper sono diventate più evidenti la pretesa del relativismo di porsi come criterio insuperabile, e paradossalmente assoluto, sia della verità sia del bene morale e al contempo la sua parentela con il fenomeno, forse ancora più ampio e più profondo, del nichilismo, che sembra quasi inverare storicamente la tesi di Nietzsche e Heidegger secondo la quale esso costituirebbe il destino del nostro tempo, intimamente connesso con la morte di Dio. Un esempio recentissimo dellinflusso pervasivo del nichilismo in un ambito come quello del diritto è rappresentato dal libro di N. Irti « Il salvagente della forma » (ed. Laterza) e dal dialogo dello stesso Irti con Claudio Magris pubblicato sul « Corriere della Sera » del 6 aprile scorso.

Le forme nelle quali la morte di Dio si fa strada nella cultura occidentale di oggi sono però tra loro diverse.

Una è quella dellaffermazione dellateismo che viene motivata soprattutto sulla base di unassolutizzazione dellinterpretazione evoluzionistica delluniverso, come se essa fosse, ben più di una teoria scientifica, una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande sullorigine e la natura delle cose non siano più lecite né necessarie (J. Ratzinger, « Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo », ed. Cantagalli, pp. 189-190).

Laffermazione dellateismo viene però ritenuta da molti troppo impegnativa rispetto ai limiti delle nostre conoscenze. Ben più diffuse sono quindi posizioni agnostiche, che si riconducono a quellidea, o a quellatteggiamento dello spirito, secondo cui « latet omne verum », ogni verità è nascosta (ivi, pp. 184-186).

Si potrebbe dire che il nichilismo prende così un volto relativistico, apparentemente più benigno e tollerante e alla fine forse più coerente con la sua natura profonda. In ogni caso però ci allontaniamo radicalmente dal contenuto essenziale e dallorizzonte stesso del cristianesimo, perché un Dio del quale non si può sapere nulla non è certamente il Dio che parla a noi ed entra nella nostra storia.

Nei decenni più recenti vi sono stati tuttavia anche sviluppi di segno molto diverso, con un forte ricupero del senso religioso e con il declino dellidea che la secolarizzazione sia un processo irreversibile, destinato a portare, se non alla scomparsa, allirrilevanza della religione, almeno in Occidente e a livello pubblico. La ragione intrinseca di tale declino sta anzitutto nellincapacità di rispondere, da parte di una cultura secolaristica, alle domande fondamentali e concretamente ineludibili sul senso e la direzione della nostra esistenza.

Soprattutto a partire dall11 settembre 2001 si è aggiunta unaltra motivazione, legata alla percezione diffusa della minaccia che sembra provenire dalla deriva fondamentalista dellislamismo: questa percezione ha orientato il risveglio del senso religioso ad assumere un più preciso profilo identitario cristiano e, in un Paese come lItalia, cattolico. Si tratta di un fenomeno ampiamente presente e fortemente sentito nelle popolazioni, ma che sta assumendo grande rilievo anche sul piano della cultura pubblica.

Tra il risveglio religioso e le tendenze relativistiche e nichilistiche esiste obiettivamente un profondo contrasto: è questa la ragione sostanziale per la quale, in Italia come in moltissimi altri Paesi, quello della religione, e in particolare del cristianesimo e per altri versi dellIslam è diventato ormai, nella cultura e nella società, uno dei più rilevanti terreni di confronto e anche di polemica, reso ancora più concreto e coinvolgente dallemergere della nuova questione antropologica, con le sue implicazioni nelletica pubblica.

5. Tentativi di risposta teologica

In una situazione di questo genere è assai grande lo spazio, anzi il bisogno dellapporto della teologia. Per delineare la fisionomia che esso potrebbe assumere sembra utile richiamare anzitutto i limiti di alcuni tentativi già attuati e, almeno in parte, ancora in atto.

Uno di essi, ormai desueto a motivo dei limiti emersi nei processi di secolarizzazione, è quella che è stata chiamata teologia della secolarizzazione, di matrice soprattutto protestante ma penetrata anche in ambito cattolico. Essa ratificava, come il risultato della dinamica interna del cristianesimo, la separazione crescente tra fede e cultura e affidava la mediazione tra di esse soltanto alla rivendicazione dellorigine cristiana di tale processo. Così però rimane aperta la strada allemarginazione progressiva del cristianesimo, man mano che i processi di secolarizzazione si sviluppano e si allontanano dalla propria origine, come normalmente avviene nella storia.

Un altro approccio teologico, oggi ancora abbastanza presente, sebbene colpito alla radice dagli eventi dellanno 1989, che hanno messo in evidenza linsostenibilità non solo politica ed economica ma antropologica ed etica dei modelli di vita associata che si richiamano al marxismo, è quello delle teologie della liberazione e anche delle teologie politiche. Alla loro base vi è lintenzione, ampiamente condivisibile, di ricuperare, in vista del futuro, il ruolo storico del cristianesimo. Il loro limite sostanziale consiste però nellaffidare questo ruolo principalmente alla prassi politica, mettendo così a carico della politica il problema stesso della salvezza delluomo e del senso dellesistenza, ciò che comporta fatalmente unassolutizzazione falsa e distruttiva della politica stessa.

La profonda disillusione prodotta nellambito delle teologie della liberazione dai fatti del 1989 ha spinto vari loro esponenti verso posizioni improntate al relativismo. Essi sono confluiti così, insieme a non pochi altri teologi, in quellorientamento, che prende vari nomi tra cui quello di teologia delle religioni, secondo il quale fondamentalmente non solo il cristianesimo ma anche le altre molteplici religioni del mondo, con i popoli e le culture che ad esse si riferiscono e che spesso sarebbero stati oggetto da parte dei cristiani di un imperialismo e colonialismo non solo politico ma anche religioso , costituirebbero in realtà, accanto al cristianesimo storico, autonome e legittime vie di salvezza.

Viene abbandonata così quella fondamentale e davvero originaria verità della fede, evidentissima nel Nuovo Testamento e fonte primaria del dinamismo missionario della Chiesa dei primi secoli, secondo la quale Gesù Cristo, nella sua concretezza di Figlio di Dio che si è fatto uomo ed ha vissuto nella storia, è lunico Salvatore dellintero genere umano, anzi di tutto luniverso.

La dichiarazione « Dominus Iesus » della congregazione per la dottrina della fede, riaffermando con forza questa verità, non ha fatto che dare voce alla missione essenziale della Chiesa. Il libro che ho già citato dellallora cardinale Ratzinger mette in luce come in determinate forme di teologia delle religioni sia allopera quel principio del « latet omne verum » che accomuna per certi aspetti il relativismo attualmente diffuso in Occidente con lapproccio al divino delle grandi religioni orientali, e anche del pensiero tardo-antico che proprio in questi termini si opponeva al cristianesimo. In vari teologi questa svolta relativistica si accompagna con la rivendicazione, non abbandonata, del primato della prassi: dove cioè la conoscenza non può arrivare potrebbe invece giungere la prassi; essa sola sarebbe decisiva per la salvezza e il dialogo, anzi lunità tra le religioni dovrebbe risolversi in essa.

6. Contributi da valorizzare ulteriormente

Naturalmente in ciascuna di queste tre impostazioni teologiche sono presenti istanze che non possono essere lasciate cadere, dalla volontà di superare una visione catastrofale della modernità al rapporto che la fede cristiana non può non avere con lumanizzazione del mondo, fino alla necessità di una prospettiva davvero universale che faccia spazio concreto, in seno al cristianesimo, alla pluralità delle culture e delle civiltà.

Da questultimo punto di vista lallora cardinale Ratzinger ha avanzato (op. cit., pp. 57-82) una proposta assai innovativa rispetto alle ipotesi teologiche oggi più diffuse, e per me davvero convincente: abbandonare lidea dellinculturazione di una fede di per sé culturalmente spoglia, che si trasporrebbe in diverse culture religiosamente indifferenti, e riferirsi invece allincontro delle culture (o interculturalità”), che si basa su due punti di forza.

Da una parte lincontro delle culture è possibile e avviene continuamente perché, nonostante tutte le loro differenze, gli uomini che le producono hanno in comune la stessa natura e la medesima apertura della ragione alla verità.

Dallaltra parte la fede cristiana, che nasce dal rivelarsi della verità stessa, produce quella che possiamo chiamare la cultura della fede, la cui caratteristica è di non appartenere a un popolo singolo e determinato, ma di poter sussistere in ogni popolo o soggetto culturale, entrando in relazione con la sua cultura propria ed incontrandosi e compenetrandosi con essa. Questa è in concreto lunità e insieme la molteplicità e luniversalità culturale del cristianesimo.

Un contributo tuttora assai rilevante alladempimento dei compiti che la teologia ha oggi davanti a sé può venire, a mio giudizio, da quel grande moto di rinnovamento che ha percorso la teologia stessa negli anni che hanno preceduto il Vaticano II, e anche dalleredità della teologia neotomista, nonostante i suoi limiti, che possono individuarsi più precisamente da una parte nella sottovalutazione della distanza storica che separa San Tommaso e tutta la grande scolastica dal nostro tempo, e in concreto dei grandi sviluppi, teoretici e pratici, realizzatisi attraverso i secoli; dallaltra parte nel tentativo di dimostrare la verità delle premesse del cristianesimo (i « praeambula fidei ») mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede stessa.

Questo tentativo è sostanzialmente fallito, come osservava il cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp. 141-142), e appaiono destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi, già per il motivo che le grandi questioni delluomo e di Dio (ed ugualmente la questione di Gesù Cristo), riguardando e coinvolgendo inevitabilmente il senso e la direzione della nostra vita, mettono in gioco noi stessi e quindi, pur richiedendo tutto il rigore e le capacità critiche della nostra intelligenza, non possono esser decise indipendentemente dalle scelte secondo le quali orientiamo la nostra stessa esistenza.

Reciprocamente però, e in sostanza per un motivo analogo, è fallito anche il tentativo opposto di K. Barth di presentare la fede come un puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale indipendenza dalla ragione.

A questo proposito non solo riguardo a Barth ma a tutto il pur importantissimo filone della teologia kérygmatica si può osservare che è sì fondamentale e irrinunciabile, ma non è sufficiente presentare lenorme ricchezza e la bellezza del mistero cristiano, quali emergono dalle fonti bibliche, patristiche e liturgiche e quali si sono via via arricchite nel corso della storia.

Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti nel nostro tempo è necessario infatti che entrino in dialogo con la ragione critica e con la ricerca di libertà che lo caratterizzano, in modo da aprire questa ragione e questa libertà, per così dire dallinterno, e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono.

7. Una teologia cristocentrica e pertanto davvero teologica e antropologica

Al centro e al cuore di un approccio teologico meglio adeguato agli interrogativi del tempo che sta davanti a noi rimane, a mio parere, quella forma di teologia radicalmente cristologica e cristocentrica, e proprio perciò altrettanto radicalmente teologica e antropologica, che è implicitamente proposta nel n. 22 della « Gaudium et spes »: Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero delluomo… Proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore per noi [Cristo] svela anche pienamente luomo alluomo e gli fa nota la sua altissima vocazione.

Perciò lattenzione del teologo deve concentrarsi anzitutto su Gesù Cristo, cogliendo insieme la sua realtà storica e la profondità del suo mistero. Con il suo libro « Gesù di Nazaret » Benedetto XVI ci ha indicato una via e un metodo di lavoro che possono rivelarsi molto fecondi per lo sviluppo della teologia, specialmente su quella frontiera ineludibile che è rappresentata dalla saldatura tra le esigenze della critica storica e quelle di unermeneutica autenticamente teologica.

Nella luce della realtà e del mistero di Gesù Cristo si possono affrontare i due poli essenziali del discorso teologico, Dio e luomo, che sono poi, in maniera esplicita o implicita, i veri nodi della cultura del nostro tempo.

Rispetto ad entrambi questi nodi lattuale contesto culturale nel quale le scienze empiriche, con la loro forma di razionalità e con la mentalità che esse generano, esercitano un ruolo trainante e per certi versi egemone impegna la teologia ad un confronto con tali scienze ben più approfondito di quel che sia stato realizzato fino adesso: confronto per altro che non può fare a meno di unautentica e non riduttiva dimensione filosofica.

Perciò, riguardo a Dio, assume particolare importanza quella riflessione che si concentra sulla struttura e sui presupposti della conoscenza scientifica, per mostrare che proprio a partire da essi si pone di nuovo la domanda sullintelligenza creatrice.

Analogamente, riguardo alluomo è decisivo il confronto sia con la teoria dellevoluzione sia con le neuroscienze, per mostrare, anzitutto alla luce delle sue capacità proprie ed esclusive di produrre cultura, che luomo emerge dalla natura non nel senso di una semplice provenienza ma di un autentico trascendimento. Solo su questa base antropologica diventa possibile e coerente quella promozione e difesa della dignità umana a cui la teologia è chiamata, oggi particolarmente sul piano delletica pubblica.

È questo il senso di quel programma di allargare gli spazi della razionalità” che Benedetto XVI propone con insistenza e che riguarda sia la ragione scientifica sia la ragione storica.

Questo programma implica il duplice convincimento che la rivelazione di Dio in Gesù Cristo offre alla ragione un aiuto prezioso per proseguire il suo cammino, sempre più articolato, complesso e specialistico, senza perdere di vista il suo orizzonte globale e gli interrogativi di fondo, e daltra parte che proprio attraverso il confronto con la ragione contemporanea la fede e la teologia sono stimolate ad approfondire ulteriormente quella novità riguardo al mistero di Dio e delluomo che ci è venuta incontro in Gesù Cristo.

Nel contribuire a un simile programma la teologia non deve avere la pretesa razionalistica di dimostrazioni cogenti, come già accennavo riguardo ai « praeambula fidei », ma piuttosto essere consapevole dei limiti del proprio discorso: così, a proposito del Lógos creatore J. Ratzinger afferma che esso dal punto di vista razionale rimane lipotesi migliore, unipotesi che richiede da parte delluomo e della sua ragione di rinunciare a propria volta ad una posizione di dominio e di rischiare quella dellascolto umile (« LEuropa di Benedetto nella crisi delle culture », ed. Cantagalli, pp. 115-124).

8. Rivelazione, Chiesa, teologia

In sostanza viene proposta così una grande e coraggiosa uscita della teologia dai discorsi autoreferenziali, dai propri orti e recinti, che possono inavvertitamente sussistere anche quando si assumono interlocutori esterni a loro volta piuttosto estranei ai reali problemi di oggi.

Questa apertura coincide in realtà con la piena coerenza della teologia cristiana e cattolica con se stessa e si alimenta di una tale coerenza. Ne abbiamo avuto un grande esempio nella dinamica spirituale, culturale e storica del pontificato di Giovanni Paolo II e ne abbiamo ora un esempio altrettanto significativo e più direttamente teologico nel pontificato di Benedetto XVI.

Concludo cercando di esplicitare il senso e il fondamento teologico di tale coerenza, e così anche di indicare la via per superare dallinterno quella frattura che si è verificata nella teologia cattolica subito dopo il Concilio Vaticano II.

Lo faccio richiamandomi allanalisi della natura della divina rivelazione che J. Ratzinger aveva elaborato nello studio su San Bonaventura con cui intendeva conseguire labilitazione allinsegnamento accademico e che è riproposta sinteticamente nel suo libro « La mia vita » (ed. San Paolo, pp. 72 e 88-93). La rivelazione è cioè anzitutto latto con cui Dio manifesta se stesso, non il risultato oggettivato (scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di rivelazione fa parte il soggetto che la riceve e la comprende in concreto il popolo di Dio dellAntico e del Nuovo Testamento , dato che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato, nessuna rivelazione sarebbe avvenuta.

Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica ad essa, e la Scrittura stessa è legata al soggetto che accoglie e comprende sia la rivelazione sia la Scrittura, ossia alla Chiesa. Concretamente la Scrittura nasce e vive allinterno di questo soggetto.

Con ciò è dato il significato essenziale della tradizione ed anche il motivo profondo del carattere ecclesiale della fede e della teologia, oltre che il fondamento della validità di un approccio alla Scrittura che sia al contempo storico e teologico.

È dunque con buona coscienza e consapevolezza critica che possiamo accogliere, come teologi, quellintima relazione della Scrittura e della tradizione con tutta la Chiesa e con il suo magistero di cui ci parla il n. 10 della costituzione conciliare « Dei Verbum ».

Publié dans:Sandro Magister |on 21 mai, 2007 |Pas de commentaires »

La prima volta di Benedetto XVI in America latina – di Sandro Magister

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/dettaglio.jsp?id=135981

 

La prima volta di Benedetto XVI in America latina


Molti si aspettano che il papa finalmente parli ai cinquecento milioni di cattolici del continente, che da lui si sono sentiti fin qui trascurati. Ad Aparecida il possibile inizio d’un secondo tempo del pontificato

di Sandro Magister

ROMA, 26 aprile 2007 – A San Paolo del Brasile e al santuario dell’Aparecida, sul tropico del Capricorno, è autunno e le temperature sono miti. Ma il suo prossimo viaggio in quelle terre, dal 9 al 14 maggio, sarà per Benedetto XVI una prova del fuoco.

In due anni di pontificato né il Brasile né l’America latina sono mai apparsi al centro della sua attenzione, nonostante lì vivano cinquecento milioni di cattolici, quasi la metà del miliardo e cento milioni di cattolici di tutto il pianeta.

Lampi di passione per questo continente Joseph Ratzinger li aveva fatti balenare nei primi mesi dopo l’elezione a papa.

Aveva fissato lui, il 7 luglio del 2005, il tema della quinta conferenza generale dei vescovi dell’America latina e dei Caraibi: “Discepoli e missionari di Gesù Cristo”. Quinta dopo quelle di Rio de Janeiro nel 1955, di Medellín nel 1968, di Puebla nel 1979 e di Santo Domingo nel 1992:

Aveva voluto lui che che l’altra frase del titolo: “Perché tutti abbiano la vita” finisse specificando: “in Lui”. E che fosse aggiunta l’affermazione dello stesso Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”.

Aveva stabilito lui la data e il luogo. Nell’ottobre del 2005, durante il sinodo dei vescovi, incontrando alcuni cardinali sudamericani chiese loro a bruciapelo quale fosse in Brasile il più frequentato santuario della Madonna. “L’Aparecida”, gli risposero. E il papa: “Vi riunirete lì. Nel maggio del 2007. E io ci sarò”.

Poi però ha interamente delegato ad altri la fase preparatoria: in curia al cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione per i vescovi e presidente della pontificia commissione per l’America Latina, e oltre Atlantico al cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo di Santiago del Cile e attuale presidente del CELAM, il consiglio episcopale latinoamericano.

Il cardinale Re è da anni il principale responsabile delle nomine dei nuovi vescovi in America latina, con questo e con il precedente papa. Si deve in buona parte a lui, quindi, se oggi l’episcopato latinoamericano è così povero di figure di spicco, di guide sicure e di grande visione. Le eccezioni sono rare. Il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio è una di queste: ma dalla preparazione della conferenza di Aparecida si è tenuto lontano e ha opposto un diniego insuperabile alla richiesta fattagli dallo stesso Benedetto XVI di trasferirsi a Roma a capo di un dicastero curiale.

In Vaticano il papa ha poi fatto venire, lo scorso ottobre, l’arcivescovo di San Paolo del Brasile, il cardinale Cláudio Hummes, come prefetto della congregazione per il clero. Ma senza alcun effetto visibile, sinora.

Hummes sa per esperienza diretta che il clero è uno dei punti critici della Chiesa del continente. Tranne che in Messico, Colombia, Cile e Argentina, in tutti gli altri paesi i preti indigeni sono pochissimi, uno ogni quindicimila battezzati, in proporzione dieci volte di meno che in Europa o nel Nordamerica dove pure il loro numero ha subito un forte ribasso.

Oltre che pochissimi, i preti sono male istruiti. Nelle aree rurali e sulle Ande il concubinato è prassi corrente. In molte chiese e parrocchie la messa domenicale è celebrata di rado e spesso in forma arbitraria: il che spiega i bassi indici di partecipazione regolare alla messa in questo continente pur così diffusamente cattolico.

I seminari sono anch’essi di qualità molto disuguale. Là dove le vocazioni al sacerdozio sono in ripresa – in qualche diocesi più viva, in qualche comunità carismatica – la difficoltà maggiore per il vescovo o il capo di comunità è trovare un seminario affidabile.

Tutto ciò è arcinoto, ma nei testi preparatori della conferenza di Aparecida e persino nella bozza del lunghissimo documento finale, predisposto in segreto negli uffici vaticani, se ne trova solo una flebile traccia.

Il 20 gennaio di quest’anno e poi il 17 febbraio Benedetto XVI ha letto i due soli discorsi fin qui da lui dedicati al tema: il primo rivolto ai membri della pontificia commissione per l’America Latina e il secondo ai nunzi di quel continente. Discorsi entrambi di routine, prodotti negli uffici del cardinale Re, senza un passaggio che denotasse la mano e la mente del papa, ben riconoscibili quando scrive di suo pugno.

Altrettanto di routine è stata la nomina dei 266 partecipanti alla conferenza di Aparecida, tra membri, invitati, osservatori ed esperti. Dei sedici la cui scelta spettava a Benedetto XVI undici erano d’obbligo in quanto capi di altrettanti uffici curiali. Dei rimanenti cinque, l’unico di rilievo è il cardinale Marc Ouellet, arcivescovo di Québec, canadese ma molto più competente in materia di tanti suoi colleghi latinoamericani.

Eppure grosse ragioni ci sarebbero perché Aparecida entri nella storia, come – per altre ragioni – due delle riunioni continentali che l’hanno preceduta: Medellín, in Colombia, nel 1968 e Puebla, in Messico, nel 1979.

Il discorso che Giovanni Paolo II pronunciò a Puebla ebbe un impatto forte, inaugurò la decennale battaglia che Roma avrebbe poi combattuto e vinto, con l’apporto inflessibile dell’allora cardinale Ratzinger, contro l’utopia marxista nelle vesti della teologia della liberazione.

Da allora però moltissimo è cambiato. Quando Karol Wojtyla mise piede in Messico nel 1979 e l’anno dopo in Brasile, in vari paesi del continente erano al potere regimi reazionari e anche sanguinari. Oggi per
la Chiesa la sfida è opposta e per certi aspetti ancora più ardua.

In Brasile, Cile, Uruguay, Argentina governano i progressisti di Lula, Michelle Bachelet, Vázquez, Kirchner, portatori di una visione laica simile a quella del Nord secolarizzato del mondo. Mentre in Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua domina il populismo di Chávez, Morales, Correa, Ortega. Il marxismo caro alla teologia della liberazione resiste solo a Cuba. La religione dei nuovi regimi populisti è semmai l’indigenismo, sono i miti dell’America precristiana.

Ma un cambiamento non meno forte è avvenuto sul terreno religioso. Nel 1980, quando Giovanni Paolo II si recò per la prima volta in Brasile, i cattolici avevano il quasi monopolio, erano l’89 per cento della popolazione. Al censimento del 2000 erano scesi al 74 per cento e oggi a San Paolo, a Rio e nelle aree urbane sono addirittura sotto il 60 per cento.

Contemporaneamente sono aumentati i senza religione – dall’1,6 per cento del 1980 al 7,4 per cento del 2000 – ma soprattutto i protestanti d’impronta pentecostale. Questi ultimi sono passati dal 5 per cento del 1980 al 15 per cento e nelle aree urbane anche al di sopra del 20.

Ma c’è di più: lo spirito del pentecostalismo raccoglie un numero crescente di seguaci anche tra chi continua ad appartenere alla Chiesa cattolica. Il Pew Forum on Religion & Public Life, in un’accurata indagine del 2006, ha accertato che in Brasile un cattolico su tre può essere oggi ascritto a questa tendenza. Che è in larga misura reattiva alla pressione secolarizzante e ama un cristianesimo puritano, comunitario, ispirato dall’alto, difensore della vita e della famiglia, impegnato sulla scena pubblica, con forte spirito di missione.

Giovanni Paolo II, a Santo Domingo nel 1992, bollò come “lupi rapaci” le comunità pentecostali protestanti, che in effetti sono spesso aggressive contro i simboli del cattolicesimo, dalla Madonna al papa.

Lo stesso Ratzinger, in una conferenza del 13 maggio 2004, accusò gli Stati Uniti di promuovere “la protestantizzazione dell’America latina e il dissolvimento della Chiesa cattolica”.

Ma da papa, lo scorso 17 febbraio, ha richiamato piuttosto
la Chiesa a interrogare se stessa.

Se tanti fedeli l’abbandonano e passano alle comunità pentecostali – fenomeno che interessa massicciamente anche l’Africa, l’Asia e il Nordamerica – è perché hanno sete di un Gesù vivo e vero che
la Chiesa annuncia troppo debolmente. Come il Gesù umanizzato e politicizzato dei libri di Jon Sobrino, il teologo della liberazione condannato lo scorso inverno dalla congregazione per la dottrina della fede.

In definitiva, per Benedetto XVI, la questione capitale è Gesù, anche per l’America latina. Chissà a San Paolo e ad Aparecida come saprà finalmente parlarle, e toccarla nel cuore. 

Publié dans:Sandro Magister |on 2 mai, 2007 |Pas de commentaires »

La prima volta di Benedetto XVI in America latina

dal sito: la chiesa it 

La prima volta di Benedetto XVI in America latina
Molti si aspettano che il papa finalmente parli ai cinquecento milioni di cattolici del continente, che da lui si sono sentiti fin qui trascurati. Ad Aparecida il possibile inizio d’un secondo tempo del pontificato
di Sandro Magister 

ROMA, 26 aprile 2007 – A San Paolo del Brasile e al santuario dell’Aparecida, sul tropico del Capricorno, è autunno e le temperature sono miti. Ma il suo prossimo viaggio in quelle terre, dal 9 al 14 maggio, sarà per Benedetto XVI una prova del fuoco.

In due anni di pontificato né il Brasile né l’America latina sono mai apparsi al centro della sua attenzione, nonostante lì vivano cinquecento milioni di cattolici, quasi la metà del miliardo e cento milioni di cattolici di tutto il pianeta.

Lampi di passione per questo continente Joseph Ratzinger li aveva fatti balenare nei primi mesi dopo l’elezione a papa.

Aveva fissato lui, il 7 luglio del 2005, il tema della quinta conferenza generale dei vescovi dell’America latina e dei Caraibi: “Discepoli e missionari di Gesù Cristo”. Quinta dopo quelle di Rio de Janeiro nel 1955, di Medellín nel 1968, di Puebla nel 1979 e di Santo Domingo nel 1992:

Aveva voluto lui che che l’altra frase del titolo: “Perché tutti abbiano la vita” finisse specificando: “in Lui”. E che fosse aggiunta l’affermazione dello stesso Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”.

Aveva stabilito lui la data e il luogo. Nell’ottobre del 2005, durante il sinodo dei vescovi, incontrando alcuni cardinali sudamericani chiese loro a bruciapelo quale fosse in Brasile il più frequentato santuario della Madonna. “L’Aparecida”, gli risposero. E il papa: “Vi riunirete lì. Nel maggio del 2007. E io ci sarò”.

Poi però ha interamente delegato ad altri la fase preparatoria: in curia al cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione per i vescovi e presidente della pontificia commissione per l’America Latina, e oltre Atlantico al cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo di Santiago del Cile e attuale presidente del CELAM, il consiglio episcopale latinoamericano.

Il cardinale Re è da anni il principale responsabile delle nomine dei nuovi vescovi in America latina, con questo e con il precedente papa. Si deve in buona parte a lui, quindi, se oggi l’episcopato latinoamericano è così povero di figure di spicco, di guide sicure e di grande visione. Le eccezioni sono rare. Il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio è una di queste: ma dalla preparazione della conferenza di Aparecida si è tenuto lontano e ha opposto un diniego insuperabile alla richiesta fattagli dallo stesso Benedetto XVI di trasferirsi a Roma a capo di un dicastero curiale.

In Vaticano il papa ha poi fatto venire, lo scorso ottobre, l’arcivescovo di San Paolo del Brasile, il cardinale Cláudio Hummes, come prefetto della congregazione per il clero. Ma senza alcun effetto visibile, sinora.

Hummes sa per esperienza diretta che il clero è uno dei punti critici della Chiesa del continente. Tranne che in Messico, Colombia, Cile e Argentina, in tutti gli altri paesi i preti indigeni sono pochissimi, uno ogni quindicimila battezzati, in proporzione dieci volte di meno che in Europa o nel Nordamerica dove pure il loro numero ha subito un forte ribasso.

Oltre che pochissimi, i preti sono male istruiti. Nelle aree rurali e sulle Ande il concubinato è prassi corrente. In molte chiese e parrocchie la messa domenicale è celebrata di rado e spesso in forma arbitraria: il che spiega i bassi indici di partecipazione regolare alla messa in questo continente pur così diffusamente cattolico.

I seminari sono anch’essi di qualità molto disuguale. Là dove le vocazioni al sacerdozio sono in ripresa – in qualche diocesi più viva, in qualche comunità carismatica – la difficoltà maggiore per il vescovo o il capo di comunità è trovare un seminario affidabile.

Tutto ciò è arcinoto, ma nei testi preparatori della conferenza di Aparecida e persino nella bozza del lunghissimo documento finale, predisposto in segreto negli uffici vaticani, se ne trova solo una flebile traccia.

Il 20 gennaio di quest’anno e poi il 17 febbraio Benedetto XVI ha letto i due soli discorsi fin qui da lui dedicati al tema: il primo rivolto ai membri della pontificia commissione per l’America Latina e il secondo ai nunzi di quel continente. Discorsi entrambi di routine, prodotti negli uffici del cardinale Re, senza un passaggio che denotasse la mano e la mente del papa, ben riconoscibili quando scrive di suo pugno.

Altrettanto di routine è stata la nomina dei 266 partecipanti alla conferenza di Aparecida, tra membri, invitati, osservatori ed esperti. Dei sedici la cui scelta spettava a Benedetto XVI undici erano d’obbligo in quanto capi di altrettanti uffici curiali. Dei rimanenti cinque, l’unico di rilievo è il cardinale Marc Ouellet, arcivescovo di Québec, canadese ma molto più competente in materia di tanti suoi colleghi latinoamericani.

Eppure grossi ragioni ci sarebbero perché Aparecida entri nella storia, come – per altre ragioni – due delle riunioni continentali che l’hanno preceduta: Medellín, in Colombia, nel 1968 e Puebla, in Messico, nel 1979.

Il discorso che Giovanni Paolo II pronunciò a Puebla ebbe un impatto forte, inaugurò la decennale battaglia che Roma avrebbe poi combattuto e vinto, con l’apporto inflessibile dell’allora cardinale Ratzinger, contro l’utopia marxista nelle vesti della teologia della liberazione.

Da allora però moltissimo è cambiato. Quando Karol Wojtyla mise piede in Messico nel 1979 e l’anno dopo in Brasile, in vari paesi del continente erano al potere regimi reazionari e anche sanguinari. Oggi per
la Chiesa la sfida è opposta e per certi aspetti ancora più ardua.

In Brasile, Cile, Uruguay, Argentina governano i progressisti di Lula, Michelle Bachelet, Vázquez, Kirchner, portatori di una visione laica simile a quella del Nord secolarizzato del mondo. Mentre in Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua domina il populismo di Chávez, Morales, Correa, Ortega. Il marxismo caro alla teologia della liberazione resiste solo a Cuba. La religione dei nuovi regimi populisti è semmai l’indigenismo, sono i miti dell’America precristiana.

Ma un cambiamento non meno forte è avvenuto sul terreno religioso. Nel 1980, quando Giovanni Paolo II si recò per la prima volta in Brasile, i cattolici avevano il quasi monopolio, erano l’89 per cento della popolazione. Al censimento del 2000 erano scesi al 74 per cento e oggi a San Paolo, a Rio e nelle aree urbane sono addirittura sotto il 60 per cento.

Contemporaneamente sono aumentati i senza religione – dall’1,6 per cento del 1980 al 7,4 per cento del 2000 – ma soprattutto i protestanti d’impronta pentecostale. Questi ultimi sono passati dal 5 per cento del 1980 al 15 per cento e nelle aree urbane anche al di sopra del 20.

Ma c’è di più: lo spirito del pentecostalismo raccoglie un numero crescente di seguaci anche tra chi continua ad appartenere alla Chiesa cattolica. Il Pew Forum on Religion & Public Life, in un’accurata indagine del 2006, ha accertato che in Brasile un cattolico su tre può essere oggi ascritto a questa tendenza. Che è in larga misura reattiva alla pressione secolarizzante e ama un cristianesimo puritano, comunitario, ispirato dall’alto, difensore della vita e della famiglia, impegnato sulla scena pubblica, con forte spirito di missione.

Giovanni Paolo II, a Santo Domingo nel 1992, bollò come “lupi rapaci” le comunità pentecostali protestanti, che in effetti sono spesso aggressive contro i simboli del cattolicesimo, dalla Madonna al papa.

Lo stesso Ratzinger, in una conferenza del 13 maggio 2004, accusò gli Stati Uniti di promuovere “la protestantizzazione dell’America latina e il dissolvimento della Chiesa cattolica”.

Ma da papa, lo scorso 17 febbraio, ha richiamato piuttosto
la Chiesa a interrogare se stessa.

Se tanti fedeli l’abbandonano e passano alle comunità pentecostali – fenomeno che interessa massicciamente anche l’Africa, l’Asia e il Nordamerica – è perché hanno sete di un Gesù vivo e vero che
la Chiesa annuncia troppo debolmente. Come il Gesù umanizzato e politicizzato dei libri di Jon Sobrino, il teologo della liberazione condannato lo scorso inverno dalla congregazione per la dottrina della fede.

In definitiva, per Benedetto XVI, la questione capitale è Gesù, anche per l’America latina. Chissà a San Paolo e ad Aparecida come saprà finalmente parlarle, e toccarla nel cuore.
 

Publié dans:Sandro Magister |on 26 avril, 2007 |Pas de commentaires »

E apparve in mezzo a loro: « Gesù di Nazaret » in libreria, di Sandro Magister

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/dettaglio.jsp?id=133541

E apparve in mezzo a loro: « Gesù di Nazaret » in libreria


È uscito in varie lingue il libro più amato dal suo autore. Joseph Ratzinger vi ha lavorato per molti anni, e ora ne prepara il seguito. Un testo fondamentale anche per capire questo pontificato

di Sandro Magister

ROMA, 16 aprile 2007 – Da oggi, ottantesimo compleanno della nascita e del battesimo di Benedetto XVI, l’attesissimo suo libro su « Gesù di Nazaret » è in vendita nella lingua originale tedesca e nelle versioni italiana, polacca e greca, cui presto seguiranno le traduzioni in una ventina di altre lingue: inglese, francese, spagnolo, portoghese, catalano. olandese, svedese, sloveno, croato, serbo, ceco, slovacco, lituano, ungherese, maltese, coreano.

« Gesù di Nazaret » è la prima parte di un’opera in due volumi che Joseph Ratzinger ha ideato molti anni fa come parte di un suo « lungo cammino interiore » alla ricerca del « volto del Signore ». Egli ha scritto i primi quattro capitoli prima di essere eletto papa e i successivi sei, « usando tutti i momenti liberi », dopo.

In questo primo volume il racconto comincia col battesimo di Gesù nel Giordano e arriva fino alla sua trasfigurazione sul monte Tabor. Mentre il secondo volume arriverà alla passione, morte e risurrezione, con un capitolo dedicato anche ai racconti dell’infanzia: l’annunciazione, la nascita, i Magi, la fuga in Egitto.

L’intenzione di Ratzinger nel scrivere questo libro è da lui spiegata nella prefazione: presentare agli uomini d’oggi il Gesù dei Vangeli come il Gesù storicamente reale, vero Dio e vero uomo.

Per Benedetto XVI, nei Vangeli si trovano tutti gli elementi per affermare che il personaggio storico Gesù è anche realmente il Figlio di Dio venuto sulla terra per salvare l’umanità e, pagina dopo pagina, guida il lettore – credente ma anche non credente – nella ricerca e nella scoperta del suo vero volto.

Il libro è fatto di una prefazione, già resa pubblica dallo scorso novembre, di un’introduzione, di dieci capitoli e di una guida bibliografica.

Nell’introduzione, Benedetto XVI presenta Gesù come il « nuovo Mosè » annunciato dall’Antico Testamento nel libro del Deuteronomio: « un profeta con il quale il Signore parlava faccia a faccia ». Anzi, molto di più: se Mosè non potè contemplare il volto di Dio ma solo vederne « le spalle », Gesù è non solo amico di Dio ma suo Figlio unigenito, è « nel seno del Padre » e quindi lo può rivelare: « Chi vede me vede il Padre ».

Il primo capitolo è dedicato al battesimo di Gesù nel Giordano. Immergendosi nelle acque Gesù « accetta la morte per i peccati dell’umanità ». Mentre la voce dal cielo che lo indica come il Figlio di Dio prediletto « è il rimando anticipato alla risurrezione ». Il percorso della sua vita è già delineato.

Capitolo secondo: le tentazioni di Gesù. Per salvare l’umanità, Gesù deve vincere le tentazioni principali che minacciano, in forme diverse, gli uomini di tutti i tempi e, trasformandole in obbedienza, riaprire la strada verso Dio, verso la vera Terra promessa che è il « regno di Dio ».

Il capitolo terzo è dedicato, appunto, al Regno di Dio, che è la signoria di Dio sul mondo e sulla storia ma si identifica nella stessa persona di Gesù, vivo e presente qui e ora. In Gesù « Dio viene incontro a noi, regna in modo divino cioè senza potere mondano, regna con l’amore che va ‘sino alla fine’”.

Capitolo quarto: il discorso della montagna. In esso Gesù appare come il « nuovo Mosè » che porta a compimento la Torah, la legge. Le Beatitudini sono i punti cardine della nuova legge e, al tempo stesso, un autoritratto di Gesù. La legge è lui stesso: « È questo il punto che esige una decisione e perciò è il punto che conduce alla croce e alla risurrezione ».

Capitolo quinto: la preghiera del Signore. Messosi alla sequela di Gesù, il credente può invocare il Padre con le parole da lui insegnate: Il Padre nostro. Benedetto XVI lo spiega punto per punto.

Capitolo sesto: i discepoli. La comunanza con Gesù raccoglie i discepoli nel « noi » di una nuova famiglia, la Chiesa, che a sua volta è inviata a portare il suo messaggio nel mondo.

Capitolo settimo: le parabole. Benedetto XVI ne illustra natura e scopo e poi ne commenta tre, tutte del Vangelo di Luca: quella del buon samaritano, quella dei due fratelli e del padre buono, quella del ricco epulone e del povero Lazzaro.

Capitolo ottavo: le grandi immagini giovannee. Ossia: l’acqua, la vite e il vino, il pane, il pastore. Il papa le commenta ad una ad una, dopo aver spiegato chi era l’evangelista Giovanni.

Capitolo nono: la confessione di Pietro e la trasfigurazione. Ambedue gli eventi sono momenti decisivi per Gesù come anche per i suoi discepoli. Mostrano con chiarezza qual è la vera missione del Figlio di Dio sulla terra e qual è la sorte di chi vuole seguirlo. Gesù, il Figlio del Dio vivente, è il Messia atteso da Israele che, attraverso lo scandalo della croce, conduce l’umanità nel « regno di Dio », alla libertà definitiva.

Capitolo decimo: le affermazioni di Gesù su se stesso. Benedetto XVI ne commenta tre: « Figlio dell’Uomo », « Figlio », « Io Sono ». Quest’ultimo è il nome misterioso con cui Dio si rivelò a Mosè nel roveto ardente e con cui i Vangeli fanno intravedere che Gesù è quello stesso Dio.

Qui termina il primo volume del papa su Gesù di Nazaret. Ma interessante è anche l’appendice finale in cui l’autore fa da guida ai lettori nella sterminata bibliografia sulla materia. Per ognuno dei suoi dieci capitoli, Ratzinger cita i principali libri a cui si è riferito e che possono essere letti per un approfondimento. Inoltre indica « alcuni dei più importanti e recenti libri su Gesù », tra i quali quelli di Joachim Gnilka, Klaus Berger. Heinz Schürmann, Thomas Söding, Rudolf Schnackenburg, John P. Meier. Dell’opera di quest’ultimo, in tre grossi volumi pubblicati in Italia dalla Queriniana col titolo « Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico », scrive:

« Quest’opera in più volumi di un gesuita americano rappresenta sotto molti aspetti un modello di esegesi storico-critica, in cui si palesano sia l’importanza sia i limiti di questa disciplina. Merita di essere letta la recensione di Jacob Neusner al primo volume, ‘Who needs the historical Jesus?’, in ‘Chronicles’ luglio 1993, pp. 32-34″.

All’interpretazione della Scrittura Benedetto XVI dedica questo passaggio del suo libro, nel capitolo sulle tentazioni di Gesù:

« Per attirare Gesù nella sua trappola il diavolo cita la Sacra Scrittura, [...] appare come teologo. [...] Vladimir Solov’ëv ha ripreso questo tema nel suo ‘Racconto dell’Anticristo’; l’Anticristo riceve la laurea honoris causa in teologia dall’Università di Tubinga; è un grande esperto della Bibbia. Con questo racconto Solov’ëv ha voluto esprimere in modo drastico il suo scetticismo nei confronti di un certo tipo di esegesi erudita del suo tempo. Non si tratta di un no all’interpretazione scientifica della Bibbia in quanto tale, bensì di un avvertimento massimamente salutare e necessario di fronte alle strade sbagliate che essa può prendere. L’interpretazione della Bibbia può effettivamente diventare uno strumento dell’Anticristo. Non è solo Solov’ëv che lo dice, è quanto afferma implicitamente il racconto stesso delle tentazioni. I peggiori libri distruttori della figura di Gesù, smantellatori della fede, sono stati intessuti con presunti risultati dell’esegesi ».

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Publié dans:Sandro Magister |on 16 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Pasqua a Roma: le omelie segrete del successore di Pietro

questo articolo lo ritengo paticolarmente interessante, anche perché io le omelie di Papa Benedetto le ho seguite in diretta e, ho costatato anche io, che i mass media trasmettevano parzialmente – e quindi deformato – il pensiero del Papa, sul sito ci sono comunque i testi integrali

http://chiesa.espresso.repubblica.it/dettaglio.jsp?id=132701 

Pasqua a Roma: le omelie segrete del successore di Pietro

Segrete tranne a chi le ha potute ascoltare di persona, mentre Benedetto XVI le pronunciava. Anche nel messaggio « urbi et orbi » il papa ha detto molto più che un elenco di paesi in guerra. Ecco i testi integrali

di Sandro Magister

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Pasqua a Roma: le omelie segrete del successore di Pietro dans Sandro Magister

ROMA, 11 aprile 2007 – L’immagine qui sopra è ripresa da un dipinto del Caravaggio. Gesù risorto appare agli apostoli, e a Tommaso che dubita dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. L’incredulità di Tommaso e la sua successiva professione di fede – “Mio Signore e mio Dio!” – sono state al centro del messaggio rivolto al mondo da Benedetto XVI la domenica di Pasqua.

Papa Joseph Ratzinger ha detto che « ciascuno di noi può essere tentato dall’incredulità di Tommaso ». Gli innumerevoli mali che affliggono gli uomini mettono a dura prova la fede. Ma proprio nelle piaghe di Cristo risorto appare il vero volto di Dio: « un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita ». È qui che la fede, da quasi morta, rinasce: perché « solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede ».

A questo punto Benedetto XVI ha chiamato per nome le regioni del mondo dove ci sono più ferite e dolore, dal Darfur al Congo, dall’Afghanistan all’Iraq alla « Terra benedetta che è la culla della nostra fede ». E ha aggiunto:

« Cari fratelli e sorelle, attraverso le piaghe di Cristo risorto possiamo vedere questi mali che affliggono l’umanità con occhi di speranza ».

In precedenza aveva detto che « l’odierna umanità attende dai cristiani una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo; ha bisogno di incontrarlo e di poterlo conoscere come vero Dio e vero uomo ».

Ma poco o niente di questo annuncio del Cristo risorto è stato rilanciato dai grandi media. Ha avuto evidenza solo l’elenco dei paesi colpiti da guerre e calamità.

C’è un limite oltre il quale le parole di Benedetto XVI non vanno. Esse raggiungono nella loro interezza solo coloro che le ascoltano di persona, o presenti fisicamente o grazie a una diretta televisiva. Il numero di queste persone è cospicuo, superiore a quello di tutti i precedenti pontificati. Il messaggio pasquale « urbi et orbi » e la Via Crucis del venerdì santo sono stati seguiti da grandi folle e ritrasmessi in più di quaranta paesi. Ma ancor più sterminato è il numero delle persone alle quali il messaggio del papa arriva mutilato, o non arriva del tutto.

Questo limite comunicativo Benedetto XVI lo ha sperimentato in misura ancora maggiore nelle altre celebrazioni della scorsa settimana santa.

Nella messa « crismale » della mattina del giovedì il papa ha dedicato l’omelia a spiegare il senso profondo dell’essere sacerdoti, « rivestiti di Cristo » e quindi capaci di agire e parlare « in persona Christi ». L’ha fatto ripercorrendo la simbologia delle vesti liturgiche. Ma a quanti degli oltre quattrocentomila vescovi e sacerdoti cattolici sono arrivate le sue parole?

Nell’omelia della messa « in coena Domini » della sera del giovedì Benedetto XVI ha illustrato la novità della Pasqua di Gesù rispetto a quella celebrata dagli ebrei.

Nell’omelia della notte di Pasqua ha descritto la vittoria di Gesù sulla morte avvalendosi delle raffigurazioni tipiche delle Chiese d’oriente: con Gesù risorto che scende negli inferi e così « porta a compimento il cammino dell’incarnazione. Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa, e li porta alla luce ».

Ma tra i presenti a queste messe solo chi comprendeva l’italiano poteva ascoltare con frutto le omelie del papa. I media cattolici che ne hanno tradotto e rilanciato i testi in vari paesi hanno allargato l’area d’ascolto di poco, a un pubblico di nicchia.

Per un papa come Benedetto XVI che ha incentrato proprio sulla parola il suo ministero, questo è dunque un limite serio. Nella curia romana gli uffici che si occupano di comunicazione non hanno fatto sinora nulla di nuovo, per ovviarvi almeno in parte. Ad esempio, nessuno provvede a far arrivare tempestivamente, a tutti i vescovi e sacerdoti del mondo, collegati via internet, una newsletter con i testi del papa nella rispettiva lingua.

Le sole iniziative efficaci, in questo campo, sono di Benedetto XVI in persona. Col suo libro su Gesù che uscirà tra pochi giorni in più lingue egli raggiungerà in forma diretta e personale un numero altissimo di lettori in tutto il mondo.

E Gesù « vero Dio e vero uomo » è proprio il cuore del messaggio di papa Benedetto. Così come è stato il cuore delle sue omelie di Pasqua.

Eccole integrali

Publié dans:Sandro Magister |on 11 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Cuba. Come la Chiesa coltiva il seme della libertà

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/dettaglio.jsp?id=130423

Cuba. Come la Chiesa coltiva il seme della libertà


Intervista a Dagoberto Valdés Hernández, fondatore e direttore del più influente think tank cattolico liberale dell’isola: « La Chiesa è l’unica istituzione a Cuba dove c’è ancora traccia di quella società civile che, per il resto, è stata annientata » di Sandro Magister

ROMA, 2 aprile 2007 – Da quando Fidel Castro, alla fine di luglio dell’anno scorso, ha formalmente lasciato il potere, per Cuba e per la Chiesa cattolica cubana è iniziata la grande vigilia. L’approdo finale è più che mai incerto. Ma il traguardo verso il quale i cattolici cubani puntano risolutamente si definisce con una parola: libertà. Uno dei più autorevoli testimoni di questo cammino di Cuba e della Chiesa cubana verso la libertà è Dagoberto Valdés Hernández, 52 anni, tre figli, ingegnere agrario, fondatore, nel 1993, del Centro de Formación Cívica y Religiosa della diocesi di Pinar del Rio e, nel 1994, della rivista « Vitral ».

Quando Castro conquistò il potere a Cuba, nel 1959, Valdés era bambino. Visse i pochi mesi di luna di miele tra la Chiesa e il nuovo regime, ma soprattutto la lunga fase di libertà cancellata, di violenza istituzionalizzata, di persecuzione. All’università, in quanto cattolico, gli è vietato l’accesso alle facoltà umanistiche, e allora si specializza in agraria. Ma il suo punto di riferimento ideale è Félix Varela, sacerdote, filosofo e politico, padre dell’indipendenza cubana e maestro di un liberalismo cattolico per molti aspetti simile a quello di pensatori suoi contemporanei come Antonio Rosmini e Alexis de Tocqueville. Lavora nell’Empresa del Tabaco, ma a metà degli anni Novanta il regime lo punisce per l’attività di formazione civica che egli intanto ha iniziato a svolgere nella diocesi di Pinar del Rio. Lo obbliga a raccogliere yaguas, un tessuto fibroso che si stacca dalle palme e serve per imballare il tabacco. Ma Valdés non si arrende, anzi, intensifica la sua attività di formazione. La rivista « Vitral », dal nome della vetrata multicolore che adorna molte case cubane, diventa la voce di un piccolo ma influente think tank cattolico-liberale, baluardo delle idee democratiche e della visione umanistico-cristiana dell’uomo nella Cuba comunista. Grazie al viaggio di Giovanni Paolo II a Cuba, nel 1998, anche in Vaticano si accorgono di lui, ne apprezzano l’attività e l’anno dopo lo nominano membro del pontificio consiglio della giustizia e della pace.

Quella che segue è una delle rare interviste che Dagoberto Valdés Hernández ha dato a un giornale straniero. Ed è la prima nella quale egli affronta direttamente la questione della transizione di Cuba alla democrazia, con una particolare attenzione al ruolo della Chiesa cattolica cubana.

Il giornale è « Mondo e Missione », mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere, stampato a Milano, che pubblicherà l’intervista nel numero di aprile. Autore è Alessandro Armato. Chi volesse leggere la registrazione integrale, più ampia di quella qui riportata e ricca di altri spunti interessanti, la trova nella versione spagnola di questa pagina.

« La Cuba che sogno »

Intervista con Dagoberto Valdés Hernández

D. – Che clima si respira a Cuba?

R. – Predominano l’incertezza e un senso di attesa. L’incertezza si deve soprattutto alla mancanza di informazione su tutto ciò che accade e al fatto che il futuro non è nelle mani del popolo sovrano, ma delle più alte sfere del potere politico. All’incertezza si uniscono le conseguenze di un danno antropologico provocato nella maggioranza dei cubani dall’ideologia « della dipendenza » e dal controllo totalitario, che impedisce lo sviluppo della libertà e della responsabilità.

D. – Nei suoi editoriali, lei insiste sulla necessità di sviluppare una « maturità civica » per far uscire il paese dalla « adolescenza socio-politica » in cui vive. Quale ritiene sia il modo migliore per farlo?

R. – Vedo due strade: l’educazione e i piccoli spazi di partecipazione. È vero che esiste un incredibile analfabetismo civico e politico, frutto dell’estremismo ideologico e del blocco sistematico delle informazioni alternative a quelle del governo. Ma questa situazione può essere superata solo rompendo l’isolamento interno, che è peggio dell’embargo esterno. C’è bisogno di più informazione, più apertura, più scambio. Serve un processo sistematico e profondo di educazione etica, civica e politica. Ma non credo possa bastare…

D. – Che intende dire?

R. – Non dobbiamo fermarci alla teoria: è necessario creare piccoli spazi di partecipazione e dibattito, serve allenamento alla democrazia, perché la teoria, che non è stata sperimentata in mezzo secolo, difficilmente potrà essere messa in pratica se prima non abbiamo provato ad applicarla in piccoli spazi. Come cercano di fare la Chiesa cattolica, le biblioteche indipendenti, le Damas de Blanco, i giornalisti non allineati, le Chiese evangeliche… Questo è quanto cerchiamo di fare da 14 anni col nostro Centro de Formación Cívica y Religiosa della diocesi di Pinar del Río, e con la rivista « Vitral ».

D. – Il cammino di Cuba verso la libertà sembra inarrestabile, ma non mancano le resistenze…

R. – C’è e ci sarà sempre resistenza al cambiamento. È umano. A porre ostacoli non saranno solo coloro che detengono il potere oggi, ma buona parte degli stessi cittadini. La situazione attuale, però, pesa molto più che la resistenza naturale al cambiamento. Sembra che la bilancia spinga verso una serie di trasformazioni pacifiche e graduali, che ci condurranno dall’essere un fossile politico del passato a diventare un paese normale, inserito come gli altri nella comunità internazionale. Un paese i cui figli non dovranno più fuggire dalla propria terra se desiderano progredire e vivere in libertà. Non so tuttavia come si verificheranno questi cambiamenti, assolutamente necessari e inarrestabili.

D. – Quali scenari intravede?

R. – Il primo: una successione all’interno dello stesso sistema che apra gradualmente alle riforme economiche e sociali e di conseguenza normalizzi le relazioni politiche internazionali e proceda ad effettuare riforme politiche interne. Un altro scenario possibile è una combinazione tra una successione breve e una transizione lenta e duratura, affidata a una generazione più giovane dal pensiero più aperto. Nel più pessimista degli scenari non si realizzerebbe nessuna delle alternative precedenti e si rafforzerebbero il controllo totalitario, la repressione dei dissidenti e la chiusura internazionale. Tutte cose, queste ultime, che condurrebbero a una « nordcoreanizzazione » di Cuba, creando più sofferenza e povertà, aumentando l’esodo di massa. Col rischio di aprire la porta alla violenza.

D. – Quali, a suo avvviso, i principali rischi che dovrà affrontare la Cuba di domani?

R. – Se si rafforzano la chiusura e l’isolamento andiamo dritti verso la violenza, l’esplosione sociale incontrollata e il caos politico. È inevitabile. Nessuno lo vuole, ma purtroppo pochi s’impegnano seriamente per scongiurare questo esito. Se invece Cuba si apre e si democratizza, ci misureremo con i rischi intrinseci a una libertà slegata dalla responsabilità: corruzione, relativismo morale, libertinaggio mediatico, disoccupazione e forse la nascita di nuove mafie. Evitare che questo succeda dipende da noi. Dobbiamo, fin d’ora, ampliare i servizi ecclesiali e sociali di formazione etica, i servizi di educazione civica e politica e promuovere una cultura della responsabilità nella libertà.

D. – Teme l’ »imperialismo » degli Stati Uniti?

R. – Da fuori potrebbero venire influenze negative e addirittura aspirazioni egemoniche; noi cubani, però, abbiamo sufficiente esperienza in materia per cavarcela. Ma dall’esterno potrebbe anche venire – se lo sappiamo canalizzare adeguatamente – un aiuto positivo e costruttivo: da parte dei circa due milioni di cubani esiliati o emigrati. Un aiuto prezioso, sotto forma di conoscenze, esperienza, investimenti, riunificazioni familiari, rafforzamento della propria cultura. Il peggiore scenario ipotizzabile è quello di un’apertura che fosse cinica esterofilia, subordinazione indiscriminata a tutto ciò che proviene dall’esterno, a modelli edonisti e contrari alla vita, senza discernimento e coscienza critica.

D. – Si parla anche di una possibile annessione di Cuba al Venezuela. Cosa ne pensa?

R. – È una sparata, un’illusione impraticabile, che offenderebbe l’immensa maggioranza dei cubani e dei venezuelani. Altra cosa, invece, sarebbe una rispettosa integrazione regionale.

D. – Crede possibile che il comunismo, invece di morire, si perpetui sotto forma di quel « socialismo del XXI secolo » di cui Hugo Chávez si dice il profeta?

R. – Il comunismo, così come lo ha vissuto l’umanità, ha fallito ed è scomparso nel modo in cui una volta è esistito. Ciò che ne resta in alcuni paesi è solo un’ombra di quel passato triste. È stato un errore e non credo che l’umanità sia disposta a pagare il prezzo di ripeterlo.

D. – In questo frangente, le sembra che l’atteggiamento dei cubani della diaspora sia costruttivo?

R. – La grande maggioranza degli esuli cubani riconosce il protagonismo degli abitanti dell’isola e mette a nostra disposizione il suo potenziale, in termini di formazione e finanziamento. Esiste già un gruppo di imprenditori di ispirazione cristiana che sta realizzando un fondo comune d’investimento destinato unicamente alla micro-impresa e al microcredito, che secondo me dovrebbero essere le basi del nuovo modello economico per Cuba. Restano però ancora – tanto fuori come dentro Cuba – piccole minoranze con molto potere e influenza sui mezzi di comunicazione, che danno l’impressione di rappresentare tutti, quando invece non è così. Se queste minoranze, un residuo del passato, persistono con le loro rivendicazioni anacronistiche – gli uni per proprietà irrecuperabili, gli altri per puro attaccamento al potere – saranno un serio ostacolo per realizzare quei cambiamenti graduali, pacifici e giusti di cui Cuba ha bisogno.

D. – Oppositori politici, dissidenti, esponenti della società civile: il panorama dei cubani che spingono per un’apertura democratica è assai variegato, ma non sono sempre chiari i profili dei differenti gruppi…

R. – A Cuba oggi ci sono oppositori politici, dissidenti e gruppi di una società civile incipiente. Ma c’è anche un grande analfabetismo civico e politico che non permette agli attori sociali di distinguersi chiaramente. Inoltre abbiamo un governo che cerca di confondere gli uni con gli altri, per mettere tutti sullo stesso piano, accomunandoli nell’etichetta di « contro-rivoluzionari » e « mercenari » al servizio degli Stati Uniti. Tutto ciò pregiudica gravemente il futuro di Cuba. La nazione deve imparare a distinguere e riconoscere, rispettare e promuovere i differenti attori sociali. La società civile deve sapere qual è il suo ruolo e il suo margine di autonomia nei confronti dello stato e dei partiti politici di opposizione. Occorre un paziente lavoro educativo affinché i partiti d’opposizione sappiano rispettare e dialogare con gli altri membri della società civile, senza confonderli con i propri scopi, e affinché lo stesso stato impari a distinguere e a dialogare con gli uni e con gli altri.

D. – « Vitral » è una rivista dissidente o d’opposizione?

R. – « Vitral » è una rivista cattolica, espressione del Centro de Formación Cívica y Religiosa della diocesi di Pinar del Río. È una rivista della Chiesa, anche se il suo profilo è socioculturale e non confessionale. È aperta a tutti gli uomini di buona volontà e il consiglio di redazione controlla che tutto ciò che viene pubblicato si mantenga in un ambito etico-umanista ampio e pluralista. Questo ci identifica e ci colloca nel seno della società civile e non dentro l’opposizione politica. Personalmente mi concepisco come animatore civico dal punto di vista sociologico e come evangelizzatore della società civile in quanto cristiano.

D. – È una rivista influente?

R. – Dato che credo nel Vangelo, sono convinto che un piccolo granello di sale può essere efficace, un minuscolo chicco di senape può germogliare e una piccola luce nell’oscurità può orientare altri. « Vitral » aspira ad essere questo fermento nell’immensità della massa.

D. – Circola liberamente?

R. – « Vitral » circola come può, di mano in mano: non si può vendere per strada, non può essere portata nelle scuole, ma la stessa rete informale della Chiesa e il resto della società civile la fanno arrivare ai diecimila abbonati che abbiamo a Cuba, in alcune comunità della diaspora, in certe università di Stati Uniti, Messico e Spagna e a una rete di amici sparsi nel mondo.

D. – Che ruolo svolge la Chiesa cubana in questa delicata fase di transizione verso un paese « giusto, libero e solidale », come ha detto il cardinale Jaime Ortega Alamino?

R. – La Chiesa è l’unica istituzione a Cuba che nell’ultimo mezzo secolo ha mantenuto autonomia e indipendenza dallo stato. Nella Chiesa c’è ancora traccia di quella società civile che, per il resto, è stata pervicacemente disarticolata dal socialismo reale. Negli ultimi anni, l’istituzione ecclesiastica ha giocato un ruolo fondamentale nell’accompagnamento e nella ricostruzione della società civile, offrendo educazione etica, formazione civica, addestramento alla partecipazione e alla responsabilità comunitaria, educazione alla libertà, alla giustizia e alla pace. La Chiesa ha inoltre alleviato la disperazione e fornito motivi per restare nel paese a moltissimi cubani.

D. – Come vede oggi la relazione tra Chiesa e potere politico?

R. – La Chiesa ha mantenuto la sua identità, la sua missione e i suoi spazi, anche se il suo inserimento nella società è stato limitato da uno stato che pretendeva di controllare tutto e tutti. La Chiesa è riuscita a seminare il Vangelo in mezzo alle più incredibili difficoltà. Molti sacerdoti, religiosi e laici hanno lavorato per anni e anni come testimoni fedeli, anche a rischio della propria sicurezza e di quella delle proprie famiglie. Tutto questo è un grande dono di Dio!

D. – Mezzo secolo sotto un regime comunista. C’è qualcosa di speciale che la Chiesa ha appreso durante questo tempo e può servire da insegnamento per tutti?

R. – Credo di sì. Abbiamo imparato a credere nella forza della piccolezza, nell’efficacia del seme, nella potenza del lievito nella massa. Abbiamo imparato a essere umili, a vivere coi piedi nell’humus, condividendo la sorte di coloro che patiscono l’ingiustizia. Abbiamo imparato che la Chiesa cresce e si purifica nel mezzo delle tribolazioni e che questo è un tempo di gloria crocifissa e resuscitata per noi discepoli di Cristo che viviamo a Cuba.

D. – Nel paese ci sono anche numerosi missionari…

R. – La presenza di tanti missionari cattolici – non li chiamerei stranieri, perché nella Chiesa nessuno è straniero – è una grazia e un dono di Dio per questo popolo che soffre e spera. Ci sono missionari italiani, spagnoli, tedeschi, colombiani, messicani e di tante altre nazionalità. Arrivano con una grande generosità e curiosità, cercano di inculturarsi e di impegnarsi nei villaggi dove vengono inviati. La gente li riceve a braccia aperte. Ci offrono quello che non abbiamo conosciuto a causa della chiusura dell’isola, ma – a loro volta – ricevono molto dalla gente, costantemente impegnata a ricercare alternative per sopravvivere senza perdere la speranza. Annunciano il Vangelo e denunciano, quando è possibile, ciò che offende la dignità e i diritti umani.

D. – A che difficoltà vanno incontro i missionari, se alzano la voce?

R. – Molte volte devono tacere perché rischiano la revoca del permesso di soggiorno e un’espulsione silenziosa e umiliante. Alcuni missionari e missionarie si domandano cosa significhi perdere un permesso di soggiorno rispetto a perdere la vita, come accade altrove; altri ritengono che sia meglio continuare a rimanere qui a servire in silenzio. Altri ancora, infine, si chiedono se il silenzio sia complicità con l’ingiustizia. Ma nessuno resta indifferente al presente di questa bella isola, sofferente e ospitale, e alla sua gente, pacifica e allegra, che continua a sperare da cinque decadi la visita del Signore Gesù per realizzare – con le sue stesse forze – la liberazione interiore, la democratizzazione politica e lo sviluppo umano integrale. È quanto chiese, nel gennaio 1998, Giovanni Paolo II sulla Plaza de la Revolución José Martí, all’Avana: « Voi siete e dovete essere – disse – i protagonisti della vostra storia personale e nazionale ». Lo speriamo. E ci stiamo provando.

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Publié dans:Sandro Magister |on 2 avril, 2007 |Pas de commentaires »
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