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di Sandro Magister : Grandi ritorni: Romano Amerio e le variazioni della Chiesa cattolica

io non ho messo il testo di Marchetto, che ha pubblicato Magister sotto questo scritto perché troppo lungo, lo potete leggere direttamente dalla pagina del sito del giornalista: 

 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/176565

  

 

Grandi ritorni: Romano Amerio e le variazioni della Chiesa cattolica

 I cambiamenti dell’età del Concilio hanno intaccato o no l’essenza del cattolicesimo? « L’Osservatore Romano » riporta in auge il grande pensatore svizzero. E l’arcivescovo Agostino Marchetto demolisce le tesi dei suoi avversari: la « scuola di Bologna » fondata da Dossetti e Alberigo

di Sandro Magister 

 

ROMA, 15 novembre 2007 – Tra le novità dell’ »Osservatore Romano » ora diretto dal professor Giovanni Maria Vian ce n’è una che riguarda un pensatore di eccezionale rilievo nella cultura cattolica del Novecento: lo svizzero Romano Amerio, morto a Lugano nel 1997 a 92 anni di età.

Nel 1985, quando Amerio pubblicò il suo capolavoro dal titolo « Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX », il giornale della Santa Sede cestinò la recensione del libro commissionata all’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Angelo Paredi. La recensione fu giudicata troppo favorevole e « L’Osservatore » scelse da lì in poi di tacere. Così anche le autorità vaticane si accodarono all’intollerante silenzio calato da tutti su quel libro e il suo autore.

Oggi « L’Osservatore Romano » ha compiuto la scelta opposta. Su Amerio ha deciso non di tacere ma di parlare. E di parlarne bene.

L’occasione è stata un convegno su Amerio promosso il 9 novembre ad Ancona dal Centro Studi Oriente Occidente, dieci anni dopo la morte del grande pensatore svizzero.

L’interrogativo di fondo posto da Amerio in « Iota unum » – e nel suo séguito « Stat Veritas » uscito postumo nel 1997 – è il seguente:

« Tutta la questione circa il presente stato della Chiesa è chiusa in questi termini: è preservata l’essenza del cattolicesimo? Le variazioni introdotte fanno durare il medesimo nella circostanziale vicissitudine oppure fanno trasgredire ad aliud? [...] Tutto il nostro libro è una raccolta di prove di tale transito ».

Amerio fu messo al bando come emblema della « reazione anticonciliare », ma in realtà la questione da lui posta con rigore filologico e filosofico, con rara libertà di spirito e nello stesso tempo con integrale obbedienza alla Chiesa è questione che non si lascia imprigionare né rimuovere.

Il punto di non ritorno è stato il discorso di Benedetto XVI alla curia romana, il 22 dicembre 2005, incentrato proprio sulla corretta interpretazione delle « variazioni » della Chiesa prima e dopo il Concilio Vaticano II.

Dopo quel capitale discorso, continuare a tacere su Amerio diventò un atto non più perdonabile. Una prima avvisaglia della riammissione del pensatore svizzero nella « agorà » pubblica della Chiesa fu, lo scorso aprile, una positiva recensione della « Civiltà Cattolica » – la rivista dei gesuiti di Roma stampata con la revisione previa delle autorità vaticane – a un libro del suo discepolo Enrico Maria Radaelli: « Romano Amerio. Della verità e dell’amore ».

Ma ora è « L’Osservatore Romano » a rompere definitivamente il silenzio. Sabato 10 novembre il giornale del papa, oltre che dare evidenza al convegno di Ancona, ha pubblicato le conclusioni di uno dei relatori ed estimatori di Amerio, l’arcivescovo Agostino Marchetto, con il titolo: « Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II ».

Non solo. In un commento siglato da Raffaele Alessandrini, « L’Osservatore Romano » ha apprezzato di Amerio la preveggente critica contro il « processo di secolarizzazione in atto anche all’interno del mondo cristiano » e contro i « rischi del relativismo dilagante »: critica mossa in nome del « primato della verità sull’amore », un caposaldo del pensiero di Amerio il cui sovvertimento – scrive Alessandrini – si rivela sempre più come « un sottile inganno », una confusione che pareggia tutte le religioni, peggio, « un attacco a Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, il Logos ». Insomma: « solo la verità rende liberi, non il contrario ». Persino un cattolico lontano da Amerio come don Lorenzo Milani – scrive ancora Alessandrini – condivideva con lui il « primato della verità sull’amore », aveva capito che su questo « ordine » si fonda la fedeltà della Chiesa alla sua essenza originaria.

Al convegno di Ancona hanno discusso su Amerio diversi studiosi, da varie angolature: il suo discepolo e curatore delle opere Radaelli, i filosofi metafisici Matteo D’Amico e Dario Sacchi, dell’Università Cattolica di Milano, monsignor Antonio Livi della Pontificia Università Lateranense, Pietro De Marco dell’Università di Firenze, don Pietro Cantoni ex membro della Fraternità San Pio X e docente nello Studio Teologico delle diocesi della Toscana.

L’unico che nella sua relazione non abbia mai citato Amerio per nome è stato l’arcivescovo Agostino Marchetto, per trent’anni nella diplomazia pontificia e oggi segretario del pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Come storico della Chiesa, però, Marchetto è autore di recensioni molto critiche dell’esaltazione del Concilio Vaticano II come « rottura e nuovo inizio » fatta dalla « scuola di Bologna » fondata da don Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo: esaltazione agli antipodi delle analisi di Amerio sulla Chiesa cattolica del secolo XX.

Qui di seguito è riprodotto il testo integrale della relazione di monsignor Marchetto al convegno di Ancona su Amerio, in larga parte tesa a demolire l’interpretazione di Alberigo e seguaci.

Ma la polemica non finirà qui. Nel prossimo numero di « Cristianesimo nella storia », loro rivista ufficiale, gli studiosi della « scuola di Bologna » torneranno a difendere la loro interpretazione del Concilio Vaticano II.

Da anticipazioni fatte trapelare da Joseph A. Komonchak e Alberto Melloni si indovina che essi cercheranno di portare dalla loro parte Benedetto XVI, di cui ricordano la promessa di lasciare « la sua documentazione conciliare all’istituto bolognese ».

Scaglieranno invece nuovi strali contro Marchetto e il cardinale Camillo Ruini. A quest’ultimo non perdonano d’aver appoggiato in pubblico le critiche del primo alla « Storia del Vaticano II » diretta da Alberigo. Arrivando a dire:

“L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”.

Quella verità al cui primato Romano Amerio ha dedicato tutta la sua vita di studioso e di cattolico. 

Publié dans:Sandro Magister |on 19 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

Antonio Rosmini

Antonio Rosmini dans Sandro Magister rosmcol

http://www.geocities.com/lorpino/rosm.html

Publié dans:Sandro Magister |on 12 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Beata libertà. Il miracolo postumo di Antonio Rosmini

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/175502

  

Beata libertà. Il miracolo postumo di Antonio Rosmini

 Sul grande pensatore liberale pendeva fino a sei anni fa la condanna del Sant’Uffizio. È stato assolto. E ora è proclamato beato. Il filosofo Dario Antiseri traccia il ritratto di questo maestro di un liberalismo aperto alla religione

di Sandro Magister 

ROMA, 12 novembre 2007 – È vicina una beatificazione che è essa stessa un miracolo: quella del sacerdote e filosofo Antonio Rosmini.

Un miracolo perché appena sei anni fa su questo nuovo beato pendeva ancora una condanna spiccata nel 1887 dalla congregazione del Sant’Uffizio contro 40 proposizioni tratte dai suoi scritti.

L’assoluzione è arrivata il 1 luglio 2001 con una nota dell’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger.

E solo dopo la rimozione di questo ostacolo la causa di beatificazione ha proceduto spedita.

Antonio Rosmini sarà proclamato beato domenica 18 novembre a Novara, la diocesi del nord nella quale trascorse l’ultima parte della sua vita. Presiederà la celebrazione, su mandato di papa Benedetto XVI, il cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto della congregazione delle cause dei santi.

Rosmini, oltre che sacerdote di grande spiritualità, fu profondo pensatore e scrittore prolifico. L’edizione completa delle sue opere, curata da Città Nuova, occuperà alla fine 80 grossi volumi. Padre Umberto Muratore, religioso della congregazione fondata dallo stesso Rosmini, non teme di paragonarlo, come filosofo, a giganti come san Tommaso e sant’Agostino.

Il suo libro ancor oggi più letto e tradotto è « Delle cinque piaghe della santa Chiesa ». Una delle piaghe da lui denunciate fu l’ignoranza del clero e del popolo nel celebrare la liturgia. Ma sbaglia chi vede in lui un antesignano dell’abbandono del latino. Scrisse invece che « volendo ridurre i sacri riti nelle lingue volgari si andrebbe incontro a un rimedio peggiore del male ».

Fu grande anche come teorico della politica. Fu spirito liberale di lega purissima, in un’epoca, la metà dell’Ottocento, in cui il liberalismo, per la Chiesa, faceva rima col diavolo. Nel suo libro « Filosofia della politica » Rosmini si dice ammirato della « Democrazia in America », il capolavoro del suo contemporaneo Alexis de Tocqueville, padre del liberalismo amico dello spirito religioso.

Rosmini anticipò di più di un secolo le tesi sulla libertà di religione affermate dal Concilio Vaticano II. Fu critico del cattolicesimo come « religione di stato ». Fu instancabile difensore delle libertà dei cittadini e dei « corpi intermedi » contro le prevaricazioni di uno stato onnipotente.

Non sorprende, quindi, che a diffondere oggi il pensiero di Rosmini, in campo cattolico, siano soprattutto i fautori del liberalismo aperto alla religione, che in Europa ha i suoi maestri nella « scuola di Vienna » di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek.

Il profilo di Rosmini riprodotto qui sotto è scritto proprio da un esponente di spicco di questi cattolici liberali, Dario Antiseri, professore alla Libera Università degli Studi « Guido Carli » di Roma e autore di una apprezzatissima « Storia della filosofia » tradotta in più lingue. La sua nota è uscita il 1 novembre sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, « Avvenire ».

Antiseri concentra l’attenzione su un solo aspetto della figura di Rosmini, quello di teorico della politica. Ma è l’aspetto in cui forse più emerge la sua originalità. Le tesi di Rosmini sono ancora invise a larga parte dei cattolici, vescovi e preti compresi.

Fatto beato Rosmini, questo suo pensiero ha ancora molto da camminare, prima di diventare linguaggio universalmente accettato, nella Chiesa cattolica.

Rosmini, l’antitotalitario

di Dario Antiseri

La preoccupazione prima e fondamentale di Antonio Rosmini, in ambito politico, è stata quella di stabilire le condizioni in grado di garantire la dignità e la libertà della persona umana. Ed è in tale prospettiva che, a suo avviso, risulta cruciale la questione della proprietà.

Contrario all’economicismo socialista, Rosmini ebbe chiarissimo il nesso che unisce la proprietà alla libertà della persona.

« La proprietà – egli scrive nella « Filosofia del diritto » – esprime veramente quella stretta unione di una cosa con una persona. […] La proprietà è il principio di derivazione dei diritti e dei doveri giuridici. La proprietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro: nella quale sfera niun altro può entrare ».

Il rispetto dell’altrui proprietà è il rispetto della persona altrui. La proprietà privata è uno strumento di difesa della persona dall’invadenza dello stato.

Persona e stato: fallibile la prima, mai perfetto il secondo. Ed ecco un famoso passo tratto dalla « Filosofia della politica »:

« Il perfettismo – cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione – è effetto dell’ignoranza. Egli consiste in un baldanzoso pregiudizio, per quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi, sopra un postulato che non si può concedere, e con mancanza assoluta di riflessione ai limiti naturali delle cose ».

Il perfettismo ignora il gran principio della limitazione delle cose; non si rende conto che la società non è composta da « angeli confermati in grazia », quanto piuttosto da « uomini fallibili »; e dimentica che ogni governo « è composto da persone che, essendo uomini, sono tutte fallibili ».

Il perfettista non fa uso della ragione, ne abusa. E intossicati dalla nefasta idea perfettista sono, innanzi tutto, gli utopisti. « Profeti di smisurata felicità » i quali, con la promessa del paradiso in terra, si adoperano alacremente a costruire per i propri simili molto rispettabili inferni.

L’utopia – afferma Rosmini – è « il sepolcro di ogni vero liberalismo » e « lungi dal felicitare gli uomini, scava l’abisso della miseria; lungi dal nobilitarli, gli ignobilita al par de’ bruti; lungi dal pacificarli, introduce la guerra universale, sostituendo il fatto al diritto; lungi d’eguagliar le ricchezze, le accumula; lungi da temperare il potere de’ governi lo rende assolatissimo; lungi da aprire la concorrenza di tutti a tutti i beni, distrugge ogni concorrenza; lungi da animare l’industria, l’agricoltura, le arti, i commerci, ne toglie via tutti gli stimoli, togliendo la privata volontà o lo spontaneo lavoro; lungi da eccitare gl’ingegni alle grandi invenzioni e gli animi alle grandi virtù, comprime e schiaccia ogni slancio dell’anima, rende impossibile ogni nobile tentativo, ogni magnaminità, ogni eroismo ed anzi la virtù stessa è sbandita, la stessa fede alla virtù è annullata ».

E qui va precisato che, connessa al suo antiperfettismo, c’è la decisa critica di Rosmini all’arroganza di quel pensiero che celebra i suoi fasti negli scritti degli Illuministi e che poi scatena gli orrori della Rivoluzione francese.

La dea Ragione sta a simboleggiare un uomo che presume di sostituirsi a Dio e di poter creare una società perfetta. Il giudizio che Rosmini dà sulla presunzione fatale dell’Illuminismo richiama alla mente analoghe considerazioni, prima di Edmund Burke e successivamente di Friedrich A. von Hayek.

Antiperfettista, a motivo della naturale « infermità degli uomini », Rosmini si affretta, sempre nella « Filosofia politica », a far presente che gli strali critici da lui puntati contro il perfettismo « non sono volti a negare la perfettibilità dell’uomo e della società. Che l’uomo sia continuamente perfettibile fin che dimora nella presente vita, egli è un vero prezioso, è un dogma del cristianesimo ».

L’antiperfettismo di Rosmini implica, dunque, un impegno maggiore. Da qui viene, tra l’altro, la sua attenzione a quella che egli chiama « lunga, pubblica, libera discussione », poiché è da siffatta amichevole ostilità che gli uomini possono tirare fuori il meglio di sé ed eliminare gli errori dei propri progetti e idee.

Leggiamo ancora nella « Filosofia del diritto »:

« Gli individui di cui un popolo è composto non si possono intendere, se non parlano molto tra loro; se non contrastano insieme con calore; se gli errori non escono dalle menti e, manifestati appieno, sotto tutte le forme combattuti ».

Antistatalista e dunque difensore dei « corpi intermedi », alfiere dei diritti di libertà, Rosmini è stato attentissimo alle sofferenze e ai problemi dei bisognosi, dei più svantaggiati.

Ma la doverosa solidarietà cristiana non gli fa chiudere gli occhi sui danni dell’assistenzialismo statale.

« La beneficenza governativa – egli afferma – ha un ufficio pieno in vista delle più gravi difficoltà, e può riuscire, anziché di vantaggio, di gran danno, non solo alla nazione, ma alla stessa classe indigente che si pretende di beneficiare; nel qual caso, invece di beneficenza, è crudeltà. Ben sovente è crudeltà anche perché dissecca le fonti della beneficenza privata, ricusando i cittadini di sovvenir gl’indigenti che già sa o crede provveduti dal governo, mentre nol sono, nol possono essere a pieno ».

Sin qui, dunque, alcune posizioni di Antonio Rosmini teorico della politica. Di esse non è difficile comprendere l’estrema rilevanza e l’impressionante attualità.

E insieme l’incalcolabile danno – non solo per la cultura cattolica – provocato dalla lunga emarginazione di questo sacerdote filosofo.

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Le tappe della sua vita

Antonio Rosmini nasce a Rovereto, nell’Impero Austro-Ungarico, il 24 marzo del 1797. Frequenta la scuola pubblica. Nell’agosto 1816 sostiene gli esami finali nel liceo imperiale ottenendo la qualifica di « eminenza » in tutte le materie e un giudizio in cui si parla di lui come « dotato di acutissimo ingegno ».

Nell’autunno del 1816 inizia a frequentare i corsi di teologia all’università di Padova, dove si laurea il 23 giugno 1822. Intanto, nel 1821, era stato ordinato sacerdote dal vescovo di Chioggia.

Il patriarca di Venezia, il cardinale Ladislao Pyrcher, lo porta con sé a Roma. Qui, introdotto dall’abate Mauro Cappellari, futuro papa col nome di Gregorio XVI, incontra due volte il pontefice Pio VIII, che al prete-filosofo dà questo consiglio: « Si ricordi, ella deve attendere a scrivere libri, e non occuparsi degli affari della vita attiva; ella maneggia assai bene la logica e noi abbiamo bisogno di scrittori che sappiano farsi temere ».

Nel 1830 pubblica la sua prima grande opera filosofica “Nuovo saggio sull’origine delle idee”.

Il 2 febbraio 1831 sale al soglio pontificio il cardinal Cappellari, sincero amico di Rosmini, e il 20 settembre del 1839 l’Istituto della Carità, da lui fondato, viene approvato in via definitiva.

In poco più di dieci giorni, dal 18 al 30 novembre del 1832, Rosmini scrive « Delle cinque piaghe della santa Chiesa », in cui denuncia i pericoli che minacciano l’unità e la libertà della Chiesa e ne indica i rimedi. Il libro sarà pubblicato nel 1846.

Nel 1839 pubblica il “Trattato della coscienza morale”, in cui argomenta che l’intelligenza è illuminata dalla luce dell’essere che è la luce della verità, per cui vi è nell’uomo qualcosa di “divino”. Le sue tesi sono aspramente attaccate da alcuni gesuiti.

Nel 1848, su mandato del re del Piemonte Carlo Alberto di Savoia, Rosmini torna a Roma in missione diplomatica, con lo scopo di indurre papa Pio IX a presiedere una confederazione di stati italiani. Ma quando il governo piemontese pretende che anche il papa entri in guerra contro l’Austria, Rosmini rinuncia al suo incarico diplomatico.

Pio IX gli ordina però di restare a Roma. Si parla di lui come prossimo cardinale segretario di stato e, dopo la fondazione della Repubblica Romana, come primo ministro. Ma egli rifiuta di presiedere un governo rivoluzionario che priva il papa della libertà. Il 24 novembre 1848 Pio IX fugge a Gaeta. Rosmini lo segue. Ma presto cade in disgrazia, in disaccordo con la linea politica del cardinale Giacomo Antonelli, che vuole il sostegno al papa di eserciti stranieri. Nel 1849 prende congedo da Pio IX.

Durante il suo viaggio di ritorno nel nord d’Italia, a Stresa, lo raggiunge la notizia che le sue opere « Delle cinque piaghe della santa Chiesa » e « La costituzione civile secondo la giustizia sociale » sono state messe all’Indice dei libri proibiti.

Attaccato dai gesuiti, ma confortato dalle visite degli amici, tra i quali lo scrittore Alessandro Manzoni, Rosmini trascorre i suoi ultimi anni a Stresa, guidando le due congregazioni da lui fondate e scrivendo la sua opera più alta, la “Teosofia”.

Processato una prima volta dal Vaticano nel 1854, è assolto. Muore a Stresa il 1° luglio 1855. La condanna della Chiesa cadrà nel 1887 su 40 proposizioni tratte dalle sue opere. La revoca della condanna arriverànel 2001.

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Il quotidiano della conferenza episcopale italiana su cui è uscito l’articolo di Dario Antiseri:

> « Avvenire »

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La nota della congregazione per la dottrina della fede che il 1 luglio 2001 ha assolto Antonio Rosmini dalla condanna:

> « Il magistero della Chiesa… »

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Il sito web del nuovo beato:

> www.rosmini.it 

Publié dans:Sandro Magister |on 12 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Accade in India: cristiani e musulmani felicemente alleati

from the site: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/174609

 

  

Accade in India: cristiani e musulmani felicemente alleati

 

 Uniti per abbattere le discriminazioni di casta. Ma anche per difendersi dalle aggressioni di induisti fanatici. Intanto il papa riceve il re dell’Arabia Saudita, dove invece…

di Sandro Magister 

 

ROMA, 7 novembre 2007 – Per la prima volta, ieri, un re dell’Arabia Saudita si è recato in visita dal papa. Al termine del colloquio con Benedetto XVI, re Abdallah bin Abdulaziz al-Saud ha incontrato il segretario di stato, cardinale Tarcisio Bertone, e il ministro degli esteri della Santa Sede, l’arcivescovo Dominique Mamberti.

In Arabia Saudita e negli emirati del Golfo vivono oggi numerosi cristiani, in numero crescente, arrivati soprattutto dalle Filippine e dall’India. Ai disagi della loro condizione di lavoratori immigrati si sommano altre pesanti limitazioni di libertà, di tipo religioso. Sono i moderni « dhimmi », i sudditi non musulmani di un paese dominato dall’islam, privati dei fondamentali diritti.

L’Arabia non è un caso isolato. È frequente che le minoranze cristiane nel mondo siano conculcate nella loro libertà. Nei paesi musulmani ciò è praticamente la norma.

Ma vi sono anche dei casi d’altro tipo. Vi sono dei paesi in cui i cristiani e i musulmani si trovano entrambi sottoposti a limitazioni della libertà. E da ciò sono indotti non a scontrarsi ma a collaborare.

Uno di questi paesi è, ad esempio, la Birmania. Lì i cristiani, secondo le statistiche ufficiali, sono il 6 per cento della popolazione e i musulmani il 4 per cento. In realtà gli uni e gli altri sono il doppio, appartenenti per lo più a etnie minoritarie. La repressione del regime si abbatte su di essi più duramente che sui buddisti, che costituiscono la larga maggioranza della popolazione. Cristiani e musulmani si ritrovano quindi uniti nel sostenere, in questi mesi, la rivolta pacifica dei monaci buddisti contro i militari comunisti al potere.

L’esempio più eclatante di collaborazione tra cristiani e musulmani è però dato dall’India. 

* * * 


La società indiana è tuttora dominata da una gerarchia di caste, che penalizza coloro che sono ai gradini bassi della scala, i dalit o « intoccabili ». La costituzione la vieta, ma nei fatti la discriminazione permane.

Le caste fanno parte della tradizione induista, la religione dominante dell’India. Chi non appartiene a questa religione non ricade, quindi, sotto il sistema castale.

Questo però vale solo in linea di principio. Il peso della tradizione è tale che anche dentro le comunità cristiane e musulmane dell’India la divisione in caste rimane in varia misura operante. Il cristianesimo è presente in India dall’età apostolica – l’apostolo Tommaso è lì venerato come il primo evangelizzatore – ma bisogna arrivare alla fine del XX secolo per trovare i primi vescovi dalit. Le Chiese indiane di ceppo più antico, quelle di rito siriaco della costa sudoccidentale, sono quasi esclusivamente composte da bramini e appartenenti alle altre caste superiori.

Per ridurre la discriminazione di casta, fin dagli anni Cinquanta si è stabilito per legge di riservare ai dalit una parte dei posti di lavoro e delle ammissioni alle università. Tra gli impieghi federali la quota riservata è del 15 per cento.

Se però dei dalit si convertono al cristianesimo o all’islam – e quindi in linea di principio fuoriescono dal sistema castale – essi perdono anche la protezione dei posti di lavoro ad essi riservati per legge. Si ritrovano più discriminati di prima.

La conseguenza è che un buon numero dei dalit che abbracciano il cristianesimo o l’islam tengono celata la loro nuova appartenenza religiosa. Alle messe cattoliche o alle celebrazioni protestanti è facile vedere più donne e bambini che uomini. Questi continuano a mostrarsi in pubblico come induisti, per non perdere il posto di lavoro.

Dei 24 milioni di cristiani dell’India, cattolici e non, si calcola che i dalit siano circa 10 milioni. Ma a questi andrebbero aggiunti i convertiti nascosti, stimati anch’essi nell’ordine di milioni.

Rispetto al miliardo e 100 milioni dell’intera popolazione dell’India i cristiani sono poca cosa. Ma la loro forza di pressione si moltiplica se congiunta a quella dei musulmani, molto più numerosi, attorno ai 150 milioni.

Ed è quello che sta accadendo. Cristiani e musulmani premono assieme da anni perché il governo assicuri uguali protezioni di legge a tutti i dalit, a qualsiasi religione appartengano.

Tra il 1996 e il 2004, quando il principale partito di governo era il Bharatiya Janata Party, difensore dell’induismo come religione nazionale, le pressioni di cristiani e musulmani non ottennero alcun risultato.

Ma da quando al governo è tornato il più laico Partito del Congresso, le chance di successo sono aumentate. Al punto che il BJP s’è sentito in obbligo di prendere delle contromisure. Il 5 novembre ha indetto una grande marcia induista su New Delhi contro la parità dei diritti a cristiani e musulmani.

La collaborazione tra cristiani e musulmani non si limita alle pressioni politiche. In alcune località abitate da dalit, i leader delle due religioni organizzano assieme dei pasti festivi nei quali tutti si servono dal medesimo piatto gigante di riso e verdura. Lo scopo è di far cadere le barriere tra gli « intoccabili » e le caste superiori.

Cristiani e musulmani si sono aiutati, in questi ultimi anni, anche per difendersi da altri atti, più gravi, di persecuzione. Nel 2002, quando nello stato del Gujarat gruppi induisti estremisti scatenarono dei pogrom contro i musulmani, i cristiani soccorsero e ospitarono i musulmani in fuga.

E anche per i cristiani è così. In India subiscono aggressioni, violenze, uccisioni per mano non di musulmani – come purtroppo avviene in altri paesi del mondo – ma di induisti fanatici. 

* * * 


In occasione della festa induista del Diwali, che quest’anno cade il 9 novembre, il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha indirizzato agli induisti un messaggio, firmato dal suo presidente, il cardinale Jean-Louis Tauran.

In esso si legge:

« La credenza religiosa e la libertà vanno sempre di pari passo. Non ci può essere costrizione nella religione: nessuno può essere forzato a credere, né chiunque voglia credere può esserne impedito. Permettetemi di ripetere ancora l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che è molto chiaro su questo punto: ‘Un elemento fondamentale della dottrina cattolica è che gli esseri umani sono tenuti a rispondere a Dio credendo volontariamente; nessuno, quindi, può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà’ (Dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis Humanae, n. 10). La Chiesa cattolica, come ha recentemente ricordato il papa Benedetto XVI agli ambasciatori dell’India e di altri paesi accreditati presso la Santa Sede, è stata fedele a questo insegnamento: ‘La pace si fonda sul rispetto per la libertà religiosa, che è un aspetto fondamentale e primordiale della libertà di coscienza degli individui e della libertà dei popoli’ ». 

Publié dans:Sandro Magister |on 7 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Nagasaki città dell’atomica. E dei martiri cristiani

 dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/173602

 

Nagasaki città dell’atomica. E dei martiri cristiani

 Sono 188, di quattro secoli fa, e saranno beatificati tra un anno. Nella stessa città in cui nel 1945 furono uccisi in un sol giorno i due terzi dei cattolici del Giappone. Fu questa una scelta deliberata?

di Sandro Magister 

ROMA, 30 ottobre 2007 – Nelle memorie del cardinale Giacomo Biffi da oggi in vendita nelle librerie, c’è un passaggio con il finale in sospeso, che riguarda il Giappone.

È là dove Biffi ricorda il forte impatto che ebbe su di lui nel 1945 la notizia delle bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti il 6 agosto su Hiroshima e il 9 agosto su Nagasaki.

Scrive:

« Di Nagasaki avevo già sentito parlare. L’avevo ripettamente incontrata nel ‘Manuale di storia delle missioni cattoliche’ di Giuseppe Schmidlin, tre volumi pubblicati a Milano nel 1929. A Nagasaki fin dal secolo XVI era sorta la prima consistente comunità cattolica del Giappone. A Nagasaki il 5 febbraio 1597 avevano dato la vita per Cristo trentasei martiri (sei missionari francescani, tre gesuiti giapponesi, ventisette laici), canonizzati da Pio IX nel 1862. Quando riprende la persecuzione nel 1637 vengono uccisi addirittura trentacinquemila cristiani. Poi la giovane comunità vive, per così dire, nelle catacombe, separata dal resto della cattolicità e senza sacerdoti; ma non si estingue. Nel 1865 il padre Petitjean scopre questa ‘Chiesa clandestina’, che si fa da lui riconoscere dopo essersi accertata che egli è celibe, che è devoto di Maria e obbedisce al papa di Roma; e così la vita sacramentale può riprendere regolarmente. Nel 1889 è proclamata in Giappone la piena libertà religiosa, e tutto rifiorisce. Il 15 giugno 1891 viene eretta canonicamente la diocesi di Nagasaki, che nel 1927 accoglie come pastore monsignor Hayasaka, che è il primo vescovo giapponese ed è consacrato personalmente da Pio XI. Dallo Schmidlin veniamo a sapere che nel 1929 di 94.096 cattolici nipponici ben 63.698 sono di Nagasaki ».

Premesso questo, il cardinale Biffi conclude con una domanda inquietante:

« Possiamo ben supporre che le bombe atomiche non siano state buttate a casaccio. La domanda è quindi inevitabile: come mai per la seconda ecatombe è stata scelta, tra tutte, proprio la città del Giappone dove il cattolicesimo, oltre ad avere la storia più gloriosa, era anche più diffuso e affermato? ». 

* * * 


In effetti, tra le vittime della bomba atomica su Nagasaki scomparvero in un sol giorno i due terzi della piccola ma vivace comunità cattolica giapponese. Una comunità quasi azzerata con la violenza per due volte in tre secoli.

Nel 1945 lo fu per un atto di guerra misteriosamente concentratosi su di essa. Tre secoli prima per una terribile persecuzione molto simile a quella dell’impero romano contro i primi cristiani, con epicentro sempre Nagasaki e la sua « collina dei martiri ».

Eppure, da entrambe queste tragedie la comunità cattolica giapponese ha saputo risorgere. Dopo la persecuzione del Seicento, dei cristiani mantennero viva la fede trasmettendola dai genitori ai figli per due secoli, pur privi di vescovi, preti e sacramenti. Si racconta che il venerdì santo del 1865 ben diecimila di questi « kakure kirisitan », cristiani nascosti, sbucarono dai villaggi e si presentarono a Nagasaki agli stupiti missionari che avevano da poco riavuto accesso in Giappone.

E anche dopo la seconda ecatombe di Nagasaki, quella del 1945, la Chiesa cattolica è rinata, in Giappone. Gli ultimi dati ufficiali, del 2004, stimano in poco più di mezzo milione i giapponesi di fede cattolica. Pochi in rapporto a una popolazione di 126 milioni. Ma rispettati e influenti, anche grazie a una fitta rete di loro scuole e università.

Inoltre, se ai giapponesi di nascita si sommano gli immigrati da altri paesi dell’Asia, il numero dei cattolici raddoppia. Un rapporto del 2005 della commissione per i migranti della conferenza episcopale calcola che il totale dei cattolici abbia di recente superato il milione, per la prima volta nella storia del Giappone. 

* * * 


Su questo sfondo prende una luce nuova un decreto autorizzato il 1 giugno 2007 da Benedetto XVI: la beatificazione di 188 martiri del Giappone, che si aggiungono ai 42 santi e ai 395 beati – tutti martiri – già elevati agli altari dai precedenti papi.

La beatificazione – la prima mai tenuta in Giappone – sarà celebrata il 24 novembre del 2008 proprio a Nagasaki dal prefetto della congregazione delle cause dei santi, cardinale José Saraiva Martins, come inviato speciale di Benedetto XVI.

I 188 martiri giapponesi che saranno beatificati l’anno prossimo sono classificati nelle carte del processo canonico come “padre Kibe e i suoi 187 compagni”. Sono stati uccisi a causa della loro fede tra il 1603 e il 1639.

Pietro Kibe Kasui nacque nel 1587, nell’anno in cui il maresciallo della corona a Nagasaki, lo shogun Hideyoshi, emise un editto che ingiungeva ai missionari stranieri di lasciare il paese. Dieci anni dopo cominciarono le persecuzioni.

A quell’epoca in Giappone si contavano circa 300 mila cattolici, evangelizzati prima dai gesuiti, con san Francesco Saverio, e poi anche dai francescani.

Nel febbraio 1614 un altro editto impose la chiusura delle chiese cattoliche e il confinamento a Nagasaki di tutti i sacerdoti rimasti, stranieri e locali.

Nel novembre dello stesso anno i sacerdoti e i laici che guidavano le comunità furono costretti ad andare in esilio. Kibe riparò prima a Macao e poi a Roma.

Fu ordinato sacerdote il 15 novembre 1620 e, dopo aver completato il noviziato a Lisbona, pronunciò i primi voti da gesuita il 6 giugno 1622.

Tornato in Giappone fra i cattolici sottoposti a crudele persecuzione, nel 1639 fu catturato a Sendai assieme ad altri due sacerdoti. Torturato per dieci giorni di fila, rifiutò di abiurare. E fu martirizzato a Edo, l’attuale Tokyo.

Uno dei suoi 187 compagni di martirio, per la maggior parte laici, fu Michele Kusurya, detto il « buon samaritano di Nagasaki ». Salì la « collina dei martiri », poco fuori la città, cantando dei salmi. Morì, come molti, legato al palo e bruciato a fuoco lento.

Un altro dei prossimi beati fu Nicola Keian Fukunaga. Morì gettato in fondo a un pozzo di fango, dove fino all’ultimo pregò a voce alta, chiedendo perdono « per non aver portato Cristo a tutti i giapponesi, a cominciare dallo shogun ».

Altri martiri furono uccisi inchiodati su croci o tagliati a pezzi, con inaudite crudeltà che non risparmiavano donne e bambini. Oltre che dalle uccisioni, la comunità cattolica fu falcidiata dalle apostasie di quelli che abiuravano per paura. Eppure non fu annientata. Una parte si celò nella clandestinità e conservò la fede fino all’arrivo, due secoli dopo, di un regime più libero.

Lo scorso settembre la diocesi di Takamatsu ha dedicato un simposio a un altro ancora dei 188 martiri che saranno beatificati nel 2008, il gesuita Diego Ryosetsu Yuki, discendente di una famiglia di shogun.

Uno dei relatori, il professor Shinzo Kawamura della Università Sophia dei gesuiti di Tokyo, ha mostrato che la forza indomita con cui tanti cattolici di quell’epoca resistettero alle torture e affrontarono il martirio proveniva anche dallo spirito comunitario con cui essi si sostenevano a vicenda, nella fede. In parte avevano preso come modello le comunità buddiste di Jodo Shinshu, della Terra Pura. « Furono le kumi, le comunità dei kirisitan, dei cristiani, il terreno sul quale fiorirono i 188 martiri. La Chiesa di quell’epoca in Giappone era una vera Chiesa di popolo ». 

Publié dans:Sandro Magister |on 2 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Prima dell’ultimo conclave: « Che cosa ho detto al futuro papa »

 dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/173182

 

  

Prima dell’ultimo conclave: « Che cosa ho detto al futuro papa »

 Il cardinale Giacomo Biffi consegna le sue memorie a un libro. Eccone un’anticipazione: il discorso da lui pronunciato nella riunione a porte chiuse con i cardinali. E poi i suoi giudizi critici su Giovanni XXIII, sul Concilio, sui « mea culpa » di Giovanni Paolo II

di Sandro Magister 

 

ROMA, 26 ottobre 2007 – Alla vigilia dei suoi ottant’anni, il cardinale Giacomo Biffi manda in libreria un grosso volume autobiografico, col titolo: « Memorie e digressioni di un italiano cardinale ».

Biffi è ricordato soprattutto come arcivescovo di Bologna, dal 1984 al 2003. Ma nel libro egli ripercorre l’intera sua vita, dalla nascita nella Milano operaia a quando divenne sacerdote, poi professore di teologia, parroco, vescovo e infine cardinale.

Nel prologo, Biffi riporta queste parole di sant’Ambrogio, grande vescovo della Milano del IV secolo, suo amato « padre e maestro »:

« Per un vescovo non c’è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero ».

E puntualmente, nelle 640 pagine del volume, il pensiero di Biffi prorompe in piena libertà, pungente, ironico, anticonformista.

Non c’è passaggio cruciale della vita della Chiesa che non cada sotto il suo giudizio acuminato e spesso sorprendente.

È una sorpresa, ad esempio, che egli indichi « il papa più grande del secolo ventesimo » in Pio XI, che è forse il papa oggi più trascurato e dimenticato.

È una sorpresa lo scoprire che, quand’era arcivescovo di Bologna, lui, tanto criticato per aver definito preferibile accogliere in Italia immigrati cristiani rispetto a immigrati musulmani, ospitò per molte notti in una chiesa un folto gruppo di magrebini senza casa, nelle settimane più rigide dell’inverno.

Anche i silenzi sono eloquenti. A Joseph Ratzinger il libro dedica solo rari accenni. Ma il lettore capisce da molti indizi che Biffi ha una altissima stima dell’attuale papa. Una stima ricambiata dall’invito fattogli da Benedetto XVI di predicare in Vaticano gli esercizi spirituali della Quaresima del 2007.

Viceversa, il quasi totale silenzio sul cardinale Carlo Maria Martini – di cui Biffi fu vescovo ausiliare per quattro anni a Milano – fa trasparire un giudizio inesorabilmente critico. Immediatamente prima di liquidare in poche righe la nomina del celebre gesuita ad arcivescovo di Milano, alla fine del 1979, Biffi mette in chiaro che l’epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento – eredi genuini di sant’Ambrogio e san Carlo Borromeo – si è comunque conclusa col predecessore di Martini, Giovanni Colombo.

E da un altro silenzio – quello che nel libro avvolge il successore di Martini, il cardinale Dionigi Tettamanzi – si ricava che neppure con l’attuale vescovo di Milano la stagione dei grandi pastori « ambrosiani » e « borromaici » dia segni di ripresa.

Il perché è ben spiegato. Per Biffi un vescovo è grande quando governa la Chiesa « con il calore e la certezza della fede, la concretezza delle iniziative e delle opere, la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità ». Evidentemente, a giudizio di Biffi, né Martini né Tettamanzi corrispondono a questo profilo.

Un’ altra personalità che Biffi sottopone a critica severa è don Giuseppe Dossetti, in gioventù importante uomo politico – ammirato in quegli anni dallo stesso Biffi – poi sacerdote e monaco, attivissimo consulente del cardinale Giacomo Lercaro nel Concilio Vaticano II e capostitpite della « scuola di Bologna » e dell’interpretazione del Concilio come rottura col passato e nuovo inizio.

Biffi scrive che Dossetti mantenne sino all’ultimo « un’ossessione primaria e permanente per la politica, che alterava la sua prospettiva generale ». Inoltre gli addebita una « insufficiente fondazione teologica ».

Dossetti è stato l’uomo che nell’ultimo mezzo secolo ha più influito sugli orientamenti dell’élite intellettuale della Chiesa italiana.

Invece, il leader spirituale che a giudizio di Biffi ha intuito con più lucidità la missione e i pericoli della Chiesa nel mondo d’oggi è stato don Divo Barsotti, più volte ricordato con ammirazione nel libro.

Le memorie del cardinale Biffi sono una lettura obbligata, per chi voglia osservare la vicenda attuale della Chiesa da una visuale fuori dagli schemi, e nello stesso tempo autorevole. Ma sono anche una lettura avvincente, che afferra fin dalle prime pagine per la brillantezza della scrittura, sempre sobria ed essenziale.

Sono il racconto di una vita integralmente dedicata alla Chiesa. Qui di seguito ne sono riportati alcuni brani: su Giovanni XXIII, sul Concilio Vaticano II e le sue ricadute, sui « mea culpa » di Giovanni Paolo II e, infine, sull’ultimo conclave, con il discorso integrale – fino a ieri segreto – rivolto dal cardinale Biffi al futuro papa.

Un papa – Benedetto XVI – a quella data ancora da eleggere. Eppure già così somigliante alle attese di questo suo grande elettore.

Giovanni XXIII: papa buono, cattivo maestro

(pp.177-179)

Papa Roncalli morì nella solennità di Pentecoste, il 3 giugno 1963. Anch’io lo rimpiangevo, perché avevo un’invincibile simpatia per lui. M’incantavano i suoi gesti “irrituali”, ed ero rallegrato dalle sue parole spesso sorprendenti e dalle sue uscite estemporanee.

Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante. Ed erano proprio quelle che più facilmente di altre conquistavano gli animi, perché apparivano conformi alle istintive aspirazioni degli uomini.

C’era, per esempio, il giudizio di riprovazione sui « profeti di sventura ».

L’espressione divenne e rimase popolarissima ed è naturale: la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici a chi avanza timori e riserve. E anch’io ammiravo qui il coraggio e lo slancio, negli ultimi anni della sua vita, di questo “giovane” successore di Pietro.

Ma ricordo che una perplessità mi prese però quasi sùbito. Nella storia della Rivelazione, annunziatori anche di castighi e calamità furono solitamente i veri profeti, quali adesempio Isaia (capitolo 24), Geremia (capitolo 4), Ezechiele (capitoli 4-11).

Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i “profeti di sventura”: le notizie di futuri successi e di prossime gioie non riguardano di norma l’esistenza di quaggiù, bensì la “vita eterna” e il “Regno dei Cieli”.

A proclamare di solito l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti (si veda il capitolo 13 del Libro di Ezechiele).

La frase di Giovanni XXIII si spiega col suo stato d’animo del momento, ma non va assolutizzata. Al contrario, sarà bene ascoltare anche quelli che hanno qualche ragione di mettere all’erta i fratelli, preparandoli alle possibili prove, e coloro che ritengono opportuni gli inviti alla prudenza e alla vigilanza.

« Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide ». Anche questa sentenza – oggi molto ripetuta e apprezzata, quasi come la regola aurea del “dialogo” – ci viene dall’epoca giovannea e ce ne trasmette l’atmosfera.

È un principio comportamentale di evidente assennatezza, che va tenuto presente quando si tratta di semplice convivenza e di decisioni da prendere nella spicciola quotidianità.

Ma diventa assurdo e disastroso nelle sue conseguenze, se lo si applica nei grandi temi dell’esistenza e particolarmente nella problematica religiosa.

È opportuno, per esempio, che si usi di questo aforisma per salvaguardare i rapporti di buon vicinato in un condominio o la rapida efficienza di un consiglio comunale.

Ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo, nel nostro impegno ecumenico, nelle discussioni coi non credenti. In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane. Il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare: « Io sono venuto a portare la divisione » (Luca 12,51).

Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida.

« Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante ». È un’altra massima che fa parte dell’eredità morale di Giovanni XXIII e ha anch’essa influenzato il cattolicesimo successivo.

Il principio è giustissimo e attinge la sua forza dallo stesso insegnamento evangelico: l’errore non può che essere deprecato, odiato, combattuto dai discepoli di colui che è la Verità; mentre l’errante – nella sua inalienabile umanità – è sempre un’immagine viva, pur se incoativa, del Figlio di Dio incarnato; e pertanto va rispettato, amato, aiutato per quel che è possibile.

Io però non potevo dimenticare, riflettendo su questa sentenza, che la storica saggezza della Chiesa non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura e inefficace astrazione.

Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore, senza che per questo si cessi di cercare il suo vero bene e pur senza giudicare la responsabilità soggettiva di nessuno, che è nota solo a Dio.

Gesù a questo proposito ha dato ai capi della Chiesa una direttiva precisa: colui che scandalizza col suo comportamento e con la sua dottrina, e non si lascia persuadere né dalle ammonizioni personali, né dalla più solenne riprovazione della ecclesìa, “sia per te come un pagano e un pubblicano” (cfr. Matteo 18,17); prevedendo e prescrivendo così l’istituto della scomunica.

Gli inganni del Vaticano II: « aggiornamento » e « pastoralità »

(pp. 183-184)

Papa Roncalli aveva assegnato al Concilio, come compito e come traguardo, il “rinnovamento interno della Chiesa”; espressione più pertinente del vocabolo “aggiornamento” (esso pure giovanneo), che però ebbe un’immeritata fortuna.

Non era certo l’intenzione del sommo pontefice, ma “aggiornamento” includeva l’idea che la “nazione santa” si proponesse di ricercare la sua miglior conformità non al disegno eterno del Padre e alla sua volontà di salvezza (come aveva sempre creduto di dover fare nei suoi tentativi di giusta “riforma”), ma alla “giornata” (alla storia temporale e mondana); e così si dava l’impressione di indulgere alla “cronolatrìa”, per usare il termine di biasimo coniato poi da Maritain.

Giovanni XXIII vagheggiava un Concilio che ottenesse il rinnovamento della Chiesa non con le condanne, ma con la “medicina della misericordia”. Astenendosi dal riprovare gli errori, il Concilio per ciò stesso avrebbe evitato di formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti. E di fatto ci si attenne sempre a questa indicazione di partenza.

La ragione sorgiva e sintetica di questi indirizzi era il proposito dichiarato di mirare a un “Concilio pastorale”. Tutti, dentro e fuori l’aula vaticana, si mostravano contenti e compiaciuti di tale qualifica.

Io però, nel mio angolino periferico, sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la “pastoralità” era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire implicitamente che i precedenti Concili non intendevano essere “pastorali” o non lo erano stati abbastanza?

Non aveva rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al Padre, come si era definito a Nicea? Non aveva rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento? Non aveva rilevanza pastorale presentare in tutto il suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva insegnato il Concilio Vaticano I?

Si capisce che l’intenzione dichiarata era quella di mettere a tema particolarmente lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa.

Ma c’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile “misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la “misericordia della verità”; misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del “deposito” della fede che va custodito.

Qualcuno poteva addirittura incautamente pensare che il riscatto dei figli di Adamo dipendesse più dalle nostre arti di lusinga e di persuasione, che non dalla strategia soteriologica preordinata dal Padre prima di tutti i secoli, tutta incentrata nell’evento pasquale e nel suo annuncio; un annuncio “senza discorsi persuasivi di sapienza umana” (cfr. 1 Corinti 2,4). Nel postconcilio non è stato soltanto un pericolo.

Sul comunismo aveva ragione papa Wojtyla: il Concilio non doveva tacere

(pp. 184-186)

Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico silenzio.

Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla.

Il comunismo, a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla.

Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale “religione di stato”; e il Concilio, che pur si diffonde sul caso degli atei, non ne parla.

Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla.

Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo, che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!

In quegli anni, pur percependo la grande anomalìa di questo riserbo soprattutto da parte di un’assemblea che aveva discorso quasi di tutto, non mi sono affatto scandalizzato. Anzi, devo dire che capivo gli aspetti positivi di quella linea. E non tanto per la possibilità, che così si profilava, di trattare con i regimi comunisti l’auspicabile partecipazione al Concilio dei vescovi da loro controllati, quanto per la previsione che una qualunque presa di posizione, anche la più blanda e la più sorvegliata, avrebbe scatenato un inasprimento della persecuzione, così da appesantire la croce di quei nostri fratelli perseguitati.

In fondo, c’era in tutti, almeno inconsciamente, il convincimento che il comunismo fosse un fenomeno tanto consistente da essere ormai irreversibile: con esso bisognava dunque per forza di cose abituarsi a fare i conti, chissà per quanto tempo ancora.

A ben guardare questa era in sostanza la giustificazione anche dell’Ostpolitik (“politica di dialogo e di augurabili intese con i Paesi dell’Est”) della Santa Sede di Giovanni XXIII e di Paolo VI; tale politica ci pareva sanamente realistica e storicamente opportuna.

Chi non ha mai condiviso questa prospettiva è stato Giovanni Paolo II (come ho capito da un colloquio avuto nel 1985). Ha avuto ragione lui.

Sui « mea culpa » Giovanni Paolo II si è corretto, ma troppo poco

(p. 536)

Il 7 luglio 1997 Giovanni Paolo II ebbe l’amabilità di invitarmi a pranzo ed estese l’invito anche al cerimoniere arcivescovile, don Roberto Parisini, che mi accompagnava e rimane perciò come prezioso testimone dell’episodio.

A tavola il Santo Padre a un certo punto mi disse: « Ha visto che abbiamo cambiato la frase della ‘Tertio millennio adveniente’? ».

La bozza, che era stata inviata in anticipo ai cardinali, recava questa espressione: « La Chiesa riconosce come propri i peccati dei suoi figli »; espressione che – avevo fatto presente con rispettosa franchezza – era improponibile. Nel testo definitivo il ragionamento appare mutato così: « La Chiesa riconosce sempre come propri i suoi figli peccatori ». Il papa in quel momento ci teneva a ricordarmelo, sapendo che mi avrebbe dato piacere.

Ho risposto dicendomi molto grato e manifestando la mia piena soddisfazione sotto il profilo teologico. Mi sono però sentito anche di aggiungere una riserva di indole pastorale: l’iniziativa inedita di chiedere perdono per gli errori e le incoerenze dei secoli passati a mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”, i preferiti dal Signore Gesù (cfr. Matteo 11,25): perché il popolo fedele, che non sa fare molte distinzioni teologiche, da quelle autoaccuse vedrebbe insidiata la sua serena adesione al mistero ecclesiale, che (ci dicono tutte le professioni di fede) è essenzialmente un mistero di santità.

Il papa testualmente allora disse: « Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci ». Purtroppo non ci ha pensato abbastanza.

Conclave 2005, che cosa ho detto al futuro papa

(pp. 614-615)

I giorni più faticosi per i cardinali sono quelli che precedono immediatamente il conclave. Il Sacro Collegio si raduna quotidianamente dalle ore 9,30 alle ore 13, in un’assemblea dove ciascuno dei presenti è libero di dire tutto ciò che crede.

S’intuisce però che non si possa trattare pubblicamente l’argomento che più sta a cuore agli elettori del futuro vescovo di Roma: chi dobbiamo scegliere?

E così va a finire che ogni cardinale è tentato di citare più che altro i suoi problemi e i suoi guai: o meglio, i problemi e i guai della sua cristianità, della sua nazione, del suo continente, del mondo intero. È senza dubbio molto utile questa generale, spontanea, incondizionata rassegna delle informazioni e dei giudizi. Ma senza dubbio il quadro che ne risulta non è fatto per incoraggiare.

Quale fosse nell’occasione il mio stato d’animo e quale la mia riflessione prevalente emerge dall’intervento che dopo molte perplessità mi sono deciso a pronunciare il venerdì 15 aprile 2005. Eccone il testo:

« 1. Dopo aver ascoltato tutti gli interventi – giusti opportuni appassionati – che qui sono risonati, vorrei esprimere al futuro papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche che non si preoccupi troppo di tutto quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario: ‘Mi ami tu più di costoro?’ (cfr. Giovanni 21,15). In una ‘striscia’ e ‘fumetto’ che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda, ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: ‘Ho capito; – diceva quella terribile e acuta ragazzina – il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi’.

« 2. Vorrei dire al futuro papa che faccia attenzione a tutti i problemi. Ma prima e più ancora si renda conto dello stato di confusione, di disorientamento, di smarrimento che affligge in questi anni il popolo di Dio, e soprattutto affligge i ‘piccoli’.

« 3. Qualche giorno fa ho ascoltato alla televisione una suora anziana e devota che così rispondeva all’intervistatore: ‘Questo papa, che è morto, è stato grande soprattutto perché ci ha insegnato che tutte le religioni sono uguali’. Non so se Giovanni Paolo II avrebbe molto gradito un elogio come questo.

« 4. Infine vorrei segnalare al nuovo papa la vicenda incredibile della ‘Dominus Iesus’: un documento esplicitamente condiviso e pubblicamente approvato da Giovanni Paolo II; un documento per il quale mi piace esprimere al cardinal Ratzinger la mia vibrante gratitudine. Che Gesù sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che in venti secoli – a partire dal discorso di Pietro dopo Pentecoste – non si era mai sentito la necessità di richiamare. Questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede; è la certezza primordiale, è tra i credenti il dato semplice e più essenziale. In duemila anni non è stata mai posta in dubbio, neppure durante la crisi ariana e neppure in occasione del deragliamento della Riforma protestante. L’averla dovuta ricordare ai nostri giorni ci dà la misura della gravità della situazione odierna. Eppure questo documento, che richiama la certezza primordiale, più semplice, più essenziale, è stato contestato. È stato contestato a tutti i livelli: a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia.

« 5. Mi è stato raccontato di un buon cattolico che ha proposto al suo parroco di fare una presentazione della ‘Dominus Iesus’ alla comunità parrocchiale. Il parroco (un sacerdote per altro eccellente e ben intenzionato) gli ha risposto: ‘Lascia perdere. Quello è un documento che divide’. ‘Un documento che divide’. Bella scoperta! Gesù stesso ha detto: ‘Io sono venuto a portare la divisione’ (Luca 12,51). Ma troppe parole di Gesù oggi risultano censurate dalla cristianità; almeno dalla cristianità nella sua parte più loquace ». 

Publié dans:Sandro Magister |on 29 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

del 26.6.07, di Sandro Magister : Perché san Francesco « è un vero maestro » per i cristiani d’oggi

del 26.6.2007, dal sito: 

 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/150081 

 

 

Perché san Francesco « è un vero maestro » per i cristiani d’oggi

 E perché lo è anche sant’Agostino. Da Assisi e da Pavia, mete dei suoi due ultimi viaggi in Italia, Benedetto XVI propone come modelli i due grandi convertiti. E critica le loro moderne « mutilazioni »

di Sandro Magister 

 

ROMA, 20 giugno 2007 – I suoi due ultimi viaggi in Italia, a Pavia e ad Assisi, Benedetto XVI li ha dedicati a due santi di primissima grandezza e di eccezionale influenza nella storia della Chiesa: Agostino e Francesco.

E in entrambi i casi papa Joseph Ratzinger ha concentrato l’attenzione su un preciso momento della vita dei due santi: la conversione.

La conversione – ha spiegato il papa – è la svolta cruciale dell’esistenza d’ogni cristiano. In essa la vita di ciascun uomo prende forma nuova da Gesù Cristo al quale egli si affida. Da lì in avanti la sua vita si distingue per il suo essere segnata da Cristo.

Se quindi Francesco « è un vero maestro » nella ricerca della pace, nella salvaguardia della natura, nella promozione del dialogo tra tutti gli uomini, lo è in un modo unico, che non può essere mutilato: « lo è a partire da Cristo ».

E quindi lo « spirito di Assisi » non ha niente a che vedere con l’indifferentismo religioso, proprio perché la vita e il messaggio di Francesco « poggiano così visibilmente su Cristo »:

« Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Giovanni 14,6), unico Salvatore del mondo ».

Già altre volte, in precedenza, Benedetto XVI aveva criticato gli « abusi  » e i « tradimenti » che a suo giudizio snaturano la figura esemplare di Francesco.

Ma domenica 17 giugno, ad Assisi, il papa è tornato a predicare in maniera più organica sulla persona del santo e in particolare sulla sua conversione, di cui nel 2007 ricorre l’ottavo centenario.

L’ha fatto soprattutto nell’omelia della messa. Come aveva fatto anche a Pavia domenica 22 aprile, ricordando sant’Agostino che è sepolto in quella città.

Ma anche negli altri discorsi della giornata trascorsa ad Assisi il papa ha insistito nel presentare il volto autentico del santo, respingendone i travisamenti. Ad esempio quando ha rivolto ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose della città questa raccomandazione:

« I milioni di pellegrini che passano per queste strade attirati dal carisma di Francesco, devono essere aiutati a cogliere il nucleo essenziale della vita cristiana ed a tendere alla sua ‘misura alta’, che è appunto la santità. Non basta che ammirino Francesco: attraverso di lui devono poter incontrare Cristo, per confessarlo e amarlo con ‘fede dritta, speranza certa e caritade perfetta’ (Preghiera di Francesco davanti al Crocifisso, 1: FF 276). I cristiani del nostro tempo si ritrovano sempre più spesso a fronteggiare la tendenza ad accettare un Cristo diminuito, ammirato nella sua umanità straordinaria, ma respinto nel mistero profondo della sua divinità. Lo stesso Francesco subisce una sorta di mutilazione, quando lo si tira in gioco come testimone di valori pur importanti, apprezzati dall’odierna cultura, ma dimenticando che la scelta profonda, potremmo dire il cuore della sua vita, è la scelta di Cristo. Ad Assisi, c’è bisogno più che mai di una linea pastorale di alto profilo. Occorre a tal fine che voi, sacerdoti e diaconi, e voi, persone di vita consacrata, sentiate fortemente il privilegio e la responsabilità di vivere in questo territorio di grazia. È vero che quanti passano per questa città, anche solo dalle sue ‘pietre’ e dalla sua storia ricevono un benefico messaggio. Ciò non esime da una proposta spirituale robusta, che aiuti anche ad affrontare le tante seduzioni del relativismo che caratterizza la cultura del nostro tempo ».

Ecco dunque qui di seguito le due omelie dedicate da Benedetto XVI ai due grandi convertiti Francesco e Agostino. Due omelie che sono espressione tipica della predicazione di questo papa, sempre strettamente legata alla liturgia del giorno:

1. La conversione di san Francesco

Assisi, 17 giugno 2007

Cari fratelli e sorelle, che cosa ci dice oggi il Signore, mentre celebriamo l’Eucaristia nel suggestivo scenario di questa piazza, in cui si raccolgono otto secoli di santità, di devozione, di arte e di cultura, legati al nome di Francesco di Assisi? Oggi tutto qui parla di conversione. [...] Parlare di conversione, significa andare al cuore del messaggio cristiano ed insieme alle radici dell’esistenza umana.

La Parola di Dio appena proclamata ci illumina, mettendoci davanti agli occhi tre figure di convertiti.

La prima è quella di Davide. Il brano che lo riguarda, tratto dal secondo Libro di Samuele, ci presenta uno dei colloqui più drammatici dell’Antico Testamento. Al centro di questo dialogo c’è un verdetto bruciante, con cui la Parola di Dio, proferita dal profeta Natan, mette a nudo un re giunto all’apice della sua fortuna politica, ma caduto pure al livello più basso della sua vita morale.

Per cogliere la tensione drammatica di questo dialogo, occorre tener presente l’orizzonte storico e teologico in cui esso si pone. È un orizzonte disegnato dalla vicenda di amore con cui Dio sceglie Israele come suo popolo, stabilendo con esso un’alleanza e preoccupandosi di assicurargli terra e libertà.

Davide è un anello di questa storia della continua premura di Dio per il suo popolo. Viene scelto in un momento difficile e posto a fianco del re Saul, per diventare poi suo successore. Il disegno di Dio riguarda anche la sua discendenza, legata al progetto messianico, che troverà in Cristo, « figlio di Davide », la sua piena realizzazione.

La figura di Davide è così immagine di grandezza storica e religiosa insieme. Tanto più contrasta con ciò l’abiezione in cui egli cade, quando, accecato dalla passione per Betsabea, la strappa al suo sposo, uno dei suoi più fedeli guerrieri, e di quest’ultimo ordina poi freddamente l’assassinio.

È cosa che fa rabbrividire: come può, un eletto di Dio, cadere tanto in basso? L’uomo è davvero grandezza e miseria: è grandezza perché porta in sé l’immagine di Dio ed è oggetto del suo amore; è miseria perché può fare cattivo uso della libertà che è il suo grande privilegio, finendo per mettersi contro il suo Creatore. Il verdetto di Dio, pronunciato da Natan su Davide, rischiara le intime fibre della coscienza, lì dove non contano gli eserciti, il potere, l’opinione pubblica, ma dove si è soli con Dio solo. « Tu sei quell’uomo »: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità.

Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione.

Ad invitarci a questo cammino, accanto a Davide, si pone oggi Francesco.

Da quanto i biografi narrano dei suoi anni giovanili, nulla fa pensare a cadute così gravi come quella imputata all’antico re d’Israele. Ma lo stesso Francesco, nel Testamento redatto negli ultimi mesi della sua esistenza, guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui « era nei peccati » (cfr 2 Test 1: FF 110).

Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena. Non gli mancava, quando era il « re delle feste » tra i giovani di Assisi (cfr 2 Cel I, 3, 7: FF 588), una naturale generosità d’animo. Ma questa era ancora ben lontana dall’amore cristiano che si dona senza riserve. Com’egli stesso ricorda, gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare.

La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, « sociale », ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio: « Il Signore – egli dice – mi condusse tra di loro » (2 Test 2: FF 110).

Fu allora che l’amarezza si mutò in « dolcezza di anima e di corpo » (2 Test 3: FF 110). Sì, miei cari fratelli e sorelle, convertirci all’amore è passare dall’amarezza alla « dolcezza », dalla tristezza alla gioia vera. L’uomo è veramente se stesso, e si realizza pienamente, nella misura in cui vive con Dio e di Dio, riconoscendolo e amandolo nei fratelli.

Nel brano della Lettera ai Galati, emerge un altro aspetto del cammino di conversione. A spiegarcelo è un altro grande convertito, l’apostolo Paolo.

Il contesto delle sue parole è il dibattito in cui la comunità primitiva si trovò coinvolta: in essa molti cristiani provenienti dal giudaismo tendevano a legare la salvezza al compimento delle opere dell’antica Legge, vanificando così la novità di Cristo e l’universalità del suo messaggio.

Paolo si erge come testimone e banditore della grazia. Sulla via di Damasco, il volto radioso e la voce forte di Cristo lo avevano strappato al suo zelo violento di persecutore e avevano acceso in lui il nuovo zelo del Crocifisso, che riconcilia i vicini ed i lontani nella sua croce (cfr Efesini 2,11-22). Paolo aveva capito che in Cristo tutta la legge è adempiuta e chi aderisce a Cristo si unisce a Lui, adempie la legge.

Portare Cristo, e con Cristo l’unico Dio, a tutte le genti era divenuta la sua missione. Cristo « infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro della separazione… » (Efesini 2,14). La sua personalissima confessione di amore esprime nello stesso tempo anche la comune essenza della vita cristiana: « Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20b). E come si può rispondere a questo amore, se non abbracciando Cristo crocifisso, fino a vivere della sua stessa vita? « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Galati 2, 20a).

Parlando del suo essere crocifisso con Cristo, san Paolo non solo accenna alla sua nuova nascita nel battesimo, ma a tutta la sua vita a servizio di Cristo. Questo nesso con la sua vita apostolica appare con chiarezza nelle parole conclusive della sua difesa della libertà cristiana alla fine della Lettera ai Galati: « D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo » (6,17).

È la prima volta, nella storia del cristianesimo, che appare la parola « stigmate di Gesù ». Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti del nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne.

I lividi ricevuti in una lunga storia di passione sono la testimonianza della presenza della croce di Gesù nel corpo di San Paolo, sono le sue stigmate. Non è la circoncisione che lo salva: le stigmate sono la conseguenza del suo battesimo, l’espressione del suo morire con Gesù giorno per giorno, il segno sicuro del suo essere nuova creatura (cfr Galati 6,15). Paolo accenna, del resto, con l’applicazione della parola « stigmate »’, all’uso antico di imprimere sulla pelle dello schiavo il sigillo del suo proprietario. Il servo era così « stigmatizzato » come proprietà del suo padrone e stava sotto la sua protezione. Il segno della croce, iscritto in lunghe passioni sulla pelle di Paolo, è il suo vanto: lo legittima come vero servo di Gesù, protetto dall’amore del Signore.

Cari amici, Francesco di Assisi ci riconsegna oggi tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza.

Da quando il volto dei lebbrosi, amati per amore di Dio, gli fece intuire, in qualche modo, il mistero della « kenosi » (cfr Filippesi 2,7), l’abbassamento di Dio nella carne del Figlio dell’uomo, da quando poi la voce del Crocifisso di San Damiano gli mise in cuore il programma della sua vita: « Va, Francesco, ripara la mia casa » (2 Cel I, 6, 10: FF 593), il suo cammino non fu che lo sforzo quotidiano di immedesimarsi con Cristo.

Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ».

E veniamo al cuore evangelico dell’odierna Parola di Dio. Gesù stesso, nel brano appena letto del Vangelo di Luca, ci spiega il dinamismo dell’autentica conversione, additandoci come modello la donna peccatrice riscattata dall’amore.

Si deve riconoscere che questa donna aveva osato tanto. Il suo modo di porsi di fronte a Gesù, bagnando di lacrime i suoi piedi e asciugandoli con i capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato, era fatto per scandalizzare chi, a persone della sua condizione, guardava con l’occhio impietoso del giudice.

Impressiona, al contrario, la tenerezza con cui Gesù tratta questa donna, da tanti sfruttata e da tutti giudicata. Ella ha trovato finalmente in Gesù un occhio puro, un cuore capace di amare senza sfruttare. Nello sguardo e nel cuore di Gesù ella riceve la rivelazione di Dio-Amore!

A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. Alla peccatrice del Vangelo è molto perdonato, perché ha molto amato. In Gesù Dio viene a donarci amore e a chiederci amore.

Che cosa è stata, miei cari fratelli e sorelle, la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo « vivere secondo la forma del santo Vangelo » (2 Test 14: FF 116), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri.

È questa sua conversione a Cristo, fino al desiderio di « trasformarsi » in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini.

Francesco è un vero maestro in queste cose. Ma lo è a partire da Cristo. È Cristo, infatti, « la nostra pace » (cfr Efesini 2,14). È Cristo il principio stesso del cosmo, giacché in lui tutto è stato fatto (cfr Giovanni 1,3). È Cristo la verità divina, l’eterno « Logos », in cui ogni « dia-logos » nel tempo trova il suo ultimo fondamento. Francesco incarna profondamente questa verità « cristologica » che è alle radici dell’esistenza umana, del cosmo, della storia.

Non posso dimenticare, nell’odierno contesto, l’iniziativa del mio predecessore di santa memoria, Giovanni Paolo II, il quale volle riunire qui, nel 1986, i rappresentanti delle confessioni cristiane e delle diverse religioni del mondo, per un incontro di preghiera per la pace. Fu un’intuizione profetica e un momento di grazia, come ho ribadito alcuni mesi or sono nella mia lettera al vescovo di questa Città in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento.

La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose. Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.

Lo « spirito di Assisi », che da quell’evento continua a diffondersi nel mondo, si oppone allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione. Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del Santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Giovanni 14,6), unico Salvatore del mondo.

Francesco di Assisi ottenga a questa Chiesa particolare, alle Chiese che sono in Umbria, a tutta la Chiesa che è in Italia, della quale egli, insieme con Santa Caterina da Siena, è patrono, ai tanti che nel mondo si richiamano a lui, la grazia di una autentica e piena conversione all’amore di Cristo.

2. La conversione di sant’Agostino

Pavia, 22 aprile 2007

Cari fratelli e sorelle, [...] nel tempo pasquale la Chiesa ci presenta, domenica per domenica, qualche brano della predicazione con cui gli Apostoli, in particolare Pietro, dopo la Pasqua invitavano Israele alla fede in Gesù Cristo, il Risorto, fondando così la Chiesa.

Nell’odierna lettura gli Apostoli stanno davanti al Sinedrio, davanti a quell’istituzione che, avendo dichiarato Gesù reo di morte, non poteva tollerare che questo Gesù, mediante la predicazione degli Apostoli, ora cominciasse ad operare nuovamente; non poteva tollerare che la sua forza risanatrice si facesse di nuovo presente e intorno a questo nome si raccogliessero persone che credevano in Lui come nel Redentore promesso.

Gli Apostoli vengono accusati. Il rimprovero è: « Volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo ».

A questa accusa Pietro risponde con una breve catechesi sull’essenza della fede cristiana: « No, non vogliamo far ricadere il suo sangue su di voi. L’effetto della morte e risurrezione di Gesù è totalmente diverso. Dio lo ha fatto « capo e salvatore » per tutti, proprio anche per voi, per il suo popolo d’Israele ». E dove conduce questo « capo », che cosa porta questo « salvatore »?

Egli, così ci dice San Pietro, conduce alla conversione, crea lo spazio e la possibilità di ravvedersi, di pentirsi, di ricominciare. Ed Egli dona il perdono dei peccati, ci introduce nel giusto rapporto con Dio e così nel giusto rapporto di ognuno con se stesso e con gli altri.

Questa breve catechesi di Pietro non valeva solo per il Sinedrio. Essa parla a tutti noi. Poiché Gesù, il Risorto, vive anche oggi. E per tutte le generazioni, per tutti gli uomini Egli è il « capo » che precede sulla via, mostra la via e il « salvatore » che rende la nostra vita giusta.

Le due parole « conversione » e « perdono dei peccati », corrispondenti ai due titoli di Cristo « capo », archegòs in greco, e « salvatore », sono le parole-chiave della catechesi di Pietro, parole che in quest’ora vogliono raggiungere anche il nostro cuore. E che cosa vogliono dire?

Il cammino che dobbiamo fare, il cammino che Gesù ci indica, si chiama « conversione ». Ma che cosa è? Che cosa bisogna fare? In ogni vita la conversione ha la sua forma propria, perché ogni uomo è qualcosa di nuovo e nessuno è soltanto la copia di un altro.

Ma nel corso della storia della cristianità il Signore ci ha mandato modelli di conversione, guardando ai quali possiamo trovare orientamento. Potremmo per questo guardare a Pietro stesso, a cui il Signore nel cenacolo aveva detto: « Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » (Luca 22, 32). Potremmo guardare a Paolo come a un grande convertito.

La città di Pavia parla di uno dei più grandi convertiti della storia della Chiesa: sant’Aurelio Agostino. Egli morì il 28 agosto del 430 nella città portuale di Ippona, in Africa, allora circondata ed assediata dai Vandali.

Dopo parecchia confusione di una storia agitata, il re dei Longobardi acquistò le sue spoglie per la città di Pavia, cosicché ora egli appartiene in modo particolare a questa città ed in essa e da essa parla a tutti noi, all’umanità, ma particolarmente a tutti noi qui in maniera speciale.

Nel suo libro « Le Confessioni », Agostino ha illustrato in modo toccante il cammino della sua conversione, che col Battesimo amministratogli dal vescovo Ambrogio nel duomo di Milano aveva raggiunto la sua meta.

Chi legge « Le Confessioni » può condividere il cammino che Agostino in una lunga lotta interiore dovette percorrere per ricevere finalmente, nella notte di Pasqua del 387, al fonte battesimale il sacramento che segnò la grande svolta della sua vita.

Seguendo attentamente il corso della vita di sant’Agostino, si può vedere che la conversione non fu un evento di un unico momento, ma appunto un cammino. E si può vedere che al fonte battesimale questo cammino non era ancora terminato.

Come prima del Battesimo, così anche dopo di esso la vita di Agostino è rimasta, pur in modo diverso, un cammino di conversione, fin nella sua ultima malattia, quando fece applicare alla parete i Salmi penitenziali per averli sempre davanti agli occhi; quando si autoescluse dal ricevere l’Eucaristia per ripercorrere ancora una volta la via della penitenza e ricevere la salvezza dalle mani di Cristo come dono delle misericordie di Dio.

Così possiamo giustamente parlare delle « conversioni » di Agostino che, di fatto, sono state un’unica grande conversione nella ricerca del Volto di Cristo e poi nel camminare insieme con Lui.

Vorrei parlare brevemente di tre grandi tappe in questo cammino di conversione, di tre « conversioni ».

La prima conversione fondamentale fu il cammino interiore verso il cristianesimo, verso il « sì » della fede e del Battesimo. Quale fu l’aspetto essenziale di questo cammino?

Agostino, da una parte, era figlio del suo tempo, condizionato profondamente dalle abitudini e dalle passioni in esso dominanti, come anche da tutte le domande e i problemi di un uomo giovane. Viveva come tutti gli altri, e tuttavia c’era in lui qualcosa di diverso: egli rimase sempre una persona in ricerca. Non si accontentò mai della vita così come essa si presentava e come tutti la vivevano.

Era sempre tormentato dalla questione della verità. Voleva trovare la verità. Voleva riuscire a sapere che cosa è l’uomo; da dove proviene il mondo; di dove veniamo noi stessi, dove andiamo e come possiamo trovare la vita vera.

Voleva trovare la retta vita e non semplicemente vivere ciecamente senza senso e senza meta. La passione per la verità è la vera parola-chiave della sua vita. La passione per la verità realmente lo ha guidato.

E c’è ancora una peculiarità. Tutto ciò che non portava il nome di Cristo, non gli bastava. L’amore per questo nome – ci dice – lo aveva bevuto col latte materno (cfr Conf 3, 4, 8). E sempre aveva creduto – a volte piuttosto vagamente, a volte più chiaramente – che Dio esiste e che Egli si prende cura di noi (cfr Conf 6, 5, 8).

Ma conoscere veramente questo Dio e familiarizzare davvero con quel Gesù Cristo e arrivare a dire « sì » a Lui con tutte le conseguenze, questa era la grande lotta interiore dei suoi anni giovanili.

Egli ci racconta che, per il tramite della filosofia platonica, aveva appreso e riconosciuto che « in principio era il Verbo », il Logos, la ragione creatrice. Ma la filosofia, che gli mostrava che il principio di tutto è la ragione creatrice, questa stessa filosofia non gli indicava alcuna via per raggiungerlo; questo Logos rimaneva lontano e intangibile.

Solo nella fede della Chiesa trovò poi la seconda verità essenziale: il Verbo, il Logos, si è fatto carne.

E così esso ci tocca, noi lo tocchiamo. All’umiltà dell’incarnazione di Dio deve corrispondere – questo è il grande passo – l’umiltà della nostra fede, che depone la superbia saccente e si china entrando a far parte della comunità del corpo di Cristo; che vive con la Chiesa e solo così entra nella comunione concreta, anzi corporea, con il Dio vivente.

Non devo dire quanto tutto ciò riguardi noi: rimanere persone che cercano, non accontentarsi di ciò che tutti dicono e fanno. Non distogliere lo sguardo dal Dio eterno e da Gesù Cristo. Imparare l’umiltà della fede nella Chiesa corporea di Gesù Cristo, del Logos incarnato.

La sua seconda conversione Agostino ce la descrive alla fine del decimo libro delle sue « Confessioni » con le parole: « Oppresso dai miei peccati e dal peso della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu, però, me lo impedisti, confortandomi con queste parole: « Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti »" (2 Cor 5, 15; Conf 10, 43, 70).

Che cosa era successo? Dopo il suo Battesimo, Agostino si era deciso a ritornare in Africa e lì aveva fondato, insieme con i suoi amici, un piccolo monastero. Ora la sua vita doveva essere dedita totalmente al colloquio con Dio e alla riflessione e contemplazione della bellezza e della verità della sua Parola.

Così egli passò tre anni felici, nei quali si credeva arrivato alla meta della sua vita; in quel periodo nacque una serie di preziose opere filosofico-teologiche.

Nel 391, quattro anni dopo il battesimo, egli andò a trovare nella città portuale di Ippona un amico, che voleva conquistare per il suo monastero. Ma nella liturgia domenicale, alla quale partecipò nella cattedrale, venne riconosciuto.

Il vescovo della città, un uomo di provenienza greca, che non parlava bene il latino e faceva fatica a predicare, nella sua omelia non a caso disse di aver l’intenzione di scegliere un sacerdote al quale affidare anche il compito della predicazione.

Immediatamente la gente afferrò Agostino e lo portò di forza avanti, perché venisse consacrato sacerdote a servizio della città.

Subito dopo questa sua consacrazione forzata, Agostino scrisse al Vescovo Valerio: « Mi sentivo come uno che non sa tenere il remo e a cui, tuttavia, è stato assegnato il secondo posto al timone… E di qui derivavano quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare in città al tempo della mia ordinazione » (cfr Ep 21, 1s).

Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di Agostino ne risultava fondamentalmente cambiata. Ora non poteva più dedicarsi solo alla meditazione nella solitudine. Doveva vivere con Cristo per tutti. Doveva tradurre le sue conoscenze e i suoi pensieri sublimi nel pensiero e nel linguaggio della gente semplice della sua città. La grande opera filosofica di tutta una vita, che aveva sognato, restò non scritta.

Al suo posto ci venne donata una cosa più preziosa: il Vangelo tradotto nel linguaggio della vita quotidiana e delle sue sofferenze. Ciò che ora costituiva la sua quotidianità, lo ha descritto così: « Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori… stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e amare tutti » (cfr Serm 340, 3). « Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica » (Serm 339, 4).

Fu questa la seconda conversione che quest’uomo, lottando e soffrendo, dovette continuamente realizzare: sempre di nuovo essere lì per tutti, non per la propria perfezione; sempre di nuovo, insieme con Cristo, donare la propria vita, affinché gli altri potessero trovare Lui, la vera Vita.

C’è ancora una terza tappa decisiva nel cammino di conversione di sant’Agostino. Dopo la sua ordinazione sacerdotale, egli aveva chiesto un periodo di vacanza per poter studiare più a fondo le Sacre Scritture.

Il suo primo ciclo di omelie, dopo questa pausa di riflessione, riguardò il Discorso della Montagna; vi spiegava la via della retta vita, « della vita perfetta » indicata in modo nuovo da Cristo; la presentava come un pellegrinaggio sul monte santo della Parola di Dio. In queste omelie si può percepire ancora tutto l’entusiasmo della fede appena trovata e vissuta: la ferma convinzione che il battezzato, vivendo totalmente secondo il messaggio di Cristo, può essere, appunto, « perfetto » secondo il Sermone della Montagna.

Circa vent’anni dopo, Agostino scrisse un libro intitolato « Le Ritrattazioni », in cui passa in rassegna in modo critico le sue opere redatte fino a quel momento, apportando correzioni laddove, nel frattempo, aveva appreso cose nuove.

Riguardo all’ideale della perfezione nelle sue omelie sul Discorso della Montagna annota: « Nel frattempo ho compreso che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (cfr Retract. I 19, 1-3).

Agostino aveva appreso un ultimo grado di umiltà: non soltanto l’umiltà di inserire il suo grande pensiero nella fede umile della Chiesa, non solo l’umiltà di tradurre le sue grandi conoscenze nella semplicità dell’annuncio, ma anche l’umiltà di riconoscere che a lui stesso e all’intera Chiesa peregrinante era ed è continuamente necessaria la bontà misericordiosa di un Dio che perdona ogni giorno.

E noi – aggiungeva – ci rendiamo simili a Cristo, l’unico Perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia.

In quest’ora ringraziamo Dio per la grande luce che si irradia dalla sapienza e dall’umiltà di sant’Agostino e preghiamo il Signore affinché doni a tutti noi, giorno per giorno, la conversione necessaria e così ci conduca verso la vera vita. Amen. 

Publié dans:Sandro Magister |on 27 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: L’enciclica contro i « modernisti » compie cent’anni. Ma sottovoce

dal sito: 

 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/172543

 

L’enciclica contro i « modernisti » compie cent’anni. Ma sottovoce

 

 Niente celebrazioni ufficiali per il centenario della « Pascendi ». Bruciano i « metodi indegni » con cui si combatté quella battaglia. Ma le questioni al centro di quello scontro sono tuttora aperte. E il libro « Gesù di Nazaret » ne è una prova

di Sandro Magister 

ROMA, 23 ottobre 2007 – L’anniversario è scivolato via in silenzio, in Vaticano, senza commemorazioni ufficiali. Ma le questioni affrontate cento anni fa dall’enciclica « Pascendi Dominici Gregis » di san Pio X « sugli errori del modernismo » sono giudicate tuttora attuali. Il riserbo è dovuto piuttosto alle modalità pratiche con cui si mosse la Chiesa di un secolo fa: modalità ritenute sbagliate dalle autorità della Chiesa di oggi.

Questo ha detto il nuovo direttore dell’ »Osservatore Romano », il professor Giovanni Maria Vian, nella prima importante intervista rilasciata dopo la sua nomina:

« Pio X fu un grande papa riformatore, che sulla questione modernista capì benissimo quale era la posta in gioco e i pericoli per la fede della Chiesa. Purtroppo la sua fama è ora legata per lo più ai modi con cui il modernismo venne combattuto, spesso con metodi indegni della causa che si intendeva difendere ».

E questo dicono i due unici articoli sulla « Pascendi » usciti nelle ultime settimane su organi di stampa controllati dalla gerarchia della Chiesa: « La Civiltà Cattolica », la rivista dei gesuiti di Roma stampata con l’autorizzazione previa delle autorità vaticane, e « Avvenire », il quotidiano di proprietà della conferenza episcopale italiana.

Su « Avvenire » il teologo Corrado Pizziolo ha sottolineato la perdurante attualità delle questioni centrali affrontate dall’enciclica.

Su « La Civiltà Cattolica », invece, lo storico gesuita Giovanni Sale, nel ricostruire la genesi e gli sviluppi di quel documento, ne ha evidenziato gli elementi ritenuti più caduchi: lo schema troppo « dottrinario », il tono troppo « duro e censorio », la successiva applicazione « eccessivamente integralista e intransigente ». 

* * * 


Padre Sale smentisce che dei gesuiti siano stati gli effettivi scrittori della « Pascendi ». Ne indica gli autori materiali nel cardinale Vivès y Tuto, cappuccino, e in padre Lemius dei missionari di Maria Immacolata. Conferma però che « uno dei maggiori ispiratori dal punto di vista teologico e culturale » dell’enciclica fu proprio un gesuita della « Civiltà Cattolica », padre Enrico Rosa.

A giudizio di padre Rosa – e di Pio X – il modernismo era « un cristianesimo nuovo che minacciava di sopprimere l’antico ». Per contrastarlo bisognava colpirlo nella sua radice filosofica, nell’errore dal quale derivavano tutti gli altri errori nella teologia, nella morale, nella cultura, nella vita pratica. L’errore fondamentale attribuito ai modernisti era di negare alla ragione la capacità di conoscere la verità; per cui tutto – anche la religione, anche il cristianesimo – si riduceva a esperienza soggettiva.

Padre Sale fa notare, però, che i modernisti non accettarono mai questo schema interpretativo:

“Secondo essi il movimento di riforma delle scienze religiose, come era chiamato da loro, non era iniziato partendo da determinate teorie filosofiche, bensì dalla critica storica e dalla nuova esegesi della Sacra Scrittura. Essi cioè ponevano a fondamento della loro svolta non la filosofia, bensì la storia, o meglio la storia sacra, liberata dalle adulterazioni e restituita alla sua genuinità originaria, attraverso il nuovo metodo storico-critico ».

Inoltre, padre Sale scrive che la tendenza modernista non si estese mai alle masse popolari come invece temevano padre Rosa e Pio X:

« Il movimento dei ‘novatori’ (almeno quello dottrinale e teologico) rimase confinato entro cerchie ristrette di studiosi cattolici, per lo più giovani preti o seminaristi ».

Ciò però non trattenne « alcune forze conservatrici cattoliche », negli anni successivi alla « Pascendi », dallo scatenare dentro la Chiesa « una violenta polemica antimodernista, spesso con pochi scrupoli ». Il più attivo in questa campagna fu un prelato della curia vaticana, monsignor Umberto Benigni, che si mosse – annota padre Sale – « con l’approvazione e benedizione dello stesso papa ».

Su Benigni e sul « Sodalitium Pianum » da lui creato – una sorta di centrale spionistica nella Chiesa dell’epoca, correntemente chiamata « la Sapinière » – ha scritto studi fondamentali lo storico francese Émile Poulat. 

* * * 


Diverso è l’approccio alla « Pascendi » che don Corrado Pizziolo, professore di teologia e vicario generale a Treviso, la diocesi natale di san Pio X, fa su « Avvenire ».

Egli richiama l’attenzione soprattutto su due questioni che erano al centro dello scontro tra Pio X e i modernisti. Per mostrare quanto esse siano ancora attuali.

La prima questione riguarda l’esegesi biblica. Secondo i modernisti, in particolare Alfred Loisy, l’esegesi scientifica applicata alla Bibbia è la sola che accerta cose sicure e verificabili. La lettura di fede, invece, « non è reale: è una lettura puramente soggettiva, frutto del sentimento religioso ».

Scrive Pizziolo:

« La condanna decretata dal magistero antimodernista concerne non l’esegesi scientifica in quanto tale, ma la dichiarata opposizione, professata dal modernismo, tra la fede e la storia, tra l’esegesi teologica e l’esegesi scientifica ». Tale opposizione « continua a proporsi ancor oggi come una questione con cui fare i conti. Non si spiegherebbe altrimenti perché, cento anni dopo, Benedetto XVI dedichi la premessa del suo recente libro su Gesù di Nazareth proprio a ricordare il valore e i limiti del metodo storico-critico, insistendo sulla necessità di un’esegesi scientifica illuminata dalla fede ».

La seconda questione riguarda la rivelazione divina. I modernisti identificavano tale rivelazione in un’esperienza puramente interiore, nel sentimento religiose o mistico.

L’enciclica « Pascendi » ribadì invece che la rivelazione viene da Dio, è Dio che parla all’uomo. E con ancor più forza il Concilio Vaticano II, nella costituzione « Dei Verbum », sottolineò che tale comunicazione si identifica nella persona di Gesù Cristo.

« Tuttavia – scrive Pizziolo – tale apparente ovvietà non è affatto da dare oggi per scontata. La sensibilità della cultura anche religiosa attuale tende ad equiparare tutte le religioni esistenti, ponendole tutte sullo stesso piano. Non riappare forse l’idea che la religione – ogni religione, quindi anche il cristianesimo – non sia altro che il prodotto dello spirito umano? Che la cosiddetta ‘rivelazione’ non sia altro che una generica e inesprimibile esperienza del trascendente, esclusivamente frutto del sentimento religioso? ».

Conclude Pizziolo:

« Alla luce di questi brevi cenni si può comprendere l’importanza dei temi toccati dall’enciclica ‘Pascendi’. Essa affronta i fondamenti della fede cattolica, in un momento storico in cui apparivano messi seriamente in discussione. Va certamente detto che i problemi sollevati dagli autori accusati di modernismo erano problemi reali: il rapporto tra fede e storia e tra fede e scienza; la relazione tra coscienza umana e rivelazione di Dio; il rapporto tra il linguaggio umano del dogma e la verità soprannaturale che esso esprime; il senso di un’autorità nella Chiesa… Ma va anche affermato che molte delle soluzioni che venivano prospettate non erano compatibili con la fede cattolica. Di qui la doverosa necessità di un intervento del magistero.

« Possiamo anche aggiungere che il magistero del tempo non disponeva di una teologia adeguata per affrontare le questioni che la nuova cultura moderna suscitava. In questo senso l’intenzione dell’enciclica non fu quella di risolvere tutti i problemi in questione, ma quella di ribadire l’identità e l’integralità della fede cattolica, riassegnando alla teologia il compito di ripensare le tematiche in questione. Un frutto di questa rinnovata riflessione possiamo certamente riconoscerlo nel Concilio Vaticano II, senza però pensare che tutti gli interrogativi sorti nel periodo modernistico abbiano trovato adeguata e definitiva soluzione. Essi rimangono, in buona parte, ancora molto attuali e richiedono nuovi sforzi di riflessione. Si tratterà però, alla luce dell’insegnamento della ‘Pascendi’, di uno sforzo che dovrà compiersi nel pieno rispetto dell’identità della fede e della tradizione di quel popolo di Dio che è la Chiesa ».

––––––––––

L’enciclica di Pio X « Pascendi Dominici Gregis » dell’8 settembre 1907, nella versione italiana ufficiale:

> « L’officio di pascere il gregge del Signore… »

__________

L’articolo di Giovanni Sale su « La Civiltà Cattolica » del 6 ottobre 2007:

> A un secolo dall’enciclica contro il modernismo

__________

L’articolo di Corrado Pizziolo su « Avvenire » del 5 settembre 2007:

> Modernismo, quale eredità? A cento anni dall’enciclica « Pascendi »

__________

L’intervista di Giovanni Maria Vian a « 30 Giorni », citata nel servizio:

> Vian: « Il confronto delle idee è sempre positivo »

Vian, nuovo direttore dell’ »Osservatore Romano », è professore di filologia patristica e specialista della storia del papato contemporaneo. Suo nonno, Agostino Vian, era molto amico di Pio X, il papa della « Pascendi ».

 

Publié dans:Sandro Magister |on 23 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Un anno dopo Ratisbona, 138 musulmani scrivono una nuova lettera al papa:

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/171166 

 

Un anno dopo Ratisbona, 138 musulmani scrivono una nuova lettera al papa: 

 

Propongono come terreno d’intesa tra musulmani e cristiani i due « più grandi comandamenti » dell’amore di Dio e del prossimo. Predicati sia nel Corano che nei Vangeli. Come reagirà la Chiesa di Roma?

di Sandro Magister 

ROMA, 12 ottobre 2007 – Un anno fa, un mese dopo la memorabile lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, 38 personalità musulmane scrissero al papa una lettera aperta nella quale in parte concordavano e in parte dissentivano con le posizioni da lui sostenute.

I 38 appartenevano a varie nazioni e a differenti correnti di pensiero. Nel mondo islamico era la prima volta che personalità così diverse parlavano con una sola voce, ed esponevano al capo della più importante Chiesa cristiana i principi dell’islam, con l’intento di arrivare a una « mutua comprensione ».

Nei mesi successivi altre firme si aggiunsero a quelle iniziali e i 38 divennero 100. Ora, un anno dopo, i 100 sono diventati 138 e hanno resa pubblica una seconda lettera, in coincidenza con la fine del Ramadan.

Rispetto alla prima, la seconda lettera ha allargato la rosa di destinatari. Oltre che a papa Benedetto XVI, essa è indirizzata anche al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, al patriarca di Mosca Alessio II e ai capi di altre 18 Chiese d’oriente; all’arcivescovo anglicano di Canterbury Rowan Williams; ai leader delle federazioni mondiali delle Chiese luterane, riformate, metodiste e battiste; al segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese, Samuel Kobia, e in generale « ai leader delle Chiese cristiane ».

Quanto al contenuto, la prima lettera sosteneva posizioni molto nette a favore della libertà di professare la fede « senza costrizioni ».

Rivendicava la razionalità dell’islam pur tenendo ferma l’assoluta trascendenza di Dio.

Ribadiva con decisione i limiti posti dalla dottrina islamica al ricorso alla guerra e all’uso della violenza. condannando i « sogni utopistici nei quali il fine giustifica i mezzi ».

E concludeva auspicando un rapporto tra islam e cristianesimo fondato sull’amore di Dio e del prossimo, i « due grandi comandamenti » richiamati da Gesù nel Vangelo di Marco 12, 29-31.

La seconda lettera parte proprio dalla conclusione della prima, e la sviluppa. I comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo – presenti sia nel Corano che nella Bibbia – sono la « parola comune » che offre all’incontro tra islam e cristianesimo « la più solida base teologica possibile ».

Il testo della lettera è stato discusso e messo a punto lo scorso settembre in un incontro tenuto in Giordania presso il Reale Istituto al-Bayt per il Pensiero Islamico, patrocinato da re Abdullah II.

È convinzione dei promotori che, prima di questa lettera, « mai dei musulmani hanno offerto alla cristianità una proposta di consenso così forte ».

Aref Ali Nayed – teologo libico che ha firmato sia la prima che la seconda lettera ed è autore ben noto ai lettori di www.chiesa – ha sottolineato l’adesione di musulmani di tutte le tendenze, sunniti, sciiti, ibadi, ismailiti, jaafari:

« invece che entrare in polemica, i firmatari hanno adottato, seguendo la migliore tradizione dell’islam, una posizione di rispetto delle Scritture cristiane. E hanno fatto appello ai cristiani perché siano non meno ma più fedeli ad esse ».

I 138 firmatari sono di 43 nazioni. Alcuni di essi vivono in Europa e negli Stati Uniti ma la maggior parte vivono in paesi musulmani: dalla Giordania all’Arabia Saudita, dall’Egitto al Marocco, dagli Emirati allo Yemen; ma anche in Iran, in Iraq, in Turchia, in Pakistan, in Palestina.

Per l’Italia c’è la firma di Yahya Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente del CO.RE.IS, Comunità Religiosa Islamica, che ha curato anche la traduzione italiana ufficiale della lettera.

Alcuni dei firmatari della lettera – tra i quali Aref Ali Nayed che è stato docente, a Roma, al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica – hanno in più occasioni incontrato dei dirigenti della curia vaticana.

I primi contatti risalgono a un anno fa. Un primo segnale pubblico di apprezzamento da parte della Chiesa di Roma è però venuto solo dopo la pubblicazione di questa seconda lettera.

Il 12 ottobre il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo tra le religioni, ha detto alla Radio Vaticana:

« Si tratta di un documento molto interessante e nuovo, poiché proviene sia da musulmani sunniti sia da musulmani sciiti. È un documento non polemico, con numerose citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. [...] Rappresenta un segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi. È un approccio spirituale al dialogo interreligioso, che chiamerei il dialogo delle spiritualità. I musulmani e i cristiani devono rispondere a una sola domanda: per te Dio nella tua vita è veramente l’unico? ».

Tra le posizioni espresse nella lettera e quelle di Benedetto XVI circa il dialogo interreligioso vi è una sicura sintonia.

L’ultima volta in cui il papa ha toccato questo tema è stato lo scorso 5 ottobre.

Parlando ai membri della Commissione Teologica Internazionale, Benedetto XVI ha indicato nella « legge naturale » e nei dieci comandamenti « il fondamento di un’etica universale » valida per « tutte le coscienze degli uomini di buona volontà, laici o anche appartenenti a religioni diverse ».

E i dieci comandamenti si riassumono nei due « più grandi » dell’amore di Dio e del prossimo: « la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come uguale a se stesso ».

Sono gli stessi due comandamenti su cui si impernia la lettera al papa dei 138 musulmani.

__________

Trovi il testo integrale della lettera dei 138 nel sito ad essa dedicato, nelle versioni inglese, francese, italiana e araba:

> Una parola comune tra noi e voi

 

il testo completo è in PDF: 

 

http://www.acommonword.com/index.php?lang=en&page=downloads


Questo è l’elenco dei 138 firmatari, con indicato per ciascuno, in inglese, il ruolo e la nazionalità:

> Signatories

E questa di seguito è la sintesi ufficiale, che riassume il contenuto della lettera:

Una parola comune tra noi e voi

Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

Insieme musulmani e cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra musulmani e cristiani.

La base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei principi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo. Questi principi si trovano ribaditi più e più volte nei testi sacri dell’islam e del cristianesimo. L’Unità di Dio, la necessità di amarLo e la necessità di amare il prossimo sono così il terreno comune tra islam e cristianesimo. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi:

Sull’unità di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: “Dì: Egli è Dio, l’Uno / Dio, sufficiente a Sé stesso” (Al-Ikhlas, Sura della sincerità 112, 1-2).

Sulla necessità dell’amore di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: “Così invoca il Nome del tuo Signore e sii devoto a Lui con una devozione totale” (Al-Muzzammil, Sura dell’avvolto nel manto 73, 8).

Sulla necessità dell’amore per il prossimo, il profeta Muhammad (su di lui la pace e la benedizione divina) disse: “Nessuno di voi ha fede finché non ama per il proprio prossimo ciò che ama per se stesso.”

Nel Nuovo Testamento, Gesù Cristo (su di lui la pace) disse: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno, e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue forze. Questo è il primo comandamento. E il secondo è questo: Tu amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi.” (Marco 12, 29-31)

Nel Sacro Corano, Dio Altissimo ordina ai musulmani di trasmettere il seguente richiamo ai cristiani (ed ebrei – le Genti del Libro):

“Dì: O Genti del Libro! Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri che Dio, e non associamo a Lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio. E se essi non accettano dite loro: Testimoniate che siamo coloro che si sono dati completamente a Lui” (Aal ‘Imran, Sura della famiglia di ‘Imran 3:64).

Le parole: “non associamo a Lui cosa alcuna” sono riferite all’unità di Dio e le parole: “non adoriamo altri che Dio” sono riferite all’essere completamente devoti a Dio. Quindi esse si riferiscono tutte al “primo e più grande comandamento”. Secondo uno dei più antichi e più autorevoli commentari del Sacro Corano, le parole “nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio” significano che “nessuno di noi dovrebbe ubbidire ad altri disobbedendo a ciò che Dio ha comandato”. Questo è riferito al secondo comandamento perché giustizia e libertà di religione sono aspetti centrali dell’amore per il prossimo.

Così, nell’obbedienza al Sacro Corano, come musulmani invitiamo i cristiani ad incontrarsi con noi sulla base di ciò che ci è comune, che è anche quanto vi è di più essenziale nella nostra fede e pratica: i due comandamenti di amore.

__________

La lezione pronunciata il 12 settembre 2006 da Benedetto XVI a Ratisbona:

> Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni.

La lettera al papa dei 38 musulmani – poi divenuti 100 – dell’ottobre 2006, rilanciata in www.chiesa:

> Effetto Ratisbona: la lettera aperta di 38 musulmani al papa (18.10.2006)

I commenti di Aref Ali Nayed alla lezione di Ratisbona, pubblicati in www.chiesa con le repliche di Alessandro Martinetti:

> Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona (4.10.2006)

> Chiesa e islam. A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo (30.10.2006)

Il discorso di Benedetto XVI del 5 ottobre 2007 sulla legge naturale:

> Ai membri della Commissione Teologica Internazionale

__________ 

 

Propongono come terreno d’intesa tra musulmani e cristiani i due « più grandi comandamenti » dell’amore di Dio e del prossimo. Predicati sia nel Corano che nei Vangeli. Come reagirà la Chiesa di Roma?

di Sandro Magister 

 

ROMA, 12 ottobre 2007 – Un anno fa, un mese dopo la memorabile lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, 38 personalità musulmane scrissero al papa una lettera aperta nella quale in parte concordavano e in parte dissentivano con le posizioni da lui sostenute.

I 38 appartenevano a varie nazioni e a differenti correnti di pensiero. Nel mondo islamico era la prima volta che personalità così diverse parlavano con una sola voce, ed esponevano al capo della più importante Chiesa cristiana i principi dell’islam, con l’intento di arrivare a una « mutua comprensione ».

Nei mesi successivi altre firme si aggiunsero a quelle iniziali e i 38 divennero 100. Ora, un anno dopo, i 100 sono diventati 138 e hanno resa pubblica una seconda lettera, in coincidenza con la fine del Ramadan.

Rispetto alla prima, la seconda lettera ha allargato la rosa di destinatari. Oltre che a papa Benedetto XVI, essa è indirizzata anche al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, al patriarca di Mosca Alessio II e ai capi di altre 18 Chiese d’oriente; all’arcivescovo anglicano di Canterbury Rowan Williams; ai leader delle federazioni mondiali delle Chiese luterane, riformate, metodiste e battiste; al segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese, Samuel Kobia, e in generale « ai leader delle Chiese cristiane ».

Quanto al contenuto, la prima lettera sosteneva posizioni molto nette a favore della libertà di professare la fede « senza costrizioni ».

Rivendicava la razionalità dell’islam pur tenendo ferma l’assoluta trascendenza di Dio.

Ribadiva con decisione i limiti posti dalla dottrina islamica al ricorso alla guerra e all’uso della violenza. condannando i « sogni utopistici nei quali il fine giustifica i mezzi ».

E concludeva auspicando un rapporto tra islam e cristianesimo fondato sull’amore di Dio e del prossimo, i « due grandi comandamenti » richiamati da Gesù nel Vangelo di Marco 12, 29-31.

La seconda lettera parte proprio dalla conclusione della prima, e la sviluppa. I comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo – presenti sia nel Corano che nella Bibbia – sono la « parola comune » che offre all’incontro tra islam e cristianesimo « la più solida base teologica possibile ».

Il testo della lettera è stato discusso e messo a punto lo scorso settembre in un incontro tenuto in Giordania presso il Reale Istituto al-Bayt per il Pensiero Islamico, patrocinato da re Abdullah II.

È convinzione dei promotori che, prima di questa lettera, « mai dei musulmani hanno offerto alla cristianità una proposta di consenso così forte ».

Aref Ali Nayed – teologo libico che ha firmato sia la prima che la seconda lettera ed è autore ben noto ai lettori di www.chiesa – ha sottolineato l’adesione di musulmani di tutte le tendenze, sunniti, sciiti, ibadi, ismailiti, jaafari:

« invece che entrare in polemica, i firmatari hanno adottato, seguendo la migliore tradizione dell’islam, una posizione di rispetto delle Scritture cristiane. E hanno fatto appello ai cristiani perché siano non meno ma più fedeli ad esse ».

I 138 firmatari sono di 43 nazioni. Alcuni di essi vivono in Europa e negli Stati Uniti ma la maggior parte vivono in paesi musulmani: dalla Giordania all’Arabia Saudita, dall’Egitto al Marocco, dagli Emirati allo Yemen; ma anche in Iran, in Iraq, in Turchia, in Pakistan, in Palestina.

Per l’Italia c’è la firma di Yahya Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente del CO.RE.IS, Comunità Religiosa Islamica, che ha curato anche la traduzione italiana ufficiale della lettera.

Alcuni dei firmatari della lettera – tra i quali Aref Ali Nayed che è stato docente, a Roma, al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica – hanno in più occasioni incontrato dei dirigenti della curia vaticana.

I primi contatti risalgono a un anno fa. Un primo segnale pubblico di apprezzamento da parte della Chiesa di Roma è però venuto solo dopo la pubblicazione di questa seconda lettera.

Il 12 ottobre il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo tra le religioni, ha detto alla Radio Vaticana:

« Si tratta di un documento molto interessante e nuovo, poiché proviene sia da musulmani sunniti sia da musulmani sciiti. È un documento non polemico, con numerose citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. [...] Rappresenta un segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi. È un approccio spirituale al dialogo interreligioso, che chiamerei il dialogo delle spiritualità. I musulmani e i cristiani devono rispondere a una sola domanda: per te Dio nella tua vita è veramente l’unico? ».

Tra le posizioni espresse nella lettera e quelle di Benedetto XVI circa il dialogo interreligioso vi è una sicura sintonia.

L’ultima volta in cui il papa ha toccato questo tema è stato lo scorso 5 ottobre.

Parlando ai membri della Commissione Teologica Internazionale, Benedetto XVI ha indicato nella « legge naturale » e nei dieci comandamenti « il fondamento di un’etica universale » valida per « tutte le coscienze degli uomini di buona volontà, laici o anche appartenenti a religioni diverse ».

E i dieci comandamenti si riassumono nei due « più grandi » dell’amore di Dio e del prossimo: « la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come uguale a se stesso ».

Sono gli stessi due comandamenti su cui si impernia la lettera al papa dei 138 musulmani.

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Trovi il testo integrale della lettera dei 138 nel sito ad essa dedicato, nelle versioni inglese, francese, italiana e araba:

> Una parola comune tra noi e voi

Questo è l’elenco dei 138 firmatari, con indicato per ciascuno, in inglese, il ruolo e la nazionalità:

> Signatories

E questa di seguito è la sintesi ufficiale, che riassume il contenuto della lettera:

Una parola comune tra noi e voi

Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

Insieme musulmani e cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra musulmani e cristiani.

La base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei principi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo. Questi principi si trovano ribaditi più e più volte nei testi sacri dell’islam e del cristianesimo. L’Unità di Dio, la necessità di amarLo e la necessità di amare il prossimo sono così il terreno comune tra islam e cristianesimo. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi:

Sull’unità di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: “Dì: Egli è Dio, l’Uno / Dio, sufficiente a Sé stesso” (Al-Ikhlas, Sura della sincerità 112, 1-2).

Sulla necessità dell’amore di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: “Così invoca il Nome del tuo Signore e sii devoto a Lui con una devozione totale” (Al-Muzzammil, Sura dell’avvolto nel manto 73, 8).

Sulla necessità dell’amore per il prossimo, il profeta Muhammad (su di lui la pace e la benedizione divina) disse: “Nessuno di voi ha fede finché non ama per il proprio prossimo ciò che ama per se stesso.”

Nel Nuovo Testamento, Gesù Cristo (su di lui la pace) disse: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno, e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue forze. Questo è il primo comandamento. E il secondo è questo: Tu amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi.” (Marco 12, 29-31)

Nel Sacro Corano, Dio Altissimo ordina ai musulmani di trasmettere il seguente richiamo ai cristiani (ed ebrei – le Genti del Libro):

“Dì: O Genti del Libro! Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri che Dio, e non associamo a Lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio. E se essi non accettano dite loro: Testimoniate che siamo coloro che si sono dati completamente a Lui” (Aal ‘Imran, Sura della famiglia di ‘Imran 3:64).

Le parole: “non associamo a Lui cosa alcuna” sono riferite all’unità di Dio e le parole: “non adoriamo altri che Dio” sono riferite all’essere completamente devoti a Dio. Quindi esse si riferiscono tutte al “primo e più grande comandamento”. Secondo uno dei più antichi e più autorevoli commentari del Sacro Corano, le parole “nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio” significano che “nessuno di noi dovrebbe ubbidire ad altri disobbedendo a ciò che Dio ha comandato”. Questo è riferito al secondo comandamento perché giustizia e libertà di religione sono aspetti centrali dell’amore per il prossimo.

Così, nell’obbedienza al Sacro Corano, come musulmani invitiamo i cristiani ad incontrarsi con noi sulla base di ciò che ci è comune, che è anche quanto vi è di più essenziale nella nostra fede e pratica: i due comandamenti di amore.

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La lezione pronunciata il 12 settembre 2006 da Benedetto XVI a Ratisbona:

> Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni.

La lettera al papa dei 38 musulmani – poi divenuti 100 – dell’ottobre 2006, rilanciata in www.chiesa:

> Effetto Ratisbona: la lettera aperta di 38 musulmani al papa (18.10.2006)

I commenti di Aref Ali Nayed alla lezione di Ratisbona, pubblicati in www.chiesa con le repliche di Alessandro Martinetti:

> Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona (4.10.2006)

> Chiesa e islam. A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo (30.10.2006)

Il discorso di Benedetto XVI del 5 ottobre 2007 sulla legge naturale:

> Ai membri della Commissione Teologica Internazionale

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Gli Angelus sconosciuti di papa Benedetto

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/170485

 

  

Gli Angelus sconosciuti di papa Benedetto

 

Sconosciuti nel senso che i media li ignorano in ciò che sono principalmente: la spiegazione del Vangelo della messa del giorno. All’infuori dei presenti, quasi nessuno lo sa. Eccone un assaggio: le ultime sette « piccole omelie » papali della domenica mezzogiorno

di Sandro Magister

ROMA, 8 ottobre 2007 – Le parole che Benedetto XVI pronuncia ogni domenica mezzogiorno prima e dopo la preghiera dell’Angelus – nel tempo pasquale il « Regina Coeli » – sono tra le più seguite dai media.

Quasi sempre, però, i media rilanciano, delle parole del papa, solo quelle che hanno attinenza con situazioni od eventi di attualità, specie politici.

Ad esempio, domenica 30 settembre, la Birmania, le due Coree e l’Africa subsahariana. La domenica precedente i giudizi sul capitalismo e la « logica del profitto ». La domenica precedente ancora il protocollo di Montreal sul buco dell’ozono…

Da ciò che dicono e scrivono i media, gli ascoltatori e i lettori ricavano l’impressione che il papa abbia dedicato l’intero suo messaggio al tema citato.

Ma non è così. Quasi sempre alle questioni d’attualità poi enfatizzate dai media Benedetto XVI dedica solo pochi rapidi cenni, nei saluti in più lingue che rivolge ai fedeli terminata la preghiera dell’Angelus.

Il vero e proprio messaggio è prima della preghiera. Ed è – salvo rare eccezioni – una breve omelia sul Vangelo e le altre letture della messa del giorno.

È questa piccola omelia ciò che principalmente ascoltano i fedeli che accorrono ogni volta numerosi all’appuntamento di domenica mezzogiorno col papa, a Roma in piazza San Pietro e d’estate a Castel Gandolfo.

Sono testi inconfondibilmente pensati e scritti da papa Joseph Ratzinger. In alcuni casi è facile notare delle similitudini con il suo libro « Gesù di Nazaret », là dove questo parla del medesimo brano del Vangelo.

Come nelle catechesi del mercoledì Benedetto XVI sta descrivendo man mano la vita della Chiesa impersonata dagli Apostoli ai Padri, così negli Angelus della domenica egli presenta ai fedeli la figura di Gesù.

Ma c’è di più. La via scelta ogni domenica dal papa per accedere a Gesù è la stessa che ogni fedele cattolico percorre partecipando alla messa di quella stessa domenica.

È una scelta chiaramente voluta, tipica della visione di questo papa. Il Vangelo commentato da Benedetto XVI all’Angelus non è « sola Scriptura », non è un libro nudo. È il Verbo che prende carne – il corpo e il sangue di Gesù – nella liturgia del giorno.

Per elevare a livelli accettabili la qualità media dei milioni di omelie pronunciate ogni domenica in tutto il mondo, i preti cattolici non avrebbero di meglio che mettersi alla scuola degli Angelus di Benedetto XVI.

Ecco qui di seguito un saggio di questa sua predicazione: le ultime sette « piccole omelie » da lui dedicate al Vangelo della messa del giorno, domenica dopo domenica.

La parabola del povero Lazzaro

30 settembre 2007, XXVI domenica del tempo ordinario, anno C

Oggi il Vangelo di Luca presenta la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Luca 16,19-31). Il ricco impersona l’uso iniquo delle ricchezze da parte di chi le adopera per un lusso sfrenato ed egoistico, pensando solamente a soddisfare se stesso, senza curarsi affatto del mendicante che sta alla sua porta. Il povero, al contrario, rappresenta la persona di cui soltanto Dio si prende cura: a differenza del ricco, egli ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa appunto « Dio lo aiuta ». Chi è dimenticato da tutti, Dio non lo dimentica; chi non vale nulla agli occhi degli uomini, è prezioso a quelli del Signore. Il racconto mostra come l’iniquità terrena venga ribaltata dalla giustizia divina: dopo la morte, Lazzaro è accolto « nel seno di Abramo », cioè nella beatitudine eterna; mentre il ricco finisce « all’inferno tra i tormenti ». Si tratta di un nuovo stato di cose inappellabile e definitivo, per cui è durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla.

Questa parabola si presta anche ad una lettura in chiave sociale. Rimane memorabile quella fornita proprio quarant’anni fa dal Papa Paolo VI nell’enciclica « Populorum progressio ». Parlando della lotta contro la fame, egli scrisse: « Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo possa vivere una vita pienamente umana, dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco » (n. 47). A causare le numerose situazioni di miseria sono – ricorda l’enciclica – da una parte « le servitù che vengono dagli uomini » e dall’altra « una natura non sufficientemente padroneggiata » (ibid.). Purtroppo certe popolazioni soffrono di entrambi questi fattori sommati. Come non pensare, in questo momento, specialmente ai paesi dell’Africa subsahariana, colpiti nei giorni scorsi da gravi inondazioni? Ma non possiamo dimenticare tante altre situazioni di emergenza umanitaria in diverse regioni del pianeta, nelle quali i conflitti per il potere politico ed economico vengono ad aggravare realtà di disagio ambientale già pesanti. L’appello cui allora diede voce Paolo VI: « I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza » (Populorum progressio, 3), conserva oggi tutta la sua urgenza. Non possiamo dire di non conoscere la via da percorrere: abbiamo la Legge e i Profeti, ci dice Gesù nel Vangelo. Chi non vuole ascoltarli, non cambierebbe nemmeno se qualcuno dai morti tornasse ad ammonirlo.

La Vergine Maria ci aiuti ad approfittare del tempo presente per ascoltare e mettere in pratica questa parola di Dio. Ci ottenga di diventare più attenti ai fratelli in necessità, per condividere con loro il tanto o il poco che abbiamo, e contribuire, incominciando da noi stessi, a diffondere la logica e lo stile dell’autentica solidarietà.

La parabola dell’amministratore scaltro

23 settembre 2007, XXV domenica del tempo ordinario, anno C

Questa mattina ho reso visita alla diocesi di Velletri. [...] Nel corso della solenne Celebrazione eucaristica, commentando i testi liturgici, ho avuto modo di soffermarmi a riflettere sul retto uso dei beni terreni, un tema che in queste domeniche l’evangelista Luca, in vari modi, ha riproposto alla nostra attenzione. Raccontando la parabola di un amministratore disonesto ma assai scaltro, Cristo insegna ai suoi discepoli quale è il modo migliore di utilizzare il denaro e le ricchezze materiali, e cioè condividerli con i poveri procurandosi così la loro amicizia, in vista del Regno dei cieli. « Procuratevi amici con la disonesta ricchezza – dice Gesù – perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne » (Luca 16,9). Il denaro non è « disonesto » in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di « conversione » dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – « da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà » (2 Corinti 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.

Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’enciclica « Centesimus annus »: « La moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi » (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile.

Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore « ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote » (Luca 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.

La parabola del figliol prodigo

16 settembre 2007, XXIV domenica del tempo ordinario, anno C

Oggi, la liturgia ripropone alla nostra meditazione il capitolo 15 del Vangelo di Luca, una delle pagine più alte e commoventi di tutta la Sacra Scrittura. È bello pensare che nel mondo intero, dovunque la comunità cristiana si raduna per celebrare l’eucaristia domenicale, risuona in questo giorno, questa buona notizia di verità e di salvezza: Dio è amore misericordioso. L’evangelista Luca ha raccolto in questo capitolo tre parabole sulla misericordia divina: le due più brevi, che ha in comune con Matteo e Marco, sono quelle della pecora smarrita e della moneta perduta; la terza, lunga, articolata e propria a lui solo, è la celebre parabola del Padre misericordioso, detta abitualmente del « figliol prodigo ». In questa pagina evangelica sembra quasi di sentire la voce di Gesù, che ci rivela il volto del Padre suo e Padre nostro. In fondo, per questo Egli è venuto nel mondo: per parlarci del Padre; per farlo conoscere a noi, figli smarriti, e risuscitare nei nostri cuori la gioia di appartenergli, la speranza di essere perdonati e restituiti alla nostra piena dignità, il desiderio di abitare per sempre nella sua casa, che è anche la nostra casa.

Le tre parabole della misericordia Gesù le raccontò perché i farisei e gli scribi parlavano male di Lui, vedendo che si lasciava avvicinare dai peccatori e addirittura mangiava con loro (cfr Luca 15, 1-3). Allora Egli spiegò, con il suo tipico linguaggio, che Dio non vuole che si perda nemmeno uno dei suoi figli e il suo animo trabocca di gioia quando un peccatore si converte. La vera religione consiste allora nell’entrare in sintonia con questo Cuore « ricco di misericordia », che ci chiede di amare tutti, anche i lontani e i nemici, imitando il Padre celeste che rispetta la libertà di ciascuno ed attira tutti a sé con la forza invincibile della sua fedeltà. Questa è la strada che Gesù mostra a quanti vogliono essere suoi discepoli: « Non giudicate, non condannate, perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato. Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro » (Luca 6, 36-38). In queste parole troviamo indicazioni assai concrete per il nostro quotidiano comportamento di credenti.

Nel nostro tempo, l’umanità ha bisogno che sia proclamata e testimoniata con vigore la misericordia di Dio. Intuì quest’urgenza pastorale, in modo profetico, l’amato Giovanni Paolo II, che è stato un grande apostolo della divina misericordia. Al Padre misericordioso dedicò la sua seconda enciclica, e lungo tutto il suo pontificato si fece missionario dell’amore di Dio a tutte le genti. Dopo i tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001, che oscurarono l’alba del terzo millennio, egli invitò i cristiani e gli uomini di buona volontà a credere che la misericordia di Dio è più forte di ogni male, e che solo nella Croce di Cristo si trova la salvezza del mondo. La Vergine Maria, madre di misericordia, che ieri abbiamo contemplato addolorata ai piedi della Croce, ci ottenga il dono di confidare sempre nell’amore di Dio e ci aiuti ad essere misericordiosi come il Padre nostro che è nei cieli.

La porta stretta

26 agosto 2007, XXI domenica del tempo ordinario, anno C


L’odierna liturgia ci propone una parola di Cristo illuminante e al tempo stesso sconcertante. Durante la sua ultima salita verso Gerusalemme, un tale gli chiede: « Signore, sono pochi quelli che si salvano? ». E Gesù risponde: « Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno » (Luca 13, 23-24). Che significa questa « porta stretta »? Perché molti non riescono ad entrarvi? Si tratta forse di un passaggio riservato solo ad alcuni eletti? In effetti, questo modo di ragionare degli interlocutori di Gesù, a ben vedere è sempre attuale: è sempre in agguato la tentazione di interpretare la pratica religiosa come fonte di privilegi o di sicurezze. In realtà, il messaggio di Cristo va proprio in senso opposto: tutti possono entrare nella vita, ma per tutti la porta è « stretta ». Non ci sono privilegiati. Il passaggio alla vita eterna è aperto a tutti, ma è « stretto » perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo.

Ancora una volta, come nelle scorse domeniche, il Vangelo ci invita a considerare il futuro che ci attende e al quale ci dobbiamo preparare durante il nostro pellegrinaggio sulla terra. La salvezza, che Gesù ha operato con la sua morte e risurrezione, è universale. Egli è l’unico redentore e invita tutti al banchetto della vita immortale. Ma ad un’unica e uguale condizione: quella di sforzarsi di seguirlo ed imitarlo, prendendo su di sé, come Lui ha fatto, la propria croce e dedicando la vita al servizio dei fratelli. Unica e universale, dunque, è questa condizione per entrare nella vita celeste. Nell’ultimo giorno – ricorda ancora Gesù nel Vangelo –non è in base a presunti privilegi che saremo giudicati, ma secondo le nostre opere. Gli « operatori di iniquità » si troveranno esclusi, mentre saranno accolti quanti avranno compiuto il bene e cercato la giustizia, a costo di sacrifici. Non basterà pertanto dichiararsi « amici » di Cristo vantando falsi meriti: « Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze » (Luca 13, 26). La vera amicizia con Gesù si esprime nel modo di vivere: si esprime con la bontà del cuore, con l’umiltà, la mitezza e la misericordia, l’amore per la giustizia e la verità, l’impegno sincero ed onesto per la pace e la riconciliazione. Questa, potremmo dire, è la « carta d’identità » che ci qualifica come suoi autentici « amici »; questo è il « passaporto » che ci permetterà di entrare nella vita eterna.

Cari fratelli e sorelle, se vogliamo anche noi passare per la porta stretta, dobbiamo impegnarci ad essere piccoli, cioè umili di cuore come Gesù. Come Maria, sua e nostra Madre. Lei per prima, dietro il Figlio, ha percorso la via della croce ed è stata assunta nella gloria del cielo, come abbiamo ricordato qualche giorno fa. Il popolo cristiano la invoca quale « Ianua Coeli », porta del cielo. Chiediamole di guidarci, nelle nostre scelte quotidiane, sulla strada che conduce alla « porta del cielo ».

« Sono venuto a portare la divisione »

19 agosto 2007, XX domenica del tempo ordinario, anno C


C’è un’espressione di Gesù, nel Vangelo di questa domenica, che attira ogni volta la nostra attenzione e richiede di essere ben compresa. Mentre è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attende la morte di croce, Cristo confida ai suoi discepoli: « Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione ». E aggiunge: « D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera » (Luca 12,51-53). Chiunque conosca minimamente il Vangelo di Cristo, sa che è messaggio di pace per eccellenza; Gesù stesso, come scrive san Paolo, « è la nostra pace » (Efesini 2,14), morto e risorto per abbattere il muro dell’inimicizia e inaugurare il Regno di Dio che è amore, gioia e pace. Come si spiegano allora queste sue parole? A che cosa si riferisce il Signore quando dice di essere venuto a portare – secondo la redazione di san Luca – la « divisione », o – secondo quella di san Matteo – la « spada » (Matteo 10,34)?

Questa espressione di Cristo significa che la pace che Egli è venuto a portare non è sinonimo di semplice assenza di conflitti. Al contrario, la pace di Gesù è frutto di una costante lotta contro il male. Lo scontro che Gesù è deciso a sostenere non è contro uomini o poteri umani, ma contro il nemico di Dio e dell’uomo, Satana. Chi vuole resistere a questo nemico rimanendo fedele a Dio e al bene deve necessariamente affrontare incomprensioni e qualche volta vere e proprie persecuzioni. Perciò, quanti intendono seguire Gesù e impegnarsi senza compromessi per la verità devono sapere che incontreranno opposizioni e diventeranno, loro malgrado, segno di divisione tra le persone, addirittura all’interno delle loro stesse famiglie. L’amore per i genitori infatti è un comandamento sacro, ma per essere vissuto in modo autentico non può mai essere anteposto all’amore di Dio e di Cristo. In tal modo, sulle orme del Signore Gesù, i cristiani diventano « strumenti della sua pace », secondo la celebre espressione di san Francesco d’Assisi. Non di una pace inconsistente e apparente, ma reale, perseguita con coraggio e tenacia nel quotidiano impegno di vincere il male con il bene (cfr Romani 12,21) e pagando di persona il prezzo che questo comporta.

La Vergine Maria, regina della pace, ha condiviso fino al martirio dell’anima la lotta del suo Figlio Gesù contro il Maligno, e continua a condividerla sino alla fine dei tempi. Invochiamo la sua materna intercessione, perché ci aiuti ad essere sempre testimoni della pace di Cristo, mai scendendo a compromessi con il male.

I servi vigilanti

12 agosto 2007, XIX domenica del tempo ordinario, anno C


La liturgia di questa XIX domenica del tempo ordinario ci prepara, in qualche modo, alla solennità dell’Assunzione di Maria al cielo che celebreremo il prossimo 15 agosto. Essa infatti è tutta orientata verso il futuro, verso il cielo, dove la Vergine Santa ci ha preceduti nella gioia del paradiso. In particolare, la pagina evangelica, proseguendo il messaggio di domenica scorsa, invita i cristiani a distaccarsi dai beni materiali in gran parte illusori, e a compiere fedelmente il proprio dovere con una costante tensione verso l’alto. Il credente resta desto e vigilante per essere pronto ad accogliere Gesù quando verrà nella sua gloria. Attraverso esempi tratti dalla vita quotidiana, il Signore esorta i suoi discepoli, cioè noi, a vivere in questa disposizione interiore, come quei servi della parabola che sono in attesa del ritorno del loro padrone. « Beati quei servi – Egli dice – che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli » (Luca 12, 37). Dobbiamo dunque vegliare, pregando e operando il bene.

È vero, sulla terra siamo tutti di passaggio, come opportunamente ci ricorda la seconda lettura dell’odierna liturgia, tratta dalla Lettera agli Ebrei. Essa ci presenta Abramo in abito di pellegrino, come un nomade che vive in una tenda e sosta in una regione straniera. A guidarlo è la fede. « Per fede – scrive l’autore sacro – Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava (Ebrei 11, 8). La sua vera meta era infatti « la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (11, 10). La città a cui si allude non è in questo mondo, ma è la Gerusalemme celeste, il paradiso. Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù « forestiera » e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città « parrocchie », che significa appunto colonie di stranieri, in greco « pàroikoi » (cfr 1 Pietro 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo. L’odierna liturgia della Parola vuole pertanto invitarci a pensare « alla vita del mondo che verrà », come ripetiamo ogni volta che con il Credo facciamo la nostra professione di fede. Un invito a spendere la nostra esistenza in modo saggio e previdente, a considerare attentamente il nostro destino, e cioè quelle realtà che noi chiamiamo ultime: la morte, il giudizio finale, l’eternità, l’inferno e il paradiso. E proprio così noi assumiamo la responsabilità per il mondo e costruiamo un mondo migliore.

La Vergine Maria, che dal cielo veglia su di noi, ci aiuti a non dimenticare che qui, sulla terra, siamo solo di passaggio, e ci insegni a prepararci ad incontrare Gesù che « siede alla destra di Dio Padre Onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti ».

Le cose di lassù

5 agosto 2007, XVIII domenica del tempo ordinario, anno C

Nell’odierna XVIII domenica del tempo ordinario, la parola di Dio ci stimola a riflettere su come debba essere il nostro rapporto con i beni materiali. La ricchezza, pur essendo in sé un bene, non va considerata un bene assoluto. Soprattutto non assicura la salvezza, anzi potrebbe persino comprometterla seriamente. Proprio da questo rischio Gesù, nell’odierna pagina evangelica, mette in guardia i suoi discepoli. È saggezza e virtù non attaccare il cuore ai beni di questo mondo, perché tutto passa, tutto può finire bruscamente. Il tesoro vero che dobbiamo ricercare senza sosta per noi cristiani sta nelle « cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra del Padre ». Ce lo ricorda quest’oggi San Paolo nella Lettera ai Colossesi, aggiungendo che la nostra vita « è ormai nascosta con Cristo in Dio » (cfr 3, 1-3).

A volgere lo sguardo verso « lassù », verso il Cielo, ci invita la solennità della Trasfigurazione del Signore, che celebreremo domani. Nel racconto evangelico della Trasfigurazione sul monte, ci è dato un segno premonitore, che ci permette di dare un fugace sguardo nel regno dei santi dove anche noi, al termine della nostra esistenza terrena, potremo partecipare alla gloria di Cristo, che sarà completa, totale e definitiva. Allora tutto l’universo sarà trasfigurato e si compirà finalmente il disegno divino della salvezza. Il giorno della solennità della Trasfigurazione resta legato alla memoria del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, che proprio qui, a Castel Gandolfo, nel 1978 completò la sua missione e fu chiamato ad entrare nella casa del Padre celeste. Il suo ricordo ci sia d’invito a guardare verso l’alto ed a servire fedelmente il Signore e la Chiesa, come lui ha fatto in anni non facili del secolo scorso.

Ci ottenga questa grazia la Vergine Maria, che oggi particolarmente ricordiamo, celebrando la memoria liturgica della dedicazione della basilica di Santa Maria Maggiore. Com’è noto, questa è la prima basilica dell’Occidente costruita in onore di Maria e riedificata nel 432 da papa Sisto III per celebrare la divina maternità della Vergine, dogma che era stato solennemente proclamato nel concilio ecumenico di Efeso l’anno precedente. La Vergine, che più di ogni altra creatura, ha partecipato al mistero di Cristo, ci sostenga nel nostro cammino di fede perché, come la liturgia ci invita a pregare quest’oggi, « operando con le nostre forze a sottomettere la terra non ci lasciamo dominare dalla cupidigia e dall’egoismo, ma cerchiamo sempre ciò che vale davanti a Dio ».

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La raccolta completa degli Angelus di Benedetto XVI, nel sito del Vaticano:

> Angelus / Regina Coeli 

Publié dans:Sandro Magister |on 8 octobre, 2007 |Pas de commentaires »
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