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LA DIVERSITÀ DEL COMPORTAMENTO DI GIUDA E DI SAN PIETRO; LA MORTE DI GIOVANNI BATTISTA – QUESITO

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LA DIVERSITÀ DEL COMPORTAMENTO DI GIUDA E DI SAN PIETRO; LA MORTE DI GIOVANNI BATTISTA – QUESITO

Gentile Padre,
mi colpiscono soprattutto due personaggi del vangelo uno è Simon Pietro e l’altro e Giovanni il Battista. Ma è innanzitutto Pietro ad attirare la mia attenzione, la prima domanda che mi pongo è quale sia la differenza tra Pietro e Giuda, perché entrambi tradiscono e uno viene perdonato e l’altro no.
E’ un po’ sconcertante pensare che una chiesa che deve essere fondata su solide basi, si fondi sull’affidabilità di un personaggio mica poi tanto affidabile.
In fin dei conti anche Giuda si renderà conto di aver sbagliato tutto, ma per lui sarà troppo tardi, mentre per Pietro sarà solo l’inizio.
Venendo a Giovanni il Battista, perché deve perdere la sua testa? Sembra quasi una punizione, come se non riuscisse a portare a termine qualcosa. Eppure è un santo, stimato e che ha avuto il compito di battezzare Gesù, perché quindi questa brutta morte?
grazie
F.

Risposta del sacerdote

Cara F.,
1. c’è una differenza tra Giuda e Pietro.
Il primo tradisce Il Signore e lo mette nelle mani dei carnefici.
Il secondo lo rinnega, finge di non averlo mai conosciuto.
Il primo si pente, ma preso dall’orgoglio non domanda perdono a Gesù e va ad impiccarsi.
Il secondo, al vedere lo sguardo di Gesù, viene preso da pentimento e piange amaramente. San Marco, che è l’interprete di San Pietro, dice che quando la Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che Gesù era risorto e che lei stessa l’aveva incontrato, li trovò “in lutto e in pianto” (Mc 15,10).
Pietro era tra questi. Era in lutto e piangeva non solo la morte del Signore, ma certamente anche il suo rinnegamento.
L’iconografia cristiana antica presenta San Pietro con due fossette agli zigomi, segno del pianto che poi lo avrebbe accompagnato per tutta la vita ogni volta che ricordava quello che aveva fatto.
In Pietro ognuno di noi ha un esempio molto bello di come si debbano piangere i propri peccati, che sono stati la causa della morte del Signore.
Per Giuda invece le cose andarono diversamente. S. Caterina da Siena si sentì dire dall’Eterno Padre: “Questo (della disperazione) è quello peccato che non è perdonato né di qua né di là, perché il peccatore non ha voluto, spregiando la mia misericordia; perciò mi è più grave questo che tutti gli altri peccati che ha commessi. Unde la disperazione di Giuda mi spiacque più e fu più grave al mio Figliolo che non fu il tradimento che egli mi fece. Così sono condannati per questo falso giudizio d’aver posto maggiore il peccato loro che la misericordia mia; e perciò sono puniti con le dimonia e cruciati eternamente con loro” (Dialogo della Divina Provvidenza, c. 37).
2. Mi dici poi che trovi “sconcertante pensare che una chiesa che deve essere fondata su solide basi, si fondi sull’affidabilità di un personaggio mica poi tanto affidabile”.
Ti posso rispondere semplicemente che, al momento del rinnegamento, Pietro non aveva ancora ricevuto lo Spirito Santo nella forma in cui lo ricevette a Pentecoste. In quel giorno fu letteralmente trasformato e diventa pronto a dare la vita per il Signore non solo con le parole, ma con i fatti. Giunto al momento del martirio, disse ai carnefici: “Non sono degno di morire come il mio Maestro. Crocifiggetemi con la testa in giù”.3. Osservi infine che la morte di Giovanni Battista non è stata tanto bella. Che non meritava di morire così.
Ti chiedo: e Gesù meritava di morire così?
Giovanni Battista è stato precursore della venuta del Signore. Ma gli è stato precursore non solo a parole, ma anche con la morte violenta.
E per questo martirio si è meritato una gloria molto grande non sulla terra, dove le glorie sono tutte caduche e spesso al dire di santa Teresa d’Avila sono “una grandissima menzogna”, ma in cielo e per tutta l’eternità.

Ti saluto, ti prometto una preghiera e ti benedico.
Padre Angelo

Publié dans:San Pietro |on 6 mai, 2019 |Pas de commentaires »

PIETRO E PAOLO: LA CONVERSIONE E IL MARTIRIO

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PIETRO E PAOLO: LA CONVERSIONE E IL MARTIRIO

Domenica 29 giugno, Santi Pietro e Paolo. «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente!» così risponde Simone, figlio di Giona, alla domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?» Il Voi dice che l’interrogativo era diretto a tutti i Suoi apostoli; ma è Pietro che risponde? a nome di tutti. È Pietro che riconosce in Gesù di Nazaret: il Cristo ossia il Messia; il Figlio di Dio… il Vivente! Ma tale risposta impone a Cristo una precisazione; quindi dice: Pietro, questa tua confessione ha origine in Dio, ti è stata rivelata dal Padre mio… non è cosa tua!

DI SANDRO SPINELLI

25/06/2003 di Archivio Notizie

Domenica 29 giugno, Santi Pietro e Paolo: «Ora sono veramente certo che il Signore mi ha strappato dalla mano di Erode» (At 12,1-11); «Benedetto il Signore che libera i suoi amici» (Salmo 33); «Ora per me è pronta la corona di giustizia» (2 Tm 4,6-8.17-18); «Tu sei Pietro: a te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16,13-19)

DI SANDRO SPINELLI
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente!» così risponde Simone, figlio di Giona, alla domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?» Il Voi dice che l’interrogativo era diretto a tutti i Suoi apostoli; ma è Pietro che risponde? a nome di tutti. È Pietro che riconosce in Gesù di Nazaret: il Cristo ossia il Messia; il Figlio di Dio… il Vivente! Ma tale risposta impone a Cristo una precisazione; quindi dice: Pietro, questa tua confessione ha origine in Dio, ti è stata rivelata dal Padre mio… non è cosa tua!
Ora noi possiamo goderne perché con questa risposta-confessione di Pietro, è stato stretto un nuovo legame tra la conoscenza umana e il mistero del Dio vivente! In un altro momento della storia e in un’altra regione, un legame altrettanto nuovo è stato allacciato tra il Mistero e Saulo di Tarso. Soltanto Dio Padre poteva rivelare persuasivamente a Saulo tutto quanto è riferito a Suo Figlio Gesù e così penetrare e abbattere la barriera dell’opposizione che questo servo fervente dell’Antico aveva eretta.
Il Signore s’è fatto conoscere da quest’uomo dopo averlo disarcionato dal suo cavallo e averlo accecato. Cioè dopo aver annullato i punti che egli riteneva sua forza. Così Saulo risulta essere tra i primi uomini della storia umana per i quali Cristo divenne «segno di contraddizione», ma nei quali a vincere fosse Cristo e non l’uomo. Anzi, con sorpresa grande per noi, proprio questa opposizione di Saulo, si è dimostrata un terreno particolarmente fertile perché vi possa attecchire e fiorire la rivelazione di Cristo Gesù.
Cristo Gesù ha poi unito le anime di questi due: di Simone al quale il Signore stesso ha dato nome Pietro e di Saulo che – dopo la sua elezione ad Apostolo – ha cominciato a chiamarsi Paolo. Li ha quindi condotti a Roma dove hanno edificato e glorificato la Chiesa. Ora noi, chiesa fondata da Cristo sui pilastri che sono gli Apostoli, possiamo contemplare tutte le grandi opere di Dio (Atti 2, 11) che si sono attuate in questi due testimoni del Signore: l’apostolato svolto e il martirio subito.
Ci sono, nella Cappella Paolina in Vaticano, due grandi affreschi di Michelangelo – gli ultimi della sua attività di pittore (circa il 1550); descrivono: la conversione di Paolo e il martirio di Pietro. È di grande potenza espressiva l’economia di composizione; in entrambi gli affreschi, una linea verticale taglia dall’alto in basso lo spazio dell’opera; intorno a questo asse l’artista ha quindi realizzato il suo lavoro. Ebbene, nella conversione di Paolo (a sinistra entrando nella Cappella) questa linea verticale è costituita dall’accecante bagliore che dal cielo, da Dio tocca Paolo che sta correndo sul suo cavallo… ne arresta la sua prepotente azione e la converte in potenza missionaria. Nel martirio di Pietro (parete destra, entrando) la linea compositiva è costituita dall’asse verticale della croce che porta il martire a testa in giù. Qui, la fierezza dello sguardo di Pietro punta diritta all’osservatore e pare interrogarlo: «Per Cristo, sei disposto anche tu a questo?».
Paolo e Pietro sono – con evidenza – due vasi di creta che sanno e possono contenere e ridonare la grandezza di Dio: cioè la Sua Presenza tra gli uomini, la santità ch’è sola del Signore, l’efficacia di ogni azione compiuta in Suo nome. In tal modo ci è dato riconoscere che i vasi di creta, nelle mani di Dio diventano roccia! Roccia ferma e sicura a cui approdare per assaporare la salvezza, su cui sostare per vivere in pace, su cui continuare il lavoro di edificazione del Regno di Dio che è la Chiesa. È proprio grazie alla Chiesa che tutto il contenuto di questa festa… si dipana in tutti i giorni della storia e in ogni luogo della terra a favore di ciascun uomo. È proprio grazie alla Chiesa che la nostra fede continua ad essere alimentata dall’eredità di Pietro capo e garante, e dall’eredità di Paolo: il grande missionario appassionato solo della proclamazione del Vangelo.
L’odierno brano di Vangelo si conclude, infine, parlando di chiavi; ed è proprio a questo versetto che si riferiscono le due chiavi incrociate che si trovano nello stemma papale. Queste stanno ad indicare il potere che Gesù ha dato ai suoi apostoli: «tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto nei cieli». Avere le chiavi è infatti il segno della potestà. Da quel giorno… tutto ciò che è stato legato qui, sulla terra è rimasto legato anche nei cieli e tutto quanto che è stato sciolto qui sulla terra, è rimasto sciolto anche nei cieli; infatti ai Suoi apostoli Cristo ha dato il potere di sigillare durante il progredire della storia e ha garantito che parimenti è sigillato nella gloria del regno che non passa.
Questa festa di Pietro e Paolo è dunque celebrazione dell’unità del gregge di Cristo. In Pietro e nei suoi successori troviamo il criterio sicuro di permanenza nella genuina tradizione evangelica, la garanzia della fede e l’esperienza della continua rigenerazione del perdono offerto dal Signore Gesù.

PAOLO PP. VI : PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19670222_petrum-et-paulum.html

PETRUM ET PAULUM APOSTOLOS

ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ

Nel XIX centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo

PAOLO PP. VI

VENERABILI FRATELLI SALUTE ED APOSTOLICA BENEDIZION

I santi Apostoli Pietro e Paolo sono giustamente considerati dai fedeli come colonne primarie non solo di questa Santa Sede Romana, ma anche di tutta la Chiesa universale del Dio vivo. Riteniamo, perciò, di fare cosa consona al Nostro ministero Apostolico esortando voi tutti, Venerabili Fratelli, a promuovere, spiritualmente a Noi uniti, ciascuno nella propria diocesi, una devota celebrazione della memoria, diciannove volte centenaria, del martirio, consumato in Roma, tanto dell’apostolo Pietro scelto da Cristo a fondamento della sua Chiesa, e primo Vescovo di quest’alma Città, quanto dell’apostolo Paolo, dottore delle Genti (Cf 1 Tm 2,7), maestro e amico della prima comunità cristiana in Roma.
La data di questa memorabile ricorrenza non può essere sicuramente fissata, in base ai documenti storici. È certo che i due apostoli furono martirizzati a Roma durante la persecuzione di Nerone, che infierì dall’anno 64 al 68. Il martirio è ricordato da san Clemente, Successore dello stesso Pietro nel governo della Chiesa Romana, nella sua lettera ai Corinzi, ai quali propone i validi esempi dei due atleti: Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte (1 Epistula ad Corinthios, V, 1-2: ed. FUNK 1, p. 105).
Ai due Apostoli Pietro e Paolo fece corona un gran numero di persone (Cf TACITO, Annales, XV, 44) che costituisce la primizia dei martiri della Chiesa Romana, come scrive lo stesso Clemente: A questi uomini che vissero santamente si aggiunse una grande schiera di eletti, i quali, soffrendo per invidia molti oltraggi e torture, furono di bellissimo esempio a noi (Epistula ad Corinthios, VI, 1: ed. FUNK 1, p. 107).
Noi, poi, lasciando alle erudite discussioni la precisa determinazione della data del martirio dei due Apostoli, abbiamo scelto, per le celebrazioni centenarie, l’anno corrente, seguendo in ciò l’esempio del Nostro venerato Predecessore Pio IX, il quale volle solennemente ricordare nel 1867 il martirio di san Pietro.
E poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell’uno e dell’altro Apostolo in un’unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.
E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l’abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un’impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L’educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull’orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell’immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l’eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1 Pt 1,4).
E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2 Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2 Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità; l’unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.
Per questo il Nostro invito, oltre che per la nostra diletta diocesi di Roma «di cui sono i celesti patroni», è per voi tutti, che siete Successori degli Apostoli e Pastori della Chiesa universale, in quanto componenti con Noi quel Collegio episcopale, che il recente Concilio Ecumenico, con tanta ricchezza di dottrina e con tanti presagi di futuri incrementi ecclesiali, illustrò; è per voi, fedeli e ministri tutti della santa Chiesa; e così via, a Dio piacendo, per tutti i fratelli che, sebbene non ancora in piena comunione con Noi, sono tuttavia insigniti del nome cristiano, e che ben volentieri sappiamo cultori della memoria e dello spirito dei due Apostoli. In particolare ricordiamo con viva soddisfazione del Nostro animo che le venerande Chiese Orientali celebrano solennemente nelle loro liturgie i due Corifei degli Apostoli, e ne mantengono vivo il culto tra il popolo cristiano. Ci piace altresì rilevare come presso le Chiese e le Comunità Ecclesiali separate dell’Occidente sia viva l’idea dell’apostolicità, che la presente celebrazione mira a vedere sempre più perfetta ed operante, e che san Paolo esprime con quelle mirabili parole: Edificati sopra il fondamento degli apostoli (Ef 2,20).
In che cosa consiste praticamente il Nostro invito? Come insieme celebreremo il significativo anniversario? È costume di questa Sede Apostolica, quando intende rendere solenne e universale qualche singolare ricorrenza, elargire qualche beneficio spirituale (e non Ci rifiutiamo dal farlo anche in questa occasione); ma questa volta, più che donare, Ci piace domandare; più che offrire, vogliamo chiedere. E la Nostra domanda è semplice e grande: Noi vi preghiamo tutti e singoli, Fratelli e Figli Nostri, di voler celebrare la memoria dei santi Apostoli Pietro e Paolo, testimoni con la parola e col sangue della fede di Cristo, con un’autentica e sincera professione della medesima fede, quale la Chiesa da loro fondata e illustrata ha raccolto gelosamente e autorevolmente formulata. Una professione di fede vogliamo a Dio offrire, al cospetto dei beati Apostoli, individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca. Vogliamo che questa professione salga dall’intimo di ogni cuore fedele e risuoni identica e amorosa in tutta la Chiesa.
Quale migliore tributo di memoria, d’onore, di comunione potremmo offrire a Pietro e a Paolo che quello della fede stessa, che da loro abbiamo ereditata?
Voi sapete benissimo che il Padre stesso celeste rivelò a Pietro chi era Gesù: il Cristo, il Figlio del Dio vivo, il Maestro e il Salvatore da cui a noi deriva la grazia e la verità (Cf Gv 1,14), la nostra salvezza, il cuore della nostra fede; voi sapete che sulla fede di Pietro riposa tutto l’edificio della santa Chiesa (Cf Mt 16,16-19); voi sapete che quando molti abbandonavano Gesù, dopo il discorso di Cafarnao, fu Pietro che, a nome del Collegio Apostolico, proclamò la fede in Cristo Figlio di Dio (Cf Gv 6,68-69); voi sapete che Cristo medesimo si è fatto garante con la sua personale preghiera dell’indefettibilità della fede di Pietro, ed ha a lui affidato l’ufficio, nonostante le sue umane debolezze, di confermare in essa i suoi fratelli (Cf Lc 22,32); e voi anche sapete che la Chiesa vivente ha preso inizio, disceso lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, con la testimonianza della fede di Pietro (Cf At 2,32-40).
Che cosa potremmo a Pietro domandare a nostro vantaggio, a Pietro offrire a suo onore, se non la fede, donde ha origine la nostra spirituale salute, e la nostra promessa, da lui reclamata, d’essere forti nella fede? (1 Pt 5,9)
A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell’atto di fede, a lui l’affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un’unica fede, in un’unica speranza, in un’unica carità dell’unico Corpo Mistico di Cristo? (Cf Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?
Così che arride a Noi la speranza che la commemorazione centenaria del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo si risolva principalmente per tutta la Chiesa in un grande atto di fede. E vogliamo ravvisare in questa ricorrenza la felice occasione che la divina Provvidenza appresta al Popolo di Dio per riprendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla. Non possiamo ignorare che di ciò l’ora presente accusa grande bisogno. È pur noto a voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, come, nella sua evoluzione, il mondo moderno, proteso verso mirabili conquiste nel dominio delle cose esteriori, e fiero d’una cresciuta coscienza di sé, sia incline alla dimenticanza e alla negazione di Dio, e sia poi tormentato dagli squilibri logici, morali e sociali, che la decadenza religiosa porta con sé, e si rassegni a vedere l’uomo agitato da torbide passioni e da implacabili angosce: dove manca Dio manca la ragione suprema delle cose, manca la luce prima del pensiero, manca l’indiscutibile imperativo morale, di cui l’ordine umano ha bisogno (Cf S. AGOSTINO, De civ. Dei, 8, 4: PL 41, 228-229; Contra Faustum, 20, 7: PL 43, 372).
E mentre vien meno il senso religioso fra gli uomini del nostro tempo, privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci, ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della Sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta post-conciliare, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampli e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l’illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del magistero ecclesiastico, avessero a prevalere?
Ed ecco che a confortare la nostra fede nel suo autentico significato, a stimolare lo studio delle dottrine enunciate dal recente Concilio Ecumenico, e a sorreggere lo sforzo del pensiero cattolico nella ricerca di nuove e originali espressioni, fedeli tuttavia al deposito dottrinale della Chiesa, nello stesso senso e nello stesso modo di intendere (Cf VINCENZO LERINO, Commonitorium, 1, 23: PL 50, 668; D.-S. 3020), giunge sulla ruota del tempo questo anniversario Apostolico, il quale offre ad ogni figlio della santa Chiesa la felice opportunità: di dare a Gesù Cristo Figlio di Dio, Mediatore e Perfezionatore della rivelazione, l’umile e sublimante risposta: io credo, cioè il pieno assenso dell’intelletto e della volontà alla sua Parola, alla sua Persona, alla sua missione di salvezza (Cf Eb 12,2; CONC. VAT. I, Cost. dogm. de fide catholica, c. 3: DA. 3008, 3020; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 5: AAS 57 (1965), p. 7; CONC. VAT. П, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, nn. 5, 8: AAS 58 (1966), pp: 819, 821); e di onorare così quei sommi testimoni di Cristo, Pietro e Paolo, rinnovando l’impegno cristiano d’una sincera e operante professione della loro e nostra fede, e ancora pregando e lavorando per la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità della medesima fede.
Noi non intendiamo indire a tal fine un particolare Giubileo, quando appena è stato celebrato quello da Noi stabilito a conclusione del Concilio Ecumenico; ma fraternamente esortiamo voi tutti, Venerati Fratelli nell’Episcopato, a voler illustrare con la parola, a voler onorare con particolari solennità religiose, a voler soprattutto recitare solennemente e ripetutamente con i vostri sacerdoti e con i vostri fedeli il «Credo», in una o in altra delle formule in uso nella preghiera cattolica.
Ci piacerà sapere che il «Credo» è stato recitato espressamente, ad onore dei santi Pietro e Paolo, in ogni cattedrale, presenti il Vescovo, il Presbiterio, gli alunni dei Seminari, i Laici cattolici militanti per il regno di Cristo, i Religiosi e le Religiose, e quanto più numerosa possibile la santa assemblea dei fedeli. Analogamente faccia ogni Parrocchia per la propria comunità; e parimente ogni casa religiosa. Così suggeriamo che tale professione di fede sia, in un giorno stabilito, emessa in ogni singola casa ove dimori una famiglia cristiana, in ogni associazione cattolica, in ogni scuola cattolica, in ogni ospedale cattolico e in ogni luogo di culto, in ogni ambiente e in ogni riunione, ove la voce della fede possa esprimere e rinfrancare l’adesione sincera alla comune vocazione cristiana.
Noi rivolgiamo una particolare esortazione agli studiosi della Sacra Scrittura e della Teologia, affinché vogliano contribuire col magistero gerarchico della Chiesa a preservare la vera fede da ogni errore, ad approfondirne le insondabili profondità, a spiegarne rettamente il contenuto, a proporne i sani criteri di studio e di divulgazione. Similmente diciamo ai predicatori, ai maestri di religione, ai catechisti.
L’anno centenario commemorativo dei santi Pietro e Paolo sarà in tale modo l’anno della fede. Affinché la sua celebrazione abbia una certa simultaneità, Noi vi daremo inizio con la festa degli Apostoli medesimi, il 29 giugno prossimo venturo, e procureremo, fino allo scadere della medesima data dell’anno successivo, di renderlo fecondo di particolari commemorazioni e celebrazioni, tutte improntate al perfezionamento interiore, allo studio approfondito, alla professione religiosa, all’operosa testimonianza di quella santa fede senza la quale è impossibile piacere a Dio (Eb 1,6), e mediante la quale speriamo di raggiungere la promessa salvezza (Cf Mc 16,16; Ef 2,8; ecc.).
Dando a voi, Venerati Fratelli e diletti Figli, questo annuncio pieno di spirituali prospettive e di consolanti speranze, sicuri di avervi tutti solidali in piissima comunione, nel nome e con la potestà dei beati Apostoli e martiri Pietro e Paolo, sulle cui tombe riposa e fiorisce questa Chiesa Romana, erede, alunna e custode dell’unità e della cattolicità da loro qui per sempre incentrate e fatte scaturire, di gran cuore vi salutiamo e vi benediciamo.
Roma, presso S. Pietro, 22 febbraio, nella festa della Cattedra di san Pietro apostolo, dell’anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Publié dans:Papa Paolo VI, San Paolo, San Pietro |on 17 mars, 2015 |Pas de commentaires »

PIETRO E LE PIETRE DELLA CITTÀ ETERNA – DEL CARDINALE PAUL POUPARD

http://www.30giorni.it/articoli_id_8272_l1.htm

PIETRO E LE PIETRE DELLA CITTÀ ETERNA

UNA RIFLESSIONE DEL PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA CULTURA

DEL CARDINALE PAUL POUPARD

Non so se ci sia qualche impertinenza nella domanda «Roma è al centro del mondo?». Ma so che ci sono tanti modi pertinenti di rispondere. Io da parte mia lo farò partendo da un’affermazione di Madame Swetchine, l’amica di Lacordaire, lui stesso amico di un sacerdote francese oggi piuttosto dimenticato, l’abbé Louis Bautain.
Madame Swetchine, Lacordaire, Bautain Ascoltiamo Madame Swetchine: «Roma è la regina delle città, è un mondo assolutamente diverso da tutto quello che abbiamo incontrato altrove; le sue bellezze e i suoi contrasti sono di un ordine tanto elevato che niente ad essi ci prepara, niente potrebbe farne presagire né prevedere l’effetto. Qui le idee diventano grandi, qui i sentimenti diventano più religiosi, il cuore si placa. Vi sono compresenti tutte le epoche della storia, separate e distinte, e sembra che ognuna abbia voluto imprimere il proprio carattere ai suoi monumenti, avere un orizzonte che sia il suo, e per così dire, un’atmosfera particolare… La bellezza non è forse eterna come la verità? Quale stretto legame dunque tra la religione e l’arte!». E l’ortodossa convertita ricompare quando fa questa constatazione: «Una delle prove della verità del cattolicesimo è che risponde così bene alla natura esclusiva del nostro cuore. Le altre Chiese credono di semplificare la religione, di renderla più accessibile, più accettabile, estendendo a ogni comunione le promesse fatte dal suo divino Autore, ed è un ben strano disconoscimento dei nostri bisogni autentici. Più una regola è positiva, esclusiva, austera, esigente, più è attraente per noi, grazie a quel vago istinto che ci fa intravedere quanto la nostra mobilità abbia bisogno di essere fermata, la nostra debolezza di essere sostenuta, il nostro pensiero ricondotto e orientato. Nessuno si appassionerà mai a una religione che dice che le altre la equivalgono, e il Dio geloso lo sapeva bene. Dal momento in cui una cosa non è, non dico solo la migliore, ma l’unica completamente buona, perché scegliere, preferire, concentrarsi, e non lasciar frazionare il suo omaggio e il suo amore?».
Questo testo di Madame Swetchine trovato quasi per caso mi ha invitato a rileggere delle pagine che, con il fervore del giovane romano che allora ero, proponevo ai lettori di La vie spirituelle nel novembre del 1961, su Lacordaire, Bautain e Madame Swetchine. Al centro vi è Roma, dove l’abbé Bautain, filosofo di Strasburgo, viene denunciato dal suo vescovo per fideismo.
Lacordaire gli scrive, il 1° febbraio 1838: «Una condanna di Roma resta per sempre nella storia, la sua infallibilità ne garantisce il destino eterno. Invece la condanna di un vescovo non ha lo stesso destino, né la stessa solidità…». Presenta così alla sua corrispondente monsignor le Pappe de Trévern: «L’anziano vescovo di Strasburgo evidentemente è un gallicano esagerato, molto meno colpito da quel che c’è di falso in Bautain che da quel che c’è di vero… Nessuno più di me dà valore alla purezza della dottrina e direi che ogni giorno ne divento più geloso, per me stesso; ma la carità nel considerare le dottrine è il contrappeso assolutamente necessario dell’inflessibilità teologica. Ci si muove da veri cristiani se si cerca la verità e non l’errore in una dottrina, e si fa ogni sforzo fino al sangue per trovarcela, come si coglie una rosa attraverso le spine. Chi fa d’ogni erba un fascio del pensiero di un uomo, di un uomo sincero, costui è un fariseo, l’unica razza di uomini che sia stata maledetta da Gesù Cristo. C’è forse un Padre della Chiesa che non abbia opinioni e anche errori? Getteremo i loro scritti dalla finestra affinché l’oceano della verità sia più puro? L’uomo che combatte per Dio è un essere sacro, e fino al giorno di una condanna manifesta bisogna considerare il suo pensiero con cuore amico».
E il 1° febbraio 1840, in un’altra lettera alla sua corrispondente, Lacordaire aggiunge: «Nel 1838, quando ero a Metz, fui avvertito che si cercava di mandarlo a Roma, l’ultimo rifugio di coloro che sbagliano contro la durezza di quelli che non sbagliano mai… Lo convinsi ad andare a Roma. Partì, fu ben accolto, tornò incantato da Roma…»1.
Ho pubblicato molto tempo fa il Journal romain de l’abbé Louis Bautain (1838) (Il diario romano del 1838 dell’abbé Bautain) che ripercorre quella storia oggi dimenticata. Ho voluto ricordarla, cosa che ho fatto nel mio Rome-Pèlerinage2, perché per tanti pellegrini del passato e di oggi il pellegrinaggio a Roma è soprattutto la preghiera nella Basilica di San Pietro, in un cammino di fede verso il magistero vivo della Chiesa che, secondo le promesse fatte da Cristo a Pietro, prosegue nella persona del suo successore, il papa. È una grazia del pellegrinaggio a Roma l’adesione rinnovata a Pietro, il cui successore resta garante della verità del Vangelo, in mezzo alla confusione del secolo.
Bautain scrive, la sera stessa del suo arrivo, nel suo diario, il 28 febbraio 1838: «Infine partimmo… Eravamo molto impazienti di veder apparire la grande città, nonostante la fatica della notte passata e delle precedenti ci avesse prostrati; all’improvviso, arrivati su un’altura, il vetturino ci gridò facendoci segno con il suo frustino: “Roma!”. Vedemmo infatti, nella foschia del mattino, la cupola di San Pietro e in un momento essa fece come apparire ai nostri occhi tutta Roma, antica e moderna, Roma maestra del mondo, sia per la forza che per lo spirito. Dovemmo salire e scendere non pochi avvallamenti, dopo quell’apparizione, e infine vedemmo da vicino San Pietro e il Vaticano, e fu la prima cosa di Roma che vedemmo entrando dalla porta di Civitavecchia che è sul di dietro, tanto che sembra di entrare nel Vaticano stesso. Così quello che abbiamo visto di Roma, fin dall’inizio, è stato quello che unicamente eravamo venuti a cercare, cioè San Pietro e il Vaticano»3.
LA VOCAZIONE DI ROMA Così, mi sembra, si chiarisce la risposta da dare alla domanda: «Roma è al centro del mondo?». Perché questa parola “centro” può essere intesa in tanti sensi: centro di attrazione o centro di irradiazione?
Se lo si intende come centro di attrazione o di irradiazione, nel mondo, bisogna sapere se si pensa al papa o alla Curia. Sappiamo che le due cose non si confondono, la seconda è al servizio del primo. Bisogna d’altro canto distinguere l’aspetto religioso, l’aspetto morale e l’aspetto politico delle cose. La risposta non sarà la stessa a seconda che si consideri l’uno o l’altro aspetto.
Se si guarda alla cosiddetta opinione comune e ci si sforza di giudicare di conseguenza questa opinione comune alla luce di quello che la Chiesa pensa di sé stessa, mi sembra che si sia in presenza di due concezioni ugualmente false di Roma e della Santa Sede. Una concezione tende a minimizzare indebitamente il ruolo di Roma come centro di attrazione o di irradiazione considerandola una semplice Chiesa tra altre. In opposizione a questa concezione che minimizza, ce n’è un’altra che tende a esagerare, in un certo senso, il suo ruolo, assimilandola più o meno formalmente a un “potere”, ignorando quello che la Chiesa ha detto di sé stessa al Concilio in materia di libertà religiosa4.
Mi sembra che Roma, ed è la sua propria vocazione, vorrebbe essere considerata come testimone principale – e la Chiesa attraverso di lei –, come testimone di Cristo vivente, morto e risorto, testimone qualificata come nessun altro in base alla missione data a Pietro da Cristo. Questa testimonianza ha in Roma un’espressione straordinariamente autentica per coloro che credono e anche per alcuni di coloro che non credono. Roma, allora, come centro della Chiesa può e deve accettare di avere una responsabilità universale e missionaria, qualsiasi siano le debolezze connaturate a ogni collaborazione umana all’opera di Dio.
L’Urbs
Mi sembra che questa sia la vocazione di Roma, cosa che spiega in qualche modo il fascino di Roma. Perché la città di Roma dopo due millenni esercita un vero fascino in tutto il mondo, tanto che la si è potuta chiamare “la Città” e basta: “l’Urbs”. È alla città e al mondo, Urbi et orbi, che il Santo Padre dà la sua benedizione solenne dall’alto della loggia della Basilica di San Pietro, davanti a quella piazza meravigliosa che porta il nome dell’apostolo fondatore. I telespettatori non smettono di guardarla, sperando di fare davvero, un giorno, il pellegrinaggio a Roma. Perché se tutte le strade portano a Roma, è ancora più vero aggiungere, oggi, che riportano là il viaggiatore abbagliato, il pellegrino desideroso di rifare i passi degli apostoli, di pregare nelle grandi basiliche, di partecipare al fervore di un popolo multicolore, la cui fede si ravviva cantando con il successore di Pietro il Credo cattolico.
Inestinguibile Roma! Inestinguibile Roma! La si è potuta chiamare capitale della civiltà e del diritto, dell’arte e della storia, Roma delle pietre e dei secoli inestricabilmente mescolati tra loro, Roma sotterranea delle catacombe, Roma costruita sulla sepoltura di Pietro scoperta in Vaticano, edificata sul martirio degli apostoli, ma anche sulle macerie dei templi pagani e delle città antiche, Roma moderna, infine, piena del fruscio di tanti ricordi e del rumore delle grandi arterie, o degli stretti vicoli di Trastevere, Roma delle chiese e dei conventi, Roma delle università e dei collegi, Roma dei pellegrini, con la folla che calpesta, settimana dopo settimana, il sagrato di San Pietro, sotto le finestre del papa.
Come diceva Giovanni Paolo II il 25 aprile 1979, per l’anniversario della fondazione di Roma, questa data non segna solo l’inizio di una successione di generazioni umane che hanno abitato la città. È anche un inizio per nazioni e popoli lontani che sanno di avere un legame di unità particolare con la tradizione culturale latina in ciò che essa ha di più profondo.
Gli apostoli del Vangelo, e in primo luogo Pietro di Galilea e Paolo di Tarso, sono venuti a Roma e vi hanno impiantato la Chiesa. È così che nella capitale del mondo antico ha cominciato a esistere la Sede dei successori di Pietro, dei vescovi di Roma. Ciò che era cristiano si è radicato in ciò che era pagano e, dopo essersi sviluppato nell’humus romano, ha cominciato a crescere con nuova forza. Qui il successore di Pietro è l’erede di quella missione universale che la Provvidenza ha inscritto nel libro della storia della Città eterna.
Pietro e le pietre Regina della storia, festa delle arti, delizia degli occhi e gioia del cuore, Roma è per il pellegrino il centro vivo e visibile dell’unità della Chiesa cattolica, fecondato dal martirio degli apostoli, irrigato da secoli di fede, illuminato dalla presenza del successore di Pietro. Che voi arriviate dall’aeroporto di Fiumicino, dalla stazione Termini o dall’autostrada del Sole piena di macchine, avrete in voi la stessa preoccupazione, brucerete dello stesso ardente desiderio: vedere San Pietro e il Santo Padre. Per il pellegrino che viene a Roma infatti il messaggio delle pietre del passato si coniuga con i volti dell’oggi di Dio, in una viva testimonianza di fede. Egli non visita soltanto luoghi prestigiosi carichi di storia millenaria, ma prende posto entro una schiera di testimoni, e pone i suoi passi, insieme con i suoi contemporanei di tutto il mondo, sulle orme di coloro che, attraverso le epoche, l’hanno preceduto. Continuità vivente nel tempo e nello spazio, la Chiesa che i cristiani formano si ritrova a Roma in una secolare catena.
Membri di tante comunità sparse tra i popoli, i cristiani, a Roma, scoprono di colpo la loro unità profonda di popolo di Dio raccolto intorno alla tomba di Pietro e al suo successore vivente, in Vaticano. L’enorme capitale del mondo antico infatti è stata scelta dagli apostoli perché volevano impiantare il Vangelo nel cuore stesso dell’Impero. Venuti a Roma per annunciarvi la fede in Cristo risorto, Pietro e Paolo vi hanno trovato la morte. Il loro martirio vi ha radicato la Chiesa. Secondo l’antico detto: il sangue dei martiri è seme dei cristiani. E fin dai primi secoli i cristiani, spinti da un sentimento incontenibile, si sono messi in movimento verso le tombe dei santi apostoli, per professarvi la loro fede, in continuità vivente con i loro padri e in unione stretta con il vescovo di Roma.
San Pietro e il Santo Padre Roma come pellegrinaggio non è affatto una terra straniera cui ci si accosta per una visita effimera, decisa in fretta e subito dimenticata. Non è neanche un santuario circoscritto, limitato a un’apparizione lontana. È l’Urbe tutta intera che è la patria dei fedeli cattolici, e anche di tanti cristiani, da più di duemila anni. Il tempo, che altrove si dissolve nella storia, qui si radica nella durata. Mentre in un pellegrinaggio a un luogo in cui si è manifestata la Vergine Maria o un santo la continuità consiste nella sola fedeltà a tale messaggio Roma si affermò nel tempo, che essa ha riempito della sua presenza e della sua azione. Pietro e Paolo, martiri, sono sepolti qui. Sulle loro tombe si innalzano due basiliche. Le catacombe serbano le tracce dei vivi e dei morti dei primi secoli. Ma i pellegrini non si limitano a frequentare dei luoghi. A Roma incontrano il vicario di Cristo, successore di Pietro. Tra Pietro e le pietre non c’è antagonismo ma complementarità.
Cosa andate a fare a Roma? Un pellegrinaggio alle basiliche? O a vedere il papa? Perché dire “o”, quando evidentemente si tratta di una “e” che bisogna dire e fare! Questa è la singolarità di Roma come pellegrinaggio: luoghi e uomini che non si possono separare, perché tutto li unisce. Il pellegrino va verso piazza San Pietro per pregare nella Basilica di San Pietro e per vedere il Santo Padre. Videre Petrum: questa antica esclamazione di fede scaturisce dalle profondità dei secoli, è il passo credente che unisce Pietro a Giovanni Paolo II, l’uno e l’altro, l’uno dopo l’altro destinatari della promessa inaudita di Cristo: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa». Si tratta proprio di un passo di fede, animato dalla certezza che inabita il poeta: «E noi siamo caduti nella rete di Pietro. Perché è Gesù che l’aveva gettata per noi» (Charles Péguy).
Da Pietro a Karol Pietro è venuto a Roma. È stato il suo primo vescovo. E dopo la sua morte il vescovo di Roma gli succede nella sua carica di pastore, responsabile in primo grado del collegio dei vescovi di cui lui è il primo: chiave di volta – e la volta sono loro – della Chiesa sparsa attraverso il tempo e lo spazio, diffusa ai quattro angoli dell’universo, in cammino verso la patria eterna. Città di Dio al cuore della città degli uomini, dei quali vorrebbe essere l’anima, la Chiesa di Gesù Cristo non è affatto un conglomerato informe, ma un organismo strutturato. Le sue strutture visibili sono foriere dell’invisibile ed essenziale nervatura spirituale di grazia, di cui il Signore è la fonte e lo Spirito il canale. Saldamente mischiato ai suoi fratelli di ogni razza e ogni lingua, il pellegrino in visita a Roma, in questa città prende meglio coscienza che cammina dal tempo verso l’eternità. Perché l’eternità vi ha già lasciato la sua traccia. Il tempo può anche disfare le pietre lungo il corso dei secoli, Pietro, lui, è sempre vivo, da Simone di Galilea a Karol di Cracovia, anche lui venuto da lontano, per meglio portarci lontano, nella barca della Chiesa, al vento dello Spirito.
Il pellegrino che visita degli edifici materiali, segno e custodia di una realtà spirituale, non li avvicina così come un turista scopre un’opera d’arte. È un credente che pone i suoi passi su quelli di generazioni che l’hanno preceduto, dalle quali ha ricevuto, insieme alla chiesa dove viene a pregare, la fede che anima la sua preghiera. Per questo, il cuore del pellegrinaggio a Roma è l’incontro e la benedizione ricevuta dal successore di Pietro. È la grazia propria dell’udienza nella quale ogni mercoledì il Santo Padre si rivolge ai pellegrini, come testimone della fede e interprete autorizzato del Vangelo, così come la grazia della recita con loro, ogni domenica, dell’Angelus.
La vocazione di Roma è di confermarli nella fede affinché la vivano su tutte le strade della Chiesa e del mondo, in mezzo agli uomini, su tutte le strade che sono le strade di Cristo, secondo la bella immagine di Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis.
Come non pensare che tra tutte quelle strade Roma è privilegiata, grazie alla continuità di una tradizione di cui l’Urbe è depositaria. Il successore di Pietro non è un mitico disco volante caduto dal cielo di Polonia sulle rive del Tevere. Non è un nuovo Melchisedec, senza padre né madre né genealogia. Come dice il suo nome, è un successore. La sua persona si identifica con la sua funzione… Questa, erede del Vangelo e segnata dal peso della storia, si inscrive nei due millenni che hanno riempito la città di Roma, innalzando il suo divenire nella città degli uomini al destino di Città di Dio. Chiesa incarnata, la Chiesa di Roma non è senza macchia, non è dura e pura come un’utopia, la cui sola qualità reale sarebbe il non esistere. Invece essa esiste, con i suoi tratti segnati così fortemente dal tempo e dallo spazio, dagli uomini e dalle loro costruzioni di pietra. Così, la vocazione di Roma è l’incarnazione della fede, con gli apostoli Pietro e Paolo e i milioni di credenti che sono venuti a pregare sulle loro tombe e ad abbeverarcisi nella fede.
Come diceva Giovanni Paolo II il 4 luglio 1979, dopo aver celebrato per la prima volta a Roma la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo: «Come è eloquente l’altare, al centro della Basilica, sul quale il successore di Pietro celebra l’eucaristia pensando che è così vicino all’altare in cui Pietro ha fatto, sulla croce, il sacrificio della sua vita in unione con quello, sul Calvario, di Cristo crocifisso e risorto».
Guardare e capire Davanti a tanti tesori accumulati non mancano le critiche che si scandalizzano di questo mecenatismo, mentre ci sono tante povertà che gridano vendetta. Non si può riscrivere la storia, e oggi capiamo difficilmente il comportamento dei papi del Rinascimento. Paolo VI, inaugurando la nuova sala delle udienze, la Sala Nervi, il 30 giugno 1971, dichiarò che essa «non esprime alcun orgoglio monumentale o vanità ornamentale, ma che l’audacia propria dell’arte cristiana è quella di esprimersi in termini grandi e maestosi». Ma anche tanto tempo prima, quando era sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Montini si era espresso in questi termini, che io dedico, quarant’anni dopo, ai pellegrini di oggi: «Fascino, reverenza, stupore o semplice curiosità, o ancora diffidenza prudente guidano i passi del moderno romeo che non si è potuto sottrarre alla visita d’obbligo e che sente, in sé stesso, il bisogno di guardare e capire.
Guardare e capire: forse qui è la differenza psicologica tra la visita alla Città del Vaticano e quella a un altro grande monumento dell’antichità, il Foro romano, le Piramidi, il Partenone, i resti di Ninive o della civiltà degli Incas. Questi basta guardarli; qui bisogna anche capire. Perché qui c’è qualcosa di indefinibilmente presente, qualcosa che richiama alla riflessione, che esige un incontro, che impone uno sforzo interiore, una sintesi spirituale.
Perché il Vaticano non è solo un insieme di edifici monumentali che possono interessare l’artista; né soltanto un magnifico segno dei secoli passati che possono interessare lo storico; nemmeno soltanto uno scrigno che trabocca di tesori bibliografici e archeologici che possono interessare l’erudito; neppure il museo noto per i capolavori sublimi che possono interessare il turista; né soltanto, infine, il tempio sacro del martirio dell’apostolo Pietro che può interessare il fedele. Il Vaticano non è solo il passato; è la casa del papa, di un’autorità sempre viva e attiva».
IL MESSAGGIO DELLA CITTà ETERNA Come la voce di Cristo sulle acque tempestose del lago di Tiberiade, quella del suo vicario Giovanni Paolo II risuona con potenza e sbaraglia tanto i vecchi slogan come le nuove ideologie: «Non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo. Alla sua potenza che salva, aprite le frontiere degli Stati, i sistemi economici e politici, i terreni immensi della cultura, della civiltà, dello sviluppo. Non abbiate paura… Lasciate che Cristo parli all’uomo. Lui solo ha parole di vita, sì, di vita eterna».
Questo è il messaggio di Roma, straordinario incrocio di popoli e di civiltà. Pietro non ha avuto paura, con Paolo, di venire qui a piantare la croce nel cuore di quell’Impero unificato e potente. L’unità politica e linguistica, la centralizzazione amministrativa saranno, da Roma, carte preziose per la diffusione del Vangelo a partire dalla capitale del mondo antico. Proprio quando stava per essere cancellata dalla storia, questo la rese la Città eterna. Dopo il declino dell’Impero d’Occidente e l’allontanamento dell’Impero d’Oriente, senza paura Roma si lega alla nuova Europa che sta laboriosamente sorgendo. Nell’anno 800 il Papa vi incorona Carlo Magno imperatore d’Occidente. Dopo la tempesta del saeculum ferreum, Roma diventa il cuore della difesa cattolica contro il frazionismo delle eresie. Lo sfavillio del Barocco attesta qui in modo tutto particolare la gioia della fede dopo la tempesta, la gioia della fede e la gioia della vita, che sono una cosa sola. Facendoci scoprire queste tappe successive di un’arte sempre in simbiosi con il suo tempo, la lezione di Roma non è forse di consolidare in noi il senso dell’universale, di ricordarci la nostra vocazione cattolica?
Roma ha sempre praticato con successo l’assimilazione. La comunità cristiana ci stette benissimo per tre secoli parlando il greco, e sarà lo stesso dopo col latino. Celebrerà bene nelle case private delle origini così come nelle grandi basiliche di Costantino. «Dove vi riunite?», veniva chiesto a Giustino. E il filosofo cristiano rispondeva semplicemente: «Dove si può».
Questa è la lezione di Roma. Non è dall’esterno ma dall’interno che si convertono il mondo e la società. I cristiani ne traggono senza problemi i loro usi, quando non hanno nulla di reprensibile. I cristiani di Roma hanno adottato anche per i loro edifici di culto lo schema delle basiliche pagane. E si può trovare la rappresentazione del dio sole nel mosaico che decora il soffitto di un cubicolo, peraltro cristiano perché la scena di Giona ne orna una delle pareti. A Santa Prisca e a Santo Stefano Rotondo la chiesa è inscritta all’interno del mitreo preesistente, mentre sotto San Clemente si vede che la chiesa cristiana del IV secolo è accanto al mitreo privato. Più tardi le spoglie dell’antichità orneranno i santuari cristiani e decoreranno i loro accessi: colonne di marmo di templi pagani diventate supporti di chiese cristiane, obelischi egiziani sormontati dalla croce di Cristo.
È l’Urbe tutta intera che è la patria dei fedeli cattolici, e anche di tanti cristiani, da più di duemila anni. Il tempo, che altrove si dissolve nella storia, qui si radica nella durata. Mentre in un pellegrinaggio a un luogo in cui si è manifestata la Vergine Maria o un santo la continuità consiste nella sola fedeltà a tale messaggio Roma si affermò nel tempo che essa ha riempito della sua presenza e della sua azione…
Il culto dei martiri Roma, con i primi apostoli Pietro e Paolo, poi con Ignazio, Giustino, Tolomeo, Lucio, il patrizio Apollonio, e tanti altri rimasti anonimi, è diventata un martirologio vivente. Nella città che era l’epicentro del mondo, il sangue dei martiri è seme di cristiani. La prestigiosa comunità dei Romani, già attraente per l’apostolo Paolo, è diventata una nuova terra santa, segnata dal sangue dei martiri. «Presiedendo nella carità e nella fraternità», come scrive Ignazio nella sua lettera ai Romani, irradia la sua luce in tutto l’Impero.
È il culto dei martiri in verità che ha creato il pellegrinaggio e contribuito a fare di Roma una città santa, che progressivamente si è organizzata per ricevere i pellegrini e rendere ai martiri un culto degno della loro fama. San Girolamo scrive: «Dove si accorre come a Roma nelle chiese e sulle tombe dei martiri con tanto zelo e in così tanti? Dobbiamo lodare la fede del popolo romano». E sant’Ambrogio descrive la festa dei santi Pietro e Paolo celebrata il 29 giugno: «Eserciti serrati percorrono le vie di una città così grande. Su tre vie diverse (al Vaticano, sull’Ostiense e sulla via Appia) si celebra la festa dei santi martiri. Sembra che avanzi il mondo intero».
All’inizio del V secolo Prudenzio scrive: «Dalle porte di Alba escono lunghe processioni che formano bianche linee nella campagna. L’abitante degli Abruzzi e il contadino dell’Etruria arrivano insieme. Ecco il feroce Sannita, l’abitante della superba Capua. Ecco anche il popolo di Nola» … Nola, di cui il vescovo Paolino scrive: «Così, Nola, ti fai tutta bella a immagine di Roma». Il vescovo letterato fa anche lui il pellegrinaggio almeno una volta l’anno per la festa dei santi Pietro e Paolo.
Il pellegrinaggio Il pellegrinaggio a Roma è innanzitutto un obbligo tradizionale per tutti i vescovi. Già il concilio di Roma, nel 743, sotto papa Zaccaria, menziona la visita ad limina apostolorum come tradizionale, e ne rinnova l’obbligo. Dopo secoli in cui l’usanza si era indebolita, Sisto V, con la costituzione apostolica Romanus pontifex del 20 dicembre 1585, ne rinnova l’obbligo e ne stabilisce la frequenza. Ogni vescovo ormai ha un doppio obbligo: andare a venerare le tombe dei santi apostoli ed esporre al papa la situazione della sua diocesi.
Nell’Angelus del 9 settembre 1979 Giovanni Paolo II spiegava ai pellegrini il significato di queste visite ad limina: «In occasione della nostra comune preghiera dell’Angelus di mezzogiorno, voglio oggi riferirmi all’antichissima tradizione della visita alla Sede degli apostoli, ad limina apostolorum. Tra tutti i pellegrini che venendo a Roma manifestano la loro fedeltà a questa tradizione, i vescovi del mondo intero meritano un’attenzione speciale. Perché attraverso la loro visita alla Sede degli apostoli essi esprimono il legame con Pietro, che unisce la Chiesa su tutta la terra. Venendo a Roma ogni cinque anni, portano qui, in un certo senso, tutte le Chiese, cioè le diocesi che, tramite il loro ministero episcopale e nello stesso tempo tramite l’unione con la Sede di Pietro, si mantengono nella comunità cattolica della Chiesa universale. Insieme alla loro visita alla Sede apostolica i vescovi portano a Roma anche le notizie sulla vita delle Chiese di cui sono i pastori, sul progresso dell’opera di evangelizzazione, sulle gioie e le difficoltà degli uomini e dei popoli tra i quali essi compiono la loro missione».
I pellegrini hanno un doppio scopo: vedere il papa e andare a pregare nelle grandi chiese e basiliche, e soprattutto a San Pietro. Costruita con grandi spese, la più grande basilica della cristianità è testimone di un lungo impegno e di una rara perseveranza, in onore di Pietro e, insieme, dei suoi successori. La Basilica di San Pietro è infatti il duplice e medesimo simbolo della fede nella missione affidata da Cristo a Pietro e della venerazione di tutti i cristiani, pastori e fedeli, per il suo successore, il vescovo di Roma. Obbedienza e rispetto si coniugano in uno stesso omaggio al pescatore di Galilea e al papa di Roma, la cui funzione, radicata sulla tomba dell’apostolo, si irradia, come la gloria del Bernini, su tutta la cristianità.
I santi Roma è una calamita anche per i santi. Non solo i fondatori di ordini religiosi, ma anche i santi del popolo, i più popolari, come Benedetto Labre. Seminarista, certosino, poi trappista a Sept-Fons, venne a Roma verso il 1771 per pregare e vi rimase, vagabondo barbone e mendicante. Miracolo di Roma! Questa città, di cui san Bernardo aveva fustigato il lusso e la potenza con parole di fuoco e Gioacchino di Bellay aveva criticato la vanità cortigiana, capì senza esitazioni quello straccione pieno di parassiti, lo ammirò e lo amò nella sua povertà silenziosa e nella sua preghiera ieratica. Quando venne annunciata la sua morte, il 16 aprile 1783, tutta la città si riversò in Santa Maria ai Monti. Vennero tagliati i suoi stracci per farne reliquie. I suoi funerali, il giorno di Pasqua, furono un trionfo. La truppa che sorvegliava la chiesa venne spazzata via dalla folla.
Poi, nel XIX secolo, ci fu una spinta continua verso Roma di tutta la cristianità, a cominciare dalla Francia, dove il gallicanesimo si stava lentamente trasformando in ultramontanismo. La rivoluzione aveva perseguitato la Chiesa. Napoleone aveva umiliato il papa. Ma il padre umiliato, secondo la bella espressione di Claudel, divenne oggetto di una intensa venerazione. Davanti ai crolli successivi dei regimi più solidi, il papato e Roma sembravano ormai come la roccia salda sulla quale appoggiarsi nella tempesta. È nota l’avventura dei pellegrini della libertà con Lamennais. Tanti altri, meno famosi, giunsero pellegrini a Roma e vi attinsero, con un amore rinnovato della Chiesa, una convinzione profonda, la stessa del «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia Chiesa».
Come, anche se ben diversi nella loro psicologia e nei loro orientamenti, ma uniti nelle stesse motivazioni, dom Guéranger, restauratore benedettino di Solesmes in Francia, e Lacordaire, che vi ristabilì i Frati Predicatori. Conosciamo il celebre ritratto di Théodore Chassériau che lo raffigura l’indomani della sua professione religiosa, il 12 aprile 1840, nel chiostro romano di Santa Sabina. O come anche Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld, i «due fari che la mano di Dio ha acceso alle soglie del secolo atomico», secondo l’intensa espressione di padre Congar.
Madeleine Delbrêl Più vicina a noi, Madeleine Delbrêl, convertita dall’ateismo e testimone dell’amore di Dio nel cuore della città di Ivry, pagana e marxista, un giorno del maggio 1952 sente il bisogno imperioso di venire a Roma a pregare sulla tomba di san Pietro. Le si obietta che la cosa costa un po’ di più di un’ora di preghiera. E lei dichiara al suo gruppo scettico che ci andrà, se il prezzo del viaggio le fosse arrivato in maniera inattesa…, cosa che avviene, sotto forma di un biglietto vincente della lotteria nazionale offertole da un’amica latinoamericana! A prezzo di due giorni e due notti di treno, trascorre la sua giornata di dodici ore in preghiera a San Pietro: «Davanti all’altare papale e sulla tomba di san Pietro, ho pregato col cuore perduto… e soprattutto per perdere il cuore. Non ho riflettuto né chiesto “lumi”, non ero là per quello. Eppure tante cose mi si sono imposte e restano in me. Innanzitutto: Gesù ha detto a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Lui doveva diventare una pietra e la Chiesa doveva essere costruita. Gesù che ha parlato tanto della potenza dello Spirito, della sua vitalità, quando ha parlato della Chiesa ha detto che l’avrebbe costruita su quell’uomo che sarebbe diventato come una pietra. È Cristo che ha pensato che la Chiesa non sia solo qualcosa di vivente, ma qualcosa di costruito. Secondo: ho scoperto i vescovi… Ho scoperto durante il mio viaggio, e a Roma, l’immensa importanza dei vescovi nella fede e nella vita della Chiesa. “Vi renderò pescatori di uomini”. Mi è sembrato che di fronte a quella che chiamiamo autorità noi agiamo a volte come dei feticisti, a volte come dei liberali. Noi siamo sotto il regime delle autorizzazioni, non dell’autorità. Quando si parla dell’obbedienza dei santi non si capisce, credo, quanto essa sia vicina, nel corpo della Chiesa, a quella lotta interna degli organismi viventi, nei quali l’unità si realizza attraverso delle attività, delle opposizioni. Infine ho anche pensato che, se Giovanni era “il discepolo che Gesù amava”, è a Pietro che Gesù ha chiesto: “Tu mi ami?”, ed è stato dopo le sue affermazioni d’amore che gli ha affidato il gregge. Ha detto anche tutto ciò che c’era da amare: “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.
Mi è stato evidente quanto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse conosciuta dagli uomini, da tutti gli uomini, come uno che li ama. Pietro: una pietra a cui si chiede di amare. Ho capito quanto amore bisognerebbe far passare in tutti i segni della Chiesa»5.
Conclusione Concludo. Roma è al centro del mondo? La risposta è scontata per il pellegrino in visita a Roma, da dovunque venga: non si sente forse a casa in questa città universale?
E poi lo splendere del suo sole, la purezza del suo cielo, il fulgore delle sue opere d’arte, il fascino dei suoi quartieri, il tratto pittoresco dei suoi abitanti, un non so che vi attira e commuove, vi trattiene dal partire e vi spinge a tornare. Ci sono delle città che si visitano, dei tesori che si contemplano, dei posti che bisogna aver visto. Roma non si guarda dall’esterno, ma si penetra dall’interno. Non ci si stanca di tornare in piazza San Pietro, di andare a pregare nella sua cripta, di scendere alle catacombe, di andare al Colosseo, di risalire ai Santi Quattro Coronati, di riscendere verso San Clemente, di fermarsi ancora alla Maddalena, di tornare a Santa Sabina. Sempre e dovunque ci sono dei pellegrini e dei romani che conversano o pregano, gli uni e gli altri davvero a casa, a casa del buon Dio, come si diceva ad Angers quando ero piccolo. Alcuni sono più sensibili allo scintillio dei mosaici, altri allo splendore dei marmi, altri alla luce folgorante di Caravaggio. Tutti sono emozionati dal candore degli affreschi primitivi, dove un’inezia di materia diventa messaggera dello Spirito che la anima, e di quell’acqua viva che mormora in noi, dopo sant’Ignazio, da Roma: vieni dal Padre.
Da Pietro e Paolo a Giovanni Paolo II, il genio della Roma cristiana ha assunto l’eredità della Roma pagana. I templi convertiti in chiese, con le colonne che diventano supporto nuovo, e Santa Maria eretta sopra il tempio di Minerva. Ben lungi dall’essere come squassato da tanto splendore, il pellegrino qui scopre il messaggio di Pietro inscritto nelle pietre delle basiliche e incarnato nei santi. Ognuno si trova al suo posto in seno al popolo di Dio, non cacciato al margine in qualche stretta cappella o respinto in qualche oscura cripta, ma proprio al suo posto, in piena luce, nella navata grande, davanti alla confessione dell’Apostolo, il cui sangue versato attesta la salvezza che Cristo ha portato a tutti gli uomini. Segnato dall’impronta di Roma, il cristiano si ritrova cattolico.
Con il peso della storia, la Roma dei papi e dei santi ci ricorda che le cose spirituali sono anche carnali e che il Vangelo si inscrive nel cuore della città degli uomini per avviarli dal tempo all’eternità, alla Città di Dio.
Quindi, alla domanda se Roma è al centro del mondo, rispondo senza esitazione: sì, per condurlo a Dio.

Note
1 Paul Poupard, La charité de Lacordaire, homme d’Eglise, in La Vie Spirituelle, nov. 1961, pp. 530-543, poi in XIX siècle, siècle de grâces, Ed. S. O. S., Paris 1982, pp. 111-128.
2 Paul Poupard, Rome-Pèlerinage, nuova edizione in occasione dell’Anno Santo, D. D. B., Paris 1983.
3 Journal romain de l’abbé Louis Bautain (1838), curato da Paul Poupard, Edizioni di storia e letteratura, (Quaderni di cultura francese a cura della fondazione Primoli) Roma 1964, pp. 6-7.
4 Cfr. Paul Poupard, Le Concile Vatican II, Paris 1983, pp. 105-112.
5 Madeleine Delbrêl, Nous autres, gens des rues, presentazione di Jacques Loew, Paris 1966, pp. 138-139.

COSÌ PAPA PIO XII NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI E MARTIRI PIETRO E PAOLO DEL 1941

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NELLA TEMPESTA, LA TENEREZZA DEL SIGNORE PER I SUOI FANCIULLI – COSÌ PAPA PIO XII NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI E MARTIRI PIETRO E PAOLO DEL 1941

«Il Padre celeste continua e continuerà a guidare i loro passi di fanciulli con fermezza e tenerezza, solo che si lascino condurre da Lui e confidino nella potenza e nella saggezza del suo amore per loro». Così papa Pio XII nella solennità dei santi apostoli e martiri Pietro e Paolo del 1941

In questa solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, il vostro devoto pensiero e affetto, diletti figli della Chiesa cattolica universa, si rivolge a Roma con la strofa trionfale: «O Roma felix, quae duorum Principum – es consecrata glorioso sanguine! / O Roma felice, che sei stata consacrata dal sangue glorioso di questi due Principi!». Ma la felicità di Roma, che è felicità di sangue e di fede, è pure la vostra; perché la fede di Roma, qui sigillata sulla destra e sulla sinistra sponda del Tevere col sangue dei Principi degli apostoli, è la fede che fu annunziata a voi, che si annunzia e si annunzierà nell’universo mondo. Voi esultate nel pensiero e nel saluto di Roma, perché sentite in voi il balzo della universale romanità della vostra fede.
Da diciannove secoli nel sangue glorioso del primo Vicario di Cristo e del Dottore delle Genti la Roma dei Cesari fu battezzata Roma di Cristo, a eterno segnale del principato indefettibile della sacra autorità e dell’infallibile magistero della fede della Chiesa; e in quel sangue si scrissero le prime pagine di una nuova magnifica storia delle sacre lotte e vittorie di Roma.
Vi siete voi mai domandati quali dovevano essere i sentimenti e i timori del piccolo gruppo di cristiani sparsi nella grande città pagana, allorché, dopo aver frettolosamente sepolti i corpi dei due grandi martiri, l’uno al piede del Vaticano e l’altro sulla via Ostiense, si raccolsero i più nelle loro stanzette di schiavi o di poveri artigiani, alcuni nelle loro ricche dimore, e si sentirono soli e quasi orfani in quella scomparsa dei due sommi apostoli? Era il furore della tempesta poco prima scatenata sulla Chiesa nascente dalla crudeltà di Nerone; davanti ai loro occhi si levava ancora l’orribile visione delle torce umane fumanti a notte nei giardini cesarei e dei corpi lacerati palpitanti nei circhi e nelle vie. Parve allora che l’implacabile crudeltà avesse trionfato, colpendo e abbattendo le due colonne, la cui sola presenza sosteneva la fede e il coraggio del piccolo gruppo di cristiani. In quel tramonto di sangue, come i loro cuori dovevano provare la stretta del dolore al trovarsi senza il conforto e la compagnia di quelle due voci potenti, abbandonati alla ferocia di un Nerone e al formidabile braccio della grandezza imperiale romana!
Ma contro il ferro e la forza materiale del tiranno e dei suoi ministri essi avevano ricevuto lo Spirito di forza e di amore, più gagliardo dei tormenti e della morte. E a Noi sembra di vedere, alla susseguente riunione, nel mezzo della comunità desolata, il vecchio Lino, colui che per primo era stato chiamato a sostituire Pietro scomparso, prendere fra le sue mani tremanti di emozione i fogli che conservavano preziosamente il testo della Lettera già inviata dall’apostolo ai fedeli dell’Asia Minore e rileggervi lentamente le frasi di benedizione, di fiducia e di conforto: «Benedetto Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, il quale secondo la sua grande misericordia ci ha rigenerati a una viva speranza, mediante la risurrezione di Gesù Cristo… Allora voi esulterete, se per un poco adesso vi conviene di essere afflitti con varie tentazioni… Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio… gettando in Lui ogni vostra sollecitudine, poiché Egli ha cura di voi… Il Dio di ogni grazia, il quale ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, con un po’ di patire vi perfezionerà, vi conforterà e vi renderà saldi. A Lui la gloria e l’impero per i secoli dei secoli!» (1Pt 1, 3.6; 5, 6-7.10-11).
Anche Noi, cari figli, che per un inscrutabile consiglio di Dio, abbiamo ricevuto, dopo Pietro, dopo Lino e cento altri santi pontefici, la missione di confermare e consolare i nostri fratelli in Gesù Cristo (cfr. Lc 22, 32), Noi, come voi, sentiamo il nostro cuore stringersi al pensiero del turbine di mali, di sofferenze e di angosce, che imperversa oggi sul mondo. […]

Davanti a un tale cumulo di mali, di cimenti di virtù, di prove di ogni sorta, pare che la mente e il giudizio umano si smarriscano e si confondano, e forse nel cuore di più d’uno tra voi è sorto il terribile pensiero di dubbio, che per avventura già, dinanzi alla morte dei due apostoli, tentò o turbò alcuni cristiani meno fermi: Come può Dio permettere tutto questo? Come è possibile che un Dio onnipotente, infinitamente saggio e infinitamente buono, permetta tanti mali a Lui così facili a impedire? E sale alle labbra la parola di Pietro, ancora imperfetto, all’annunzio della passione: «Non sia mai vero, o Signore» (Mt 16, 22). No, mio Dio – essi pensano –, né la vostra sapienza, né la vostra bontà, né il vostro stesso onore possono lasciare che a tal segno il male e la violenza dominino nel mondo, si prendano giuoco di Voi, e trionfino del vostro silenzio. Dov’è la vostra potenza e provvidenza? Dovremo dunque dubitare o del vostro divino governo o del vostro amore per noi?
«Tu non hai la sapienza di Dio, ma quella degli uomini» (Mt 16, 23), rispose Cristo a Pietro, come aveva fatto dire al popolo di Giuda dal profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8).
Tutti gli uomini sono quasi fanciulli dinanzi a Dio, tutti, anche i più profondi pensatori e i più sperimentati condottieri dei popoli.
Essi vorrebbero la giustizia immediata e si scandalizzano dinanzi alla potenza effimera dei nemici di Dio, alle sofferenze e alle umiliazioni dei buoni; ma il Padre celeste, che nel lume della sua eternità abbraccia, penetra e domina le vicende dei tempi, al pari della serena pace dei secoli senza fine, Dio, che è Trinità beata, piena di compassione per le debolezze, le ignoranze, le impazienze umane, ma che troppo ama gli uomini, perché le loro colpe valgano a stornarlo dalle vie della sua sapienza e del suo amore, continua e continuerà a far sorgere il suo sole sopra i buoni e i cattivi, a piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45), a guidare i loro passi di fanciulli con fermezza e tenerezza, solo che si lascino condurre da Lui e confidino nella potenza e nella saggezza del suo amore per loro.
Che significa confidare in Dio?
Aver fiducia in Dio significa abbandonarsi con tutta la forza della volontà sostenuta dalla grazia e dall’amore, nonostante tutti i dubbi suggeriti dalle contrarie apparenze, all’onnipotenza, alla sapienza, all’amore infinito di Dio. È credere che nulla in questo mondo sfugge alla sua Provvidenza, così nell’ordine universale, come nel particolare; che nulla di grande o di piccolo accade se non previsto, voluto o permesso, diretto sempre da Essa ai suoi alti fini, che in questo mondo sono sempre fini di amore per gli uomini. […]

Per la fede che si è illanguidita nei cuori umani, per l’edonismo che informa e affascina la vita, gli uomini sono portati a giudicare come mali, e mali assoluti, tutte le sventure fisiche di questa terra. Hanno dimenticato che il dolore sta all’albore della vita umana come via ai sorrisi della culla; hanno dimenticato che il più delle volte esso è una proiezione della Croce del Calvario sul sentiero della risurrezione; hanno dimenticato che la croce è spesso un dono di Dio, dono necessario per offrire alla divina giustizia anche la nostra parte di espiazione; hanno dimenticato che il solo vero male è la colpa che offende Dio; hanno dimenticato ciò che dice l’Apostolo: «I patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la futura gloria che si manifesterà in noi» (Rm 8, 18); che dobbiamo mirare all’autore e consumatore della fede, Gesù, il quale, propostosi il gaudio, sostenne la croce (cfr. Eb 12, 2).
A Cristo crocifisso sul Golgota, virtù e sapienza che converte a sé l’universo, guardarono nelle immense tribolazioni della diffusione del Vangelo, vivendo confitti alla croce con Cristo, i due Principi degli apostoli, morendo Pietro crocifisso, Paolo curvando il capo sotto il ferro del carnefice, quali campioni, maestri e testimoni che nella croce è conforto e salvezza e che nell’amore di Cristo non si vive senza dolore. A questa croce, fulgente di via, di verità e di vita, guardarono i protomartiri romani e i primi cristiani nell’ora del dolore e della persecuzione. Guardate anche voi, o diletti figli, così nelle vostre sofferenze; e troverete la forza non solo di accettarle con rassegnazione, ma di amarle, ma di gloriarvene, come le amarono e se ne gloriarono gli apostoli e i santi, nostri padri e fratelli maggiori, che pure furono plasmati della medesima vostra carne e vestiti della stessa vostra sensibilità. Guardate le vostre sofferenze e gli affanni vostri attraverso i dolori del Crocifisso, attraverso i dolori della Vergine, la più innocente delle creature e la più partecipe della divina Passione, e saprete comprendere che la conformità all’immagine del Figlio di Dio, Re dei dolori, è la più augusta e sicura via del cielo e del trionfo. Non guardate solo le spine, onde il dolore vi affligge e vi fa soffrire, ma ancora il merito che dal vostro soffrire fiorisce come rosa di celeste corona; e troverete allora con la grazia di Dio il coraggio e la fortezza di quell’eroismo cristiano, che è sacrificio e insieme vittoria e pace superante ogni senso; eroismo, che la vostra fede ha il diritto di esigere da voi.
«Finalmente [ripeteremo con le parole di san Pietro] siate tutti unanimi, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendendo male per male, né maledizione per maledizione, ma al contrario benedicendo…: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo: a cui è gloria e impero nei secoli dei secoli» (1Pt 3, 8-9; 4, 11).

BENEDETTO XVI: SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO (2010)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2010/documents/hf_ben-xvi_hom_20100629_pallio_it.html

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Martedì, 29 giugno 2010

Cari fratelli e sorelle!

I testi biblici di questa Liturgia eucaristica della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. E’ il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale.
Questa tematica attraversa tutta l’odierna Liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti. Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfr At 12,1-11). Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr 2 Tm 4, 6-8.17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Sal 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr Mt 16,18).
Osservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato “dalla bocca del leone”, lo libererà “da ogni male” aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli Apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – “le potenze degli inferi non prevarranno” sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella Lettera agli Efesini: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli “ultimi tempi”, identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – “non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti” (3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.
Il tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del Pallio, che oggi rinnoviamo per trentotto Arcivescovi Metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i Pastori della Chiesa e per le stesse Comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo. Il Pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al “giogo” di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfr Mt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è “dolce e leggero” e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.
Un’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della Comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: “Non praevalebunt – non prevarranno” (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’“Avvocato” difensore, e, dopo la sua Pasqua, “un altro Paraclito” (cfr Gv 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfr Gv 14,16; 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei Santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.
Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: Signori Cardinali, Fratelli nell’Episcopato, Signori Ambasciatori e Autorità civili, in particolare il Sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi Apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato. Amen.

LA FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO NELLA TRADIZIONE BIZANTINA…

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MERCOLEDÌ 27 GIUGNO 2012

LA FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO NELLA TRADIZIONE BIZANTINA

…essi sono le ali della conoscenza di Dio… le braccia della croce…

La festa degli apostoli Pietro e Paolo il giorno 29 giugno è celebrata in tutte le Chiese cristiane di Oriente e di Occidente, e in alcune delle tradizioni orientali come quella bizantina è preceduta da un periodo di digiuno (quaresima) con una durata variabile in quanto essa inizia il lunedì dopo la domenica di Tutti i Santi, che è quella successiva alla domenica di Pentecoste. Collegata ancora alla presente festa dei due apostoli troviamo nella tradizione bizantina il giorno seguente la celebrazione (sinassi) dei Dodici Apostoli, discepoli del Signore, testimoni della sua Risurrezione, predicatori del suo Vangelo nel mondo intero. L’iconografia di Pietro e Paolo ci tramanda l’abbraccio fraterno tra i due apostoli; oppure l’icona di Pietro e Paolo che sorreggono l’edificio della Chiesa. Inoltre i tratti iconografici dell’uno e dell’altro sono quelli che troviamo già nella tradizione iconografica e musiva più antica di Oriente e di Occidente, tramandata fino a noi: Pietro con cappelli ricci, fronte bassa e barba corta arrotondata; Paolo invece, fronte alta, calvo e barba lunga e liscia. Questa fedeltà iconografica nei tratti del volto di ambedue ci permette di riconoscere la presenza di Pietro e di Paolo nell’icona della Pentecoste, nell’icona della Dormizione della Madre di Dio ed anche nell’icona della comunione degli Apostoli dove Cristo da una parte dell’icona dà il suo Corpo a Pietro e ad altri cinque apostoli, e dall’altra parte dell’icona Cristo che porge il calice con il suo Sangue a Paolo e ad altri cinque apostoli. Queste icone hanno una chiara simbologia ecclesiologica e sacramentaria e, quindi, vogliono sottolineare il ruolo centrale dei due apostoli nella vita della Chiesa. L’ufficiatura vespertina del 29 giugno nei tropari celebra e loda ambedue gli apostoli insieme. Essi vengono inneggiati come “primi tra i divini araldi”, “bocche della spada dello Spirito”. I testi liturgici sottolineano chiaramente che Pietro e Paolo sono gli strumenti dell’opera di salvezza che Cristo stesso porta a termine: “Essi sono le ali della conoscenza di Dio che hanno percorso a volo i confini della terra e si sono innal­za­te sino al cielo; sono le mani del vangelo della gra­zia, i piedi della verità dell’annuncio, i fiumi della sapien­za, le braccia della croce…”. Per tutti e due gli apostoli, il martirio è la meta per raggiungere Cristo stesso: “L’uno, inchiodato sulla croce, ha fatto il suo viaggio verso il cielo, dove gli sono state affidate da Cristo le chiavi del regno; l’altro, decapitato dalla spada, se ne è andato al Salvatore”. Pietro viene invocato anche come “sincero amico di Cristo Dio nostro”, e Paolo come “araldo della fede e maestro della terra”. L’innografia bizantina, come d’altronde anche quella di tradizione latina per la festa dei due santi apostoli, collega Pietro e Paolo alla città di Roma dove cui resero la testimonianza fino al martirio: “stupendi ornamenti di Roma…”, “per loro anche Roma si rallegra in coro…”; “o Pietro, pietra della fede, Paolo, vanto di tutta la terra, venite insie­me da Roma per confermarci”. I tropari del cànone del mattutino invece, attribuito a Giovanni monaco, alternano lungo le nove odi dei testi e dell’uno e dell’altro dei due apostoli inneggiati separatamente. Pietro viene celebrato come “protos” il primo nel suo ruolo nella Chiesa: “primo chiamato da Cristo”, “capo della Chiesa e grande vescovo”. Pietro è anche teologo in quanto ha confessato Gesù come Cristo: “Sulla pietra della tua teologia, il Sovrano Gesù ha fissato salda la Chiesa”. Pietro, pescatore, viene paragonato al mercante in ricerca di perle preziose: “Lasciato, o Pietro, ciò che non è, hai raggiunto ciò che è, come il mercante: e hai realmente pescato la perla preziosissima, il Cristo”. La Pasqua di Cristo diventa per Pietro da una parte la manifestazione del Risorto e dall’altra il risanamento dalla sua triplice negazione: “A te che eri stato chiamato per primo e che inten­samente lo amavi, a te come insigne capo degli apostoli, Cristo si manifesta per primo, dopo la risurrezione dal sepol­cro… Per cancellare il triplice rinnegamento il Sovrano rinsalda l’amore con la triplice domanda dalla sua voce divina”. Paolo invece, sempre nel cànone dell’ufficiatura mattutina, viene presentato nel suo ruolo di predicatore e maestro, chiamato a portare davanti alle genti il nome di Cristo: “tu hai posto come fondamento per le anime dei fedeli una pietra preziosa, angolare, il Salvatore e Signore”. Per Paolo, il suo essere portato fino al terzo cielo significa il dono della professione di fede trinitaria: “Levato in alto nell’estasi, hai raggiunto il terzo cielo, o felicissimo, e, udite ineffabili parole, acclami: Gloria al Padre altissimo e al Figlio sua irradia­zio­ne, con lui assiso in trono, e allo Spirito che scruta le profondità di Dio”. Paolo ancora svolge verso la Chiesa il ruolo del paraninfo che la presenta come sposa allo sposo che è Cristo: “Tu hai fidanzato la Chiesa per presentarla come sposa al Cristo sposo: sei stato infatti il suo paraninfo, o Paolo teòforo; per questo, com’è suo dove­re, essa onora la tua memoria”. Il vespro prevede tre letture prese dalla prima lettera cattolica di Pietro (1Pt 1,3-9; 1,13-19; 2,11-24). Per quanto riguarda le altre letture bibliche, l’ufficiatura del mattutino riporta la pericope evangelica di Gv 21,14-25, mentre nella Divina Liturgia si leggono 2Cor 11,21-12,9, e Mt 16,13-19. La tradizione bizantina chiama Pietro e Paolo “i primi corifei” (coloro che occupano il primo posto, la dignità più alta) e anche “i primi nella dignità” (protòthroni). Questo loro primo posto e dignità continua nella Chiesa nel loro “intercedere presso il Sovrano dell’universo perché doni alla terra la pace, e alle anime nostre la grande misericordia”.

P. Manuel Nin rettore Pontificio Collegio Greco

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – MERCOLEDÌ, 29 GIUGNO 1994 – OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1994/documents/hf_jp-ii_hom_19940629_conferimento-pallio_it.html

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PER L’IMPOSIZIONE  DEL PALLIO A 20 ARCIVESCOVI METROPOLITI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – MERCOLEDÌ, 29 GIUGNO 1994

1. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16) parole di Pietro. “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 5) parole di Gesù a Saulo.

Queste due frasi offrono una chiave interpretativa dell’odierna solennità. La prima fu pronunciata nei pressi di Cesarea di Filippo da Simone, figlio di Giona, il futuro apostolo Pietro. La professione di fede nella sua divina figliolanza divenne la pietra sulla quale Cristo edificò la sua Chiesa. Proprio per questo Simone, fin dal suo primo incontro col Maestro, fu da Lui chiamato “Pietro”: “ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1, 42), cioè Roccia, Pietra. Nei pressi di Cesarea di Filippo, dopo la confessione di fede, Gesù ripete la stessa cosa: “Tu sei Pietro (cioè Pietra) e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18). “Beato te, perché né la carne né il sangue ti hanno rivelato la mia divinità, ma il Padre mio che sta nei cieli” (cf. Mt 16, 17). Soltanto Dio poteva rivelare il Cristo, perché solo il Padre conosce il Figlio (cf. Mt 11, 27). Confessando la divinità di Cristo, Pietro partecipa all’eterna conoscenza che il Padre celeste ha del Figlio suo. In tale partecipazione sta l’essenza della fede: la fede di Pietro e la fede della Chiesa. La Chiesa si edifica costantemente su questa fede, come su una pietra.
2. Anche la fede di Paolo proviene da Cristo. Saulo di Tarso, discepolo del grande Gamaliele, fariseo, non aveva conosciuto Cristo durante la sua vita terrena, ma aveva su di Lui le stesse opinioni dei membri del Sinedrio, che lo avevano condannato a morte e consegnato nelle mani di Pilato: per loro Gesù di Nazaret era un ingannatore. Saulo pensava allo stesso modo e perseguitava i discepoli e i confessori di Gesù di Nazaret con grande convinzione.
Gamaliele, per parte sua, era favorevole ad una posizione moderata: era stato, infatti, uno di coloro che avrebbero voluto impedire la condanna a morte di Gesù. S’era pronunciato anche in difesa degli Apostoli, e in particolare di Pietro, per evitare la loro condanna. Era stato lui a dire ai membri del Sinedrio: “Se . . . questa dottrina o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!” (At 5, 38-39).
Ma Saulo non condivideva su questo la posizione del suo maestro Gamaliele. Non ammetteva che fosse d’origine divina la dottrina predicata dagli Apostoli di Cristo. Fariseo, “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3, 6), egli era deciso a perseguitare i cristiani, a gettarli in prigione e a punirli perfino con la morte, come nel caso di Stefano, il primo diacono martire, alla cui lapidazione era stato presente (cf. At 7, 58).
Per lo stesso scopo, Paolo era partito da Gerusalemme per Damasco, sapendo che anche in quella città la dottrina degli Apostoli aveva dei seguaci. Ed ecco, ormai presso le mura della città, abbagliato da una grande luce, cadde da cavallo, e in quel bagliore che lo accecava udì le parole: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9, 4). Egli, che non vedeva nulla, domandò: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 5). Saulo perseguitava Gesù nei suoi discepoli: era persecutore della Chiesa nascente. Gli fu rivelato che, facendo così, perseguitava Gesù stesso e che non era leggenda né invenzione la risurrezione del Signore dopo la sua crocifissione e sepoltura. Il Risorto in persona gli apparve sulla strada di Damasco, gli parlò, vivo e presente, ordinandogli: “Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare” (At 9, 6). E davvero, a Damasco fu comunicato a Saulo ciò che doveva fare. Ricevette il battesimo nel nome di Gesù Cristo, che lo chiamò “uno strumento eletto”: Colui che aveva chiamato Simone “Pietra”, chiamò Paolo “strumento eletto” per portare il suo nome dinanzi ai popoli e alle nazioni di tutta la terra (cf. At 9, 15).
3. Oggi carissimi riflettiamo sul cammino percorso da entrambi gli Apostoli, un cammino terminato proprio qui, a Roma. Fu un itinerario che condusse Pietro dapprima in prigione a Gerusalemme, dove fu gettato da Erode, e da dove il Signore lo strappò miracolosamente; quell’itinerario condusse poi Pietro attraverso Antiochia, fino a Roma, come leggiamo negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. Il cammino di Paolo invece fu diverso: si sviluppò lungo la rotta dei quattro memorabili viaggi apostolici. In precedenza egli si era preparato ad annunziare Cristo con un periodo di solitudine: prima nella città natale di Tarso, poi nel deserto arabo, prendendo quindi contatto con Pietro e altri Apostoli, per verificare se la sua comprensione del Vangelo era giusta (cf. Gal 2, 2). Questo fariseo, illuminato dallo Spirito sulle ricchezze del mistero di Cristo, giunse a conclusioni profonde e decisive, anzitutto circa la giustificazione. Non la sola obbedienza alla Legge, come prima riteneva, ma la fede in Cristo è fonte della giustificazione; e come prima era stato pronto a combattere per difendere ogni prescrizione pur minima dell’Antica Legge, così ora si opponeva a coloro che tentavano di imporne l’osservanza ai cristiani convertiti dal paganesimo. Per sostenere questo fondamentale principio egli non rifuggì dall’opporsi allo stesso Pietro, che si era mostrato troppo condiscendente nei riguardi dei giudaizzanti.
Il Vangelo di Cristo costituisce una novità assoluta. La Nuova Alleanza, pur essendo stata preparata nell’Antica e pur costituendo la diretta eredità di Abramo e di Mosè, è tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo. Dio, che aveva parlato nell’Antico Testamento per mezzo dei Patriarchi e dei Profeti, alla fine ha parlato per mezzo del Figlio ed ora il Verbo di Dio-Figlio è la fonte della verità salvifica (cf. Eb 1, 1-2). Così insegnava Paolo in tutti i suoi viaggi. Così insegnava visitando le sinagoghe dell’Asia Minore; così insegnava percorrendo le città greche; così in particolare parlò all’Areopago di Atene. Per questo fu perseguitato e flagellato dai suoi ex fratelli nella fede; per questo su di lui incombeva la pena di morte, quando tornò a Gerusalemme e si recò sulla soglia del tempio. Ma, dovunque, il Signore gli stava vicino infondendogli forza, affinché per suo mezzo si compisse l’annuncio del Vangelo e lo potessero ascoltare tutte le nazioni (cf. 2 Tm 4, 17).
4. Paolo, maestro delle nazioni, e Pietro, al quale il Signore affidò le chiavi del Regno dei cieli, si incontrarono finalmente a Roma. Cristo aveva legato i destini di questi due Apostoli, giunti a Lui per vie così diverse. Entrambi furono condotti da Cristo alla capitale dell’Impero, che diverrà il centro della sua Chiesa. Qui giunse per l’uno e per l’altro il giorno in cui il loro sangue doveva essere sparso in sacrificio. E così, da allora, Roma è rimasta la città della testimonianza definitiva degli Apostoli Pietro e Paolo, il luogo del loro martirio: una morte che – grazie a quella di Cristo – genera nuova vita.
Ogni anno, in questo giorno, la Chiesa diffusa su tutta la terra fa memoria di tali eventi. Sono qui convenuti venti Metropoliti di varie parti del mondo, per ricevere il pallio, segno dell’unione con la Sede di Pietro nella stessa fede della Chiesa. Nell’accoglierli con un abbraccio fraterno, saluto con affetto le Chiese ad essi affidate. È bene che questa solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo sia divenuta in tal modo espressione dell’universale unità della Chiesa, edificata sulla roccia della loro fede, confermata con la testimonianza suprema del sangue.
Tutti noi riceviamo oggi con gioia la Delegazione ortodossa guidata dal Metropolita di Helioupolis e Theira, Athanasios, che il Patriarca ecumenico, Sua Santità Bartolomeo I, ha fraternamente inviato a questa Chiesa di Roma per unirsi a noi nella celebrazione dei Santi Pietro e Paolo dopo averci guidato quest’anno nella Via Crucis al Colosseo con le sue meditazioni sul mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Nel rivolgere a ciascuno dei Delegati un cordiale saluto, esprimo l’auspicio d’incontrare personalmente il Patriarca ecumenico in questa stessa Basilica, per pregare insieme con lui il Signore affinché, per l’intercessione dei Santi Pietro e Paolo, ci conceda di raggiungere presto la piena comunione.
Con venerazione ricordiamo oggi anche l’Apostolo Andrea, fratello di san Pietro, la cui tradizione è singolarmente viva nella Chiesa di Costantinopoli. Andrea condusse Simone da Gesù. Fu lui a dirgli: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1, 41) e Pietro lo seguì. Proprio allora Cristo gli disse: “Ti chiamerai Cefa” (Gv 1, 42).
Cefa-Pietro è sempre disposto ad andare da Cristo seguendo suo fratello Andrea; è pronto ad andare da Cristo seguendo tutti i fratelli nel ministero apostolico. Il Signore gli ha manifestato che, se egli deve guidare e confermare gli altri, deve anche essere pronto ad ascoltarli.
5. Crediamo che oggi Cristo prega per Pietro in modo particolare, come gli aveva promesso nell’ora della prova suprema: prega per Pietro, perché non venga meno la sua fede (cf. Lc 22, 32). Questa festa, che accomuna gli apostoli Pietro e Paolo, serva a consolidare la fede della Chiesa. Serva a proclamare la gloria del Signore, il Cristo crocifisso e risorto. Poiché “Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché [ . . .] ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).

Amen!

CHI È PIETRO? 1. INTRODUZIONE GENERALE ALLA CONOSCENZA DEL PERSONAGGIO!

http://www.parrocchiadiformigine.it/gm/l_varie/chi_e_l_apostolo_pietro.pdf

CHI È PIETRO?

1. INTRODUZIONE GENERALE ALLA CONOSCENZA DEL PERSONAGGIO!

Pietro è un personaggio biblico del Nuovo Testamento, il cui nome originario era Simone, uno dei dodici Apostoli di Gesù Cristo, considerato primo Papa nella storia della Chiesa. Di questa persona importante si hanno abbondanti notizie biografiche nei Vangeli Sinottici, con i quali condividono la tradizione giovannea, negli Atti degli Apostoli e nella letteratura paolina. Pietro occupa, con certezza, uno spazio di primo piano nella Storia Sacra, riconosciuto e testimoniato da tutta la tradizione neo testamentaria, infatti, il suo nome compare sempre al primo posto negli elenchi degli Apostoli (cfr. Matteo 10,3; Marco 3,18; Luca 6,15; Atti degli Apostoli 1,13).
Pietro è definito il «discepolo storico» di Gesù, poiché testimone autorevole della sua risurrezione e, il garante dell’autenticità della tradizione cristiana. La figura dell’Apostolo acquista, poi, una notevole importanza nel corso degli eventi della Chiesa, fin dai primi secoli, per il ruolo primario della sede romana che a lui stesso si richiama. Originario di Betsaida con il fratello Andrea esercitava la professione di pescatore presso il lago di Galilea. Verosimilmente era sposato e, prima di seguire Gesù, incontrò il gruppo dei discepoli di Giovanni Battista. (Giovanni 1,40). Accompagnato da Gesù dal fratello Andrea, gli fu tramutato il nome in Pietro (tradotto dall’ebraico «Kefa» = pietra; cfr. Giovanni 1,42).   Il nome di Pietro, ricevuto da Gesù, era, verosimilmente, da porre in rapporto con un aspetto del suo carattere, prima di divenire simbolo di quel primato che Gesù Cristo stesso gli riconobbe all’interno del gruppo dei Dodici, costituendolo fondamento e caposaldo della Chiesa nascente (Matteo 16,13-20). Accolto l’invito di Gesù, Pietro pertanto si mise al suo seguito e, in occasione della prima pesca miracolosa, fu invitato da Gesù stesso ad abbandonare le reti per divenire un pescatore di uomini (Luca 5,11). Con Giacomo (il Maggiore) e Giovanni (l’Evangelista), fu incluso da Gesù nel gruppo più ristretto dei Dodici, osservatore della risurrezione della figlia di Giairo (cfr. Marco 5,37; Luca 8,51), della Trasfigurazione del Signore (Matteo 17,1; Marco 9,2; Luca 9,28.54) e della sua agonia al Getsemani (Matteo 26,36; Marco 14,33). Durante l’Ultima Cena, Gesù gli affidò il compito di confermare nella fede i suoi fratelli (Luca 22,32),
nonostante questo, in occasione della Passione di Cristo, Pietro rinnegò il suo Maestro. Pietro, pentito, pianse amaramente il suo tradimento (Matteo 26,69-75; Marco 14,66-72; Luca 22,55-62; Giovanni 18,17.25-27) e beneficiato della prima manifestazione del Cristo risorto (Luca 24,12; Giovanni 18,17.25-27), ebbe in consegna tutto il suo gregge (Giovanni 21, 15-17). Il ruolo e la figura di Pietro conservati e tramandati nei testi evangelici sono integrati nell’ambito della Chiesa delle origini, in particolare negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere dell’Apostolo delle Genti (San Paolo). Il ruolo dinamico e di guida di Pietro, all’interno del gruppo degli Apostoli appare esplicitamente fin dall’inizio, dopo la Pentecoste tenne il discorso programmatico, primo modello degli annunci missionari e, prese l’iniziativa di nominare il successore di Giuda Iscariota (Atti degli Apostoli 1,15-26). Ancora Pietro proclamò per la prima volta, pubblicamente, il messaggio della Risurrezione di Cristo a Israele (Atti 2,14-36) e anche fuori dalle mura di Gerusalemme (Atti 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43). Inoltre, Pietro operò miracoli prodigiosi (Atti 3,1-10; 5,1-11.15; 9,32-42); fu oggetto di attenzione divina e ricevette visioni (Atti 5,17-21; 10,9-48; 12,6-11). Pietro fu altresì il portavoce della comunità di Gerusalemme (Atti 8,14-25; 11,1-8) e, punto di mezzo all’interno della Chiesa gerosolimitana (Atti 15,7-11). 3 Infine, Pietro assunse un ruolo decisivo in occasione del Concilio di Gerusalemme (Atti 15) e nell’apertura missionaria ai pagani (Atti 11,17). A iniziare dal capitolo quindicesimo degli Atti degli Apostoli, sebbene la figura di Pietro scompaia per cedere il posto a Paolo, la sua autorità era, tuttavia, serenamente e unanimemente riconosciuta, come testimonia lo stesso Paolo, il quale nelle sue Lettere si avvale delnome di Cefa o Pietro (Galati 2,7.8) e, in nessun caso quello di Simone, pressoché a comprovare la stima e il riconoscimento di un incarico assegnato (a Pietro) esplicitamente da Gesù Cristo. L’autorità di Pietro era vitale in tutte le grandi città conquistate dalla fede cristiana; s’impose a Gerusalemme accanto a quella di Giacomo, ad Antiochia, a Corinto, dove vi era un gruppo che si richiamava direttamente a Pietro (1°Corinti 1,12; 3,22), infine a Roma dove secondo la tradizione asserita nel novantasei da Clemente, egli avrebbe subito il martirio nella persecuzione di Nerone, insieme a Paolo. La Chiesa Cattolica ne celebra la festa il ventinove giugno, insieme all’Apostolo delle Genti (San Paolo). La catechesi di Pietro, centrata sulla figura di Cristo, il figlio di Dio vivente (Matteo 16,16; Marco8,29; Luca 9,20), secondo la professione di fede dello stesso Apostolo, s’inserisce nell’alveo della predicazione primitiva cristiana e trova larga eco nel Vangelo di Marco. ’immediatezza dello stile dell’evangelista Marco fa presumere che egli abbia trascritto i discorsi di Pietro mentre l’Apostolo stesso parlava; altri discorsi attribuiti a Pietro, come abbiamo già rilevato, sono contenuti negli Atti degli Apostoli. A Pietro, inoltre, si attribuiscono la composizione di due Lettere del Nuovo Testamento, ritenute «canoniche» da tutta la tradizione cristiana che le annovera tra le cosiddette Lettere Cattoliche. Le due Lettere presentano però forti dissomiglianze tra loro, sia a livello contenutistico, linguistico e stilistico. La Prima Lettera di Pietro, scritta in buon greco, si presenta come una composizione poco unitaria, anche se la lingua e il pensiero sono assolutamente coerenti. E’ scritta ai cristiani di origine pagana dell’Asia Minore da Pietro, Apostolo di Gesù Cristo (1,1) che egli considera nella loro qualifica di battezzati (1,3.12.23) e nella loro situazione di perseguitati. Anche se la questione è dibattuta, non sembrano esserci giustificazioni affidabili contro la tradizionale attribuzione della Lettera a Pietro, il quale l’avrebbe dettata a un suo collaboratore che scriveva e pensava in greco, durante il suo soggiorno a Roma, poco prima della sua morte. Il genere letterario della Prima Lettera di Pietro è di una Lettera con «prescritto», «proemio», «saluti finali» e, «augurio», anche se qualche esegeta ha preferito identificarla come un’omelia, o come una liturgia battesimale. La struttura letteraria dell’epistola (che appare un intreccio di esortazioni morali), può essere articolata in tre parti, comprese tra un «prologo» (1,1-12), costituito da un «prescritto» (1,1-2), un «proemio» (1,3-12), un «epilogo» che contiene i saluti finali. La «prima parte» (1,3-2,10) è un’esortazione affettuosa alla santità e un invito insistente ad agire secondo la loro condizione di figli di Dio. La «seconda parte» (2,11-4,6) considera i doveri del cristiano, specialmente, di quelli imposti dalla situazione sociale e familiare di ciascuno. La «terza parte» contiene degli avvertimenti che riguardano la vita interna delle comunità, le tribolazioni del tempo presente e il giudizio futuro.
La Seconda Lettera di Pietro, tra le più brevi del Nuovo Testamento, è considerevolmente diversa dalla Prima Lettera e questo fatto, unito a quello della sua posticipata inclusione nel Canone del Nuovo Testamento, ha portato i biblisti a escludere la sua effettiva attribuzione a Pietro. La Lettera, scritta con uno stile altisonante, solenne, da uno scrittore che comprova di avere una buona cultura ellenistica, intende difendere l’ortodossia dei suoi destinatari giudeocristiani, con un’aspra polemica contro i maestri bugiardi, ingannatori (cfr. 2,1) e va collocata in ambiente apocalittico, con incognite scaturite da attese escatologiche deluse (cfr. 3). La struttura letteraria non è unitaria, anche se unico, originale, è il tema e il contenuto della Lettera, ossia, la difesa dell’escatologia. 4

2. Deduzioni utili … per l’approfondimento!
Pietro è il primo del gruppo dei Dodici, è stato posto dallo stesso Gesù Cristo come suo vicario nella Chiesa, fino al compimento ultimo. Nel Nuovo Testamento sono molti i dati che riferiscono di Pietro, dalla sua chiamata a seguire il maestro (Giovanni 1,35-42) al cambiamento di nome da Simone a quello di Pietroroccia. Leggendo la Sacra Scrittura, possiamo scorgere una sorta di trasformazione radicale di quest’uomo, in altre parole, provenendo dal gruppo dei tre discepoli (favoriti) che seguono Gesù sul Monte Tabor (Matteo 17,1), diviene l’uomo che, a nome di tutti, professa la fede nella «messianicità» di Gesù Cristo (Marco 8,29). Pietro è indicato, nella prima professione di fede, come il primo al quale Gesù risorto appare (1°Corinti 15), quindi, non ci sono nemmeno incertezze sul suo primato tra i Dodici all’indomani di Pasqua (Galati 1,18), anche se è Pietro stesso che si pone in ricerca della via di comunicazione migliore da inseguire perché il Vangelo sia annunciato a proprio a tutti (Atti degli Apostoli 10-15; Galati 2). Dallo stesso Gesù risorto, Pietro è chiamato a seguirlo, senza tentennamenti o richiesta di spiegazioni. Quest’ultimo aspetto è indicazione di un Amore che si abbandona totalmente al Signore e, che è in grado di amare, più degli altri, in forza della missione affidatagli (Giovanni 21,15-23). Dall’insieme dei dati neo-testamentari, Pietro è segnalato come una personalità forte, ma allo stesso tempo combattuta, capace di grandi slanci, ciò nondimeno di momenti paurosi. Pietro, è altresì in grado di riconoscere il proprio peccato, ciò nonostante è anche cosciente di essere posto da Gesù stesso a guida della prima comunità dei cristiani. Poiché deve «confermare nella fede» i fratelli (Luca 22,31), la sua funzione importante (missione) è estesa, tramandata dai suoi subentranti (i pontefici), fino al ritorno del Signore!

3. Analisi
Come abbiamo già accennato, sono molte le citazioni bibliche che vedono come persona di primo piano la figura di Pietro, esaltata nella sua funzione importante di, roccia sicura, solida, costituita dal Cristo per la sua Chiesa! Ciò nonostante, Pietro è altresì un personaggio individuato nella sua fragilità di essere umano che, non pensa secondo l’Altissimo, ma, secondo gli esseri umani, come riporta il Vangelo di Matteo (16, 21-27). E’ davvero impossibile tracciare un profilo umano completo, quello del primo degli Apostoli in poco spazio, basti pensare alla semplice presenza del suo nome (tradotto dal greco «Pétros» per centocinquantaquattro volte, ventisette volte come «Simone», nove volte dall’aramaico in «kefa» = pietra). Forse è meglio iniziare da quella sorta di «alba della vocazione apostolica» che, ha come sfondo il Lago di Tiberiade, attraversato numerosissime volte in barca, in compagnia dell’assiduo fratello Andrea e, prendendo come spunto le stesse parole pronunciate da Gesù di Nazareth: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». A quelle parole di Gesù, gli stessi discepoli, abbandonate le reti, istantaneamente lo seguirono (cfr. Matteo 4,20). 5 Iniziava, in questo modo, il grande «giorno apostolico» che avrebbe sperimentato tanti eventi narrati dai Vangeli. Anche questa giornata, come qualunque altro giorno ha il suo «mezzogiorno», stavolta però a Cesarea di Filippo, a seguito della domanda del Signore: « … voi chi dite che io sia?». Pietro, senza alcun tentennamento, risponde prontamente: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Seguono a questo punto le parole di Gesù che, renderanno Simone il primo nella lista dei Dodici Apostoli: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa … (cfr. Matteo 16, 13-19)». Quindi, sono tre i segni di riconoscimento, applicati all’Apostolo. Il primo è quello della pietraroccia, evocata nel nome stesso Pietro – Kefa e, segno di stabilità e sicurezza. L’Apostolo rende riconoscibile, nella storia, la fondazione primaria e divina di Cristo, sulla quale si basa la comunità cristiana. Il secondo segno di riconoscimento è rappresentato dalle «chiavi» che, sono l’emblema di autorità giuridica, ciò nondimeno, anche d’insegnamento. Il terzo è raffigurato, invece, dall’immagine di «legare» e, di «sciogliere», ovverosia quella di «rimettere i peccati», nel nome del Signore ma anche l’ammonire, l’esortare, il formare nella fede, i fratelli. La stessa esistenza di Pietro, tuttavia, conosce sbandamenti pericolosi. Basti riflettere un istante sul tempo della crisi personale, dell’oscurità culminata nel tradimento, chi non ricorda il rinnegamento perpetuato per ben tre volte, nel cortile del palazzo del sommo sacerdote, proprio mentre Gesù era processato. Oggi, questo comportamento si chiamerebbe facilmente «voltafaccia». « … Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». Ma egli negò di nuovo, giurando: «Non conosco quell’uomo!». Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!. Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse  amaramente … (Matteo 26, 69-75)». Dall’abisso oscuro di quella notte, tuttavia Pietro si alzerà nuovamente, non soltanto con le lacrime del suo pentimento sincero, ma anche con la triplice dichiarazione d’amore, pronunciata innanzi al Cristo risorto, proprio sul litorale di quello stesso lago dove incontrato Gesù per la prima volta: «Signore, tu sai che io ti amo». Ed è così che egli riceve di nuovo, stavolta in forma ufficiale, il compito di pascere gli agnelli del gregge della Chiesa che nasce (cfr. Giovanni 21, 15-19). Gesù Cristo, in questa stessa circostanza, farà intravedere a Pietro anche il suo destino ultimo terreno, vale a dire, quello del martirio con il quale egli avrebbe glorificato l’Altissimo. «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: Seguimi. (Giovanni 21,19)». A questo punto l’Apostolo annunzierà, al mondo
intero, la parola di quel Risorto che egli per primo aveva incontrato all’alba di Pasqua, come registrano sia Giovanni (20,1-10) che lo stesso Paolo (1° Corinzi 15,5). Sarà poi Pietro a intervenire, influentemente, negli avvenimenti importantissimi della Chiesa delle origini, a iniziare dalla Pentecoste, fino al Concilio di Gerusalemme, secondo la narrazione offerta dagli «Atti degli Apostoli» che ci riserva (unitamente alle due Lettere che recano il nome di Pietro) una vivace rappresentazione della sua azione apostolica. 6

4. La fede di Pietro
I dialoghi biblici che frequentemente intercorrono tra Pietro e il Signore sono sostanzialmente uno scambio di attestati messianici» tra Pietro e Gesù: in altre parole possiamo leggere dei discorsi di «Pietro su Gesù» e di «Gesù su Pietro».
Si riassume così, in Gesù e Pietro, la struttura biblica essenziale: un discorso di Dio sull’uomo e un discorso dell’essere vivente su Dio.  Il contenuto essenzialmente cristologico della fede di Pietro, eletto come portavoce degli altri apostoli nella risposta alla domanda di Gesù, ha una portata molto smisurata! Gesù non è solo il Cristo messia ma anche «il Figlio del Dio vivente». Ad esempio, la stessa puntualizzazione di Gesù: « … il Padre mio te l’ha rivelato … » è un’importante approvazione di quanto in quel momento Pietro comunichi sotto l’ispirazione dello Spirito. Pietro, è il modello di credente fedele che è tale per la rivelazione del Padre, per Grazia e, che mediante la fede conosce nella carne e nella storia «il Cristo, il Figlio dei Dio vivente». Per questa ragione Pietro è la pietra sulla quale Gesù Cristo edifica la sua chiesa, la prima pietra a essere collocata! Ugualmente tutti i fedeli, come dirà lo stesso Pietro (1°Pt 2,4), sono pietre viventi di quell’edificio spirituale che è la Chiesa di Cristo! La chiesa delle origini, concentrandosi nella lettura del Nuovo Testamento, ha riconosciuto a Pietro, su indicazione di Gesù (Beato te, Simone), la chiamata ad adempiere nella comunità tre compiti essenziali riassunti in tre espressioni figurate: la pietra, le chiavi, il legare e sciogliere. E’ importante riflettere su questi tre simboli e ad attribuire non soltanto a Pietro, bensì a tutta la
chiesa, per risaltare che non si tratta di concessioni esclusive soltanto di Pietro (anche se a lui competono alla radice), ma di prestazioni d’opera che un uomo esercita a beneficio di tutta la comunità! Ciò nonostante, se tutti i fedeli, ancor’oggi, non cooperano alla costruzione dell’edificio della fede, se ciascuno di noi non confessa la fede e non diviene pietra, non potrà mai veder realizzata la casa del Signore, la Gerusalemme celeste da edificare per tutte le genti. Questo «ministero» affidato a Pietro non raggiunge i suoi effetti in forma meccanica ogni volta che qualcuno siede sul trono di San Pietro, bensì, si basa su una profonda fede e su un amore fedele! Tutto questo deve essere sostenuto dalla preghiera di tutta la chiesa, perché Pietro ha, ancor’oggi, una funzione molto articolata e faticosa.
Rimanere fedeli credenti, è dunque una delle caratteristiche della vocazione cristiana, edificata sulla «roccia» della «fede di Pietro» e, sulla dedizione alla chiamata dei Signore, testimoniata e vissuta alla condotta di Pietro. Di fronte alle prove e cocenti delusioni, non può esistere altra via migliore che quella della preghiera comunitaria! L’essere riuniti nel nome di Cristo costituisce la prima e migliore confessione di fede che apre (alla rivelazione del Padre) oltre ogni veduta umana. «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro ai quali il nostro Dio e salvatore Gesù
Cristo, nella sua giustizia, ha dato il medesimo e prezioso dono della fede: grazia e pace siano concesse a voi in abbondanza mediante la conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro (2° Pietro 2,1)». 7

5. Riferimenti biblici
(È UNO SCHEMA, NON LO METTO)

6. Alcune tappe rilevanti della vita di Pietro e, le relative «attualizzazioni»
(ANCHE QUESTO LO SALTO, POTETE CERCARLO SUL SITO)

Da Albert Vanhoye SJ, Pietro e Paolo, 227-231. per la festa di San Pietro e Paolo

http://www.pasomv.it/ritiri_file/Page1088.htm

Da Albert Vanhoye SJ, Pietro e Paolo, 227-231.

«Ai nostri tempi è specialmente importante approfondire la spiritualità della croce, come la comprendeva s. Paolo: una spiritualità confortante, di cui abbiamo particolarmente bisogno in questi tempi di difficoltà. Viviamo in un mondo secolarizzato e scristianizzato, che si allontana dalla luce del vangelo e torna ai vizi dei pagani vigorosamente condannati, sia da s. Pietro (1Pt 4,3) sia da s. Paolo (Rm 1,21-32; 1Cor 6,9-10; Ef 4,17-19). L’apostolato viene ostacolato da questa atmosfera inquinata; mancano le vocazioni; le difficoltà si moltiplicano. Tutto questo tende a provocare depressione, a diminuire il nostro slancio. San Paolo ci insegna che, al contrario, ciò deve aumentare la nostra fiducia, la nostra sicurezza, anzi il nostro orgoglio cristiano, «il vanto», come egli dice. Si tratta però di una lezione che san Paolo ricevette lui stesso, e non senza resistenza, prima di insegnarla a noi; una lezione che non si aspettava. Lo vediamo bene in 2Cor 12,7-10. Fra le numerose confidenze che Paolo fece ai suoi cristiani sulla sua vita spirituale, questa è la più intima. L’Apostolo ci rivela come Gesù stesso abbia guidato la sua educazione in un periodo molto difficile, e su un punto particolarmente sensibile. […]. In 2Cor 12 Paolo, nei primi versetti, per mostrare che egli valeva più dei suoi rivali in apostolato ha riferito «visioni e rivelazioni del Signore». Poi in 2Cor 12,7, prosegue: «Perché non montassi in superbia per la sublimità delle rivelazioni, mi fu messa una scheggia nella carne: un inviato di satana, incaricato di schiaffeggiarmi, perché non montassi in superbia». Una situazione fortemente umiliante e deprimente per l’Apostolo. […] Una situazione molto contrariante, una situazione orribile, per un apostolo tanto ardente. Paolo, quindi, ricorse alla preghiera. Egli scrive: «A causa di questo, per tre volte ho pregato il Signore affinché l’allontanasse da me». Una preghiera insistente, perseverante, come la preghiera di Gesù nell’agonia. Per ben tre volte, Paolo si è rivolto al Signore Gesù e l’ha pregato di allontanare questo ostacolo. La risposta non è stata quella che aspettava e desiderava. Il Signore rispose, infatti: «Ti basta la mia grazia», il che significava che Paolo non sarebbe stato liberato da questa prova tanto penosa, che gli sembrava molto nociva per il suo apostolato. Il Signore aggiunse: «La potenza, infatti, si compie nella debolezza»: un paradosso, qui espresso da Gesù stesso. Nella frase il verbo greco tradotto «si compie» è lo stesso che troviamo sulle labbra di Gesù al Calvario: «È compiuto» (Gv 19,30), ultima parola di Gesù al momento della sua morte. La potenza arriva al suo compimento nella debolezza: questa è la spiritualità della croce. Poco dopo Paolo dirà che Cristo è stato crocifisso per debolezza: «Infatti Egli fu crocifisso per la sua debolezza» (13,4). La croce è l’esempio più manifesto di una vittoria che prende l’apparenza di una completa sconfitta: è difficile immaginare una sconfitta più vistosa della croce di Gesù; sembrava veramente che tutto fosse finito in senso negativo, perché Gesù moriva condannato, giustiziato, rigettato, la sua opera sembrava definitivamente rovinata. L’apparenza, però, era completamente menzognera, perché la croce è la vittoria su tutte le forze del male, ottenuta non per mezzo della repressione, ma per mezzo della sovrabbondanza dell’amore: «Non lasciarti vincere dal male», dice Paolo nella Lettera ai Romani, «ma vinci il male per mezzo del bene» (Rm 12,21). Questa sua esortazione si ispira alla vittoria della croce: vincere la morte e il male con la sovrabbondanza dell’amore. Non era possibile ottenere una vittoria così completa con altri mezzi, perché per vincere il male radicalmente occorre affrontare il male senza le armi del male».

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