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I COLLABORATORI DI SAN PAOLO

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I COLLABORATORI DI SAN PAOLO

In genere Paolo viene descritto come un predicare solitario, un missionario autonomo, un apostolo indipendente, dimenticando che egli è stato un grande uomo di relazioni, un apostolo capace di guadagnare, coinvolgere, ascoltare collaboratori sempre nuovi alla causa del Vangelo. Minimizzare il team missionario di Paolo, equivale a perdere una sfumatura preziosa del suo volto. È bene, quindi, far conoscenza di alcuni componenti di questo team.
Andronico e Giunia. Residenti a Roma e parenti dell’Apostolo, Andronico e Giunia sono probabilmente marito e moglie. Paolo sottolinea che entrambi sono diventati cristiani prima di lui e li chiama “apostoli insigni”. E significativo che una donna venga qualificata con tale titolo che ne fa una protagonista dell’evangelizzazione. Entrambi sono menzionati nei saluti della lettera ai Romani (16,7).
Apollo. Personalità dinamica, Apollo viene considerato un giudeo di Alessandria, formato alla scuola di Giovanni Battista. Esperto della Torah, con abilità oratorie non indifferenti, fu “catechizzato” a Efeso da Aquila e Priscilla e inviato a Corinto dove svolse una lunga missione, divenendo una figura autorevole. Spesso identificato con l’autore della lettera agli Ebrei, Apollo nella storia del primo cristianesimo, resta una figura dalle tinte sfuocate, un uomo di talento, capace di affascinare ma anche di creare tensioni nelle comunità in cui opera.
Aquila e Priscilla (o Prisca). Questa coppia di sposi riveste un ruolo di primo piano nell’apostolato di Paolo. Prezioso punto di riferimento per l’Apostolo, essi seguono da vicino non solo il delicato caso di Apollo, ma anche la non facile comunità di Efeso. Espulsi da Roma in seguito a un editto dell’imperatore Claudio, si rifugiano a Corinto dove prestano ospitalità e offrono lavoro a Paolo. In Rm 16,3-8 Paolo indirizza ai due sposi parole colme di riconoscenza: pur di salvargli la vita, essi non hanno esitato a mettere a rischio le loro teste. La chiesa li ricorda l’8 luglio.
Aristarco. Compagno di prigionia di Paolo (Col 4,10), Aristarco sembra essere originario della Macedonia, convertito a Tessalonica. Partecipa al terzo viaggio missionario in Macedonia, Grecia, Asia, Gerusalemme. È collaboratore di Paolo a Efeso dove, insieme a Gaio, subisce il linciaggio della folla durante la sommossa degli orefici (At 19,29; Fm 24). È al fianco dell’Apostolo nel viaggio da Gerusalemme a Roma (At 27,2).
La chiesa lo ricorda il 4 agosto.
Barnaba. Venerato fin dai primi secoli con il titolo di apostolo, è il primo maestro cristiano di Paolo: lo presenta al collegio apostolico, lo va a cercare a Tarso, lo avvia alla missione. Con lui condivide il primo viaggio missionario a Cipro, sua patria, in Licaonia e in Pisidia. Dopo il confronto con “le colonne” a Gerusalemme e, probabilmente in seguito all’incidente di Antiochia (Gal 2,11-14), si separa da Paolo (At 15,36-39), dedicandosi all’annuncio del Vangelo a Cipro dove, secondo la Tradizione, il suo corpo viene lapidato e bruciato. Una leggenda dell’VIII secolo lo presenta come fondatore della comunità cristiana di Roma e primo vescovo di Milano.
La chiesa lo ricorda l’11 giugno.
Dema. Citato nei saluti della lettera ai Colossesi e in quella a Filemone, Dema è stato a lungo un collaboratore fidato di Paolo. Un giorno però decide di lasciarlo (2Tm 4,10). Quali i motivi? Forse Dema ne ha abbastanza della povertà paolina o forse viene preso dal timore di un amaro destino prevedendo, non a torto, condanne e persecuzioni. Leggende successive ne fanno un uomo infido e intrigante, che finisce la sua vita come un apostata.
Epafra. Convertito di Colossi, fu ministro di questa comunità insieme a Paolo (Col 1,7-8) e suo compagno di prigionia a Efeso (Fm 23). Secondo alcuni, mentre Paolo operava a Efeso, sotto la sua guida, egli evangelizzò le comunità di Colossi, Gerapoli e Laodicea. Visitando Paolo prigioniero a Roma, lo avrebbe informato circa l’andamento delle comunità, spingendo l’Apostolo a scrivere la lettera ai Colossesi. La chiesa lo ricorda il 19 luglio.
Epafrodíto. Probabilmente originario di Filippi (Fil 2,25; 4,13), portò un aiuto economico all’Apostolo prigioniero a Roma. Qui si ammalò, forse a causa del lungo viaggio affrontato da Filippi a Roma. Nella lettera ai Filippesi viene citato come esempio di dedizione all’apostolato, compagno di lavoro e di lotta, modello di fedeltà al Vangelo fino a rasentare la morte (Fil 2,25-30).
Erasto. Convertito di Corinto, viene presentato da Paolo come il “tesoriere della città” (Rm 16,23). Raggiunge l’Apostolo a Efeso, e insieme a Timoteo viene inviato in Macedonia per preparare la missione di Paolo. Quando quest’ultimo sarà trasferito a Roma, Erasto rimane a Corinto (2Tm 4,20). Un’iscrizione trovata negli scavi archeologici della città riporta: “Erasto fece pavimentare questa strada a sue spese durante la sua nomina a responsabile dei lavori pubblici”. Si tratta della medesima persona? Difficile rispondere…
Fílemone. Collaboratore di Paolo e destinatario dell’omonima lettera, Filemone è un convertito di Colossi che mette la propria casa a disposizione della comunità. Marito di Appia, di condizione agiata, è proprietario di schiavi. Tra questi figura Onesimo, il “figlio” che Paolo ha generato in catene (Fm 10).

Giasone. Presentato come “mio parente” da Paolo, nel momento in cui viene redatta la lettera ai Romani, risiede a Corinto (Rm 16,21). Forse va identificato con l’uomo che, in precedenza, aveva accolto Paolo e Sila a Tessalonica, dando loro ospitalità e facendo della propria casa l’epicentro dell’evangelizzazione. Accusato di “favoreggiamento” dai giudei ostili a Paolo, fu trascinato davanti ai politarchi della città e obbligato a pagare una cauzione (At 17,1-9).
Giovanni Marco. Figlio di una delle prime donne cristiane, di nome Maria, che ospitava nella sua casa la piccola comunità degli inizi, Giovanni Marco viene identificato come l’autore del secondo Vangelo. È cugino di Barnaba (Col 4,10) ed è al fianco di Paolo e dello zio nel primo viaggio missionario. A un certo punto, però, forse per timore o per le fatiche legate al viaggio, decise di “rientrare alla base”. La cosa non piace a Paolo e la sua defezione sarà causa del contrasto tra questi e Barnaba in At 15,36-40. Dopo parecchi anni lo ritroviamo al fianco di Paolo, prima ad Efeso e poi nella prigionia romana (2Tm 4,11). La tradizione lo vede operante ad Alessandria fino al 62 d.C. e, successivamente, a Roma con Pietro, dalla cui viva testimonianza avrebbe attinto il contenuto del suo Vangelo. La chiesa lo ricorda il 25 aprile.
Lidia. È una donna benestante, appartenente al gruppo dei proseliti, menzionata nei soli Atti degli Apostoli. Una figura emblematica che, sfidando i costumi del tempo, svolge un lavoro “maschile” (il commercio della porpora) e “manda avanti la ditta”. Originaria di Tiatira, con molta probabilità, fu punto di riferimento della comunità cristiana di Filippi, che Paolo ricorderà sempre per la generosa ospitalità (Fil 1,5; 4,10).
La chiesa la ricorda il 20 maggio.
Luca. Inseparabile discepolo dell’Apostolo, Luca tra i quattro evangelisti è l’unico non ebreo, primizia dell’apertura della prima comunità al mondo pagano. Negli Atti partecipa da vicino ai viaggi missionari di Paolo: si imbarca con lui a Troade, durante il secondo viaggio missionario e resta con Paolo fino alla sua partenza da Filippi (16,10-40); è nuovamente al suo fianco alla fine del terzo viaggio missionario, lungo il cammino che dalla Macedonia conduce a Gerusalemme. Due anni più tardi si imbarcherà con lui affrontando il lungo e travagliato viaggio che da Cesarea porterà l’Apostolo a Roma. II discepolo viene identificato con il “caro medico” citato in Col 4,14; Fm 24; 2Tm 4,11. La chiesa lo ricorda il 18 ottobre.
Onesiforo. Discepolo originario dell’Asia, ha un importante ruolo nel momento in cui Paolo, a Efeso, viene fatto prigioniero (2Tm 1,16.18). Poco prima del martirio dell’Apostolo, è al suo fianco a Roma (2Tm 1,17). La letteratura apocrifa lo presenta come un amico di Tito, marito di una donna di nome Lectra. I due coniugi avrebbero messo generosamente la propria casa a disposizione della comunità, facendone una chiesa domestica. La chiesa lo ricorda il 6 settembre.
Onesimo. Convertitosi durante una delle esperienze di prigionia dell’Apostolo, Onesimo viene definito dall’Apostolo il “mio figlio generato nelle catene” (Fm 10). Schiavo di Filemone, era fuggito, in circostanze poco chiare, dal suo padrone. Paolo lo adotta come prezioso messaggero e invita Filemone al perdono. La tradizione identificherà Onesimo con uno dei primi vescovi di Efeso. Ignazio di Antiochia, dopo averlo incontrato, lo descrive come un uomo di “indicibile carità”. La chiesa lo ricorda il 15 febbraio.
Sila. Noto anche come Silvano (suo nome latino), è il grande compagno dell’Apostolo lungo il secondo viaggio missionario. Insieme a Paolo e Timoteo, Sila è il mittente di 1-2Ts, personalità di mediazione, scelta dalla stessa comunità madre di Gerusalemme per risanare le tensioni tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani. Con molta probabilità fu al fianco di Pietro durante l’attività di quest’ultimo nella capitale (1Pt 5,12).
Nel Martirologio Romano Sila viene ricordato il 13 luglio.
Stefana. È il primo convertito della chiesa di Corinto, battezzato dallo stesso Paolo insieme con la sua famiglia (ICor 1,16). Uomo di condizione agiata, mette la propria casa a disposizione della comunità (1Cor 16,15). Insieme ad Acaico e a Fortunato, visita Paolo, mentre questi si trova ad Efeso. L’Apostolo lo presenta come un esemplare collaboratore (1Cor 16,16-18).
Tichico. “Caro fratello, ministro fedele, mio compagno nel servizio del Signore”. Con questi termini Paolo presenta Tichico ai credenti di Colossi. Corriere per le Chiese dell’Asia, lavora al fianco di Onesimo. Con molta probabilità ha accompagnato Paolo da Efeso in Macedonia, poi a Gerusalemme e forse anche a Roma. Secondo Tt 3,12 fu con Paolo a Nicopoli da dove partì alla ricerca di Tito.
Timoteo. Di madre giudea e di padre greco, Timoteo fece parte del secondo e del terzo “team missionario”. Paolo lo sottopone alla circoncisione per evitargli spiacevoli inconvenienti da parte dei giudei nell’attività missionaria. È al suo fianco in momenti delicati e viene espressamente chiamato a Roma dall’Apostolo, durante la sua ultima prigionia. “Vero figlio nella fede” (1Tm 1,2), Paolo lo presenta ai cristiani di Filippi come il più caro dei discepoli (“non ho nessuno d’animo uguale al suo”: Fil 2,20). La 2Tm viene considerata come il testamento spirituale lasciato a questo discepolo prediletto che seguì Paolo “da vicino nell’insegnamento, nella condotta, nella fede, nella magnanimità, nell’amore del prossimo, nella pazienza, nelle persecuzioni, nelle sofferenze”. Secondo una tradizione tardiva. Timoteo mori martire a Efeso nel 97. La chiesa lo ricorda il 26 gennaio, insieme a Tito.
Tito. Accompagnatore di Paolo all’importante assemblea di Gerusalemme, è il rappresentante dei pagani convertiti (Gal 2,1). Durante il terzo viaggio missionario viene inviato a Corinto per risolvere la difficile crisi della comunità (2Cor 7,5-7), incarico che svolse con successo. Secondo l’omonima lettera, Paolo lo avrebbe lasciato a Creta per stabilire presbiteri sulle diverse comunità; avrebbe quindi dovuto raggiungere l’Apostolo a Nicopoli (Tt 3,12). Poco prima della morte di Paolo, Tito adempie il ministero in Dalmazia (2Tm 4,10). Un’antica tradizione riferisce che egli sarebbe morto a Creta in età molto avanzata. La chiesa lo ricorda il 26 gennaio, insieme a Timoteo.
Trofimo. Discepolo di origine pagana, è accanto a Paolo negli ultimi anni di apostolato. Ammalatosi a Mileto non poté seguirlo fino a Roma (2Tim 4,20). Trofimo fu la causa indiretta dell’arresto di Paolo: stando al racconto lucano, i giudei lo avevano visto in sua compagnia per la città e avevano pensato che l’Apostolo lo avesse introdotto nell’area dei tempio riservata agli israeliti.

Publié dans:San Paolo |on 8 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

8 LUGLIO: SANTI AQUILA E PRISCILLA SPOSI E MARTIRI, DISCEPOLI DI SAN PAOLO

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SANTI AQUILA E PRISCILLA SPOSI E MARTIRI, DISCEPOLI DI SAN PAOLO

8 luglio

I secolo

Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo – cristiani, molto cari all’apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Ponto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla (o Prisca).L’apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi, quando chiese di essere ospitato nella loro casa a Corinto. I due lo seguirono anche in Siria, fino ad Efeso. Qui istruirono nella catechesi cristiana Apollo, l’eloquente giudeo – alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla fecero in modo di battezzarlo prima che partisse per Corinto. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono citazioni bibliche. Alcuni identificano Priscilla con la vergine e martire romana Prisca e Aquila con qualcuno della gens Acilia, collegata con le Catacombe, perciò i due sarebbero martiri per decapitazione. (Avvenire)

Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Aquila e Prisca o Priscilla, coniugi, che, collaboratori di san Paolo, accoglievano in casa loro la Chiesa e per salvare l’Apostolo rischiarono la loro stessa vita.

Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all’apostolo s. Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è due volte chiamata.
Troviamo i due santi per la prima volta a Corinto, quando Paolo vi arrivò nel suo secondo viaggio apostolico l’anno 51: essi erano venuti da poco nella capitale dell’Acaia provenienti da Roma, loro abituale dimora, in seguito al decreto dell’imperatore Claudio, che ordinava l’espulsione da Roma di tutti i giudei, fossero essi cristiani, o meno. Aquila e Priscilla erano probabilmente cristiani prima del loro incontro con Paolo a Corinto, come sembra suggerire la familiarità che subito nacque tra di loro, benché il Sinassario Costantinopolitano li dica battezzati da Paolo. L’apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi e l’utilità che ne poteva trarre per la sua difficile missione a Corinto e chiese o accettò di essere loro ospite. Esercitando essi il medesimo mestiere di Paolo (fabbricanti di tende), diedero all’apostolo agio di poter lavorare e provvedersi il necessario alla vita senza essere di peso a nessuno. Quando poco dopo si dice che Paolo, lasciata la sinagoga, « entrò nella casa d’un tale Tizio Giusto, proselita », non è necessario pensare che abbia lasciato la casa di Aquila e Priscilla; I’apostolo, abbandonata la sinagoga per il rifiuto dei giudei a convertirsi, avrebbe scelto come luogo di predicazione e di culto la casa vicina ad essa, quella del proselita Tizio Giusto, mantenendo però come dimora abituale durante l’anno e mezzo che rimase a Corinto la casa di Aquila e Priscilla. È opportuno notare a questo riguardo che non si dice fungesse da « chiesa domestica » l’abitazione dei due a Corinto, come era invece il caso di quelle che essi avevano a Roma e a Efeso. Quando s. Paolo, terminata la sua missione a Corinto, volle fare ritorno in Siria, ebbe compagni di viaggio A. e P. fino ad Efeso, dove essi rimasero. L’oggetto del loro viaggio potrà essere stato commerciale, ma l’averlo fatto coincidere con quello di Paolo indica, oltre alla loro stima ed amore per lui, che essi non erano estranei alle sue preoccupazioni apostoliche. Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell’apostolo, nell’istruire « nella via del Signore », cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l’eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina c ristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi da apostolico zelo, si presero cura di completare la sua istruzione e probabilmente di battezzarlo prima che egli partisse per Corinto. Ad Efeso offrirono la loro casa a servizio della comunità per le adunanze cultuali (ecclesia domestica) e, secondo la lezione di alcuni codd. greci, seguiti dalla Volgata latina, s. Paolo sarebbe stato loro ospite anche ad Efeso, come già lo era stato a Corinto. Scrivendo infatti da Efeso (verso il 55) la prima lettera ai Corinti, dice: « Molti saluti nel Signore vi mandano Aquila e Priscilla, con quelli che nella loro casa si adunano, dei quali sono ospite ». Ma l’elogio più caldo di Aquila e Priscilla Io fa l’apostolo scrivendo da Corinto ai Romani nell’a. 58 (intanto i due coniugi per ragione del loro commercio si erano trasferiti a Roma). Nella lunga serie di venticinque persone salutate nel c. 16 della lettera ai Romani Aquila e Priscilla sono i primi: « Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvare a me la vita, essi hanno rischiato la testa; a loro non solo io rendo grazie, ma anche tutte le Chiese dei gentili. Salutate anche la comunità che si aduna in casa loro ». In queste parole si sente l’animo grato dell’apostolo per i suoi insigni benefattori, che con grave loro pericolo gli hanno salvato la vita, in un’occasione non meglio precisata: forse ad Efeso, durante il tumulto degli argentieri capeggiati da Demetrio. Grande lode è poi per i due santi sposi che tutte le Chiese dei gentili siano loro debitrici d i gratitudine; di tre delle principali – Corinto, Efeso, Roma – si è fatto cenno nei testi sopracitati. L’ultima menzione di Aquila e Priscilla l’abbiamo nell’ultima lettera di s. Paolo che, prigioniero di Cristo per la seconda volta a Roma, scrive al suo discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, incaricandolo di salutare Priscilla e Aquila, che di nuovo si erano recati ad Efeso. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull’Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria, e credendo altresì ravvisare nel nome di Aquila qualcuno della gens Acilia collegata con le dette Catacombe, li fanno martiri, anzi, prendendo occasione dal « cervices suas supposuerunt » di Rom. 16,4. determinano il genere di martirio: la decapitazione.

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – MERCOLEDÌ, 29 GIUGNO 1994 – OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1994/documents/hf_jp-ii_hom_19940629_conferimento-pallio_it.html

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PER L’IMPOSIZIONE  DEL PALLIO A 20 ARCIVESCOVI METROPOLITI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – MERCOLEDÌ, 29 GIUGNO 1994

1. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16) parole di Pietro. “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 5) parole di Gesù a Saulo.

Queste due frasi offrono una chiave interpretativa dell’odierna solennità. La prima fu pronunciata nei pressi di Cesarea di Filippo da Simone, figlio di Giona, il futuro apostolo Pietro. La professione di fede nella sua divina figliolanza divenne la pietra sulla quale Cristo edificò la sua Chiesa. Proprio per questo Simone, fin dal suo primo incontro col Maestro, fu da Lui chiamato “Pietro”: “ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1, 42), cioè Roccia, Pietra. Nei pressi di Cesarea di Filippo, dopo la confessione di fede, Gesù ripete la stessa cosa: “Tu sei Pietro (cioè Pietra) e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18). “Beato te, perché né la carne né il sangue ti hanno rivelato la mia divinità, ma il Padre mio che sta nei cieli” (cf. Mt 16, 17). Soltanto Dio poteva rivelare il Cristo, perché solo il Padre conosce il Figlio (cf. Mt 11, 27). Confessando la divinità di Cristo, Pietro partecipa all’eterna conoscenza che il Padre celeste ha del Figlio suo. In tale partecipazione sta l’essenza della fede: la fede di Pietro e la fede della Chiesa. La Chiesa si edifica costantemente su questa fede, come su una pietra.
2. Anche la fede di Paolo proviene da Cristo. Saulo di Tarso, discepolo del grande Gamaliele, fariseo, non aveva conosciuto Cristo durante la sua vita terrena, ma aveva su di Lui le stesse opinioni dei membri del Sinedrio, che lo avevano condannato a morte e consegnato nelle mani di Pilato: per loro Gesù di Nazaret era un ingannatore. Saulo pensava allo stesso modo e perseguitava i discepoli e i confessori di Gesù di Nazaret con grande convinzione.
Gamaliele, per parte sua, era favorevole ad una posizione moderata: era stato, infatti, uno di coloro che avrebbero voluto impedire la condanna a morte di Gesù. S’era pronunciato anche in difesa degli Apostoli, e in particolare di Pietro, per evitare la loro condanna. Era stato lui a dire ai membri del Sinedrio: “Se . . . questa dottrina o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!” (At 5, 38-39).
Ma Saulo non condivideva su questo la posizione del suo maestro Gamaliele. Non ammetteva che fosse d’origine divina la dottrina predicata dagli Apostoli di Cristo. Fariseo, “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3, 6), egli era deciso a perseguitare i cristiani, a gettarli in prigione e a punirli perfino con la morte, come nel caso di Stefano, il primo diacono martire, alla cui lapidazione era stato presente (cf. At 7, 58).
Per lo stesso scopo, Paolo era partito da Gerusalemme per Damasco, sapendo che anche in quella città la dottrina degli Apostoli aveva dei seguaci. Ed ecco, ormai presso le mura della città, abbagliato da una grande luce, cadde da cavallo, e in quel bagliore che lo accecava udì le parole: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9, 4). Egli, che non vedeva nulla, domandò: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 5). Saulo perseguitava Gesù nei suoi discepoli: era persecutore della Chiesa nascente. Gli fu rivelato che, facendo così, perseguitava Gesù stesso e che non era leggenda né invenzione la risurrezione del Signore dopo la sua crocifissione e sepoltura. Il Risorto in persona gli apparve sulla strada di Damasco, gli parlò, vivo e presente, ordinandogli: “Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare” (At 9, 6). E davvero, a Damasco fu comunicato a Saulo ciò che doveva fare. Ricevette il battesimo nel nome di Gesù Cristo, che lo chiamò “uno strumento eletto”: Colui che aveva chiamato Simone “Pietra”, chiamò Paolo “strumento eletto” per portare il suo nome dinanzi ai popoli e alle nazioni di tutta la terra (cf. At 9, 15).
3. Oggi carissimi riflettiamo sul cammino percorso da entrambi gli Apostoli, un cammino terminato proprio qui, a Roma. Fu un itinerario che condusse Pietro dapprima in prigione a Gerusalemme, dove fu gettato da Erode, e da dove il Signore lo strappò miracolosamente; quell’itinerario condusse poi Pietro attraverso Antiochia, fino a Roma, come leggiamo negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. Il cammino di Paolo invece fu diverso: si sviluppò lungo la rotta dei quattro memorabili viaggi apostolici. In precedenza egli si era preparato ad annunziare Cristo con un periodo di solitudine: prima nella città natale di Tarso, poi nel deserto arabo, prendendo quindi contatto con Pietro e altri Apostoli, per verificare se la sua comprensione del Vangelo era giusta (cf. Gal 2, 2). Questo fariseo, illuminato dallo Spirito sulle ricchezze del mistero di Cristo, giunse a conclusioni profonde e decisive, anzitutto circa la giustificazione. Non la sola obbedienza alla Legge, come prima riteneva, ma la fede in Cristo è fonte della giustificazione; e come prima era stato pronto a combattere per difendere ogni prescrizione pur minima dell’Antica Legge, così ora si opponeva a coloro che tentavano di imporne l’osservanza ai cristiani convertiti dal paganesimo. Per sostenere questo fondamentale principio egli non rifuggì dall’opporsi allo stesso Pietro, che si era mostrato troppo condiscendente nei riguardi dei giudaizzanti.
Il Vangelo di Cristo costituisce una novità assoluta. La Nuova Alleanza, pur essendo stata preparata nell’Antica e pur costituendo la diretta eredità di Abramo e di Mosè, è tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo. Dio, che aveva parlato nell’Antico Testamento per mezzo dei Patriarchi e dei Profeti, alla fine ha parlato per mezzo del Figlio ed ora il Verbo di Dio-Figlio è la fonte della verità salvifica (cf. Eb 1, 1-2). Così insegnava Paolo in tutti i suoi viaggi. Così insegnava visitando le sinagoghe dell’Asia Minore; così insegnava percorrendo le città greche; così in particolare parlò all’Areopago di Atene. Per questo fu perseguitato e flagellato dai suoi ex fratelli nella fede; per questo su di lui incombeva la pena di morte, quando tornò a Gerusalemme e si recò sulla soglia del tempio. Ma, dovunque, il Signore gli stava vicino infondendogli forza, affinché per suo mezzo si compisse l’annuncio del Vangelo e lo potessero ascoltare tutte le nazioni (cf. 2 Tm 4, 17).
4. Paolo, maestro delle nazioni, e Pietro, al quale il Signore affidò le chiavi del Regno dei cieli, si incontrarono finalmente a Roma. Cristo aveva legato i destini di questi due Apostoli, giunti a Lui per vie così diverse. Entrambi furono condotti da Cristo alla capitale dell’Impero, che diverrà il centro della sua Chiesa. Qui giunse per l’uno e per l’altro il giorno in cui il loro sangue doveva essere sparso in sacrificio. E così, da allora, Roma è rimasta la città della testimonianza definitiva degli Apostoli Pietro e Paolo, il luogo del loro martirio: una morte che – grazie a quella di Cristo – genera nuova vita.
Ogni anno, in questo giorno, la Chiesa diffusa su tutta la terra fa memoria di tali eventi. Sono qui convenuti venti Metropoliti di varie parti del mondo, per ricevere il pallio, segno dell’unione con la Sede di Pietro nella stessa fede della Chiesa. Nell’accoglierli con un abbraccio fraterno, saluto con affetto le Chiese ad essi affidate. È bene che questa solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo sia divenuta in tal modo espressione dell’universale unità della Chiesa, edificata sulla roccia della loro fede, confermata con la testimonianza suprema del sangue.
Tutti noi riceviamo oggi con gioia la Delegazione ortodossa guidata dal Metropolita di Helioupolis e Theira, Athanasios, che il Patriarca ecumenico, Sua Santità Bartolomeo I, ha fraternamente inviato a questa Chiesa di Roma per unirsi a noi nella celebrazione dei Santi Pietro e Paolo dopo averci guidato quest’anno nella Via Crucis al Colosseo con le sue meditazioni sul mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Nel rivolgere a ciascuno dei Delegati un cordiale saluto, esprimo l’auspicio d’incontrare personalmente il Patriarca ecumenico in questa stessa Basilica, per pregare insieme con lui il Signore affinché, per l’intercessione dei Santi Pietro e Paolo, ci conceda di raggiungere presto la piena comunione.
Con venerazione ricordiamo oggi anche l’Apostolo Andrea, fratello di san Pietro, la cui tradizione è singolarmente viva nella Chiesa di Costantinopoli. Andrea condusse Simone da Gesù. Fu lui a dirgli: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1, 41) e Pietro lo seguì. Proprio allora Cristo gli disse: “Ti chiamerai Cefa” (Gv 1, 42).
Cefa-Pietro è sempre disposto ad andare da Cristo seguendo suo fratello Andrea; è pronto ad andare da Cristo seguendo tutti i fratelli nel ministero apostolico. Il Signore gli ha manifestato che, se egli deve guidare e confermare gli altri, deve anche essere pronto ad ascoltarli.
5. Crediamo che oggi Cristo prega per Pietro in modo particolare, come gli aveva promesso nell’ora della prova suprema: prega per Pietro, perché non venga meno la sua fede (cf. Lc 22, 32). Questa festa, che accomuna gli apostoli Pietro e Paolo, serva a consolidare la fede della Chiesa. Serva a proclamare la gloria del Signore, il Cristo crocifisso e risorto. Poiché “Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché [ . . .] ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).

Amen!

PAOLO E I COLORI DELL’INFINITO

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PAOLO E I COLORI DELL’INFINITO

suor Maria Pia Giudici

Chi ha detto che l’icona è una finestra aperta sull’infinito sa bene quanto sia importante, oggi, cogliere il tralucere dell’infinito attraverso una narrazione che non è di parole, ma appunto d’icone. Perché la banalizzazione delle immagini, in una società dove il re denaro regola le leggi della vita subordinandole a quelle del supermercato, diventa anche spesso banalizzazione del sacro, del nostro stesso rapporto con Dio.
È dunque di grande importanza, in un anno dedicato a S. Paolo, comunicare quel che di folgorante è nella figura dell’apostolo delle genti, raccontando la sua stessa vita attraverso una serie d’icone in cui traluce l’infinito del Suo Amore per Dio e per quanti a Dio egli ha condotto.
 Il racconto si snoda dentro lo stile dell’iconografia, che è profondo, spirituale e pacato nello stesso tempo. Il pathos del martirio di Stefano (a cui Paolo assiste come ebreo persuaso della necessità di perseguitare i cristiani), la drammaticità dell’episodio-fulcro della vita di Paolo che è il suo venir disarcionato da cavallo mentre è colpito da quella Parola «Io sono Gesù che tu perseguiti»: tutto questo le icone raccontano, lasciando tralucere  la divina irruzione della “chiamata”. Essa fa, del persecutore Paolo, l’uomo nuovo, il “vaso d’elezione” colmo di Spirito Santo, colui che potrà dire di sé: «Il mio vivere è Cristo» ritmando i propri giorni dentro l’esperienza delle persecuzioni e di folle sempre più numerose da evangelizzare.
 Davvero Paolo «vien posto come luce per le genti» e Dio stesso si compiace di rivelargli il mistero del Figlio Unigenito che egli, è chiamato ad annunciare ai pagani. Nel discorso forte e luminoso dell’icona, diventa eloquente questo aspetto della vita di Paolo.
 Ebreo di nascita, raffinato cultore del Primo Testamento, non rinnega né la circoncisione né gli scritti di Mosè e dei Profeti, ma, quando è afferrato da Cristo Gesù, succede qualcosa che la luce, i colori, le forme dell’icona vengono esprimendo.
Un superamento (non una cancellazione!) è in atto. Come dice Andrè Choraqui, un grande pensatore ebreo dei nostri giorni: «In lui non c’è più né giudeo né greco, né uomo né donna, né libero né schiavo, né ricco né povero. Tutto, in lui, è “uno” per il miracolo dell’amore crocifisso di cui Gesù rappresenta la perfetta incarnazione»1.
Il susseguirsi delle icone scandisce un crescendo della vita di Paolo che diventa sempre più quella di un uomo capace di compiere prodigi (a Listra risana il paralitico) e di sopportare le sassate (pure a Listra viene colpito a sangue con pietre).

Anche l’itineranza apostolica  di Paolo viene narrata dalle icone. Samotracia, la Macedonia e perfino Atene, la più rappresentativa sede della raffinata cultura greca, divengono tappa del percorso di evangelizzazione.                

« Tralucere l’Infinito – Vita e Teologia dell’Apostolo Paolo »
Roma, Santuario del Divino Amore, 20-28 giugno 2009
Bovalino, 26 luglio – 2 agosto
Eremo di Montestella (Pazzano), 6-20 agosto
Caulonia, Chiesa S. Maria dei Minniti, 25-29 agosto

Un’esperienza d’arte e di fede
di suor Renata Bozzetto e suor Rossana Leone

Ringraziamenti

Dalla Calabria, una pastorale della bellezza
Il messaggio del Vescovo di Locri-Gerace

L’Icona e la gente di Calabria
tra storia e spiritualità
di Gianni Carteri
 L’Icona e il riflesso dorato del Sud
di Diego Andreatta
 L’Icona ‘dice’ la Parola
di Alessandra Trinca

PAOLO E I COLORI DELL’INFINITO

di suor Maria Pia Giudici

Traluce lo splendore di una vita permeata dall’amore di Cristo nella bellezza dell’icona che rivela un Paolo dove il lavoro è ancora a misura del suo essere uomo: un uomo dove l’evangelizzazione non cancella la comune fatica di chi si guadagna il pane con il proprio impegno lavorativo, e dove l’impegno artigianale non soffoca e avvilisce l’ardore dell’annunciare Cristo; anzi serve ad armonizzare le persone a misura dell’uomo vero, sano di mente e di cuore.
Nella casa Paolo spezza il pane eucaristico e quello che sostenta il corpo alimentando la fraternità.
A Troade Paolo risuscita un ragazzo, Eutico, rassicurando i parenti: «Non vi turbate, è ancora in vita».
L’invidia e la gelosia però sono in agguato contro l’operato di Paolo che, pure fra le lacrime, non cessa di esortare i neo-cristiani.
La vita gli è dura. I suoi avversari si presentano al governatore per accusarlo, ma un angelo, nottetempo, lo incoraggia a “non temere” esortandolo a «comparire davanti a Cesare».
L’apostolo delle genti affronta il mare e giunge a Roma, dove gli è concesso «di abitare per suo conto ma con i soldati di guardia».
Con l’icona che s’intitola «Ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» gli splendidi colori proclamano quel tralucere d’infinito che irradia dalla consapevolezza di Paolo che, come dice l’ultima icona rappresentante il volto dell’apostolo, è l’uomo pienamente «conquistato da Gesù Cristo».
Il susseguirsi delle icone ci offre poi altri coinvolgimenti che portano in profondità la nostra riflessione sulla vita di Paolo.
La relazionalità di Paolo, che è una cosa sola con l’urgenza del suo ardere comunicando fuoco d’amore, viene espressa nel presentare Lidia, la donna ospitale, Iunia e Andronico, Barnaba suo collaboratore, Timoteo suo figlio spirituale e continuatore del suo operare.
E infine, il racconto iconografico, ci offre alcuni fondamentali aspetti della personalità di Paolo: il buon soldato di Cristo che come il Maestro deve lottare contro il male, l’atleta che entra fino in fondo nelle regole del giocarsi la vita per Cristo, l’agricoltore che si affatica perché la terra del suo evangelizzare porti frutto, ed infine ancora due altri traguardi di forme e colori per esaltare Paolo figlio di Dio nella fede di Cristo Crocifisso – Risorto; Paolo, la cui vita è la Parola di Cristo vivo.
Infine è nel fuoco e nel vento di Pentecoste che lo Spirito Santo stesso si fa garante di una santità che è tralucere d’infinito anche per noi, oggi, in cammini di autenticità umana e cristiana, su sentieri di comunione e di pace.

Publié dans:arte sacra, San Paolo |on 28 juin, 2013 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO, MAESTRO DELLO SPIRITO TRA ORIENTE E OCCIDENTE – INTERVISTA AL CARDINALE TOMÁŠ ŠPIDLÍK

http://www.zenit.org/it/articles/san-paolo-maestro-dello-spirito-tra-oriente-e-occidente

SAN PAOLO, MAESTRO DELLO SPIRITO TRA ORIENTE E OCCIDENTE

INTERVISTA AL CARDINALE TOMÁŠ ŠPIDLÍK

22 Gennaio 2010

ROMA, venerdì, 22 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una intervista al cardinale Tomáš Špidlík, apparsa sul numero di gennaio di Paulus, dedicato al tema « Paolo l’orante » e contenente un dossier centrale sulla Lettera a Tito.

* * *
La vita di Tomáš Špidlík è come un profondo respiro con i due polmoni della Chiesa, Oriente e Occidente. Nato in Moravia nel 1919, il giovane gesuita si formò tra occupazione nazista e avanzata sovietica. Nel 1951 fu chiamato a Roma da Radio Vaticana, fornendo un prezioso aiuto per i Paesi d’oltre cortina. Per 45 anni insegnerà Teologia spirituale patristica e orientale in varie università divenendo, tra l’altro, il primo titolare della cattedra di Teologia Orientale fondata al Pontificio Istituto Orientale e membro onorario della Società di Studi Bizantini di Pietroburgo. Ma all’attività di ricerca e di sistematizzazione teologica, padre Špidlík afiancò sempre un intenso “esercizio pratico”: per ben 38 anni è stato direttore spirituale del Pontificio Collegio Nepomuceno. Nel marzo 1995 viene chiamato a predicare gli esercizi spirituali alla Curia vaticana e l’anno successivo papa Giovanni Paolo II lo incarica di ripensare la sua cappella privata Redemptoris Mater, insufflando la tradizione iconografica orientale nel cuore di Roma. Oggi Špidlík, creato cardinale nell’ottobre del 2003, vive e lavora presso il Centro di Studi e Ricerche Ezio Aletti per lo studio della tradizione dell’oriente cristiano in relazione ai problemi del mondo contemporaneo.
EMINENZA, ESISTONO MOLTE DEFINIZIONI DELLA PREGHIERA, MA IN CHE COSA CONSISTE, SECONDO L’APOSTOLO PAOLO?
«La preghiera cristiana è come il respiro della nostra umanità divinizzata, non se ne possono dare che definizioni approssimative, prese dall’esperienza umana. Se ne trovano numerose nella tradizione. Tre sono tuttavia divenute famose: la domanda a Dio dei beni convenienti, l’elevazione della mente a Dio e il colloquio con Dio. La prima è propria a tutte le religioni; san Paolo, però, vi aggiunge una nota: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26). L’elevazione della mente è la definizione presa dai filosofi greci. I cristiani vi dovevano necessariamente aggiungere che il Dio, al quale ci rivolgiamo, è un Padre personale con cui entriamo in un dialogo fiducioso. Paolo, che si rivolgeva ai cristiani convertiti dall’ambiente greco, doveva quindi insistere fortemente che, per chiamare Dio Padre, bisogna essere “in Gesù Cristo” (Rm 8,1) e vivere nello Spirito Santo. Il Paraclito è lo Spirito di filiazione per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15). Ne possiamo concludere che Paolo si sentiva obbligato a sottolineare fortemente questo fondamento teologico, trinitario della preghiera».
IL SUO “STILE ORANTE” È PIÙ VICINO ALLA TRADIZIONE ORIENTALE O A QUELLA OCCIDENTALE?
«La preghiera si fa nello Spirito, per mezzo del Figlio, al Padre. Questo principio paolino è fermamente mantenuto sia in Oriente che in Occidente. Si può forse indicare una sfumatura nell’espressione verbale. Gli orientali non temono di dire che lo Spirito è tanto unito a noi da far parte della nostra personalità. Professano la tricotomia antropologica, indicando tre parti della composizione umana: il corpo, l’anima, lo Spirito Santo. Gli occidentali hanno temuto che questo si potesse male interpretare come un panteismo, perciò preferiscono affermare che abbiamo nell’anima la “grazia” che è il “dono” dello Spirito, non la Persona stessa. Ma la differenza è veramente solo verbale. Il dono dello Spirito è la sua azione e dove Egli agisce è presente. D’altra parte, è vero che le preghiere allo Spirito degli orientali sono molto belle proprio perché sono così personali».
ALL’INIZIO DEL LIBRO DEGLI ATTI SI SPECIFICA CHE IL COMPITO DEGLI APOSTOLI SARÀ DUPLICE: «NOI, INVECE, CI DEDICHEREMO ALLA PREGHIERA E AL MINISTERO DELLA PAROLA» (AT 6,4). QUASI A DIRE CHE L’APOSTOLO NON PUÒ ESSERE TALE, SE NON È UOMO DI PREGHIERA…
«La scelta della propria vocazione deve essere molto seria e consapevole. Ma si considera da due punti di partenza diversi. Da parte nostra dobbiamo prima esistere, renderci conto delle nostre capacità e poi riflettere quale vocazione scegliere. Da parte di Dio, si agisce in modo inverso. L’uomo riceve prima la sua vocazione nel mondo e poi, per realizzarla, riceve l’esistenza. Paolo ne è sicuro. Si era convinto di essere stato chiamato a essere apostolo di Cristo già dal grembo della madre (cfr. Gal 1,13ss.) e non lo sapeva, perciò faceva il contrario. Ricevette però l’illuminazione da Cristo. È successo in modo straordinario sulla via in Damasco. Ma in seguito egli aspettava ulteriori illuminazioni nella preghiera assidua. Da queste illuminazioni ricevute nella preghiera si faceva guidare nei suoi viaggi. Si considera apostolo di Cristo, anche se non lo aveva conosciuto in modo visibile. Lo stesso atteggiamento vale per tutti i cristiani: pregando, ascoltando la voce di Dio, troveranno il loro giusto posto nel mondo».
ECCO ALLORA CHE PROPRIO PAOLO – L’UOMO DI AZIONE – PRESCRIVE PIÙ VOLTE DI PREGARE «INCESSANTEMENTE» (1TS 5,17; EF 6,18). MA COME VIVERE QUESTA “PREGHIERA PERENNE” NELLA QUOTIDIANITÀ?
«I monaci d’oriente si sono sempre sforzati di seguire questo precetto. Il solo problema era come giungervi. Emersero tre soluzioni. I messaliani (“preganti”), una tendenza carismatica della Siria, volevano veramente concentrarsi sulla sola preghiera e rifiutavano ogni opera profana, lasciando lavorare soltanto gli “imperfetti”. Gli acemeti (“coloro che non dormono”), i monaci di un monastero di Costantinopoli, cercavano di giungere alla preghiera perpetua avvicendandosi tra di loro. Così, una parte della comunità era sempre in chiesa, mentre altri lavoravano o riposavano, poi si scambiavano il turno. La terza soluzione generalmente accettata è quella data da Origene: “Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere necessarie e le opere alla preghiera”. È il famoso Ora et labora del monachesimo benedettino».
L’INVITO ALLA PREGHIERA INCESSANTE È ALL’ORIGINE DELLA VICENDA DEL PELLEGRINO RUSSO…
«Per pregare bene si esige naturalmente una buona disposizione interiore, in particolare il sentimento della presenza di Dio, al quale ci rivolgiamo e per cui lavoriamo. Dobbiamo rendercene conto almeno all’inizio di ogni opera buona. Ma i contemplativi hanno sempre desiderato che sia un sentimento stabile. Esercitandosi, si arriva dai singoli “atti” di preghiera allo “stato” di orazione. Come raggiungerlo? Un metodo semplice consiste nella ripetizione frequente di qualche breve invocazione. In Oriente si raccomandava soprattutto la “preghiera di Gesù” (o piuttosto “a Gesù”): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Serve a eliminare i pensieri malvagi, cioè a purificare il cuore e a rafforzare il sentimento del pénthos, cioè il ringraziamento per il perdono dei peccati e delle nostre debolezze. Questa giaculatoria va ripetuta in ogni momento libero. Ma il famoso Pellegrino russo propagò un metodo più conseguente. La preghiera è un pensiero rivolto a Dio unito a un simbolo esterno. Questo simbolo non è necessariamente una parola. Unire il pensiero alla respirazione e al battito del cuore ci assicura che possiamo sentire che la preghiera e la vita sono inseparabili».
PAOLO INSISTE SUL “RENDIMENTO DI GRAZIE” IN OGNI LETTERA, RINGRAZIANDO IL SIGNORE SOPRATTUTTO PER LA FEDE DI COLORO CHE HANNO ACCOLTO IL SUO ANNUNCIO. QUALE “SPAZIO” OCCUPA LA LODE NELL’ESPERIENZA DEL CRISTIANO?
«Il peccato capitale dei pagani, secondo Paolo, è “di non aver dato gloria né aver reso grazie” a Dio (cfr. Rm 1,26). In ogni orazione devono ritrovarsi quattro elementi: la domanda, la preghiera, la supplica, l’azione di grazie (cfr. 1Tm 2,1). Gli esegeti però sottolineano che la parola “grazie” non esiste in ebraico. Nella maniera semitica si ringrazia lodando e glorificando il donatore, benedicendolo. Perciò conosciamo, nelle liturgie orientali, molte litanie, che cominciano in tale modo: “Benedetto sia (letteralmente: sia detto bene, parlato bene…) il Signore…”, perché ci ha fatto tale o tale bene. E concludono: “perché tuo è il regno, la potenza, la gloria”».
ANCHE CIRCA LA “PREGHIERA DI DOMANDA” PAOLO È MOLTO INSISTENTE CON LE SUE COMUNITÀ, CONVINTO CHE LA PREGHIERA APRA LE STRADE ALL’EVANGELIZZAZIONE (COL 4,3; RM 1,10; 15,30…).
«Mettendosi in contatto con la divinità, gli uomini spontaneamente formulano le loro domande, chiedono qualche cosa. Possono essere esauditi? Non sarebbe contrario al giusto ordine che il Dio assoluto e onnipotente pieghi la sua volontà secondo il desiderio dell’uomo? Di questo parere erano, infatti, i filosofi ellenistici. E anche a san Paolo viene un dubbio, “perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26). Però aggiunge subito dopo: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (ibid.). Questo, secondo Origene, si realizza nel modo seguente: noi preghiamo, ma lo Spirito “interviene”; la sua voce è più forte della nostra e così, pur desiderando le cose piccole, chiediamo anche le grandi cose che sono volute da Dio. Tale è evidentemente la salvezza del mondo. Ogni preghiera possiede quindi un aspetto missionario, che può divenire talvolta pienamente consapevole. Perciò ci ammonisce Origene: “Quando preghi, domanda le cose grandi!”. L’altezza dei beni domandati mostra l’idea che si ha della grandezza di Dio».
Paolo testimonia anche alcuni carismi che si manifestano nella preghiera comunitaria. Invita tutti a elevare inni e canti. Cosa insegna al nostro pregare insieme?
«Lo Spirito Santo è uno in molti, può essere quindi considerato “anima della Chiesa”. La preghiera nello Spirito, anche se è pronunciata individualmente, ha un carattere ecclesiale, è quindi essenzialmente comunitaria. Un santo russo, Giovanni di Kronštadt scrive: “Le letture, gli inni, le preghiere e le suppliche che facciamo nella chiesa sono la voce delle nostre anime…, sono la voce dell’umanità intera…; queste preghiere e questi inni sono meravigliosamente belli, rappresentano il respiro dello Spirito Santo”. Gli autori orientali recenti amano sottolineare l’aspetto “dossologico” della liturgia, dove si manifesta “il Signore della gloria” (1Cor 2,8)».
PAOLO È IL TEOLOGO DELLA CRISTIFICAZIONE (GAL 2,20): POSSIAMO DIRE CHE È ALLA BASE DELLA SPIRITUALITÀ DELLA DIVINIZZAZIONE, TANTO CARA AI PADRI?
«Infatti, i Padri orientali preferiscono parlare della vita cristiana come vita in Cristo (cfr. l’omonima opera di Cabasilas) più che della vita secondo Cristo (cfr. il libro L’imitazione di Cristo). In Paolo troviamo entrambe le espressioni, ma la prima è più fortemente sottolineata: “Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio: ai santi che sono in Efeso… Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelto prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere figli adottivi per opera di Gesù Cristo… per realizzarlo nella pienezza dei tempi; il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (cfr. Ef 1,1-10). Questa riconciliazione in Cristo del cielo e della terra è un modo di esistenza. Divinizzazione è il termine con cui i Padri rendono il vivere in Cristo di Paolo».

Paolo Pegoraro

(22 Gennaio 2010

Publié dans:Cardinali, San Paolo |on 26 juin, 2013 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto: Lo Spirito e l’«abbà» dei credenti (Gal 4, 6-7; Rm 8, 14-17) (23.5.12)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120523_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 23 maggio 2012

Lo Spirito e l’«abbà» dei credenti (Gal 4, 6-7; Rm 8, 14-17)

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho mostrato come san Paolo dice che lo Spirito Santo è il grande maestro della preghiera e ci insegna a rivolgerci a Dio con i termini affettuosi dei figli, chiamandolo «Abbà, Padre». Così ha fatto Gesù; anche nel momento più drammatico della sua vita terrena, Egli non ha mai perso la fiducia nel Padre e lo ha sempre invocato con l’intimità del Figlio amato. Al Getsemani, quando sente l’angoscia della morte, la sua preghiera è: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).
Sin dai primi passi del suo cammino, la Chiesa ha accolto questa invocazione e l’ha fatta propria, soprattutto nella preghiera del Padre nostro, in cui diciamo quotidianamente: «Padre… sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,9-10). Nelle Lettere di san Paolo la ritroviamo due volte. L’Apostolo, lo abbiamo sentito ora, si rivolge ai Galati con queste parole: «E che voi siete figli lo prova che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida in noi: Abbà! Padre!» (Gal 4,6). E al centro di quel canto allo Spirito che è il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, san Paolo afferma: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). Il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell’amore al Padre che ci ama. Queste due dense affermazioni ci parlano dell’invio e dell’accoglienza dello Spirito Santo, il dono del Risorto, che ci rende figli in Cristo, il Figlio Unigenito, e ci colloca in una relazione filiale con Dio, relazione di profonda fiducia, come quella dei bambini; una relazione filiale analoga a quella di Gesù, anche se diversa è l’origine e diverso è lo spessore: Gesù è il Figlio eterno di Dio che si è fatto carne, noi invece diventiamo figli in Lui, nel tempo, mediante la fede e i Sacramenti del Battesimo e della Cresima; grazie a questi due sacramenti siamo immersi nel Mistero pasquale di Cristo. Lo Spirito Santo è il dono prezioso e necessario che ci rende figli di Dio, che realizza quella adozione filiale a cui sono chiamati tutti gli esseri umani perché, come precisa la benedizione divina della Lettera agli Efesini, Dio, in Cristo, «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4).
Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola «padre» con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L’assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi. Da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, possiamo imparare che cosa significhi propriamente «padre», quale sia la vera natura del Padre che è nei cieli. Critici della religione hanno detto che parlare del «Padre», di Dio, sarebbe una proiezione dei nostri padri al cielo. Ma è vero il contrario: nel Vangelo, Cristo ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità. Pensiamo alla parola di Gesù nel sermone della montagna dove dice: «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45). È proprio l’amore di Gesù, il Figlio Unigenito – che giunge al dono di se stesso sulla croce – che ci rivela la vera natura del Padre: Egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore, amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’uomo vecchio.
Potremmo quindi dire che in Dio l’essere Padre ha due dimensioni. Anzitutto, Dio è nostro Padre, perché è nostro Creatore. Ognuno di noi, ogni uomo e ogni donna è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui. Quando nel Libro della Genesi si dice che l’essere umano è creato a immagine di Dio (cfr 1,27), si vuole esprimere proprio questa realtà: Dio è il nostro padre, per Lui non siamo esseri anonimi, impersonali, ma abbiamo un nome. E una parola nei Salmi mi tocca sempre quando la prego: «Le tue mani mi hanno plasmato», dice il salmista (Sal 119,73). Ognuno di noi può dire, in questa bella immagine, la relazione personale con Dio: «Le tue mani mi hanno plasmato. Tu mi hai pensato e creato e voluto». Ma questo non basta ancora. Lo Spirito di Cristo ci apre ad una seconda dimensione della paternità di Dio, oltre la creazione, poiché Gesù è il «Figlio» in senso pieno, «della stessa sostanza del Padre», come professiamo nel Credo. Diventando un essere umano come noi, con l’Incarnazione, la Morte e la Risurrezione, Gesù a sua volta ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio. Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita. E’ questa realtà fondamentale che ci viene dischiusa quando ci apriamo allo Spirito Santo ed Egli ci fa rivolgere a Dio dicendogli «Abbà!», Padre. Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti, siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova.
Ma vorrei adesso ritornare ai due brani di san Paolo che stiamo considerando circa questa azione dello Spirito Santo nella nostra preghiera; anche qui sono due passi che si corrispondono, ma contengono una diversa sfumatura. Nella Lettera ai Galati, infatti, l’Apostolo afferma che lo Spirito grida in noi «Abbà! Padre!»; nella Lettera ai Romani dice che siamo noi a gridare «Abbà! Padre!». E San Paolo vuole farci comprendere che la preghiera cristiana non è mai, non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è solo un «agire nostro», ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce per primo: è lo Spirito Santo che grida in noi, e noi possiamo gridare perché l’impulso viene dallo Spirito Santo. Noi non potremmo pregare se non fosse iscritto nella profondità del nostro cuore il desiderio di Dio, l’essere figli di Dio. Da quando esiste, l’homo sapiens è sempre in ricerca di Dio, cerca di parlare con Dio, perché Dio ha iscritto se stesso nei nostri cuori. Quindi la prima iniziativa viene da Dio, e con il Battesimo, di nuovo Dio agisce in noi, lo Spirito Santo agisce in noi; è il primo iniziatore della preghiera perché possiamo poi realmente parlare con Dio e dire “Abbà” a Dio. Quindi la sua presenza apre la nostra preghiera e la nostra vita, apre agli orizzonti della Trinità e della Chiesa.
Inoltre comprendiamo, questo è il secondo punto, che la preghiera dello Spirito di Cristo in noi e la nostra in Lui, non è solo un atto individuale, ma un atto dell’intera Chiesa. Nel pregare si apre il nostro cuore, entriamo in comunione non solo con Dio, ma proprio con tutti i figli di Dio, perché siamo una cosa sola. Quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli. Chi parla con Dio non è solo. Siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio; certo i musicisti e gli strumenti sono diversi – e questo è un elemento di ricchezza -, ma la melodia di lode è unica e in armonia. Ogni volta, allora, che gridiamo e diciamo: «Abbà! Padre!» è la Chiesa, tutta la comunione degli uomini in preghiera che sostiene la nostra invocazione e la nostra invocazione è invocazione della Chiesa. Questo si riflette anche nella ricchezza dei carismi, dei ministeri, dei compiti, che svolgiamo nella comunità. San Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «Ci sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; ci sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; ci sono diverse attività, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). La preghiera guidata dallo Spirito Santo, che ci fa dire «Abbà! Padre!» con Cristo e in Cristo, ci inserisce nell’unico grande mosaico della famiglia di Dio in cui ognuno ha un posto e un ruolo importante, in profonda unità con il tutto.
Un’ultima annotazione: noi impariamo a gridare «Abba!, Padre!» anche con Maria, la Madre del Figlio di Dio. Il compimento della pienezza del tempo, del quale parla san Paolo nella Lettera ai Galati (cfr 4,4), avviene al momento del «sì» di Maria, della sua adesione piena alla volontà di Dio: «ecco, sono la serva del Signore» (Lc 1,38).
Cari fratelli e sorelle, impariamo a gustare nella nostra preghiera la bellezza di essere amici, anzi figli di Dio, di poterlo invocare con la confidenza e la fiducia che ha un bambino verso i genitori che lo amano. Apriamo la nostra preghiera all’azione dello Spirito Santo perché in noi gridi a Dio «Abbà! Padre!» e perché la nostra preghiera cambi, converta costantemente il nostro pensare, il nostro agire per renderlo sempre più conforme a quello del Figlio Unigenito, Gesù Cristo. Grazie.

IL CUORE DI GESÙ NELL’INSEGNAMENTO DI SAN PAOLO

http://www.adpbrindisi.it/riflessioni/content/96/2/il-cuore-di-gesu-nell-insegnamento-di-san-paolo.htm

IL CUORE DI GESÙ NELL’INSEGNAMENTO DI SAN PAOLO

MARTEDÌ 18 DICEMBRE 2012

DI P. OTTAVIO DE BERTOLIS, S.J.

Non è ovviamente possibile in poche righe parlare del Cuore di Cristo in San Paolo: tutta la sua riflessione è un’altissima meditazione della profondità del mistero racchiuso in Gesù, e una contemplazione di quel Nome che è al di sopra di ogni altro Nome. In questo senso, vorrei solamente proporre alla vostra meditazione e alla vostra preghiera un’affermazione paolina che mi pare assolutamente centrale:
«Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gai 2, 20).
In questa troviamo il tema fondamentale della teologia di San Paolo: la «giustificazione». Potremmo tradurla come «il giusto rapporto» con Dio, cioè l’essere fatti giusti da Lui; il giusto rapporto con Dio per Paolo non può essere dato dalle «opere», cioè da quanto facciamo noi, perché quel che noi facciamo è sempre deficitario, è sempre troppo poco rispetto a quello che dovremmo fare. E del resto, tutti sperimentiamo non solo che non facciamo (tutto) quel che dovremmo, ma anche disgraziatamente facciamo anche molte cose che non dovremmo (e forse neanche vorremmo) fare. Perciò secondo Paolo la «legge» (quella mosaica, ma il discorso vale per tutta la legge) non «giustifica», ossia non mette nel giusto rapporto con Dio, e neanche può farlo: manifesta che siamo peccatori più che renderci giusti. La «giustizia», ossia la giusta relazione con Dio, ci viene data dalla fede, ossia dalla fiducia personale in Gesù Cristo: come Giovanni, ma con parole sue, Paolo mostra che chi crede ha in sé il germe della vita nuova, cioè è passato dalla morte del peccato alla vita della grazia, compie cioè la Pasqua. E così capiamo l’affermazione che prima abbiamo riferito: «mi ha amato e ha dato se stesso per me». La devozione al Cuore di Gesù è innanzi tutto questa dulcis lesu memoria, questa dolce memoria di Gesù, e il segno del Suo cuore è per noi innalzato sulla croce: «Gesù confido in te», ci fa ripetere suor Faustina, l’apostola della Divina Misericordia nel ventesimo secolo. La confidenza in Lui apre alla fiducia, scioglie l’angoscia, toglie la tristezza, trasforma il nostro modo di vedere noi stessi e anche gli altri, poiché ci rivela che tutti siamo stati amati e perdonati da Lui sulla croce, e quindi ci apre a ricevere questo amore, a testimoniarlo, e a vedere tutti come immersi in questo grande mistero. Così siamo liberati dai nostri rancori e dalle nostre divisioni, proprio perché Lui ha accolto tutti nel Suo cuore, nel colpo di lancia da Lui ricevuto: e se lui ci ha perdonato, impariamo così a perdonarci gli uni gli altri. E questo è il primo e principale frutto della devozione al cuore di Gesù.
Il secondo frutto, è la trasfigurazione di noi stessi nel cuore di Cristo, di modo che anche per noi diventi vita quel che di sé dice Paolo: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Gesù sulla croce fa a noi dono del Suo Spirito, e lo Spirito desidera scendere in ognuno e fare di noi «altri Cristi», uomini e donne rivestiti degli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, cioè di misericordia, umiltà, mansuetudine e pazienza. Di più, desidera condurre ognuno di noi alla medesima intimità che il Figlio ha con il Padre, alla medesima preghiera, alla medesima fiducia, al medesimo abbandono. E per questo ogni mattina diciamo al Cuore di Gesù: «ti offro le preghiere, le azioni, le gioie e le sofferenze», non perché siano un dono degno di Lui, ma perché Lui le riempia di sé stesso, siano cioè azioni degne di Lui, cioè sia il Suo agire in noi per gloria del Padre. E così le preghiere nostre siano la Sua preghiera, le nostre sofferenze siano un prolungamento delle Sue, sofferte nel medesimo abbandono e nella medesima fiducia, e perfino le gioie siano corroborate ed esaltate dalla Sua stessa purissima gioia.
Di conseguenza, poiché finché viviamo vivremo nella «carne», cioè nell’umana debolezza che si manifesta in molti modi, non stanchiamoci mai di guardare a Colui che «mi ha amato e ha dato se stesso per me»: Lui è come il serpente che fu innalzato nel deserto, e che gli Israeliti guardandolo guarivano dai morsi velenosi dei serpenti. Lui è la sorgente di acqua viva, cioè dello Spirito, che sgorga dal Suo cuore trafitto dalla lancia come dalla roccia colpita dalla verga di Mosè uscì l’acqua che dissetò il popolo nel deserto. E quest’acqua, irrigando le profondità del nostro spirito, non solo ci renderà simili a Lui, ma dal nostro stesso seno sgorgherà acqua viva per dissetare molti, come Lui stesso ci ha preannunziato.

(Estratto dal libro « Una via semplice e bella », O. De Bertolis, Edizioni AdP, 2012)

Publié dans:San Paolo |on 15 avril, 2013 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI – 17, 16-21 – Paolo entra in Atene

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ATTI DEGLI APOSTOLI – 17, 16-21 – Paolo entra in Atene

(il discorso di Paolo ad Atene mi affascina!)

16Mentre Paolo li attendeva ad Atene, fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli. 17Discuteva frattanto nella sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava. 18Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?». E altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità straniere»; poiché annunziava Gesù e la risurrezione. 19Presolo con sé, lo condussero sull’Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te? 20Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che cosa si tratta».
21Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.

Riflessione
La persecuzione, per un singolare disegno di Dio, spingeva i discepoli a recarsi verso altri luoghi per comunicare anche lì la buona novella del Regno. Il Signore trasformava in vantaggio per il Vangelo la durezza degli uomini che si opponevano a Lui.
Paolo giunse quindi ad Atene come un fuggitivo. Sebbene la città non fosse più cosi prospera come ai tempi di Platone, era tuttavia ancora una grande capitale. Nella narrazione di Luca, dopo Gerusalemme e prima di Roma, Paolo doveva predicare il Vangelo nella capitale della cultura del tempo. Arrivato in città si mescolò al traffico dell’agorà e del mercato per capire quale fosse la sensibilità degli ateniesi.
La sfida era delicatissima e Paolo lo sapeva. Voleva perciò comprendere dal di dentro, potremmo dire, la vita degli ateniesi. Il grande interrogativo era anche semplice: Gerusalemme avrebbe conquistato Atene? Il Vangelo avrebbe toccato il cuore dell’Areopago‘?
È la stessa domanda che noi oggi continuiamo a porci di fronte ai tanti areopaghi di questo mondo, di fronte alle tante culture che abitano il pianeta e che attraversano il cuore e le menti degli uomini. L’audacia di Paolo, che con coraggio si presenta davanti ai sapienti di Atene, ci mostra che nessun areopago è estraneo alla predicazione, nessuna cultura è estranea al Vangelo. Anzi gli areopaghi di oggi attendono discepoli che annunciano la salvezza.
È la grande sfida che tutti i cristiani hanno davanti a loro e che non possono eludere perché solo il Vangelo può rendere più umano il mondo nel quale viviamo.

ATTI DEGLI APOSTOLI – 17, 22-34 – Discorso all’Areopago
 22Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. 23Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che da a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perche abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, 27perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. 29Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. 30Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, 31poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti». 32Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta». 33Così Paolo usci da quella riunione. 34Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.

Riflessione

Paolo avvia il suo discorso nell’importante piazza dell’Areopago di Atene prendendo spunto da un altare pagano dedicato al Dio Ignoto che aveva notato nella sua visita alla città. L’apostolo afferma di essere venuto ad annunciare il nome di quel Dio che non era quindi più ignoto.
L’attenzione dei sapienti ateniesi era alta e Paolo suscitava interesse tra quegli esigenti ascoltatori mentre, toccando sulle corde della loro cultura, cercava di metterle in dialogo con il Vangelo. Potremmo dire che l’apostolo era riuscito ad entrare nella sensibilità dei suoi ascoltatori, ma ovviamente era necessario a questo punto comunicare loro il cuore del Vangelo, ossia la vittoria di Gesù sul male e sulla morte.
Paolo doveva annunciare la risurrezione di Gesù dai morti. C’è sempre una discontinuità tra il piano della cultura e quello della fede, tra il Vangelo e la mentalità ordinaria. E la risurrezione è un dono straordinario e inaspettato che il Signore ha fatto all’umanità. Forse l’apostolo sperava che quei sapienti, che pure ritenevano l’anima immortale, avrebbero accolto anche il mistero della risurrezione della carne. E nel suo discorso li aveva come portati sulla soglia.
Gli ateniesi, invece, lo interruppero dicendo: su questo ti ascolteremo un’altra volta. Grande fu la delusione di Paolo, ma forse ricordò le parole di Gesù: ti ringrazio, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli.

CONVERSIONE DI SAN PAOLO, 25 GENNAIO – UFFICIO DELLE LETTURE

25 GENNAIO : CONVERSIONE DI SAN PAOLO

(lo so sono in ritardo, ma l’Ufficio si può fare in qualsiasi ora)

UFFICIO DELLE LETTURE

INNO

 O apostoli di Cristo,
colonna e fondamento
della città di Dio!

Dall’umile villaggio
di Galilea salite
alla gloria immortale.

Vi accoglie nella santa
Gerusalemme nuova
la luce dell’Agnello.

La Chiesa che adunaste
col sangue e la parola
vi saluta festante;

ed implora: fruttifichi
il germe da voi sparso
per i granai del cielo.

Sia gloria e lode a Cristo,
al Padre e allo Spirito,
nei secoli dei secoli. Amen

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

SALMO 18 A

I cieli narrano la gloria di Dio, *
    e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio *
    e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Non è linguaggio e non sono parole, *
    di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce *
    e ai confini del mondo la loro parola.

Là pose una tenda per il sole †
    che esce come sposo dalla stanza nuziale, *
    esulta come prode che percorre la via.

Egli sorge da un estremo del cielo †
    e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: *
    nulla si sottrae al suo calore.

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

SALMO 63

Ascolta, Dio, la voce, del mio lamento, *
    dal terrore del nemico preserva la mia vita.
Proteggimi dalla congiura degli empi *
    dal tumulto dei malvagi.

Affilano la loro lingua come spada, †
    scagliano come frecce parole amare *
    per colpire di nascosto l’innocente;

lo colpiscono di sorpresa *
    e non hanno timore.

Si ostinano nel fare il male, †
    si accordano per nascondere tranelli; *
    dicono: «Chi li potrà vedere?».

Meditano iniquità, attuano le loro trame: *
    un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso.

Ma Dio li colpisce con le sue frecce: *
    all’improvviso essi sono feriti,
la loro stessa lingua li farà cadere; *
    chiunque, al vederli, scuoterà il capo.

Allora tutti saranno presi da timore, †
    annunzieranno le opere di Dio *
    e capiranno ciò che egli ha fatto.

Il giusto gioirà nel Signore †
    e riporrà in lui la sua speranza, *
    i retti di cuore ne trarranno gloria.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

SALMO 96

Il Signore regna, esulti la terra, *
    † gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono, *
    giustizia e diritto sono la base del suo trono.

Davanti a lui cammina il fuoco *
    e brucia tutt’intorno i suoi nemici.
Le sue folgori rischiarano il mondo: *
    vede e sussulta la terra.

I monti fondono come cera davanti al Signore, *
    davanti al Signore di tutta la terra.
I cieli annunziano la sua giustizia *
    e tutti i popoli contemplano la sua gloria.

Siano confusi tutti gli adoratori di statue †
    e chi si gloria dei propri idoli. *
    Si prostrino a lui tutti gli dei!

Ascolta Sion e ne gioisce, †
    esultano le città di Giuda *
    per i tuoi giudizi, Signore.

Perché tu sei, Signore, l’Altissimo su tutta la terra, *
    tu sei eccelso sopra tutti gli dei.

Odiate il male, voi che amate il Signore: †
    lui che custodisce la vita dei suoi fedeli *
    li strapperà dalle mani degli empi.

Una luce si è levata per il giusto, *
    gioia per i retti di cuore.
Rallegratevi, giusti, nel Signore, *
    rendete grazie al suo santo nome.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

V. Buono e pietoso è il Signore,
V. lento all’ira e grande nell’amore.

PRIMA LETTURA         

Dalla lettera ai Galati di san Paolo, apostolo 1,11-24
Rivelò a me il suo Figlio perché lo annunziassi

    Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
    In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia- Ma ero sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». E glorificavano Dio a causa mia.

RESPONSORIO         Cfr. Gal 1,11-12; 2 Cor 11,10.7

R. Il vangelo che annunzio non è modellato sull’uomo: * non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
V. La verità di Cristo è in me, poiché vi ho annunziato il vangelo di Dio:
R. non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

SECONDA LETTURA         

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50,477-480)
Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

    Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2,18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12,10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
    Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
    Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
    Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

RESPONSORIO         Cfr. 1 Tm 1,13-14; 1 Cor 15,9

R. Dio mi ha usato misericordia, perché agivo senza saperlo. * La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.
V. Non merito di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
R. La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.

Celebrazione vigiliare

TE DEUM

Noi ti lodiamo, Dio, *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio, *
lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.

Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.

ORAZIONE

    O Dio, che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi anche a noi, che oggi ricordiamo la sua conversione, di camminare sempre verso di te e di essere testimoni della tua verità. Per il nostro Signore.

Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

L’APOSTOLO IDEALE

http://www.stpauls.it/coopera/0807cp/0807cp04.htm

L’APOSTOLO IDEALE

La lettera, « scritta tra molte lacrime », evidenzia la piena configurazione di Paolo a Cristo nella persecuzione subita dai suoi avversari, facendone una esperienza esemplare.
 Nei 13 capitoli che compongono la seconda lettera di Paolo ai Corinzi è tratteggiata l’identità dell’apostolo di ogni tempo e viene presentata la sua missione nei confronti delle comunità a cui egli è inviato. Paolo ha potuto scrivere questa lettera perché egli, per primo, ha incarnato l’ideale dell’apostolo e per primo ha sperimentato le difficoltà, le crisi, le gioie e le delusioni della missione.
Il contenuto detta lettera. I capitoli 1-7 descrivono la figura del vero apostolo, come è delineata nel Vangelo e come appare dalla testimonianza di Gesù, l’apostolo del Padre. All’origine della missione dell’apostolo vi è la chiamata da parte del Signore Gesù (Paolo ama definirsi « apostolo di Gesù Cristo »). È una chiamata che rende l’apostolo obbediente alla Parola che annuncia e fedele al suo Signore che lo invia. Per questo sono frequenti in Paolo le espressioni « in Cristo » e « con Cristo », mediante le quali egli sottolinea la sua piena comunione con il Signore e la piena condivisione della sua stessa sorte (persecuzione, incomprensione, rifiuto, avversione). In questi capitoli, infatti, Paolo si sofferma spesso sulle vicende dolorose che hanno caratterizzato la sua missione, fino a definire questa lettera come « la lettera scritta tra molte lacrime » (1,24) e come quella in cui pone in evidenza la sua piena configurazione a Cristo nella persecuzione e nel rifiuto subìti a causa dei molti.
I capitoli 8-9 contengono una stupenda pagina di comunione fraterna e di condivisione dei beni tra le prime comunità cristiane. Paolo esorta i Corinzi a proseguire nella raccolta di fondi per la comunità di Gerusalemme che versava nella necessità (forse a motivo di una carestia). Probabilmente i Corinzi erano più propensi a incoraggiare a parole questa raccolta, che non a contribuire di persona, con le loro risorse. Per questo Paolo li sollecita a condividere i loro beni con le comunità più povere e bisognose, scrivendo così essi pure una pagina autentica di Vangelo.
I capitoli 10-13 costituiscono un piccolo trattato autobiografico, in cui Paolo presenta la sua persona di apostolo e la sua attività di missionario alla luce della chiamata ricevuta dal Signore Gesù. Qui Paolo si esprime con tutta franchezza contro i suoi nemici, che non esita a chiamare ironicamente, « superapostoli » (11,5 e 12,11). Ma il cuore di questo trattato autobiografico è l’esigenza di verità e di fedeltà che caratterizza ogni apostolo del Vangelo. L’apostolo, infatti, raggiunge la pienezza della sua vocazione grazie alla verità e alla fedeltà, mediante le quali compie il suo itinerario di fede e di servizio che può raggiungere anche il più alto grado della vita cristiana, che è l’esperienza mistica (vedi 12,1-10; « Conosco un uomo che quattordici anni fa – se con il corpo o senza il corpo non so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo… in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare »).
Attualità di questa Lettera. Ogni predicatore e ogni evangelizzatore trova in questo scritto di Paolo lo specchio della propria identità e della propria attività di chiamato e di inviato. Di fronte ai facili fondamentalismi del nostro tempo, è sempre attuale il monito di Paolo: « La lettera uccide, lo spirito dà vita » (3,6). Di fronte alle tensioni che possono sorgere nelle comunità cristiane, è ancora attuale il richiamo di Paolo: « Voi siete la nostra lettera » (3,8). Di fronte alla tentazione di strumentalizzare il in montagnaangelo per propri scopi personali o per emergere nella Chiesa e nella società, ecco la risposta di Paolo: « Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta » (4,7). Infine, di fronte alla tentazione di lasciare tutto e di abbandonare l’impegno dell’evangelizzazione a motivo dell’insuccesso, del rifiuto, della stanchezza e della stessa indifferenza con cui il nostro tempo guarda al Vangelo e alla fede, ecco la parola di Paolo, sempre attuale: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta infatti pienamente nella debolezza » (12,9).

Publié dans:San Paolo |on 4 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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