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TU SEI BELLEZZA! (SAN FRANCESCO D’ASSISI)

http://www.ofm.org/01docum/mingen/2012_TU_SEI_BELLEZZA.pdf

TU SEI BELLEZZA! (SAN FRANCESCO D’ASSISI)

Fr. José Rodriguez Carballo, ofm

Ministro generale, OFM

Cari marciatori, carissimi amici tutti: Il Signore vi dia pace! Benvenuti alla Porziuncola, focolare del perdono e della misericordia, dove ci accoglie la Vergine fatta Chiesa, la madre del bell’amore (cf. Sir 24, 24), e della misericordia. Benvenuti a questo luogo così caro a Francesco perché dedicato a Maria, “porta santa sempre aperta” a Colui che è misericordia e perdona; luogo dell’anima, dove Francesco ha risvegliato la nostalgia del Paradiso; luogo pieno di bellezza perché povero e ci parla del grande amore di Francesco e Chiara per Cristo povero e crocifisso. Tu sei bellezza! È il moto della Marcia Francescana di quest’anno 2012. Tu sei bellezza! È l’esclamazione di Francesco dopo l’incontro con il Crocifisso sul monte della Verna. Tu sei Bellezza! È l’esclamazione di Chiara frutto della costante contemplazione del mistero dell’incarnazione e particolarmente della passione e morte del Signore Gesù. Tu sei bellezza, diciamo noi a una persona che amiamo. Che bellezza! Diciamo tutti di fronte a un paesaggio piacevole, a un fiore, a un fenomeno naturale straordinario e che si presenta bello al nostro sguardo, o di fronte a un quadro o a un pezzo musicale magistralmente interpretato. La bellezza rivela l’inesorabile nostalgia dell’uomo per la verità, la giustizia e il bene, cioè la nostalgia di Dio. Per questo l’esperienza della bellezza è fondamentale nella vita dell’uomo e della sua cultura. In questo contesto Dostoevskij afferma: “L’umanità non potrebbe vivere senza la bellezza”; e Benedetto XVI ne spiega la ragione in un discorso agli artisti quando afferma: “La esperienza del bello, di quello che è autenticamente bello, di quello che non è effimero ne superficiale, non è qualcosa di secondario nella ricerca di senso e della felicità, bensì ci porta ad affrontare in pienezza la vita quotidiana per liberarla dell’oscurità e trasfigurarla, per farla luminosa e bella”. La bellezza riempie di vita l’esistenza, ci pone in camino, e quando la stanchezza e la rutine fanno atto di presenza nella nostra vita, la bellezza ci ridona speranza e la forza di vivere fino in fondo la propria esistenza. Ecco perché la bellezza, come diceva Benedetto XVI nelle parole già ricordate, non è un elemento secondario nella vita di una persona; ecco perché abbiamo bisogno di cercare e di trovare la bellezza. Ma di quale bellezza parliamo? Sotto gli occhi di tutti sta l’inesausta ricerca della bellezza. Ma non tutti la cercano dove si può veramente trovare. Tante volte la bellezza è ambigua e il bello può essere un inganno. Quanti soldi si spendono nella lotta contro l’invecchiamento e tutto ciò che non è patinato, piacevole, di moda! Quanti soldi in creme, quanti sacrifici per mantenere la bellezza secondo i criteri di moda! Quanti sforzi per mantenere un’apparenza che passa! Quanti supermercati dell’effimero! Ma mille cornici non valgono il quadro. Se ne accorse un giorno sant’Agostino, il quale, dopo aver cercato la bellezza in tante cose, scoprì che l’autentica bellezza si trova solo in Dio: “Oh bellezza tanto antica e sempre nuova!”, esclamerà pieno di stupore, e per questo non abita nella superficie e non si compra nei supermercati consumistici, ma abita nella cella del cuore umano: “tu eri dentro di me e io ero fuori di me”. È di questa bellezza che noi parliamo: la bellezza che abita nel cuore di chi ama, la bellezza la cui fonte è Dio stesso, il bello e il buono (kalokagathia) per eccellenza, come ci ricorda Francesco nelle già citate Lodi al Dio altissimo. Cari giovani: Tutti cerchiamo la bellezza, in noi stessi e negli altri. Ma, qual’è la chiave che apre all’autentica bellezza? Pensando a Francesco e a Chiara una è la fonte della bellezza: l’amore. È l’amore che rende belli. San Giovani afferma: Dio è amore. Ecco perché Dio è anche la fonte della vera bellezza; ecco perché Dio è la Bellezza. Contrariamente alla ricerca di una bellezza meramente estetica, mendace e falsa, che ci imprigiona totalmente in noi stessi e ci rende più piccoli, l’incontro con la bellezza la cui fonte è l’amore ci mette in cammino, ci eleva dalle nostre miserie, ci strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano, e ci fa uscire da noi stessi per aprirci nell’estasi dell’innalzarci verso l’alto. “L’incontro con la bellezza può diventare il dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi” (Benedetto XVI), e, per chi crede, l’incontro con la bellezza ci porta a Dio, del quale tutto, come dice san Francesco nel Cantico delle creature, porta significazione. In questo contesto dice san Bonaventura: “Francesco contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto. Di tutte le cose si faceva una scala per salire ad afferrare Colui che è tutto desiderabile”. Dostoevskij scrisse: “la bellezza salverà il mondo”. È questa una frase molto citata ma pochi sanno che la bellezza della quale parla Dostoevskij è Cristo. Un Cristo che profeticamente i salmi descrivono come “il più bello tra i figli dell’uomo” e che, allo stesso tempo, viene contemplato da Isaia come Colui che “non ha apparenza né bellezza… il suo volto è sfigurato dal dolore”. È questo Cristo che hanno trovato Francesco e Chiara e del quale si sono profondamente innamorati, fino a consegnargli la propria vita. È questa bellezza che cantano Francesco e Chiara. La Pianticella di Francesco scrisse in una delle sue Lettere ad Agnese: “Nobilissima regina, guarda, considera, contempla, desiderando di imitarlo, il tuo sposo, il più bello tra i figli degli uomini, fattosi per la tua salvezza il più vile degli uomini, disprezzato, percosso e flagellato in tutto il corpo in molti modi, morente tra le angosce stesse della croce”(2LettCh 19). “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare da spine” (Benedetto XVI). Ma proprio in questo Volto sfigurato dal dolore appare l’estrema bellezza, quella che salva il mondo: la bellezza dell’amore che arriva alla donazione totale, “sino alla fine”. L’autentica Bellezza, quella che salverà il mondo, non può essere cercata e scoperta soltanto nella gloria del Tabor, ma anche nella figura sofferente del Crocifisso. Chi ha percepito questa bellezza non si accontenterà di cercare la bellezza mendace e falsa, ma cercherà la bellezza nell’amore autentico, nel’amore del donarsi, nell’agape. E allora questa bellezza risveglierà la nostalgia per l’indicibile, la disponibilità all’offerta, al dono incondizionato di sé. Cari giovani pellegrini alla Porziuncola: Imparate a vedere la paradossale bellezza di Cristo crocifisso, e allora incontrerete la bellezza della verità, della verità che salverà voi e con voi il mondo. Imparate a vedere lo splendore della gloria di Dio, la “gloria di Dio sul volto di Cristo” (2Cor 4, 6). Cercate la bellezza nella sua profondità, il che presuppone il “digiuno della vista”; presuppone una percezione interiore liberata dalla mera impressione dei sensi; presuppone compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo da vedere ciò che i sensi non vedono. Cercate la vera bellezza, quella che proviene da Dio e ci viene rivelata nella persona di Gesù, la bellezza che colmerà la vostra sete di bellezza, perché nessuno potrà rubarvela. Buona festa del perdono. Buon cammino verso la Bellezza. Che la Regina degli angeli vi accompagni e vi custodisca sempre in questo cammino.

LA GIOIA PERFETTA – SAN FRANCESCO D’ASSISI *

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_z.htm#«NELL’ANGUSTIA IO SONO CON LUI»

LA GIOIA PERFETTA

SAN FRANCESCO D’ASSISI *

«Io non mi voglio gloriare se non nella croce di Cristo» (Gal. 6, 14). Tutta la fisionomia e la vita di Francesco sono racchiuse in questa tensione d’amore. /I Cristo si svela a lui nel Vangelo e lo sradica da se stesso per abbarbicarlo all’amore della Croce e a quello di madonna Povertà. Seguito nella sua trasformazione da numerosi discepoli, stabilisce per essi una nuova regola di vita, che viene presto riconosciuta e approvata dalla Chiesa. Sigillato dalle piaghe di Cristo crocifisso, che in un’estasi riceve sul monte della Verna, muore dopo pochi anni ad Assisi nel 1226.
Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il cruciava, chiamò frate Leone, H quale andava un poco innanzi, e disse così: «O frate Leone, avvegnadio che i frati minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione, nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è ivi perfetta letizia».
«…O frate Leone, se il frate minore sapesse tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio i segreti delle coscienze e degli animi, scrivi che non è in ciò perfetta letizia».
«…O frate Leone, benché il frate minore sapesse sì bene predicare, ch’egli converHsse tutti gl’infedeli alla fede di Cristo, scrivi che non è ivi perfetta letizia».
E durando questo modo di parlare bene due miglia, frate Leone con grande ammirazione il domandò e disse: «Padre, io ti priego dalla parte di Dio, che tu mi dica dove è perfetta letizia». E santo Francesco gli rispuose: «Quando noi giungeremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta d~lIo luogo, e il portinaio verrà adirato e dirà: «Chi siete voi? – e noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati; – e colui dirà: Voi non dite vero; anzi siete due ribaldi, che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via.- E non ci aprirà e faracci stare fuori alla neve e alla acqua col freddo e colla fame insino alla notte, se noi tante ingiurie e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente senza turbazione e senza mormorare di lui, e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci conosca e che Iddio il faccia parlare contro di noi, frate Leone, scrivi che ivi è perfetta letizia. E se noi persevereremo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: «Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né non ci albergherete, – se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buon amore, o frate Leone, scrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore ,di Dio con grande pianto, che ci apra e mettaci pur dentro; e quelli più scandolezzato dirà: «Costoro sono gaglioffi importuni; io li pagherò bene come ei sono degni -; e uscirà fuori con uno bastone nacchieruto e piglieracci per lo cappuocio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali noi dobbiamo sostenere per suo amore, o frate Leone, scrivi che in questo è perfetta letizia. E però odi la conclusione, frate Leone. Sopra tutte le grazie e doni della Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, è vincere se medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci passiamo gloriare; però che non sono nostri ma di Dio; onde dice l’Apastolo: Che hai tu che non abbi da Dio? e se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glori, come se tu l’avessi da te? (I Corinti 4, 7). Ma nella croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare, però che «questo è nostro» e perciò dice l’Apostolo: «Io non mi voglio gloriare, se non nella croce del nostro signore Gesù Cristo» (Galati 6, 14). Al quale sia sempre onore e gloria in secula secularum. Amen.

* I Fioretti di S. Francesco, VIII – Ed. La Verna 1966 – pp. 39-43.

 

Publié dans:San Francesco d'Assisi |on 6 mai, 2015 |Pas de commentaires »

SAN FRANCESCO D’ASSISI

http://www.filosofico.net/sanfrancesco.htm

SAN FRANCESCO D’ASSISI

A cura di Alessandro Sangalli

Santo protettore dell’Italia, figura rivoluzionaria della Chiesa cristiana, messaggero ed ambasciatore di pace in Oriente: tutte descrizioni che si possono attribuire a San Francesco, il “poverello d’Assisi”. E perché non aggiungere, in fondo, anche quella di filosofo? Ha vissuto da anticonformista, ha predicato e messo per iscritto le sue idee, ha avuto numerosi discepoli… La sua concezione della vita va al di là di un semplice atteggiamento religioso, si può tranquillamente definire una vera e propria filosofia.

1. La vita
Nasce ad Assisi nel 1181/1182 col nome di Giovanni, figlio di Pietro di Bernardone e di Giovanna, detta donna Pica. Il padre, ricco mercante di stoffe, al momento della nascita del figlio si trova in Francia, ma, al suo ritorno, deciderà di chiamarlo Francesco.
Di Francesco, si può dire che abbia vissuto due vite, una l’opposto dell’altra. Il giovane Francesco era un ragazzo vivace, amante delle feste, dei banchetti e del lusso: amava mangiare e bere con gli amici, indossare vestiti eleganti e preziosi gioielli. È Francesco stesso a presentarsi, in apertura del suo Testamento, come uno che viveva nei peccati e nella dissoluzione morale. Nel 1202 partecipò, come molti altri suoi coetanei, alla guerra contro Perugina: fatto prigioniero, fu riscattato dopo un anno grazie alle risorse economiche del padre.
Circa due anni più tardi, inizia la sua conversione e la sua trasformazione. Il padre la racconta così: “All’inizio Francesco sembrava uguale a tutti gli altri bambini: era allegro, voleva sempre giocare e gli piaceva cantare. Poi accadde quello che accadde: un giorno incontrò un lebbroso e, invece di fuggire al suono della campanella, scese da cavallo e lo abbracciò. E non basta, un’altra volta si intrufolò nel mio magazzino e si prese tutte le stoffe preziose che c’erano negli scaffali per poi vendersele sottoprezzo, il tutto per pagare i restauri della chiesa di San Damiano”. Per quest’ultimo episodio, Francesco viene denunciato dal padre al tribunale ecclesiastico: qui, davanti al vescovo e al popolo, il giovane rinuncia all’eredità e ai beni paterni, si spoglia anche degli abiti e fa pubblica professione di povertà. Afferma in seguito: <<D’ora in avanti voglio dire “Padre nostro che sei nei cieli”, non più “padre mio Pietro di Bernardone”>>.
Da qui in poi, Francesco inizia la sua nuova vita: il colloquio col crocefisso non fa che rassicurarlo della decisione da lui presa. Un giorno, infatti, mentre sta pregando davanti al crocefisso, sente dirsi: <<Francesco, se vuoi conoscere la mia volontà, devi disprezzare e odiare tutto quello che mondanamente amavi e bramavi possedere>>. Inizia quindi a predicare l’amore, la pace e la povertà e a poco a poco si uniscono a lui alcuni compagni: Bernardo di Quintavalle, Pietro Cattani, Gaspare di Petrignano e altri ancora. Vivono tutti insieme nella Porziuncola, una chiesetta mezza diroccata che riparano essi stessi. In questo clima viene redatta la Regola del Primo Ordine Francescano, che contiene le norme e le regole di vita della comunità. Francesco, con alcuni compagni, si reca a Roma per incontrare papa Innocenzo III e vedere riconosciuta la sua Regola. Le guardie, però, non lo fanno entrare a palazzo, scambiando lui e i compagni per dei guardiani di porci. Francesco e i suoi aspettano fuori dalle porte del Laterano per tre mesi, dormendo per strada e vivendo di elemosina, finché il papa, pare a causa di un sogno che lo aveva turbato, lo manda a prendere dalle guardie e accetta la Regola senza obiezioni, seppur solo oralmente. Fu il pontefice Onorio III, con la bolla Solet annuere Sedes Apostolica del 1223, a costituire definitivamente ed ufficialmente l’Ordine francescano.
Intorno al 1211 alla piccola comunità di frati si aggiunge Chiara, figlia di Favarone degli Offreducci, una ragazza di ceto aristocratico che condivide la stessa fede ardente di Francesco: <<Da quando ho conosciuto la grazia del Signore nostro Gesù Cristo per mezzo di quel suo servo Francesco, nessuna pena mi è stata molesta, nessuna penitenza gravosa, nessuna infermità mi è stata dura>>. Chiara è seguita nella sua scelta di vita da numerose altre ragazze come lei, che insieme fondano l’Ordine delle Clarisse, redigendo con Francesco la Seconda Regola.
Tra il 1217 e il 1221 si svolge la quinta crociata: voluta da Papa Onorio III, è condotta da Andrea II re d’Ungheria e da Giovanni di Brienne. Il piano dei crociati è quello di arrivare in Terrasanta e attaccare gli infedeli sorprendendoli da sud, arrivando cioè dall’Egitto. Ed è proprio in Egitto che si reca nel 1219 Francesco, con intenti apostolici ed evangelici. Dopo la sconfitta cristiana sotto le mura di Damietta, si spinge disarmato tra le linee nemiche e, catturato, è portato dal sultano Malek-el-Kamel. Il sultano è ammirato dalla persona e dalla figura di Francesco, tanto da trattarlo con garbo e rispetto, consentendogli pure di visitare i luoghi sacri.
Al ritorno dal pesante viaggio la sua salute, già precaria, è molto peggiorata. Francesco si dedica alla stesura della Regola del Terzo Ordine e rielabora quella del Primo.
È in questo periodo che si verificano gli episodi miracolosi della vita di Francesco: al 1223 risale l’apparizione del Gesù Bambino nel presepio vivente che era stato allestito da Francesco e compagni a Greccio, presso Rieti; l’anno successivo riceve le stigmate sul monte Verna; si moltiplicano le voci sulla sua abilità di parlare agli animali e si diffonde, in particolare, la storia del lupo di Gubbio.
I confratelli di Francesco, preoccupati per la sua salute che peggiora sempre più, gli consigliano di riposarsi ritirandosi e curandosi presso Siena: è proprio qui che nel 1226 detta il suo Testamento, forse sentendo vicina la morte. Con le ultime forze decide di tornare ad Assisi, dove, dopo aver scritto il Testamento finale, muore nella sua Porziuncola: è il 3 ottobre 1226. Fu fatto santo da Gregorio IX il 16 luglio 1228.

2. Le opere
Il messaggio e l’insegnamento di Francesco stanno forse più nella sua esperienza di vita che nei suoi scritti, tanto più che egli era solito definirsi “semplice e illetterato”. Non si può negare, tuttavia, la sua attenzione per la predicazione e per la parola, strumenti necessari per illuminare la vita e dare senso all’esistenza, per esprimere l’amore per la Natura e la lode a Dio. La distinzione consueta delle sue opere proposta dagli editori moderni è la seguente:

- Regole ed esortazioni
Regola non bollata (comprende scritti fino al 1221)
Regola bollata (approvata da Onorio III nel 1223)
Regola di vita negli eremi
Ammonizioni (raccolta di riflessioni spirituali)
Testamento di Siena (maggio 1226)
Testamento finale (autoritratto e spaccato della sua vita)

- Lettere (Ai fedeli; Ai chierici; Ai reggitori di popoli; A tutto l’Ordine; etc.)

- Laudi e preghiere
Lodi di Dio Altissimo
Cantico di Frate Sole (o delle Creature)
Preghiera davanti al crocefisso
Ufficio della Passione del Signore

Come nota Carlo Paolazzi in Lettura degli “Scritti” di Francesco d’Assisi, queste opere <<non nascono da motivazioni culturali e letterarie, ma da esigenze di vita comunitaria e personale>>.

3. La figura e il messaggio
“Vivere secondo la forma del Vangelo” è la grande svolta che trasforma definitivamente la vita del giovane Francesco, un ragazzo che viveva nella ricchezza e sceglie la povertà, che sognava la gloria delle armi e si fa ambasciatore di pace e amore. La sfida di Francesco è quella di mostrare agli uomini del suo tempo come l’insegnamento del Vangelo possa essere vissuto da tutti, sempre, senza mezze misure, come ha detto Gesù: <<Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi>> (Gv, 13,15). “Io ho fatto la mia parte; quanto spetta a voi, ve lo insegni Cristo”, diceva Francesco.
Al centro del suo messaggio sta il mistero di Dio e l’amore con cui Francesco lo vive: è proprio Dio, Padre amorevole, sommo bene dal quale proviene ogni altro bene che egli intravede in tutte le cose, in tutte le creature: <<Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le tue creature>> (Cantico di Frate Sole). L’amore e la gratitudine di Francesco aumentano di fronte a Gesù, figlio di Dio, nato e morto per noi. L’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione di Gesù non soltanto testimoniano il suo amore per noi, ma sollecitano una risposta: seguire le orme di Gesù è rispondere a quest’amore: “Dobbiamo amare molto l’amore di colui che ci ha molto amati”.
Il pensiero e il messaggio di Francesco ebbero rapidissima diffusione e notevole influenza sulla cultura europea. Tra le più importanti figure francescane si ricordano anche parecchi filosofi: tra gli altri Bonaventura, Ruggero Bacone, Duns Scoto, Guglielmo d’Ockham.
In conclusione, soffermiamoci sulla figura di Francesco così come la delinea un suo discepolo, fra Gaspare da Petrignano:
“Conobbi Francesco un giorno mentre stavo tornando dal mercato: lo vedo e ne resto affascinato. Ha come vestito un sacco di iuta e siamo in pieno inverno. […] Lo invito a casa mia: mangiamo insieme e resto tutta la notte in piedi per parlare con lui. Non capisco bene quello che dice ma lo ascolto. Ho l’impressione di vivere per la prima volta. […] Gli chiedo dove abita e mi porta in una chiesetta mezza diroccata chiamata la Porziuncola. Senza pensarci troppo decido di vivere lì anch’io. […] Oggi ci hanno raggiunto altri tre fratelli: si chiamano Bernardo, Pietro ed Egidio. Li abbiamo sistemati tutti e tre dietro l’altare. […] Noi seguiamo Francesco, felici come non lo siamo mai stati nella vita. Le nostre regole sono: l’umiltà, la carità, l’obbedienza, la povertà, la serenità, la pazienza, il lavoro e la gioia. Ieri Francesco ha detto ad un contadino: <<Non coltivare tutto il tuo terreno. Lasciane un po’ alle erbacce, così vedrai spuntare anche i fratelli fiori>>. […] La cosa più bella che ho fatto grazie a Francesco è stato il presepio. Eravamo a Greccio, dalle parti di Rieti, quando lui ci parlò di Betlemme e della nascita di Gesù Bambino. Era il giorno di Natale. Francesco andò in paese e si fece prestare un bue e un asinello, poi convinse alcuni paesani a travestirsi da pastori e uno di loro venne con la moglie, una brava donna. Li nominammo subito Giuseppe e Maria. Insomma, mettemmo in piedi un presepe vivente. Il bambino ovviamente non c’era, eppure, roba da non credere, quando scoccò la mezzanotte tutti, ma proprio tutti, lo vedemmo sgambettare nella paglia. Impossibile raccontare fino a che punto siamo stati felici!”

4. Il Cantico delle Creature
Se esiste un componimento o uno scritto di Francesco che possa essere considerato il manifesto del suo pensiero e delle sue idee, è senz’altro il Cantico di Frate Sole, anche noto come Cantico delle Creature. In esso troviamo il grande amore di Francesco per Dio e per tutto il creato: è in tutte le creature che Francesco vede Dio, è amando tutto il creato che Francesco ama Dio. L’uomo è esso stesso una creatura, fratello di tutte le cose che esistono.

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria, l’honore et onne benedizione.
Ad te solo, Altissimo, se konfane,
e nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature,
spezialmente messor lo frate Sole,
lo quale è iorno et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significazione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le Stelle:
in celu l’ài formate clarite e preziose e belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
E per aere e nubilo e sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua,
la quale è multo utile et humile e pretiosa e casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la notte:
et ello è bello e iocundo e robustoso e forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta e governa,
e produce diversi frutti con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
e sostengo infirmitate e tribulazione.
Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue santissime voluntati,
ka la morte seconda no ‘l farrà male.

Laudate e benedicete mi’ Signore e rengraziate
e serviateli cum grande humiltate.

5. S. Francesco e Dante
Dante Alighieri dedica non pochi versi alla figura di Francesco: siamo nel Canto XI del Paradiso, Dante si trova nel cerchio degli spiriti sapienti dove, tra gli altri, è presente anche Tommaso d’Aquino. È proprio a quest’ultimo che Dante fa proferire l’elogio di Francesco, elogio profondo, allegorico e ricco di suggestioni (vv. 43-117).
L’elogio non si riduce ad una semplice biografia, né ricalca la ricca aneddotica, colorita ed incantevole, già solida e conosciuta ai tempi di Dante. Anzi, a onor del vero, la biografia si riduce all’essenziale: la nascita è raccontata con una complessa indicazione geografica, è seguita poi da pochi accenni alla conversione, dalla “guerra” col padre, e subito si arriva alle nozze con la Povertà. I versi proseguono narrando del formarsi dell’originario gruppo di discepoli, delle udienze ottenute da Francesco, prima con papa Innocenzo e poi con Onofrio, che diedero <<sigillo a sua religïone>> e <<corona>> alla sua <<santa voglia>>. Il racconto prosegue con cenni al viaggio in Oriente, all’eremitaggio e alle stigmate ricevute sul monte Verna, per chiudersi col ritorno di quest’<<anima preclara>> a Dio, con la morte in umiltà e la sepoltura nella nuda terra.
Centrale in questo canto, come nella vita di Francesco, è l’immagine dell’amore tra il giovane e la Povertà, con le loro “nozze mistiche” dinanzi alla <<spiritual corte et coram patre>>, l’immagine dell’amore per una tale donna <<a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra>>. Morte che, in quanto creatura di Dio, Francesco amava e rispettava come fosse sua sorella.
Come nota Auerbach: <<a questo per l’appunto serve l’allegoria della povertà: essa fa un tutto unico della missione del santo e dell’atmosfera particolare alla sua persona. […] In quanto donna di Francesco, la povertà possiede una realtà concreta, ma poiché Cristo fu il suo primo sposo, così la realtà concreta, di cui si tratta, è nello stesso tempo parte d’una grande concezione storica e dogmatica. Paupertas unisce Francesco con Cristo, stabilisce la posizione del santo quale imitator Christi>>.

Publié dans:San Francesco d'Assisi |on 13 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

LO SPLENDORE DELLA PACE DI FRANCESCO (SAN FRANCESCO) – DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

http://www.30giorni.it/articoli_id_375_l1.htm

LO SPLENDORE DELLA PACE DI FRANCESCO (SAN FRANCESCO)

«Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura». Un articolo per 30Giorni del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

Storie di san Francesco, Giotto, basilica superiore, Assisi
La preghiera di san Francesco nella chiesa di San Damiano, particolare, Storie di san Francesco, Giotto, basilica superiore, Assisi
Quando, giovedì 24 gennaio, sotto un cielo gravido di pioggia, si è mosso il treno che doveva condurre ad Assisi i rappresentanti di un gran numero di Chiese cristiane e comunità ecclesiali assieme ai rappresentanti di molte religioni mondiali per testimoniare e pregare per la pace, questo treno mi è apparso come un simbolo del nostro pellegrinaggio nella storia. Non siamo, infatti, forse tutti passeggeri di uno stesso treno? Il fatto che il treno abbia scelto come sua destinazione la pace e la giustizia, la riconciliazione dei popoli e delle religioni non è forse una grande ambizione e, al contempo, uno splendido segnale di speranza? Ovunque, passando nelle stazioni, è accorsa una gran folla per salutare i pellegrini della pace. Nelle strade di Assisi e nella grande tenda, il luogo della testimonianza comune, siamo stati nuovamente circondati dall’entusiasmo e dalla gioia piena di gratitudine, in particolare di un numeroso drappello di giovani. Il saluto della gente era diretto principalmente all’uomo anziano vestito di bianco che stava sul treno. Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni. Ma l’applauso, rivolto innanzitutto al Papa, esprimeva anche un consenso spontaneo per tutti coloro che con lui cercano la pace e la giustizia, ed era un segnale del desiderio profondo di pace che provano gli individui di fronte alle devastazioni che ci circondano provocate dall’odio e dalla violenza. Anche se talvolta l’odio appare invincibile e si moltiplica senza sosta nella spirale della violenza, qui, per un momento, si è percepita la presenza della forza di Dio, della forza della pace. Mi vengono alla mente le parole del salmo: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18, 30). Dio non ci mette gli uni contro gli altri, bensì Egli che è Uno, che è il Padre di tutti, ci ha aiutato, almeno per un momento, a scavalcare le mura che ci separano, facendoci riconoscere che Egli è la pace e che non possiamo essere vicini a Dio se siamo lontani dalla pace.
Due immagini della Giornata di Assisi: in alto, il muftì della moschea di Roma mentre depone la lampada sul tripode posto davanti al palco; a destra, un gruppo di leader religiosi non cristiani
Due immagini della Giornata di Assisi: in alto, il muftì della moschea di Roma mentre depone la lampada sul tripode posto davanti al palco; a destra, un gruppo di leader religiosi non cristiani
Nel suo discorso il Papa ha citato un altro caposaldo della Bibbia, la frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è la nostra pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Pace e giustizia sono nel Nuovo Testamento nomi di Cristo (per «Cristo, nostra giustizia» vedere ad esempio 1Cor 1, 30). Come cristiani non dobbiamo nascondere questa nostra convinzione: da parte del Papa e del Patriarca ecumenico la confessione di Cristo nostra pace è stata chiara e solenne. Ma proprio per questa ragione c’è qualcosa che ci unisce oltre le frontiere: il pellegrinaggio per la pace e la giustizia. Le parole che un cristiano deve dire a colui che si mette in cammino verso tali mete sono le stesse usate dal Signore nella risposta allo scriba che aveva riconosciuto nel duplice comandamento che esorta ad amare Dio e il prossimo la sintesi del messaggio veterotestamentario: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34).
Per una giusta comprensione dell’evento di Assisi, mi sembra importante considerare che non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia. Infatti, là dove manca la giustizia, dove agli individui viene negato il loro diritto, l’assenza di guerra può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione.
Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia, i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione. Ciò vale anche per noi cristiani. Siamo giunti veramente a Cristo solo se siamo arrivati alla sua pace e alla sua giustizia. Assisi, la città di san Francesco, può essere la migliore interprete di questo pensiero. Anche prima della sua conversione Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere prigioniero e sconfitto era formato da cristiani. Fu solo allora, sconfitto, prigioniero, sofferente, che cominciò a pensare al cristianesimo in modo nuovo. E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del Crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza. Solo allora vide come la nudità del Crocifisso, la sua povertà e la sua umiliazione estreme fossero in contrasto con il lusso e la violenza che prima gli apparivano normali. E solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa, bensì bisognava prendere alla lettera il messaggio dell’imitazione del Crocifisso.
Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura. Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo. E se altri si uniscono a noi nella ricerca della pace e della giustizia, né loro né noi dobbiamo temere che la verità possa venir calpestata da belle frasi fatte. No, se noi ci dirigiamo seriamente verso la pace allora siamo sulla via giusta perché siamo sulla via del Dio della pace (Rm 15, 32) il cui volto si è fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo.

LA MUSICA PIÙ BELLA (San Francesco)

http://www.santippolito.org/comunita/4ottobre2010.asp

LA MUSICA PIÙ BELLA (San Francesco)

Festa della Comunità Parrocchiale – 4 Ottobre 2010

La Musica più bella ancora non te l’ho suonata… le parole più belle ancora non tele ho dette… i giorni più belli ancora non li abbiamo vissuti! Eppure di giorni insieme ne abbiamo passati tanti a partire dal 4 ottobre di 76 anni fa quando veniva posta la prima pietra della nostra Chiesa… una chiesa più di note che di mattoni, come sembra ricordarci la copertina del libretto dei canti disegnata da Alessandro.
Da dove nasce allora un augurio così, da dove viene tanta voglia di cantare? È quello che si è chiesto Francesco d’Assisi: « Fino ad allora la sua gaiezza poteva sembrare il riflesso di una gioventù dorata. Ma ecco che questo umore si mantiene e si rafforza nel buio di una prigione. Era dunque un’altra l’origine di questa gioia, veniva da più lontano che da una semplice ebbrezza del mondo. Nessun chiarore gli arriva e allora canta e trova nel canto la sua vera casa e la sua vera natura. Non è che la prima intuizione, Francesco indovina d’istinto che la verità è più in basso che in alto, più nella mancanza che nella pienezza … lo sa , lo sente. Ma vi è ancora un’ombra fra lui e la sua gioia, fra il mondo che trova luce in Dio e il mondo che gli brucia nel cuore. Un’intima reticenza che esprime con la precisione del muratore » (L’infinitamente Piccolo, C. Bobin):

Il Signore dette a me frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così:
quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi;
e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.
E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo.

Per Francesco questo è il punto di non ritorno… esce di là con la febbre nel cuore, o piuttosto non ne uscirà più. Ha trovato la casa del suo Signore, ora sa dove abita l’Infinitamente Piccolo: ai margini delle luci di quel secolo, la dove la vita manca di tutto. La è il luogo dove Francesco tornerà tutta la vita… quando la vita s’incarta e ha bisogno di vedere con gli occhi del corpo quello che era diventato oscuro agli occhi del cuore. Per questo ammoniva sempre ai suoi frati, lasciandolo come il tesoro più prezioso del suo testamento: di tornare ai lebbrosi la dove la vita prende origine.
Da questa prospettiva la festa della Dedicazione della nostra chiesa acquista una luce diversa, fioca come le candele sulle colonne portanti dove sono affisse le croci della consacrazione, tenera come lo sguardo di una madre (e ce n’erano tante, dalle più anziane a quelle in attesa) flebile come la voce di un bambino. Anche perché il ricordo non si ferma al 1934 e nemmeno al 1208, quando Francesco cominciò quel viaggio continuato secoli dopo da Padre Leone e i suoi compagni nel nostro quartiere; ma risale come un rivotorto – il lebbrosario d’Assisi – fino a Gesù Cristo, la sorgente in cui siamo stati immersi per diventare figli di Dio.
Per questo siamo in festa: per la benedizione del nuovo Fonte Battesimale, dove nasce la Chiesa, questo pezzetto di Chiesa che è Sant’Ippolito, persone nuove che diventano « fonte d’acqua viva che zampilla per la vita eterna » . Quel Fonte sta li a ricordarci quale grande dono ci ha dato il Padre, di essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. Quel Fonte da cui comincia la Vita c’invita – stavolta suona bene – a prendere il giogo del Signore Gesù, perché è leggero, perché per un Dio così vale la pena vivere. E quel Fonte è là per gli affaticati e gli oppressi che hanno perduto il senso e la sete della vita, perché meglio che si prosciughi la sete che la fonte, perché quando la sete tornerà la fonte sarà sempre li a dissetarti.
E’ un mistero… davvero tutto questo in una goccia d’acqua… cioè H2O, una sostanza inodore, incolore insapore? Ma sono immagini del Vangelo di questa Festa, proprio quello in cui Gesù ringrazia il Padre perché ha rivelato queste cose ai piccoli e le ha tenute nascoste ai dotti e ai sapienti. E’ una scelta di campo questa che Francesco con la sua Preghiera Semplice e Maria con il Magnificat hanno tradotto nella loro vita. Maria infatti « non è come certe madri, che per amore di quieto vivere, danno ragione a tutti, e pur di non creare problemi finiscono con l’assecondare i soprusi dei figli più discoli. Lei prende posizione senza ambiguità e senza mezze misure. La parte su cui sceglie di attestarsi non è però il fortilizio delle rivendicazioni di classe, ma il terreno l’unico, dove Lei spera che un giorno ricomposti i conflitti, tutti i suoi figli, ex oppressi ed ex oppressori, ridiventati fratelli possano trovare la loro liberazione » (Don Tonino Bello).
 Quasi a sottolineare questo passaggio ci pensa una preghiera dei fedeli scritta di corsa in sagrestia che finiva così: ti preghiamo di cominciare questo nuovo anno a servizio dei piccoli e dei grandi… in realtà era i poveri ma l’abbiamo copiata male in bella copia, però forse ci aiuta a comprendere che questo Vangelo non esclude coloro che non sono piccoli perché in realtà siamo tutti piccoli e poveri di fronte a Dio, il grande Elemosiniere. Prenderne atto è un’autentica esperienza di liberazione, un’alternativa alla mentalità che regola l’economia del mondo, una profezia che annuncia l’incarnazione di Gesù nella nostra vita: il lupo dimorerà insieme con l’agnello (Isaia 11).
Allora il sole, riflesso sulle vetrate, non si rattrista se è la fiammella di una candela ad indicare dove è custodito il Corpo del Signore, né l’oro s’incupisce perché una mollica di pane è divenuta così preziosa da doverla contenere, ma si compiace di avere lo stesso colore del grano da cui quella proviene. Allora anche il Figlio maggiore può incamminarsi verso casa e prendere parte alla Festa.
Mentre continua la Messa me li sono immaginati così: s’incensano le colonne della Chiesa dove sono affisse le dodici croci della consacrazione della Chiesa e Francesco sembra dire a Maria « Ave Signora, Santa Regina, Santa Madre di Dio, Maria, che sei vergine fatta Chiesa » e dopo la Comunione, quando il Corpo di Gesù viene riposto nel nuovo tabernacolo – una teca dorata con l’effige di un agnello, racchiuso da un’ogiva di marmo metafora di una donna in cinta – continua ancora « Ave suo palazzo, ave suo tabernacolo, ave sua casa » come in una serenata.
Giusto il tempo di un fugace sorriso, poi Lei, Donna di servizio, Donna del Pane, va giù con Rossella, Stefania, Rita e tutte le altre a cucinare, e lui, l’uomo fraterno, si sofferma sull’uscio della chiesa a chiacchierare con Petra, Marco e gli altri fratelli randagi che ci salutano ogni volta e ogni volta c’interrogano. Giù nel salone corrono su un muro le immagini di questo anno (del resto è un metodo che si è inventata santa Chiara) per sentirsi presenti al cammino e al servizio della comunità perché anche se poi non siamo andati a piedi ad Assisi o in traghetto in Albania abbiamo fatto comunque tutto tutti insieme. Ecco perché alla fine dobbiamo ringraziarci tutti, l’uno con l’altro ringraziando Dio di avere tanti fratelli e pregare che avvenga per noi come Francesco:

…dopo che il Signore mi ebbe dato dei frati,
nessuno mi diceva cosa dovessi fare
ma lo stesso Altissimo mi rivelò…
…che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo.

…e vivere il Vangelo nella vita di ogni giorno anche quando non pensiamo a Dio, imbottigliati nel traffico o in un laboratorio di chimica (salutando Stefano, con la sua chitarra, mi viene questa immagine) perché ogni cosa che avremo fatto ad uno solo dei suoi fratelli più piccoli, l’avremo fatto a Lui.

Emilio C.

Publié dans:San Francesco d'Assisi, Santi |on 8 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

OMELIA PER LA FESTA DI S. FRANCESCO

http://www.ignaziosanna.com/files/Omelia-per-la-festa-di-San-Francesco.-2012.pdf

OMELIA PER LA FESTA DI S. FRANCESCO

(ORISTANO, CHIESA DI S. FRANCESCO, 4 OTTOBRE 2012)

di  Mons Ignazio Sanna

Cari fratelli e sorelle,

due sono le indicazioni che ci propone la liturgia della parola in occasione della festa di S. Francesco, patrono d’Italia: essere “nuova creatura”; “prendere il giogo del Signore”. Su di esse abbiamo meditato altre volte. Ma il loro insegnamento è sempre
nuovo e attuale. Relativamente all’invito a diventare nuova creatura, la Parola di Dio ci dice che il cristiano diventa una nuova creatura nella misura in cui vive in Cristo. « Se uno è in Cristo, dice S. Paolo, è una nuova creatura. » (2Cor 5, 17). In effetti, S. Paolo ha incontrato Cristo e ne è rimasto talmente conquistato, che ciò che prima considerava un guadagno è diventato una perdita; ciò che prima considerava importante è diventato una spazzatura. Sull’esempio di S. Paolo, ora, noi cristiani siamo invitati a incontrare Cristo in modo tale che egli diventi una compagnia e una presenza che ci cambia la vita. Può succedere, infatti, che noi conosciamo la storia di Gesù e i suoi insegnamenti. Ma questo non basta per dire che siamo buoni credenti. Per essere anche credibili, dobbiamo passare da una conoscenza formale e scolastica della dottrina cristiana alla comunione di vita con la Persona di Gesù. Agostino ha espresso stupendamente questo pensiero: « Di tutte queste cose ero dunque certo, eppure ero totalmente incapace di godere di te ». Dunque: si gode della presenza di una Persona, non dell’osservanza di un comandamento o dell’assenso ad una dottrina. Se l’incontro personale è vero e autentico la presenza di colui che incontriamo opera un cambiamento della vita. Quando Dante incontra Beatrice, scrive: incipit vita nova, comincia una vita nuova. Se la nostra vita cristiana non è cambiata, può darsi che non abbiamo incontrato veramente Cristo, o, se lo abbiamo incontrato, questo è avvenuto solo a livello delle lezioni di catechismo, delle lezioni di religione nella scuola, delle letture di libri e riviste, ma non nella vita concreta di tutti i giorni. Ciò che deve cambiare è la nostra vita quotidiana: quella dei giorni del lavoro e della festa, dei giorni del dolore e della gioia, dei giorni del successo e della sconfitta, dei giorni della forza e della debolezza. Essa è l’intreccio dei nostri affetti, delle nostre preoccupazioni, delle nostre malattie, delle nostre speranze e delle nostre delusioni.2 Ogni cosa ha il suo momento, ci insegna il saggio del Qoèlet: “c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per danzare, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Qo 3, 1-8). Tutte queste vicende della vita vanno vissute come tempo di salvezza, ossia come momenti di comunione con Gesù, Signore della vita e della morte, conforto di chi soffre e
perdono di chi pecca. Abbiamo dei bei esempi di chi è vissuto e ha operato in costante comunione con Dio. Il giudice Rosario Livatino, assassinato dalla mafia, scriveva ogni giorno nella sua agenda di lavoro: “sub tutela Dei”, sotto la protezione
di Dio. Per quanto riguarda l’invito di Gesù a prendere il suo giogo, possiamo anzitutto lasciarci illuminare da S. Agostino, che, nel sermone 70, ha scritto: “A molti pare strano quando sentono il Signore che dice: Venite da me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero” (Mt 11, 28-30). Eppure, l’Apostolo Paolo, replica S. Agostino, ha trovato quel giogo soave e quel carico leggero: “In ogni circostanza, scrive S. Paolo, ci presentiamo come ministri di Dio con molta pazienza nelle sofferenze, nelle difficoltà e nelle angosce, nelle percosse” (2Cor 6, 4). “Dai giudei, aggiunge l’Apostolo, ho ricevuto cinque volte quaranta frustate meno una. Tre volte sono stato percosso con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio; ho trascorso un giorno e una notte in alto mare, e tutti gli altri pericoli che si possono contare ma non si possono sopportare se non con l’aiuto dello Spirito Santo” (Cfr. 2Cor 11, 24). “Tutte queste avversità e pene, precisa S. Agostino, l’Apostolo Paolo le sopportava di frequente e in gran numero, perché era assistito dallo Spirito Santo, il quale, mentre l’uomo esteriore si corrompeva, rinnovava di giorno in giorno l’uomo interiore, gli faceva gustare nel riposo spirituale l’abbondanza delle delizie divine e con la speranza della beatitudine futura leniva tutti i disagi e alleviava tutti i pesi del presente. Il giogo di Cristo era soave e il peso ch’egli portava era leggero fino al punto che chiamava lieve sofferenza tutte le avversità e tutte le terribili prove di cui inorridisce chiunque le sente raccontare”. Ora, il giogo che Gesù ci invita a prendere, di per sé, non è “dolce”, perché il vero significato del termine greco è: “utile”, “fatto a misura”. Il giogo di Gesù, quindi, è 3 creato esattamente per la nostra vita, non supera le nostre forze, non ci fa cadere sotto il suo peso. Inoltre, siccome esso, come per essere applicato ai buoi, è sempre fatto per una coppia, ci viene assicurato che il nostro partner è Gesù stesso. L’assicurazione che Gesù è il nostro partner e porta il nostro peso è molto importante soprattutto perché Egli ha detto che la vita di un discepolo non sarebbe stata facile, ma pesante: “Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figliuol dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9, 58). In altre parole, i suoi discepoli dovevano condurre uno stile di vita precario senza una sistemazione permanente. Gesù aveva anche detto, “chi non porta la sua croce e non vien dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 27). Cioè, la vita di un discepolo sarebbe stata una vita di sacrificio. Un simile stile di vita sarebbe necessariamente stato caratterizzato da dedizione estrema verso il proprio dovere e verso il proprio maestro: “Nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi si volta indietro è adatto al regno di Dio” (Lc 9, 62); “Seguimi, e lascia i morti seppellire i loro morti” (Mt 8, 22).Un episodio della vita di S. Francesco attualizza il messaggio della Parola di Dio di questa celebrazione in modo eccellente. Il suo biografo Tommaso da Celano, infatti, descrive il cambiamento di S. Francesco dopo il suo incontro con Gesù in questi termini: “Si reca tra i lebbrosi e vive con essi per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi e ne cura le piaghe… La vista dei lebbrosi gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva in lontananza i loro ricoveri, si turava il naso. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso e fece violenza a sé stesso, gli si avvicinò e lo baciò”. S. Francesco, dunque, ci insegna che la potenza dell’amore abbatte ogni barriera umana e sociale. Prima di lui, S. Agostino aveva scritto: “il mio peso è il mio amore. Io sarò in qualunque parte l’amore mi porti”. Questi sono i grandi santi e i grandi maestri della storia cristiana. A noi il dovere d’imparare la loro lezione e riprodurne il coraggio nelle sfide della vita.
Amen.

SAN FRANCESCO E L’EUCARESTIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/09-San_Francesco_Eucarestia.html

SAN FRANCESCO E L’EUCARESTIA

San Francesco amò grandemente la liturgia e da essa trasse nutrimento per la sua vita interiore. E volle che fosse così anche per i suoi frati. Egli stabilì che usassero la liturgia della curia papale e fu per questo motivo che i francescani, nel loro dinamismo e nella loro diffusione, contribuirono a rendere universale questa liturgia.
È per il loro influsso e per la revisione del breviario e del messale compiuta dal loro quarto generale, P.Aimone da Faversham, che messale e breviario francescano, divennero di fatto il messale e il breviario della chiesa intera. L’Ordine Francescano nacque in un momento in cui quella che noi chiamiamo “partecipazione attiva e consapevole del popolo alla vita liturgica” era già perduta. Il latino, ormai, non era più inteso dal popolo.
Nel fervore di rinascita della vita dei Comuni si andava affievolendo il senso religioso dei laici verso i sacerdoti e del popolo in genere verso la gerarchia ecclesiastica. Frattempo, si stava fissando il ciclo liturgico con una ricchezza e una varietà talvolta eccessiva e confusa.
Inoltre, per svariate ragioni, alla diffusione della fede e al prestigio, anche materiale, della Chiesa, non corrispondeva sempre un’intensità di vita cristiana consapevole e profonda.
Il distacco tra chierici, dotti e potenti, e i laici, che non sapevano il latino e si occupavano dei traffici e dei lavori di questo mondo, si proiettava e si approfondiva nella vita liturgica. In particolare veniva a soffrirne l’aspetto sacramentale della liturgia stessa, soprattutto quello eucaristico. Comunione e culto della presenza reale erano fortemente trascurati.

Un’offerta viva
In questo contesto si colloca il forte amore di Francesco per l’Eucaristia. Il culto che ne consegue è una chiara eredità peculiare e singolare dei figli di Francesco. È certo che al centro della vita di Francesco stava il Cristo: il Cristo del Vangelo a cui egli voleva conformarsi in tutto, “l’altissimo Figlio di Dio”, il cui “santissimo corpo e il sangue suo… solamente i sacerdoti consacrano ed essi soli amministrano agli altri”.
Di qui la venerazione di Francesco per i sacerdoti, il restauro e la cura per le chiese povere, il culto per l’Eucaristia, la premura di assistere ogni giorno al sacrificio della Messa, con adesione piena, per cui “riteneva grave segno di disprezzo – afferma il suo biografo Tommaso da Celano – non ascoltare ogni giorno la Messa, se il tempo lo permetteva. Francesco si comunicava sovente e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri.
Infatti, essendo colmo per questo venerando sacramento, offriva il sacrificio di tutte le sue membra, e quando riceveva l’Agnello immolato, immolava il suo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre nell’altare del suo cuore. Un giorno volle mandare dei frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro”.

Francesco voleva inoltre
“che si dimostrasse grande rispetto alle mani del sacerdote, perché ad esse è stato conferito il divino potere di consacrare gli altri. Se mi capitasse – diceva – di incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il prete e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: “Oh! Aspetta, San Lorenzo; perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano”.

Sorpresa adorante
Si notino in questa citazione i vari elementi accennati: ammirato stupore di fronte al mistero eucaristico, espressione della benevolenza divina; partecipazione quotidiana alla Messa; comunione frequente, offerta di se stesso e immedesimazione con il sacrificio di Cristo, tanto da diventare un altare vivente, e questo mi pare essere l’aspetto più interessante di Francesco.
L’Eucaristia, durante la celebrazione e dopo, nella sua realtà salvifica come nelle persone, negli oggetti e nei luoghi che la circondano, è oggetto da parte di Francesco di un unico sguardo di fede, di amore e di venerazione sincera perché Francesco si immedesimava con il mistero eucaristico stesso. Francesco non solo trovava nell’Eucaristia, sacrificio e sacramento, ispirazione e alimento per la sua pietà personale, ma vedeva realmente in essa il centro della fede e della vita cristiana, a cui è ordinato il sacerdozio e tutto il culto.
Egli vedeva nell’Eucaristia il prolungamento dell’Incarnazione e intuiva l’universalità e la perennità del sacrificio di Cristo e la necessità di associarsi ad esso. La sua grande venerazione per il mistero eucaristico lo portava a pregare con queste parole: “ Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo”. Questa preghiera composta dal Santo ha un eminentemente sapore eucaristico e liturgico ed è uno splendido saggio di preghiera francescana.
La fede di Francesco abbracciava tutti i segni esterni della presenza di Cristo, unendo nella preghiera, l’adorazione e la lode, l’Eucaristia e la croce. Per Francesco, dunque, il ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo, non è mai un incontro individuale dell’anima con Cristo, ma la partecipazione, anzi la conformazione di tutta la sua persona alla Passione che viene celebrata nell’Eucaristia.
Il Cristo presente nel mistero eucaristico, non è il Cristo del ricordo devoto, ma il Cristo vivente e vivificante nella pienezza della gloria che “riempie presenti e assenti, che sono degni di lui”.
L’Eucaristia quindi come invito alla conformazione a Cristo è perpetuazione dell’Incarnazione e della Passione: un invito pressante alla radicale sequela del Cristo povero:
“O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umilii da nascondersi, per la nostra salvezza in poca apparenza di pane! Guardate, frati, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché Egli vi esalti. Nulla, dunque, di voi tenete per voi; affinché vi accolga tutti Colui che a voi si dà tutto”.

Giuseppe Bonardi

Publié dans:liturgia, San Francesco d'Assisi, Santi |on 2 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA DI S. FRANCESCO: “CON GESU’ SEMPRE NEL CUORE”

http://digilander.iol.it/benparker/NET/NUOVI%20FILOCALIA/VARI/Francesco.htm

(il sito è sull’esicasmo)

LA PREGHIERA DI S. FRANCESCO: “CON GESU’ SEMPRE NEL CUORE”

Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra

Pregava il Padre suo in segreto
 Alla periferia della città c’era una grotta, in cui essi andavano sovente, parlando del «tesoro». L’uomo di Dio, già santo per desiderio di esserlo, vi entrava, lasciando fuori il compagno ad attendere, e, pieno di nuovo insolito fervore, pregava il Padre suo in segreto.
Desiderava che nessuno sapesse quanto accadeva in lui là dentro; e, celando saggiamente a fin di bene il meglio, solo a Dio affidava i suoi santi propositi.
Supplicava devotamente Dio eterno e vero di manifestargli la sua via e di insegnargli a realizzare il suo volere.
Si svolgeva in lui una lotta tremenda, né poteva darsi pace, finché non avesse compiuto ciò che aveva deliberato.
Mille pensieri l’assalivano senza tregua e la loro insistenza lo gettava nel turbamento e nella sofferenza.
Bruciava interiormente di fuoco divino, e non riusciva a dissimulare il fervore della sua anima.
Deplorava i suoi gravi peccati, le offese fatte agli occhi della maestà divina.
Le vanità del passato o del presente non avevano per lui più nessuna attrattiva, ma non si sentiva sicuro di saper resistere a quelle future.

Portava Gesù sempre nel cuore
 I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l’abbondanza dei santi affetti del cuore, e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori.
Era davvero molto occupato con Gesù.
Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra.
Quante volte, mentre sedeva a pranzo, sentendo o pronunciando lui il nome di Gesù, dimenticava il cibo temporale e, come si legge di un santo, «guardando, non vedeva e ascoltando non udiva».
C’è di più, molte volte, trovandosi in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava a invitare tutte le creature alla lode di Gesù.
Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perchè fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui, che egli aveva la grazia di contemplare, durante l’estasi, nella gloria indicibile e incomprensibile, seduto alla «destra del Padre», con il quale l’egualmente altissimo Figlio dell’Altissimo, assieme con lo Spirito Santo vive e regna, vince e impera, Dio eternamente glorioso, per tutti i secoli. Amen!

Si sentiva un peccatore perdonato
 Un giorno, pieno di ammirazione per la misericordia del Signore in tutti i benefici a lui elargiti, desiderava conoscere dal Signore che cosa sarebbe stato della sua vita e di quella dei suoi frati.
A questo scopo si ritirò, come spesso faceva, in un luogo adatto per la preghiera. Vi rimase a lungo invocando con timore e tremore il Dominatore di tutta la terra, ripensando con amarezza gli anni passati malamente e ripetendo: «O Dio, sii propizio a me peccatore!»
A poco a poco si sentì inondare nell’intimo del cuore di ineffabile letizia e immensa dolcezza.
Cominciò come a uscire da sé: l’angoscia e le tenebre, che gli si erano addensate nell’animo per timore del peccato, scomparvero, ed ebbe la certezza di essere perdonato di tutte le sue colpe e di vivere nello stato di grazia.
Poi, come rapito fuori di sé e trasportato in una grande luce, che dilatava lo spazio della sua mente, poté contemplare liberamente il futuro.
Quando quella luce e quella dolcezza dileguarono, egli aveva come uno spirito nuovo e pareva un altro.

Poneva tutta la sua fiducia in Dio
 In quella fossa, che era sotto la casa, ed era nota forse ad uno solo, rimase nascosto per un mese intero, non osando uscire che per stretta necessità.
Mangiava nel buio del suo antro il cibo che di tanto in tanto gli veniva offerto, e ogni aiuto gli era dato nascostamente. Con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse dalle mani di chi perseguitava la sua anima e gli concedesse la grazia di compiere i suoi voti.
Nel digiuno e nel pianto invocava la clemenza del Salvatore e, diffidando di se stesso, poneva tutta la sua fiducia in Dio.
Benché chiuso in quel rifugio tenebroso, si sentiva inondato da indicibile gioia, mai provata fino allora. Animato da questa fiamma interiore, decise di uscire dal suo nascondiglio ed esporsi indifeso alle ingiurie dei persecutori.

Il suo contegno nella preghiera
 Quando ritornava dalle sue preghiere personali, durante le quali si trasformava quasi in un altro uomo, cercava di conformarsi quanto più poteva agli altri, per il timore che, se appariva col volto raggiante, il venticello dell’ammirazione non gli togliesse il merito guadagnato. Anzi spesso ripeteva ai suoi intimi: «Quando il servo di Dio nella preghiera è visitato dal Signore con qualche nuova consolazione, deve prima di terminare, alzare gli occhi al cielo e dire al Signore a mani giunte:  « Tu, o Signore, hai mandato dal cielo questa dolce consolazione a me indegno peccatore: io te la restituisco, affinché tu me la metta in serbo, perché io sono un ladro del tuo tesoro ! ».
E ancora: «Signore, toglimi il tuo bene in questo mondo, e conservamelo per il futuro ».
E continuava: « Così deve comportarsi, in modo che, quando esce dalla preghiera, si mostri agli altri così poverello e peccatore, come se non avesse conseguito nessuna nuova grazia ».
E spiegava: «Per una mercede di poco valore capita di perdere un bene inestimabile e di provocare facilmente il nostro benefattore a non ridarlo più».
Infine, era suo costume alzarsi a pregare così di nascosto e silenziosamente, che nessuno dei compagni poteva accorgersi che si alzava o pregava. Quando invece alla sera si metteva a letto, faceva rumore e quasi strepito, per far sentire a tutti che andava a coricarsi.

Insegnava a pregare e lodare Dio
 Quando, poi, i frati gli chiesero che insegnasse loro a pregare, disse: Quando pregate, dite:   Padre nostro, e: «Ti adoriamo, o Cristo,  in tutte le tue chiese che sono in tutto il mondo,  e ti benediciamo, perché,  per mezzo della tua santa croce,  hai redento il mondo».
Inoltre insegnò loro a lodare Dio in tutte le creature e prendendo lo spunto da tutte le creature, ad onorare con particolare venerazione i sacerdoti, come pure a credere fermamente e a confessare schiettamente la verità della fede, così come la tiene e la insegna la santa Chiesa romana.
Essi osservavano in tutto e per tutto gli insegnamenti del padre santo e, appena scorgevano qualche chiesa da lontano, o qualche croce, si volgevano verso di essa, prostrandosi umilmente a terra e pregando secondo la forma loro indicata.

Si dimostrava poverello e peccatore
 Quando, trovandosi in pubblico, veniva improvvisamente visitato dal Signore, cercava sempre di celarsi in qualche modo ai presenti, perché gli intimi contatti con lo Sposo non si propagassero all’esterno.
Quando pregava con i frati, evitava assolutamente le espettorazioni, i gemiti, i respiri affannosi, i cenni esterni, sia perché amava il segreto, sia perché, se rientrava nel proprio intimo, veniva rapito totalmente in Dio.
Spesso ai suoi confidenti diceva cose come queste «Quando il servo di Dio, durante la preghiera, riceve la visita del Signore, deve dire: « O Signore, tu dal cielo hai mandato a me, peccatore e indegno, questa consolazione, e io la affido alla tua custodia, perché mi sento un ladro del tuo tesoro ».
E quando torna dall’orazione, deve mostrarsi così poverello e peccatore, come se non avesse ricevuto nessuna grazia speciale».

Trascorreva il tempo nella preghiera
 Francesco, uomo di Dio, sentendosi pellegrino nel corpo lontano dal Signore, cercava di raggiungere con lo spirito il cielo e, fatto ormai concittadino degli Angeli, ne era separato unicamente dalla parete della carne. L’anima era tutta assetata del suo Cristo e a Lui si offriva interamente nel corpo e nello spirito.
Delle meraviglie della sua preghiera diremo solo qualche tratto, per quanto abbiamo visto con i nostri occhi ed è possibile esporre ad orecchio umano, perché siano d’esempio ai posteri.
Trascorreva tutto il suo tempo in santo raccoglimento, per imprimere nel cuore la sapienza; temeva di tornare indietro se non progrediva sempre.
E se a volte urgevano visite di secolari o altre faccende, le troncava più che terminarle, per rifugiarsi di nuovo nella contemplazione.
Perché a lui, che si cibava della dolcezza celeste, riusciva insipido il mondo, e le delizie divine lo avevano reso di gusto difficile per i cibi grossolani degli uomini.

I suoi luoghi di preghiera
 Cercava sempre un luogo appartato, dove potersi unire non solo con lo spirito, ma con le singole membra, al suo Dio.
E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola col mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica, per non svelare la manna nascosta.
Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave.
Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto  (cfr. il parallelo con gli esicasti).
Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore.

Il suo fervore
Quando pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo.
E in realtà, per offrire a Dio in molteplice olocausto tutte le fibre del cuore, considerava sotto diversi aspetti Colui che e sommamente Uno.
Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente.
Ma di quanta dolcezza sarà stato inondato, abituato come era a questi trasporti? Soltanto lui lo sa; io non posso che ammirarlo. Solo chi ne ha esperienza, lo può sapere; ma è negato a chi non l’esperimenta. Quando il suo spirito era nel pieno del fervore, egli con tutto l’esteriore e con tutta l’anima completamente in deliquio si ritrovava già nella perfettissima patria del regno dei cieli.
Il Padre era solito non trascurare negligentemente alcuna visita dello Spirito: quando gli si presentava, l’accoglieva e fruiva della dolcezza che gli era stata data, fino a quando il Signore lo permetteva.
Così, se avvertiva gradatamente alcuni tocchi della grazia mentre era stretto da impegni o in viaggio, gustava quella dolcissima manna a varie e frequenti riprese.
Anche per via si fermava, lasciando che i compagni andassero avanti, per godere della nuova visita dello Spirito e non ricevere invano la grazia.

Pregava senza interruzione
 Il servo di Cristo, vivendo nel corpo, si sentiva in esilio dal Signore e, mentre al di fuori era divenuto totalmente insensibile, per amor di Cristo, ai desideri della terra, si sforzava, pregando senza interruzione, di mantenere lo spirito alla presenza di Dio, per non rimanere privo della consolazione del Diletto.
Camminando e sedendo, in casa e fuori, lavorando e riposando, con la forza della mente restava così intento nella orazione da sembrare che avesse dedicato ad essa ogni parte di se stesso: non solo il cuore e il corpo, ma anche l’azione e il tempo.
Molte volte veniva investito da tale eccesso di devozione che, rapito al di sopra di se stesso, e oltrepassando i limiti della sensibilità umana, ignorava totalmente quanto avveniva al di fuori, intorno a lui.

Pregava in solitudine
 Per raccogliere con maggior raccoglimento l’interiore elargizione delle consolazioni spirituali, si recava nella solitudine e nelle chiese abbandonate, per pregarvi di notte, quantunque anche là provasse le orrende battaglie dei demoni, che venivano a conflitto con lui, quasi con un contatto fisico, e si sforzavano di stornarlo dall’impegno della preghiera.
Ma l’uomo di Dio li metteva in fuga con la potenza e l’instancabile fervore delle preghiere, e così se ne restava solo e in pace.
Riempiva i boschi di gemiti, cospargeva quei luoghi di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi dall’intimità di un più segreto santuario, ora rispondeva al giudice, ora supplicava il Padre, ora scherzava con lo Sposo, ora dialogava con l’amico.
Là fu visto, di notte, mentre pregava, con le mani e le braccia stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e circondato da una nuvoletta rifulgente: così la meravigliosa
luminosità e il sollevarsi del corpo diventavano testimonianza della illuminazione e della elevazione avvenuta dentro il suo spirito.

Su di lui lo spirito di profezia
 Indizi sicuri comprovano, inoltre, che durante queste elevazioni, per virtù soprannaturale, gli venivano rivelate le cose incerte ed occulte della sapienza divina, anche se egli non le divulgava all’esterno, se non nella misura in cui urgeva lo zelo della salvezza dei fratelli e dettava l’impulso della rivelazione dall’alto.
La dedizione instancabile alla preghiera, insieme con l’esercizio ininterrotto delle virtù, aveva fatto pervenire l’uomo di Dio a così grande chiarezza di spirito che, pur non avendo acquisito la competenza nelle Sacre Scritture mediante lo studio e l’erudizione umana, tuttavia, irradiato dai fulgori della luce eterna, scrutava la profondità della Scrittura stessa con intelletto limpido e acuto.
Si poso’ su di lui anche lo spirito multiforme dei profeti con tale pienezza e varietà di grazie che, per la potenza mirifica di quello spirito, egli si faceva vedere presente ai suoi frati assenti ed aveva notizia sicura dei lontani.
Penetrava pure i segreti dei cuori, come pure preannunziava gli eventi del futuro. Lo dimostrano con evidenza molti esempi e noi ne riporteremo qui alcuni.

La sua preghiera era efficace
 Mentre Francesco attraversava una provincia, gli venne incontro l’abate di un monastero, che lo venerava con profondo affetto.
L’abate scese da cavallo e si trattenne per qualche ora in conversazione con Francesco parlando sulla salvezza dell’anima sua. Al momento del commiato, l’abate gli chiese con viva devozione che pregasse per lui. Gli rispose Francesco: «Lo farò volentieri».
Quando l’abate fu un poco lontano, il Santo disse al suo compagno: «Fratello, fermiamoci un momento, perché voglio pregare per l’abate, come ho promesso». E si raccolse in orazione.
Era infatti abitudine di Francesco, se qualcuno per devozione lo avesse richiesto di pregare Dio per la salvezza della sua anima, di fare orazione più presto che poteva, per timore di scordarsene.
L’abate intanto seguitava il suo cammino. Non si era allontanato molto da Francesco, quando il Signore lo visitò nel cuore. Un soave calore gli soffuse il volto e per un istante si sentì elevato in estasi. Tornato in sé, subito si rese conto che Francesco aveva pregato per lui, cominciò a lodare Dio, e fu ricolmo di letizia nel corpo e nello spirito.
Da quel giorno provò per il Santo una devozione più grande, poiché aveva sperimentato in se stesso l’alta santità di Francesco. E finché visse considerò quello un grande miracolo, e più volte raccontava l’accaduto ai fratelli e agli altri.

La preghiera cibo dell’anima
 Una volta, che pioveva a dirotto, Francesco, obbligato dalla malattia, andava a cavallo. Era tutto bagnato, e scese dal giumento, quando volle dire le ore canoniche; e le recitò con fervente devozione e concentrazione, stando immobile sulla strada mentre la pioggia veniva giù senza sosta, come fosse in chiesa o in una celletta.
Disse poi al compagno: « Se il corpo esige di prendere in tutta pace e comodità il suo cibo, che insieme con lui diventerà pasto dei vermi: con quanta pietà e devozione non deve prendere l’anima il suo cibo, che è Dio stesso! »

Invocava il suo dolcissimo Iddio
 Andò una notte frate Lione al luogo e all’ora usata per dire mattutino con santo Francesco; e dicendo da capo al ponte, com’egli era usato, Domine, labia mea aperies, e santo Francesco non rispondendo, frate Lione non si tornò addietro, come santo Francesco gli avea comandato, ma con buona e santa intenzione passò il ponte ed entrò pianamente in cella sua, e non trovandolo, si pensò che fusse per la selva in qualche luogo in orazione.
Di che egli esce fuori e al lume della luna il va cercando pianamente per la selva: e finalmente egli udì la voce di santo Francesco e, appressandosi, il vide stare ginocchioni in orazione con la faccia e con le mani levate al cielo, e in fervore di spirito si dicea: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo? »
E queste medesime parole pure ripetea, e non dicea niuna altra cosa.
Per la qual cosa frate Leone, forte maravigliandosi di ciò levò gli occhi e guatò in cielo; e guatando sì vide venire dal cielo una fiaccola di fuoco bellissima e splendentissima, la quale discendendo si posò in capo di santo Francesco; e della detta fiamma udiva uscire voce, la quale parlava con santo Francesco; ma esso frate Lione non intendea le parole.
Vedendo questo e riputandosi indegno di stare così presso a quello luogo santo dov’era quella mirabile apparizione e temendo ancora di offendere santo Francesco o di turbarlo dalla sua considerazione, s’egli da lui fossi sentito, si si tirò pianamente addietro e, stando da lunge, aspettava di vedere il fine.
E guardando fiso, vide santo Francesco stendere tre volte le mani alla fiamma e finalmente dopo grande ispazio, e’ vide la fiamma ritornarsi in cielo.
Di che egli si muove sicuro e allegro della visione e tornavasi alla cella sua.

La sua gioia
 Avvenne che un ecclesiastico spagnolo, persona pia, ebbe la fortuna di incontrarsi e di parlare con san Francesco. Tra le altre cose che riferì riguardo ai frati che si trovavano in Spagna, rese felice il Santo con questa notizia: « I tuoi frati nel nostro paese vivono in un povero eremo, e si sono dati questo regime di vita: metà attendono ai lavori domestici e metà alla contemplazione. Ogni settimana, il gruppo degli attivi passa alla contemplazione e quello dei contemplativi all’esercizio del lavoro.
« Un giorno era già stata preparata la tavola, e, dato il segnale per chiamare gli assenti, arrivano tutti, eccetto uno, del gruppo contemplativo. Dopo un po’ vanno alla sua cella per chiamarlo a tavola, ma egli già si nutriva alla mensa ben più lauta del Signore.
« Era prostrato con la faccia a terra, le braccia aperte in forma di croce e non dava segno di vita né col respiro né con altro movimento. Due candelabri accesi, uno al capo e l’altro ai piedi, illuminavano la cella con una luce sfolgorante in modo meraviglioso.
« Lo lasciano in pace per non turbare l’estasi e non svegliare la diletta, sino a che non voglia». Però i frati cercano di osservare attraverso le fessure della cella, stando dietro il muro e spiando per le inferriate. Per essere brevi, mentre gli amici sono intenti ad ascoltare colei che se ne stava nel giardino, all’improvviso scompare tutto quel bagliore ed il frate ritorna in se stesso. Subito si alza e, recatosi a tavola, si accusa di essere giunto in ritardo.
Ecco – concluse l’ecclesiastico spagnolo – quanto è accaduto nella nostra terra! Francesco non stava in sé dalla gioia, inebriato com’era dal profumo dei suoi figli. Subito si mise a lodare il Signore e, come se il sentire parlare bene dei frati fosse l’unica sua gloria, esclamò dal più profondo del cuore:
« Ti ringrazio, Signore, che santifichi e guidi i poveri, perché mi hai riempito di gioia con queste notizie! Benedici, ti prego, con la più ampia benedizione e santifica con una grazia particolare tutti quelli che rendono odorosa di buoni esempi la loro professione religiosa! »

Era compassionevole con tutti
 Francesco voleva un giorno recarsi ad un eremo per dedicarsi più liberamente alla contemplazione; ma, poiché era assai debole, ottenne da un povero contadino di poter usare del suo asino.
Si era d’estate, ed il campagnuolo che seguiva il Santo arrampicandosi per sentieri di montagna, era stanco morto per l’asprezza e la lunghezza del viaggio.
Ad un tratto, prima di giungere all’eremo, si sentì venir meno riarso dalla sete. Si mise a gridare dietro al Santo, supplicandolo di avere misericordia di lui, perché senza il conforto di un po’ d’acqua sarebbe certamente morto.
Il Santo, sempre compassionevole verso gli afflitti, balzò dall’asino, e inginocchiato a terra alzò le mani al cielo e non cessò di pregare fino a quando si senti esaudito. «Su, in fretta – gridò al contadino – là troverai acqua viva, che Cristo misericordioso ha fatto scaturire ora dalla roccia per dissetarti».
Mirabile compiacenza di Dio, che piega così facilmente ai suoi servi! L’uomo bevve l’acqua scaturita dalla roccia per merito di chi pregava e si dissetò alla durissima selce. Non vi era mai stato in quel luogo un corso d’acqua, né si trovò dopo, per quante ricerche siano state fatte.
Quale meraviglia, se un uomo ripieno di Spirito Santo riunisce in sé le opere mirabili di tutti i giusti? Non è certo cosa straordinaria, se ripete azioni simili a quelle di altri Santi chi ha il dono di essere unito a Cristo per una grazia particolare.

 Amò sino alla fine i suoi frati
 Poi il Santo alzò le mani al cielo, glorificando il suo Cristo, perché poteva andare libero a lui senza impaccio di sorta.
Ma per dimostrare che in tutto era perfetto imitatore di Cristo suo Dio, amò sino alla fine i suoi frati e figli, che aveva amato fin da principio.
Fece chiamare tutti i frati presenti nella casa, e cercando di lenire il dolore che dimostravano per la sua morte, li esortò con affetto paterno all’amore di Dio.
Si intrattenne a lungo sulla virtù della pazienza e sull’obbligo di osservare la povertà, raccomandando più di ogni altra norma il santo Vangelo. Poi, mentre tutti i frati gli erano attorno, stese la sua destra su di essi e la pose sul capo di ciascuno cominciando dal suo vicario, disse:
«Addio voi tutti figli miei, vivete nel timore del Signore e conservatevi in esso sempre! E poiché si avvicina l’ora della prova e della tribolazione, beati quelli che persevereranno in ciò che hanno intrapreso! Io infatti mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla sua grazia».

FRANCESCO D’ASSISI, DALLA LITURGIA A SAN GREGORIO MAGNO

http://www.zenit.org/it/articles/francesco-d-assisi-dalla-liturgia-a-san-gregorio-magno

FRANCESCO D’ASSISI, DALLA LITURGIA A SAN GREGORIO MAGNO

Amare il prossimo e fare il bene: come il Poverello si è calato dentro la riflessione patristica e monastica precedente a lui

Roma, 03 Settembre 2013 (Zenit.org) Padre Pietro Messa

Nella propria attività pastorale, che sarà un modello per tutto il Medioevo, Gregorio Magno ha spesso commentato dei testi biblici. Come nei Moralia, anche nelle Homiliae in Evangelia, una vera e propria catechesi biblica inserita nell’azione liturgica, Gregorio insiste maggiormente sul senso “morale” della Sacra Scrittura. Così, nella festa di san Felice, nella basilica romana a lui dedicata, fece un commento al brano di Lc 11,35-40 facendone una lettura simbolica ed evidenziandone il senso tropologico. Nelle parole evangeliche «sint lumbi vestri praecincti», Gregorio intende il comando di vincere la lussuria della carne mediante la continenza. […]
Tra la spiegazione dei due diversi significati morali, Gregorio inserisce il motivo per cui, ad un comando negativo, ne fa seguito subito uno positivo: «quia minus est mala non agere, nisi etiam quisque studeat et bonis operibus insudare….». Come si nota, l’affermazione di Gregorio è di tipo morale e si riferisce alla vittoria sulla lussuria mediante la continenza e all’illuminazione del prossimo con l’esempio delle buone opere. Essa non ha alcun rapporto con la tematica del lavoro, argomento assente in questa omelia, ma ha una valenza più generale inglobando tutta la morale in due comandi: «munditia sit castitatis in corpore, et lumen veritatis in operatione».
La prima parte di questa sua omelia, è stata inserita dall’Ordinario di Innocenzo III nel Comune dei Santi in natali unius Confessoris Pontificis e quindi ebbe una vasta diffusione mediante la liturgia. Si potrebbe dire che, mediante la liturgia, essa andò a formare quel substrato culturale dal quale, nel Medioevo, si attingevano idee, concetti e modi di comunicare.
[…]
Considerando il contesto da cui le affermazioni di Gregorio Magno, Girolamo e Benedetto sono state estrapolate, come le stesse sono state utilizzate successivamente ed il modo con cui sono state recepite nella Regola non bolla di Francesco d’Assisi, si possono trarre alcune considerazioni.
Primariamente si può affermare che in questi casi la finalità è principalmente morale, cioè legata al modo di comportarsi nella vita pratica, e non dottrinale. Non è un caso che uno degli autori considerati è proprio Gregorio Magno, il padre occidentale alle cui opere, nel Medioevo, era riconosciuta la peculiarità dell’analisi del senso tropologico, cioè morale.
Se tutte e tre le affermazioni sono tratte da un ambito morale, solo quelle di Girolamo e di Benedetto riguardavano espressamente il lavoro. […].
Mentre i testi di Girolamo e Benedetto sono nati e sono stati interpretati sempre nell’ambito del tema del lavoro, il testo di Gregorio si è diffuso mediante la liturgia, o meglio le letture patristiche dell’Ordinario di Innocenzo III. Del testo di Gregorio — che mostra come non basta non fare il male, ma si deve pure operare il bene — nella Regola non bolla di Francesco d’Assisi è presente soltanto la parte positiva. Eppure questa tematica, sia nella formulazione negativa che in quella positiva, è presente nella Epistola ad fideles dello stesso Francesco. In essa il Santo esorta affinché «diligamus proximos sicut nos ipsos» (tema presente anche nell’omelia di Gregorio) e commenta il comandamento evangelico dell’amore vicendevole affermando che «si quis non vult eos amare sicut se ipsum, saltim non inferat eis mala, sed faciat bona».
Se nel Testamento di Francesco d’Assisi rimane solo una allusione alla Regula di Benedetto, ed è assente una qualsiasi pur minima allusione alle affermazioni di Girolamo e di Gregorio, tuttavia compare il tema dell’exemplum contenuto nelle Homiliae in Evangelia di quest’ultimo. Tutti i frati devono lavorare «propter exemplum» e solo secondariamente «ad repellendam otiositatem». Già Paolo affermava di voler lavorare per dare l’esempio […].
Nel capitolo VII della Regola non bolla sono citati sia 2Tess 3,10 che il Sal 127,2, due testi presenti in quasi tutti gli scritti che trattano del lavoro, mentre sono assenti sia Gen 3,17-19 che Mt 6,28124, spesso usati a sfavore dell’attività umana. Negli scritti riguardanti il lavoro precedenti a Francesco, il Sal 127,2 e 2Tess 3,10 sono posti accanto alle citazioni di Girolamo e Benedetto, come si può vedere nei sermoni di Rodolfo Ardente. Tale compresenza fa sorgere la domanda se, per caso, dal redattore della Regola non bolla, anche essi siano stati presi non direttamente dalla Scrittura, ma da citazioni presenti in altri testi.
A conferma di una citazione direttamente attinta dalla Bibbia c’è la formula con cui sono introdotti «nam propheta ait […] et apostolus», ma la loro presenza simultanea, comune ai testi precedenti sul lavoro, rende probabile il fatto che ci troviamo invece in presenza di una fonte biblica mediata. A proposito c’è da notare che il Sal 127,2, nella Regola non bolla,contiene la variante «fructuum tuorum», mentre il versetto biblico, negli scritti precedenti a Francesco, è citato nella sua versione originale «manuum tuarum», senza alcuna elaborazione ulteriore. Nonostante questa variante testuale, sta di fatto che i versetti citati a sostegno del lavoro sono in continuità con tutta una tradizione precedente che ha le sue radici nei Padri.
In base a questo c’è da chiedersi se forse non è da riconsiderare il problema della presenza scritturistica negli scritti di Francesco, o almeno nella Regola non bolla, tema spesso affrontato come se tali citazioni bibliche fossero attinte direttamente dal testo della Scrittura, senza alcun intermediario. Nel caso del capitolo VII,4-6 della Regola non bolla, anche se le citazioni fossero tratte direttamente dalla Scrittura, come sembra far supporre la presenza anche di 1Cor 7,24, certamente esse si collocano dentro una tradizione che ha visto in esse il sostegno più evidente a cogliere positivamente il senso del lavoro. Quindi, un’analisi delle stesse fonti bibliche degli scritti di Francesco è incompleta senza avere uno sguardo anche ai Padri.
In merito al lavoro, Francesco quindi si è calato dentro una riflessione precedente a lui, cioè quella patristica e monastica, citando le auctoritates normalmente usate in merito all’attività umana, ma aggiungendovene altre assenti, come quella di Gregorio Magno e 1Cor 7,24.

Per un approfondimento:
P. Messa, Le fonti patristiche negli scritti di Francesco di Assisi, prefazione di G. Miccoli, Edizioni Porziuncola, Assisi 2006.

Publié dans:Papi, San Francesco d'Assisi |on 3 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

AMORE PER LA CREAZIONE IN FRANCESCO D’ASSISI

http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/amore_creazione.htm

AMORE PER LA CREAZIONE IN FRANCESCO D’ASSISI

DA CERCATE LE COSE DI LASSÙ, DI JOSEPH RATZINGER (EDIZIONI PAOLINE, MILANO, 2005, PAGG.143-146)

Tra i nomi presenti nel calendario dei santi della Chiesa cattolica, Francesco d’Assisi ha un posto di primo piano. Cristiani e non cristiani, credenti e non credenti amano quest’uomo. Da lui emana una gioia, una pace che lo pongono al di là di molti contrasti altrimenti insanabili. Naturalmente le varie generazioni hanno anche voluto vedere in lui, in modi diversi, il sogno dell’uomo buono. In un tempo che cominciava a non poterne più delle dispute confessionali, apparve come il portavoce di un cristianesimo sovraconfessionale, che si lasciava alle spalle il peso opprimente di una storia dolorosa e ricominciava semplicemente dal Gesù biblico. In seguito se ne impadronì il Romanticismo, facendone una sorta di sognatore fanatico della natura. Il fatto che oggi Francesco sia visto ancora sotto un’altra forma dipende da due situazioni che condizionano largamente la coscienza degli uomini nelle nazioni industrializzate: da una parte la paura delle conseguenze incontrollabili del progresso tecnico, e dall’altra la nostra cattiva coscienza nei confronti della fame nel mondo a causa del nostro benessere. Perciò ci affascina in Francesco il deciso rifiuto del mondo del possesso e l’amore semplice per la creazione, per gli uccelli, i pesci, il fuoco, l’acqua, la terra. Egli ci appare come il patrono dei protettori dell’ambiente, il capo della protesta contro un’ideologia che mira solo alla produzione e alla crescita, come propugnatore della vita semplice.
In tutte queste immagini di Francesco c’è qualcosa di vero; in tutte si affrontano dei problemi che toccano punti nevralgici delle creature umane. Ma se si considera Francesco attentamente, dovremmo anche correggere in ogni caso i nostri atteggiamenti. Egli non ci dà semplicemente ragione; pretende molto più di quello che vorremmo riconoscere, e con le sue esigenze ci porta alla pretesa della verità stessa. Per esempio, non possiamo risolvere il problema della separazione dei cristiani cercando semplicemente di sfuggire alla storia e creandoci un nostro Gesù personale. Lo stesso vale per le altre questioni. Prendiamo il problema dell’ambiente. Desidero raccontarvi innanzitutto una storiella. Francesco una volta pregò il frate che si occupava del giardino di “non coltivare tutto il terreno a orto, ma di lasciare una parte del giardino per i fiori perché in ogni periodo dell’anno produca i nostri fratelli fiori per amore di colui che viene chiamato “fiore dei campi e giglio della valle” (Ct 2,1)”. Analogamente voleva che fosse coltivata sempre un’aiuola particolarmente bella, di modo che in tutte le stagioni le persone, guardando i fiori, levassero lodi entusiaste a Dio, “perché ogni creatura ci grida: Dio mi ha creato per te, o uomo” (Specchio della Perfezione 11,118). In questa storia non si può lasciare da parte l’aspetto religioso come anticaglia, per riprendere solo il rifiuto del meschino utilitarismo e la conservazione della ricchezza della specie. Se è questo che si vuole, si fa qualcosa di completamente diverso da ciò che ha fatto e voluto Francesco. Ma soprattutto in questo racconto non si avverte affatto quel risentimento contro l’uomo come presunto disturbatore della natura presente oggi in così tante arringhe a favore della natura. Se l’uomo si perde e non si piace più, ciò non può giovare alla natura. Anzi: egli deve essere in accordo con se stesso; solo così può essere in accordo con la creazione ed essa con lui. E questo, di nuovo, gli è possibile solo se è in accordo con il Creatore che ha voluto la natura e noi. Il rispetto per l’essere umano e il rispetto per la natura sono un tutto unico, ma entrambi possono prosperare e trovare la propria misura solo se rispettiamo nella creatura umana e nella natura il Creatore e la sua creazione. Solo lui può unirli. Non potremo ritrovare l’equilibrio perduto se ci rifiutiamo di arrivare a questo punto. Abbiamo perciò tutte le ragioni perché Francesco d’Assisi ci renda pensierosi e ci conduca con sé sulla via giusta.

Publié dans:San Francesco d'Assisi |on 18 avril, 2013 |Pas de commentaires »
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