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Giovanni Paolo II, udienza del 24 ottobre 2001: Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20011024_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 24 ottobre 2001

« Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -
Lodi Venerdì 1a Settimana (Lettura: Sal 50,3-5.11-12.19)

1. Abbiamo ascoltato il Miserere, una delle preghiere più celebri del Salterio, il più intenso e ripetuto Salmo penitenziale, il canto del peccato e del perdono, la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia. La Liturgia delle Ore ce lo fa ripetere alle Lodi di ogni venerdì. Da secoli e secoli sale al cielo da tanti cuori di fedeli ebrei e cristiani come un sospiro di pentimento e di speranza rivolto a Dio misericordioso.

La tradizione giudaica ha posto il Salmo sulle labbra di Davide sollecitato alla penitenza dalle parole severe del profeta Natan (cfr vv. 1-2; 2Sam 11-12), che gli rimproverava l’adulterio compiuto con Betsabea e l’uccisione del marito di lei Uria. Il Salmo, tuttavia, si arricchisce nei secoli successivi, con la preghiera di tanti altri peccatori, che recuperano i temi del « cuore nuovo » e dello « Spirito » di Dio infuso nell’uomo redento, secondo l’insegnamento dei profeti Geremia ed Ezechiele (cfr v. 12; Ger 31,31-34; Ez 11,19; 36, 24-28).

2. Due sono gli orizzonti che il Salmo 50 delinea. C’è innanzitutto la regione tenebrosa del peccato (cfr vv. 3-11), in cui è situato l’uomo fin dall’inizio della sua esistenza: « Ecco, nella colpa sono stato generato, peccatore mi ha concepito mia madre » (v. 7). Anche se questa dichiarazione non può essere assunta come una formulazione esplicita della dottrina del peccato originale quale è stata delineata dalla teologia cristiana, è indubbio che essa vi corrisponde: esprime infatti la dimensione profonda dell’innata debolezza morale dell’uomo. Il Salmo appare in questa prima parte come un’analisi del peccato, condotta davanti a Dio. Tre sono i termini ebraici usati per definire questa triste realtà, che proviene dalla libertà umana male impiegata.

3. Il primo vocabolo, hattá, significa letteralmente un « mancare il bersaglio »: il peccato è un’aberrazione che ci conduce lontano da Dio, meta fondamentale delle nostre relazioni, e per conseguenza anche dal prossimo.

Il secondo termine ebraico è ‘awôn, che rinvia all’immagine del « torcere », del « curvare ». Il peccato è, quindi, una deviazione tortuosa dalla retta via; è l’inversione, la distorsione, la deformazione del bene e del male, nel senso dichiarato da Isaia: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is 5,20). Proprio per questo motivo nella Bibbia la conversione è indicata come un « ritornare » (in ebraico shûb) sulla retta via, compiendo una correzione di rotta.

La terza parola con cui il Salmista parla del peccato è peshá. Essa esprime la ribellione del suddito nei confronti del sovrano, e quindi un’aperta sfida rivolta a Dio e al suo progetto per la storia umana.

4. Se l’uomo, però, confessa il suo peccato, la giustizia salvifica di Dio è pronta a purificarlo radicalmente. È così che si passa nella seconda regione spirituale del Salmo, quella luminosa della grazia (cfr vv. 12-19). Attraverso la confessione delle colpe si apre, infatti, per l’orante un orizzonte di luce in cui Dio è all’opera. Il Signore non agisce solo negativamente, eliminando il peccato, ma ricrea l’umanità peccatrice attraverso il suo Spirito vivificante: infonde nell’uomo un « cuore » nuovo e puro, cioè una coscienza rinnovata, e gli apre la possibilità di una fede limpida e di un culto gradito a Dio.

Origene parla a tal proposito di una terapia divina, che il Signore compie attraverso la sua parola e mediante l’opera guaritrice di Cristo: « Come per il corpo Dio predispose i rimedi dalle erbe terapeutiche sapientemente mescolate, così anche per l’anima preparò medicine con le parole che infuse, spargendole nelle divine Scritture… Dio diede anche un’altra attività medica di cui è archiatra il Salvatore il quale dice di sé: ‘Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati’. Lui era il medico per eccellenza capace di curare ogni debolezza, ogni infermità » (Omelie sui Salmi, Firenze 1991, pp. 247-249).

5. La ricchezza del Salmo 50 meriterebbe un’esegesi accurata di ogni sua parte. È ciò che faremo quando tornerà a risuonare nei vari venerdì delle Lodi. Lo sguardo d’insieme, che ora abbiamo rivolto a questa grande supplica biblica, ci rivela già alcune componenti fondamentali di una spiritualità che deve riverberarsi nell’esistenza quotidiana dei fedeli. C’è innanzitutto un senso vivissimo del peccato, percepito come una scelta libera, connotata negativamente a livello morale e teologale: « Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto » (v. 6).

C’è poi nel Salmo un senso altrettanto vivo della possibilità di conversione: il peccatore, sinceramente pentito, (cfr v. 5), si presenta in tutta la sua miseria e nudità a Dio, supplicandolo di non respingerlo dalla sua presenza (cfr v. 13).

C’è, infine, nel Miserere, una radicata convinzione del perdono divino che « cancella, lava, monda » il peccatore (cfr vv. 3-4) e giunge perfino a trasformarlo in una nuova creatura che ha spirito, lingua, labbra, cuore trasfigurati (cfr vv. 14-19). « Anche se i nostri peccati – affermava santa Faustina Kowalska – fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio… Ogni cosa ha inizio nella tua misericordia e nella tua misericordia finisce » (M. Winowska, L’icona dell’Amore misericordioso. Il messaggio di suor Faustina, Roma 1981, p. 271).

I Salmi: Un inatteso libro di poesie

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2005/articolo1_4.asp

I SALMI: LA POESIA DELLA PREGHIERA
 
Mazzinghi L.

Un inatteso libro di poesie

E come potevamo cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
tra i morti abbandonati nelle piazze,
sull’erba dura di ghiaccio,
al lamento d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero della madre
che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese;
oscillavano lievi al triste vento.

I lettori hanno riconosciuto questo splendido poema di S. Quasimodo, pubblicato nel 1946 in Giorno dopo giorno; sanno anche che il poeta l’ha composto in un contesto di guerra e in riferimento all’oppressione nazista. Molti avranno anche riconosciuto le allusioni al Sal 137 che incorniciano il poema: «Come canteremo i canti del Signore? … ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre». Non c’è niente di meglio che un poeta per aiutarci a comprendere che i salmi sono anch’essi poesia e come tali parlano al cuore di ogni uomo. Quasimodo riesce a far parlare poeticamente il salmo composto dagli esuli a Babilonia con una forza nuova e aprendo nuovi orizzonti, trasponendolo in un contesto ben diverso, nel quale, almeno in superficie, Dio sembra essere del tutto assente.
Può sembrare strano a qualche lettore che l’intera annata dedicata ai salmi si apra con un articolo che parla di poesia; non siamo abituati, infatti, a vedere i salmi come un’opera poetica. Sarà questo, in realtà, uno dei fili che ci accompagneranno nel corso dei sei numeri di quest’anno interamente dedicati al Salterio. Una sfida appassionante e delicata, quella che ci aspetta; appassionante, perché il Salterio ci riserva sorprese sempre nuove; delicata, perché è necessario entrare in un mondo che spesso conosciamo solo in superficie.
«Cantate inni al Signore con arte» (Sal 47,8). Qui capiamo, con la voce stessa del salmista, che i salmi sono certamente preghiera, ma sono una preghiera che si esprime con la poesia. La scoperta e lo studio della dimensione poetica dei salmi è cosa relativamente recente; è grazie in modo particolare all’opera del grande biblista spagnolo Luis Alonso Schökel che oggi possiamo affrontare con più sicurezza questa tematica[1].
I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese. Se la prosa racconta, spiega, descrive e dimostra, il linguaggio della poesia esprime con immagini quello che altrimenti non è esprimibile. Per limitarci a esempi biblici, il lettore può da solo fare il confronto tra la grandiosa narrazione del passaggio del mare, in Es 14, e la ripresa poetica di questo evento nell’ancor più grandioso «canto del mare» (Es 15,1-17), che riprende poeticamente lo stesso avvenimento con accenti che emozionano chi lo pronuncia. È possibile poi leggere nel testo di Gdc 4,12-24 il racconto in prosa della sconfitta del generale cananeo Sisara a opera della profetessa Debora, e rileggere lo stesso evento riproposto poeticamente nel canto di Debora (Gdc 5), con un impatto ben più grande su chi lo ascolta.
Dobbiamo subito dire come la poesia dei salmi non è certamente quella a cui siamo abituati; la poesia ebraica, infatti, ha le sue leggi e i suoi meccanismi, che solo in parte si avvicinano a quelli della poesia classica o della poesia italiana. Nel corso di questa annata il lettore scoprirà, attraverso il commento ai vari testi salmici che verranno presentati, le molte facce di questa poesia. Per introdurlo in questo mondo faremo subito, in particolare, alcuni brevi cenni a due elementi chiave della poesia ebraica: l’uso del parallelismo e il mondo dei simboli. Non vogliamo però entrare nei dettagli di una presentazione tecnica della poesia dei salmi; a noi interessa più semplicemente far capire che leggere i salmi per quello che sono – preghiere in forma di poesia – è di vitale importanza per la comprensione dei salmi stessi.

La forma della poesia ebraica

Spesso si ripete che la poesia non deve essere legata a schemi prefissati; eppure ogni poeta esprime tutta la sua bravura nel saper legare la bellezza dei sentimenti e delle sensazioni che vuole esprimere con una precisa forma letteraria. Così anche la poesia ha inevitabilmente le sue regole; si pensi alla poesia italiana classica, legata per lo più al metro (verso endecasillabo, settenario, ecc.) e alla rima. Comprendere le «regole» della poesia è un primo passo per entrare nella poesia stessa.
Uno degli aspetti più evidenti della poesia ebraica è tipico della poesia di tutti i tempi, ben noto a tutti fin dalle filastrocche che abbiamo imparato nell’infanzia, ed è l’uso della ripetizione, che nella sua forma più elementare si presenta come ritornello. Nei salmi il ritornello ha una doppia funzione: prima di tutto aiuta la memoria, poi serve a suddividere il salmo in parti più o meno uguali; infine, il ritornello viene ripetuto dall’assemblea e aiuta la proclamazione del salmo stesso. L’alternanza solista / assemblea è esattamente ciò che ancora noi utilizziamo nel salmo responsoriale durante la celebrazione eucaristica. Non è difficile scoprire i ritornelli dei salmi; a volte aprono e chiudono il salmo, come avviene nel Sal 8: «O Signore nostro Dio…»; altre volte ritornano nel corpo del salmo (tre volte nel Sal 42-43: «Perché ti rattristi anima mia…»); altre volte strutturano l’intero salmo, come avviene nel Sal 136 («Eterna è la tua misericordia»); il lettore può cercare da solo i ritornelli nei Sal 46; 56; 57; 67; 99.
La ripetizione di una parola, di un verbo, di un’intera espressione, ha per lo più una funzione enfatica; serve cioè a sottolineare qualcosa di particolarmente importante e così colpire gli ascoltatori. Un esempio molto chiaro è la ripetizione del verbo «lodare» nel Sal 150, proprio a chiusura dell’intero Libro dei Salmi, che in ebraico è detto sefer tehillîm ovvero «libro delle lodi»:

Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza;
lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza;
lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra…

Vi sono salmi interamente giocati sulla ripetizione; il Sal 29 ripete per sette volte il termine «tuono», che in ebraico significa anche «voce»; in questo modo la ripetizione, unita al gioco di parole, pone l’accento sul tema della voce di Dio che si manifesta nella natura (il «tuono»). Nello stesso salmo, che si apre con quattro imperativi, appare per quattro volte il termine «gloria» e per ben diciotto volte il nome di Dio, il «Signore»: attraverso la contemplazione del creato si ode la voce del Dio di Israele.
L’uso dei ritornelli e della ripetizione ci aiuta a comprendere come i salmi siano prima di tutto poesie fatte per essere lette a voce alta; non è raro trovare nei salmi giochi di parole o giochi sonori che spesso sono comprensibili solo leggendo il testo nell’originale ebraico; del resto, ogni poesia andrebbe sempre letta nella lingua in cui è stata scritta. Ma già una buona traduzione italiana ci aiuta a gustare una buona parte della poesia dei salmi.

Il parallelismo nella poesia dei salmi

Il procedimento più tipico della poesia ebraica è senza dubbio il parallelismo. Per capire di che cosa stiamo parlando è opportuno spiegarsi subito con un esempio, che prendiamo dal Sal 114[2]. Riportiamo qui il testo del salmo ponendolo su due colonne parallele:

Quando Israele uscì dall’Egitto,
 la casa di Giacobbe da un popolo barbaro
 
Giuda divenne il suo santuario,
 Israele il suo dominio.
 
Il mare vide e si ritrasse,
 il Giordano si volse indietro
 
i monti saltellarono come arieti,
 le colline come agnelli di un gregge.
 
Che hai tu mare per fuggire?
 e tu, Giordano, perché torni indietro?
 
Perché voi monti saltellate come arieti?
 e voi, colline, come agnelli di un gregge?
 
Trema o terra davanti al Signore,
 davanti al Dio di Giacobbe
 
che muta la rupe in un lago,
 la roccia in sorgenti d’acqua .
 

È subito possibile notare un fatto curioso: se leggiamo soltanto la prima colonna, quella di sinistra, il salmo ha già un senso completo; leggendo soltanto la seconda colonna non avremmo invece alcun senso. Ogni verso del salmo, infatti, è suddiviso in due parti (dette stichi), dove la seconda parte è sempre in parallelo con la prima.
La regola del parallelismo nasce forse dalla percezione della realtà come una pluralità indifferenziata, priva apparentemente di senso, che il linguaggio poetico è capace invece di organizzare e unificare. Il parallelismo della poesia ebraica è per lo più di carattere binario, fatto cioè di due soli elementi (più raramente di tre); alcuni autori motivano questo fatto con il ricorso alla costituzione fondamentale dell’uomo, che è quella di vivere nella dimensione binaria di spazio e tempo.

Un primo evidente scopo del parallelismo è quello di creare antitesi:

Il Signore conosce la via del giusto
ma la via degli empi andrà in rovina (Sal 1,6).

Si veda ancora questa chiara antitesi di carattere antimilitarista:

Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli;
noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio.
Quelli si piegano e cadono,
ma noi restiamo in piedi e stiamo saldi (Sal 20,8-9).

Il parallelismo è anche in grado di creare sintesi e armonia:

Vi sia pace nelle tue mura
sicurezza nei tuoi baluardi (Sal 122,7);
allora la nostra bocca si aprì al sorriso
la nostra lingua in canti di gioia (Sal 126,3).

Qui la seconda parte del verso amplia chiaramente la prima.

Il parallelismo può essere poi usato per creare effetti di accumulazione, che colpiscono chi lo ascolta:

Non temerai il terrore che vaga di notte,
la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno (Sal 91,5).

Nel caso del Sal 114, che già abbiamo ricordato, il parallelismo serve ad ampliare la prima parte di ogni verso; così l’Egitto diviene nel secondo stico un «popolo barbaro». Al termine religioso «il suo santuario» è affiancato dal salmista un termine politico, «il suo dominio»; la liberazione d’Israele è dunque allo stesso tempo un atto religioso e un atto di libertà «politica». Il ricordo del passaggio del mare (Es 14) si amplia in quello del passaggio del Giordano, descritto nel libro di Giosuè (Gs 3); in un solo verso il poeta riesce così a legare due episodi apparentemente lontani tra loro. Al termine del salmo la «roccia» intensifica il riferimento alla «rupe», così come le «sorgenti d’acqua» intensificano il «lago»; il parallelismo serve in questo caso ad aprire nuovi orizzonti, con un fenomeno di dilatazione.
Il gioco dei parallelismi nei salmi apre agli ascoltatori continue possibilità di interpretazione; ma perché una data realtà possa essere posta in parallelo con un’altra è necessario che la realtà venga colta nella sua dimensione «simbolica»; tutto ciò ci conduce all’altro aspetto importante della poesia dei salmi: l’uso dei simboli.

Il giardino dei simboli

«I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne» (Sal 98,8). «Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). È del tutto evidente che i fiumi non hanno mani, né si può credere che Dio possa avere penne o ali. Il salmista utilizza dei simboli, espressi attraverso immagini.
Parlando di «simbolo» intendiamo l’accostamento di due elementi, il primo dei quali è sempre materiale; un accostamento che genera una novità di senso (ad esempio, le «ali» riferite a Dio). Il simbolo è sempre legato all’esperienza reale dell’uomo, ma allo stesso tempo la trascende, rinviando a significati sempre nuovi e, in ultima analisi, rinviando al sacro, che il simbolo allo stesso tempo svela e nasconde[3]. Il termine greco symbolon viene dal verbo syn-ballo che significa «mettere assieme», il contrario di dia-ballo, «disperdere», da cui diabolos, cioè il «dispersore». Leggere la realtà in chiave simbolica, come fanno i salmi, significa «mettere assieme» i molti aspetti del reale e scoprirne significati sempre nuovi alla luce dell’Altro a cui tutti i significati rimandano. Al contrario, leggere la realtà in modo frammentario significa compiere un’opera «diabolica».
Questo è ciò che ha fatto il mondo contemporaneo, che per troppo tempo ha liquidato il simbolo, o perché bollato, come nel marxismo classico, come «utopia conservatrice», o perché, erede del pensiero greco, ha visto nel simbolo un tipo di linguaggio pre-logico che deve cedere il passo al linguaggio «vero» ossia al linguaggio filosofico, scientifico, razionale; il simbolo può essere «vero» soltanto in relazione alla verità di cui sarebbe portatore. Nel leggere i salmi capita spesso di sentire concettualizzare i simboli, cosicché simboli come la «mano» di Dio o la splendida immagine del «Signore, il mio pastore» (Sal 23,1) perdono la forza dell’immagine e divengono semplicemente dei concetti.
La rivalutazione del simbolo nella lettura dei salmi va di pari passo con la rivalutazione dell’esperienza del poeta. Il simbolo, infatti, non si indirizza solo alla mente, ma all’uomo intero nella sua concreta esperienza di vita. Il simbolo, poi, è in grado di caricarsi di una vasta gamma di significati; si dice cioè che il simbolo è polisemico; il simbolo «fa pensare»[4]. L’uso dei simboli all’interno dei salmi invita a leggere il mondo come una realtà dotata di senso e, allo stesso tempo, come un mistero che il simbolo svela solo in parte, rinviando a un Altro che supera il simbolo stesso. Si comprende così come mai il Dio di Israele, immanente e trascendente insieme, non poteva trovare migliore espressione se non nel simbolo.
Il linguaggio del simbolo permette all’autore salmico di evitare due scogli: prima di tutto il rischio dell’immanenza, cioè il voler dire che «Dio è come…», pensando in qualche modo di poterlo ridurre alla realtà creata. D’altra parte, la parola di Dio evita il rischio di dire soltanto «Dio non è come…», eliminando la possibilità di ogni discorso su Dio. L’uso dei simboli permette di ri-velare e velare insieme, di parlare del Presente e insieme di nascondere l’Assente.
Concretamente, il simbolo si esprime nei salmi attraverso l’uso di una vasta serie di immagini: «Fa scendere la neve come lana, come polvere sparge la brina» (Sal 147,16): il poeta può unire immagini sensibili («neve» e «brina»; «lana» e «polvere») che a loro volta suggeriscono un piano ulteriore, quello dell’agire di Dio. L’immagine può servire a caratterizzare una realtà umana in modo estremamente concreto e suggestivo insieme: il fedele può così rivolgersi a Dio implorando: «Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora» (testo ebraico del Sal 74,19, mal tradotto dalla CEI). Nel Sal 69,2 il salmista afferma: «Le acque mi giungono alla gola»; egli esprime con un’immagine ciò che nessun concetto sarebbe capace di definire.
Non continuiamo negli esempi; nel corso di quest’anno infatti il lettore troverà una rubrica nella quale verranno presentati i principali simboli usati nei salmi; così si farà anche nel corso del commento ai salmi stessi[5] .

Il volto di Dio svelato nella poesia dei salmi

La poesia esprime dunque l’inesprimibile: chi ascolta il Sal 8 si accorge come il salmista riesca a sintetizzare in parole e immagini l’esperienza della creazione; invece di descrivere l’opera di Dio, si limita a evocarla: «Se guardo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai create, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?». Luna e stelle, elementi assolutamente reali nello sguardo del salmista, divengono realtà simboliche che aprono all’uomo la contemplazione delle «dita» di Dio, un altro simbolo che ne esprime l’agire delicato e concreto insieme. Il poeta offre nel Sal 8 una visione unificata della realtà, dove tutto ha un senso e tutto rimanda all’esclamazione con la quale si apre e si chiude il poema: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!».
Il credente che prega questo o altri salmi si rende conto così di trovarsi davanti a testi «belli», che già parlano agli uomini attraverso la bellezza della loro poesia. La parola di Dio, infatti, non ha paura della bellezza:

Diversamente da Platone, la Bibbia non bandisce l’arte dall’universo morale dell’uomo. Tuttavia, la Bibbia sdivinizza il poeta e l’opera d’arte, smaschera la tentazione di fare dell’opera d’arte un idolo, senza speranza, della Bellezza assoluta e come oblio dell’Essere, dell’Assoluto. Il bello non è un assoluto in sé, ma un itinerario verso l’Assoluto [6].

Il poeta non ha bisogno di lunghe dimostrazioni razionali, di affermare o di negare qualcosa; con i simboli e attraverso la sua poesia egli pone davanti ai suoi ascoltatori la realtà quale essa è, svelandone allo stesso tempo i significati più nascosti e così facendone intuire il mistero, che il simbolo sfiora soltanto. Ecco perché l’immaginazione, la sensibilità e la fantasia giocano un ruolo importante nell’analisi di un salmo. Leggere un testo poetico è mettersi nei panni del poeta; leggere un testo poetico come quello dei salmi – che per i credenti sono ispirati da Dio – è calarsi nella fantasia di Dio per cantare la bellezza del mondo, ma in modo tutto speciale per cantare la bellezza di Dio.

Luca Mazzinghi

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[1] Cf. L. Alonso Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, e soprattutto il suo testo ormai fondamentale: Id., Manuale di poetica ebraica, Queriniana, Brescia 1989. Un’opera recente che tiene conto di questo approccio è quella di A. Wenin, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003.
[2] È l’esempio riportato da Alonso Schökel, Manuale di poetica ebraica, 67-70; in questo articolo seguiremo ancora lo studio del grande biblista spagnolo.
[3] Sono queste le riflessioni del filosofo francese P. Ricoeur, cf. in particolare «Parole et symbole», in Le symbole, ed. J.E. Menard, Strasbourg 1975.
[4] Cf. P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002 (or. fr. 1959).
[5] Il ben noto commento ai salmi di G. Ravasi (Il Libro sei Salmi, voll. I-III, EDB, Bologna 1981-1984) è un ottimo esempio di questa costante attenzione alla dimensione simbolica del Salterio.
[6] A. Bonora, «La Bibbia come opera d’arte letteraria», in CredereOggi 6 (1986) 14-15. 

Publié dans:biblica, salmi |on 3 février, 2010 |Pas de commentaires »

Gianfranco Ravasi: Mia parte di eredità è il Signore (Salmo 16)

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo16.htm

di  GIANFRANCO RAVASI

I SALMI:  CANTI SUI SENTIERI DI DIO

Mia parte di eredità è il Signore (Salmo 16)                                      

Più di una volta nel Salterio appare la testimonianza di un orante sacerdote, il quale canta le sue gioie e le sue difficoltà nel servire il Signore, i suoi slanci e le sue crisi. Una luminosa testimonianza è racchiusa nel Salmo 16 che si apre con un sì gioioso a Dio, espresso attraverso una splendida professione di fede: »Signore Dio, sei tu il mio bene, sopra di te non c’è nessuno! ». Poche righe più avanti il sacerdote si rivela come tale usando immagini caratteristiche nella Bibbia per descrivere la vocazione sacerdotale. Ma ascoltiamo il salmo nella sua parte fondamentale.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:

nelle sue mani è la mia vita.

Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,

è magnifica la mia eredità.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;

anche di notte il mio cuore mi istruisce.

Io pongo sempre innanzi a me il Signore,

sta alla mia destra, non posso vacillare.

Di questo gioisce il mio cuore,

esulta la mia anima:

anche il mio corpo riposa al sicuro,

perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,

né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.

Mi indicherai il sentiero della vita,

gioia piena nella tua presenza,

dolcezza senza fine alla tua destra.
 

È noto che nella spartizione della terra promessa dopo la conquista i sacerdoti della tribù di Levi non ottennero un loro territorio specifico ma solo città di residenza. Infatti chi era consacrato al culto non doveva impastoiarsi nella politica e nelle strutture sociali, ma doveva riferire a Dio tutto il lavoro e la vita quotidiana delle altre tribù. La loro terra era il Signore stesso, e questo concretamente significava anche il diritto di usare delle decime offerte dalle tribù per il proprio sostentamento.

Il salmista attraverso cinque immagini esprime questa totalità di dedizione del sacerdote al suo Dio. Il Signore è per lui « parte di eredità », letteralmente in ebraico si ha « parte di un lotto »; il Signore per lui è il suo « calice », cioè il suo ospite, il suo familiare che lo accoglie e anche il suo destino ultimo (questi infatti sono i significati dell’immagine della coppa); il Signore è la « sorte » del sacerdote: il Signore è per lui un « luogo delizioso », è la terra più bella e più prospera, infinitamente più preziosa delle campagne ottenute dalle varie tribù; il Signore è per lui l’ »eredità » suprema, il bene più raro da tutelare e da trasmettere. S. Agostino nel suo Sermone 334 commenterà: « Il salmista non dice: O Dio, dammi un’eredità. Dice invece: Tutto ciò che tu puoi darmi fuori di te è vile. Sii tu stesso la mia eredità. Sei tu che io amo… Sperare Dio da Dio, essere colmato di Dio da Dio. Egli ti basta, fuori di lui niente ti può bastare ».

A questo punto il salmo ha una svolta. Il nostro sacerdote è convinto che l’intimità goduta con Dio durante il culto, la preghiera, la fede nell’esistenza terrena non può spegnersi con la morte. Nonostante le esitazioni della teologia dell’Antico Testamento, qui abbiamo una professione di fede nel destino glorioso del fedele. Sembra quasi che il salmista anticipi la speranza che pervade il cristiano il quale ha ascoltato le parole di Gesù: « Io vado a prepararvi un posto. Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io  » (Giovanni 14,2-3).

Tre sono i simboli usati dall’orante per esprimere la sua fiducia nella comunione piena con Dio. Il primo è quello del sepolcro a cui ineluttabilmente sono destinati tutti gli uomini per iniziare un’esistenza larvale e spettrale. La speranza del poeta è, invece, quella di essere da Dio strappato dal baratro del nulla e della morte.

Si aprirebbe allora davanti al fedele il secondo simbolo, quello del cammino della vita: questo sentiero è quello della giustizia che il saggio già percorre durante la sua esistenza terrena, la cui meta è solo Dio stesso, il giusto per eccellenza. Il terzo simbolo rappresenta il volto (« la presenza ») e la destra di Dio mentre accolgono il giusto.

« Vedere il volto » di Dio significava accedere al tempio per l’intimità della preghiera, e « stare alla sua destra » significava essere da lui tutelati e protetti contro il male e il nemico. Il salmista canta ora l’ingresso nel tempio celeste là dove il nemico per eccellenza, la morte, non ha nessuna cittadinanza. « Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli sarà il Dio – con – loro. Non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno » (Apocalisse 21,3-4).

La vocazione religiosa è, quindi, scelta d’amore e di vita e diventa un segno di immortalità per tutti coloro che credono e amano Dio. Come scriveva nel suo romanzo I demoni F. Dostoevskij: « la mia immortalità è indispensabile, perché Dio non vorrà commettere un’iniquità e spegnere del tutto il fuoco di amore dopo che questo si è acceso per lui nel mio cuore. E che cosa c’è di più eterno dell’amore? L’amore è superiore all’esistenza, è il coronamento dell’esistenza, e come è possibile che l’esistenza non gli sia sottomessa? Se ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del suo amore, è possibile che lui spenga me e la mia gioia e ci converta in zero? Se c’è Dio, anch’io sono immortale ».

                                                                 
 GIANFRANCO RAVASI

(da SE VUOI) 

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, salmi |on 2 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

La preghiera e la coppia : I salmi – una preghiera per noi

dal sito:

http://www.amoreconiugale.it/I_salmi_una_preghiera_per_noi.html

La preghiera e la coppia

I salmi – una preghiera per noi

Una caratteristica che colpisce chi si avvicina ai salmi, prima ancora della loro storia e dei loro contenuti, è la forma poetica, composta di versi ad andamento binario.
Ogni frase, ogni pensiero, espresso nella prima parte di un versetto, viene solitamente ripreso e ampliato nella seconda, in una specie di ritmico contrappunto.

L’impressione che ne deriva è di un discorso a due voci che si alternano, ma sono essenzialmente all’unisono,  di un concerto in cui le note si susseguono in armonia sviluppando un comune tema di fondo.

E’ subito chiaro che la coppia si pone davanti ai salmi in una posizione privilegiata, rispetto alla quale i cori alterni delle recitazioni ecclesiali non hanno nulla di invidiabile.

Voce maschile e voce femminile, con la loro particolare coloritura, vi si inseriscono senza alcun artificio, in un dialogo in cui il grande interlocutore è  Colui che suggerisce domanda e risposta alla coppia che lo interpella.

Il libro dei salmi è stato definito il libro degli affetti e dei sentimenti (non sempre necessariamente lodevoli) che sono propri di ogni uomo, ma che si accendono e si intensificano, nel positivo e nel negativo, nella vita a due.

Per ogni situazione, di gioia o di dolore, di timore, o di speranza, quando gli sposi hanno bisogno di confidarsi e di confidare in Qualcuno che li ascolti, è  possibile trovare nell’ampia gamma dei 150 testi del salterio quello che più vi si addice, per poi lasciarsi guidare attraverso la sua pedagogia in un cammino che va dalla domanda alla supplica, dallo stupore alla benedizione, dal ringraziamento alla lode.

Un libro, quello dei salmi, a cui attingere quando la nostra incapacità di pregare si fa più evidente e si sente necessario l’intervento dello Spirito Santo che ci presta le sue parole, come le ha prestate a tante generazioni e a Cristo stesso prima di noi.

Ecco allora un regalo che gli sposi si possono fare reciprocamente: individuare un salmo che rispecchi una loro particolare situazione, studiarlo insieme, trascriverlo in duplice copia e poi esercitarsi a ripeterlo, a due voci, all’occasione, fino ad impararlo a memoria.

Sarà il “loro” salmo, le parole che Dio donerà loro per aiutarli ad esprimere ciò che ferve nel cuore, per comunicare con Lui e tra di loro tutte le volte che ne sentiranno il bisogno. 

E non saranno parole vuote, come quelle degli uomini, ma, essendo ispirate, riveleranno di volta in volta il loro potenziale taumaturgico per chi le usa.

Per gli sposi saranno una chiave per riconoscersi ed entrare in sintonia davanti a Dio che benevolmente li ascolta.

Pensiamo, ad esempio, alla preghiera durante l’afflizione dei salmi 13 e 121, all’abbandono fiducioso dei salmi 23 e 91, alla lode gioiosa dei salmi 67, 92, 100, 150…

Ma ogni coppia di buona volontà potrà trovare i suoi salmi, o parte di essi, da fare propri e interpretare nei diversi momenti della sua storia.

Riportiamo qui, come esempio, il salmo 8 che ci sembra poter essere di aiuto per esprimere la  gratitudine di chi, come i due sposi che si amano, si sente parte privilegiata della creazione.

SALMO  n. 8

LUI – O Signore, Signore nostro, quanto è magnifico il tuo nome in tutta la terra!

LEI – Tu hai posto la tua maestà nei cieli.

LUI – Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto una forza, a causa dei tuoi nemici

LEI – per ridurre al silenzio l’avversario e il vendicatore.

LUI – Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita

LEI – la luna e le stelle che Tu hai disposte

LUI – che cos’è l’uomo perché Tu lo ricordi?

LEI – il figlio dell’uomo perché te ne prendi cura?

LUI – Eppure Tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio

LEI – e l’hai coronato di gloria e di onore.

LUI – Tu lo hai fatto dominare sull’opera delle tue mani,

LEI – hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi,

LUI – pecore e buoi tutti quanti

LEI – e anche le bestie selvatiche della campagna,

LUI – gli uccelli del cielo e i pesci del mare

LEI – tutto quello che percorre i sentieri dei mari.

LUI E LEI – O Signore, Signore nostro, quanto è magnifico il tuo nome su tutta la terra!

Publié dans:famiglia, salmi |on 2 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

David Maria Turoldo Gianfranco Ravasi: Salmo 130: Dall’Abisso

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/salmi_tu_ra130.htm

David Maria Turoldo  Gianfranco Ravasi

Salmo 130 (129)
DALL’ABISSO

No, non c’è notte da Innominato che non possa essere squarciata da una preghiera. Perché anche il disperato spera; anche il suicida spera. Pure la morte spera; e può essa stessa comporsi in un estremo De profundis. Anche il fiotto del sangue è un inaudito gemito. Anche chi grida a te da luoghi troppo profondi e ti dice di non ascoltar la tua voce, ti prega. E pure chi ti maledice, Dio, a suo modo ti innalza il suo De profundis assurdo. E, presente o assente che tu sia, sempre incombi dall’altro polo dell’abisso: ora muto come una lapide; ora tenero come una madre, gioioso di sentire pietà. Tu pure commosso e avvilito per questo infinito dolore del mondo; commosso per le tante vite infelici, colpevoli o innocenti che siano. 

1 Dall’abisso a te grido, o Signore,

2 Signore ascolta la mia voce:
alla mia voce che ti implora
amoroso accosta le orecchie tue.

3 Se tu guardi alle colpe, Signore,
potrà qualcuno resistere, o Dio?

4 Ma presso di te è il perdono
che ci irradia del tuo timore.

5 lo spero, Signore,
l’anima mia spera,
nella tua parola confido.

6 L’ anima mia è tesa al Signore
più che le sentinelle verso l’aurora,
più che le sentinelle verso il mattino.

7 Attenda Israele il Signore,
perché presso il Signore è la grazia,
e grande è presso di lui la redenzione !

8 Da tutte le sue colpe
egli redimerà il suo Israele.

Le 52 parole ebraiche del De profundis sono state ripetute, tradotte, commentate forse più di ogni altro salmo. Ed anche se spesso ridotta al rango di canto funebre, questa supplica resta uno splendido inno alla gioia del perdono. Questo grido che sale dai luoghi abissali del male nascosto nel cuore umano penetra i cieli e dalla colpa conduce alla grazia, dal peccato alla redenzione, dalla notte alla luce. Vorremmo solo fare due osservazioni su questa pagina così celebre e così nitida. La prima riguarda il v. 4. Il timore di Dio nasce per il salmi sta non dal giudizio ma dal perdono, proprio come suggerisce Paolo: «È la bontà di Dio che ti deve spingere alla conversione» (Romani 2,4). Il gesto del perdono deve incutere dolore per un amore offeso; più che la collera di Dio deve generare timore e dolore il suo amore disarmante. È più amaro colpire un padre che un sovrano inesorabile.
Il secondo dato che vogliamo sottolineare è racchiuso nell’immagine del v. 6. L ‘attesa del perdono è il sospiro di tutto l’essere così come le sentinelle spiano il primo filo di luce dell’aurora che segna la fine delle paure notturne. Nella trepidazione c’è anche la certezza che il sole sempre spunterà col suo carico di luce e di vita. Ma il vocabolo «sentinelle» indica anche più genericamente «coloro che vegliano», forse anche i sacerdoti che nel Tempio attendono il giorno per poter presiedere – forse anche una sola volta in vita a causa del loro numero elevato – il culto d’Israele. Un’attesa santa e gioiosa dell’amore di Dio verso la sua creatura.

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, salmi |on 1 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto, commento al Salmo 111, 1-6 (2 novembre 2005)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20051102_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 2 novembre 2005

Salmo 111, 1-6
Beatitudine dell’uomo giusto
Secondi Vespri – Domenica 4a settimana

1. Dopo aver celebrato ieri la solenne festa di tutti i Santi del cielo, quest’oggi facciamo memoria di tutti i fedeli defunti. La liturgia ci invita a pregare per i nostri cari scomparsi, volgendo il pensiero al mistero della morte, comune eredità di tutti gli uomini.

Illuminati dalla fede, guardiamo all’enigma umano della morte con serenità e speranza. Secondo la Scrittura, infatti, essa più che una fine, è una nuova nascita, è il passaggio obbligato attraverso il quale possono raggiungere la vita in pienezza coloro che modellano la loro esistenza terrena secondo le indicazioni della Parola di Dio.

Il salmo 111, composizione di taglio sapienziale, ci presenta la figura di questi giusti, i quali temono il Signore, ne riconoscono la trascendenza e aderiscono con fiducia e amore alla sua volontà in attesa di incontrarlo dopo la morte.

A questi fedeli è riservata una « beatitudine »: «Beato l’uomo che teme il Signore» (v. 1). Il Salmista precisa subito in che cosa consista tale timore: esso si manifesta nella docilità ai comandamenti di Dio. È proclamato beato colui che «trova grande gioia» nell’osservare i comandamenti, trovando in essi gioia e pace.

2. La docilità a Dio è, quindi, radice di speranza e di armonia interiore ed esteriore. L’osservanza della legge morale è sorgente di profonda pace della coscienza. Anzi, secondo la visione biblica della «retribuzione», sul giusto si stende il manto della benedizione divina, che imprime stabilità e successo alle sue opere e a quelle dei suoi discendenti: «Potente sulla terra sarà la sua stirpe, la discendenza dei giusti sarà benedetta. Onore e ricchezza nella sua casa» (vv. 2-3; cfr v. 9). Certo, a questa visione ottimistica si oppongono le osservazioni amare del giusto Giobbe, che sperimenta il mistero del dolore, si sente ingiustamente punito e sottoposto a prove apparentemente insensate. Bisognerà, quindi, leggere questo Salmo nel contesto globale della Rivelazione, che abbraccia la realtà della vita umana in tutti i suoi aspetti.

Tuttavia rimane valida la fiducia che il Salmista vuole trasmettere e far sperimentare a chi ha scelto di seguire la via di una condotta moralmente ineccepibile, contro ogni alternativa di illusorio successo ottenuto attraverso l’ingiustizia e l’immoralità.

3. Il cuore di questa fedeltà alla Parola divina consiste in una scelta fondamentale, cioè la carità verso i poveri e i bisognosi: «Felice l’uomo pietoso che dà in prestito… Egli dona largamente ai poveri» (vv. 5.9). Il fedele è, dunque, generoso; rispettando la norma biblica, egli concede prestiti ai fratelli in necessità, senza interesse (cfr Dt 15,7-11) e senza cadere nell’infamia dell’usura che annienta la vita dei miseri.

Il giusto, raccogliendo il monito costante dei profeti, si schiera dalla parte degli emarginati, e li sostiene con aiuti abbondanti. «Egli dona largamente ai poveri», si dice nel versetto 9, esprimendo così un’estrema generosità, completamente disinteressata.

4. Il Salmo 111, accanto al ritratto dell’uomo fedele e caritatevole, «buono, misericordioso e giusto», presenta in finale, in un solo versetto (cfr v. 10), anche il profilo del malvagio. Questo individuo assiste al successo della persona giusta rodendosi di rabbia e di invidia. È il tormento di chi ha una cattiva coscienza, a differenza dell’uomo generoso che ha «saldo» e «sicuro il suo cuore» (vv. 7-8).

Noi fissiamo il nostro sguardo sul volto sereno dell’uomo fedele che «dona largamente ai poveri» e ci affidiamo per la nostra riflessione conclusiva alle parole di Clemente Alessandrino che, commentando l’invito di Gesù a procurarsi amici con la disonesta ricchezza (cfr Lc 16,9), nel suo scritto intitolato Quale ricco si salverà, osserva: con questa affermazione Gesù «dichiara ingiusto per natura ogni possesso che uno possiede per se stesso come bene proprio e non lo pone in comune per coloro che ne hanno bisogno; ma dichiara altresì che da questa ingiustizia è possibile compiere un’opera giusta e salutare, dando riposo a qualcuno di quei piccoli che hanno una dimora eterna presso il Padre (cfr Mt 10,42; 18,10)» (31,6: Collana di Testi Patristici, CXLVIII, Roma 1999, pp. 56-57).

E, rivolgendosi al lettore, Clemente avverte: «Guarda in primo luogo che egli non ti ha comandato di farti pregare né di aspettare di essere supplicato, ma di cercare tu stesso quelli che sono ben degni di essere ascoltati, in quanto sono discepoli del Salvatore» (31,7: ibidem, p. 57).

Poi, ricorrendo a un altro testo biblico, commenta: «È dunque bello il detto dell’apostolo: « Dio ama chi dona con gioia » (2Cor 9,7), chi gode nel donare e non semina scarsamente, per non raccogliere allo stesso modo, ma condivide senza rammarichi e distinzioni e dolore, e questo è autentico far del bene» (31,8: ibidem).

Nel giorno della commemorazione dei defunti, come ho detto inizialmente, siamo tutti chiamati a confrontarci con l’enigma della morte e quindi con la questione di come vivere bene, come trovare la felicità. E questo Salmo risponde:  felice l’uomo che dona; felice l’uomo che non utilizza la vita per se stesso, ma dona; felice l’uomo che è misericordioso, buono e giusto; felice l’uomo che vive nell’amore di Dio e del prossimo. Così viviamo bene e così non dobbiamo aver paura della morte, perché siamo nella felicità che viene da Dio e che dura sempre.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, salmi |on 1 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

IL SALMO 23 – COMMENTO

dal sito:

http://www.parrocchiasantarita.net/Salmo23.html

IL SALMO 23 – COMMENTO

Sal 23
 
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.

Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca.

Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.

————————————-

Commento

Questo salmo è forse il più famoso e amato fra tutti, ed è stato composto da Davide, « il soave cantore di Israele ».

Il salmo lo abbiamo cantato tantissime volte nella liturgia delle Messe domenicali o feriali, ed esprime la gioia serena, fiduciosa di un’anima che ha trovato la pace della mente e del cuore nella sua unione contemplativa con Dio, eppure forse non lo conosciamo.

Nei molti anni in cui Davide si era preso cura delle pecore, aveva imparato che questi animali indifesi richiedevano un’attenzione particolare, continua, in una terra dove le belve selvatiche vagavano liberamente e pecore e agnelli erano facile preda anche di animali di modeste dimensioni (non scordiamo che stiamo parlando di un periodo di migliaia di anni fa): così egli ha applicato questa conoscenza al nostro rapporto con Dio.

Ecco perché il salmo 23 è chiamato il « salmo del pastore », perché parla di un pastore, anzi del Signore sorto a immagine del pastore, e ne sviluppa il simbolo.

Non solo, dal v.5 in avanti è delineata un’altra immagine, quella dell’ospite che invita a cena: « Davanti a me tu prepari una mensa… ».

Quindi due sono i simboli: il pastore e colui che ci invita a cena trattandoci regalmente e facendoci stare con sé.Tanto da esprimere ottimamente la tensione spirituale, psicologica, umana e teologica del testo, riassumendo tutto con un’espressione di grande fiducia: « Tu sei con me ».

Cerchiamo ora di capire che cosa in pratica significa.

Dopo il titolo, vediamo di sottolineare i personaggi, i soggetti che agiscono nel testo. Sono due: il Signore e l’individuo, cioè colui che parla.

* Le azioni attribuite al Signore sono nove: egli è il mio pastore; mi fa riposare; mi conduce; mi rinfranca; mi guida; è con me; mi dà sicurezza; prepara una mensa; cosparge di olio. Nove designazioni che indicano la cura, la premura, l’attenzione, espresse con metafore, con parabole, con simboli: esse definiscono il Signore come colui che si prende cura di ognuno.

* Di fronte a questo soggetto principale, c’é l’individuo che afferma di non mancare di nulla, di non temere alcun male, afferma che il calice trabocca; che sente la felicità e la grazia come compagne di vita, che vuole abitare nella casa del Signore.

 Come possiamo osservare si tratta di un dialogo affettuoso, fiducioso, familiare tra il Signore e l’individuo: che cosa è lui, che cosa fa per ognuno, che cosa gli diciamo. E’ una preghiera semplicissima, che non chiede, in pratica nulla, non ringrazia, non loda, ma proprio per questo è ricchissima.

Rileggiamo ora le strofe dal punto di vista delle immagini, come se l’individuo fossimo noi stessi. Abbiamo già parlato delle due fondamentali: il pastore e l’ospite, cioè l’immagine del pascolo e l’immagine della convivialità, dell’ospitalità a mensa.

* L’immagine del pastore, molto usata nella Bibbia fino al discorso di Gesù sul buon pastore, in Giovanni 10, viene specificata: « su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce ». E’ la sosta del gregge su pascoli verdi e presso acque tranquille.

 Chi è stato in pellegrinaggio in Palestina, sa come è difficile trovare un pascolo verde; quindi quando un pastore riesce a scoprirlo, egli è davvero la gioia del gregge; chi ha provato la sete del deserto (siete mai stati nel deserto del Negev?), può comprendere che cosa significa incontrare qualcuno capace di indicare dove c’é una sorgente d’acqua (oggi noi cercheremmo un bar), magari nascosta sotto le pietre.

Quindi il pastore del salmo sa fare sostare il gregge nei luoghi giusti. Inoltre sa far viaggiare: c’é infatti l’immagine del gregge in sosta su pascoli erbosi e c’é quella del gregge in movimento, guidato per sentieri giusti, per piste che portano a buon fine (similmente come le guide turistiche che portano a visitare il deserto).

 In questo viaggio si può anche « camminare in una valle oscura » (pensiamo per un istante al deserto di Giuda e alle sue valli pietrose, incassate, dirupate, molto pericolose se di notte ci si perde e se inciampando, si cade in qualche baratro!), il pastore del salmo sa guidare pure in una valle oscura, di notte.

Le immagini si moltiplicano: quella del bastone e del vincastro. Probabilmente per bastone si intende una mazza corta e adatta a difendere il gregge; il vincastro invece, è quello che oggi è il pastorale del Vescovo, un bastone lungo e ricurvo, su cui il pastore si appoggia, che serve per appendervi il sacco o per tastare il terreno, per tenere lontani i cani randagi. Una metafora molto pittoresca, che evoca tutto quanto il pastore fa per amore del suo gregge, per condurlo; ed è ciò che il Signore fa per ognuno.

*Seguono le immagini conviviali: « davanti a me tu prepari una mensa ». Figuriamoci di trovarci sotto una tenda (chi ha fatto campeggio se ne può rendere conto), su una stuoia stesa per terra, e su un tavolo basso vassoi con cibi succulenti, che si prendono con le mani, si mette un poco di focaccia in una salsa e vi si intingono bocconcini di carne; figuriamoci di godere ore e ore in questa cena in comune, fraterna e allegra.

 Non solo, prima che la cena abbia inizio, l’ospite che ha invitato cosparge di profumo, « cosparge di olio il capo », proprio come ha fatto Maria di Betania quando Gesù entra nella sua casa. Sulla mensa c’é anche una coppa, un calice traboccante di vino spumeggiante, che dà brio e vivacità.

Le immagini conviviali sfociano nell’immagine della casa del Signore: « abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni »; la tenda ospitale diventa, a un certo punto, il tempio, la casa di Dio (dove c’é accoglienza e amicizia, c’ é Dio), dove si è veramente a casa.

Ma potremmo soffermarci anche su altre metafore.

Per esempio, che cosa significa « acque tranquille »? Evidentemente non soltanto pozze di acqua da cui si beve in pace e senza pericoli; in realtà, è evocato un cammino di pace, un cammino spirituale verso la pace interiore, dove ci si ristora alla fine di un viaggio pericoloso, irto di difficoltà (il mondo e l’efficienza materialistica).

E ancora, cosa significa « valle oscura, tenebrosa »? Non si tratta soltanto di un abisso dove non giunge la luce, dove la notte è fonda; nella psicologia della persona umana, è piuttosto la paura del buio,della morte, quella paura che affiora nella coscienza e che non si placa, a meno che non venga una voce dall’alto a portare parole di conforto.

Passando alla meditazione, riformuliamo la domanda iniziale pensando a noi: qual è il messaggio del salmista per me, per te, per noi tutti? Che cosa dice questa poesia religiosa oggi?

Cerchiamo ancora una volta le parole chiave del messaggio, che a mio avviso sono quattro:

- non manco di nulla;

- tu sei con me;

- mi dai sicurezza col tuo bastone e il tuo vincastro;

- abiterò nella casa del Signore.

Ecco il messaggio di fiducia: Signore, io non manco di nulla perché tu sei con me, mi dai sicurezza e abito nella tua casa.

Cari fratelli e sorelle, per potere dire sul serio queste parole, è necessario chiederci su chi cadono, e la risposta al quesito per me è ovvia: cadono oggi su cuori sofferenti, sulle nostre ansietà, sulle nostre paure, sulle nostre insicurezze, sulle nostre miserie e debolezze umane che ci rendono schiavi di noi stessi.

Amen, alleluia,amen.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura, salmi |on 1 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

Agostino, Esposizioni sui Salmi, 144,10 – In che senso ogni creatura loda Dio.

dal sito: 

http://www.sant-agostino.it/italiano/esposizioni_salmi/index2.htm

Agostino, Esposizioni sui Salmi, 144,10   

10 Ti lodino, Signore, tutte le tue opere  e ti benedicano i tuoi fedeli. 

In che senso ogni creatura loda Dio. 

13. [v 10.] Confessino a te, Signore, tutte le tue opere e i tuoi santi ti benedicano. Tutte le tue opere confessino a te. Cosa dice mai? Non è forse opera di lui la terra? o non son opera di lui le piante, gli animali, le bestie feroci, i pesci, gli uccelli? Forse che non son tutti opera di lui? Certo, tutti questi esseri sono opera di Dio. In che modo, allora, potranno questi esseri confessare a lui? Ben vedo come nell’angelo – poiché anche l’angelo è opera di Dio – la creatura confessi al Creatore. Così anche per l’uomo: è un’opera di Dio e quando confessa a lui è un’opera di Dio che confessa. Ma forse che le piante e le pietre hanno una voce che loro consenta la confessione? Sì, tutte le opere di Dio confessino a lui. Ma cosa dici? Anche la terra e le piante? Tutte le sue opere. Se tutte lodano, perché non tutte potranno confessare? Si parla infatti di confessione non soltanto quando ci si accusa dei peccati, ma anche quando si loda. Che non succeda che, tutte le volte che sentite parlare di confessione, l’intendiate solo e sempre di confessione dei peccati! È questa una persuasione assai comune, al segno che, quando alla lettura della parola divina risuona questo termine, subito e come per abitudine ci si batte il petto. Ascolta però come ci sia una confessione in senso di lode. Aveva forse peccati il nostro Signore Gesù Cristo? Eppure diceva: Ti confesso, o Padre, Signore del cielo e della terra 41. È una confessione che consiste nel lodare. In che senso intenderemo quindi le parole: Confessino a te, Signore, tutte le tue opere? Ti lodino tutte le tue opere. In fatto di lode, però, ritorna lo stesso problema che sì presentava prima a proposito della confessione. Se infatti non potevano confessare la terra, le piante e tutte le creature inanimate perché prive di voce, per lo stesso motivo, in quanto cioè prive di voce, saranno incapaci di lodare. Eppure non son tutte, queste creature, enumerate da quei tre fanciulli mentre camminavano tra le fiamme, che non li toccavano, ed essi avevano agio non solo di non bruciare ma anche di lodare Dio? A tutte, da quelle del cielo a quelle della terra, si dice: Benedite, cantate l’inno, ed esaltatelo nei secoli 42. Ecco come cantano l’inno. Nessuno pensi che la muta pietra o il muto animale abbia razionalità e sia in grado di comprendere Dio. Quanti credettero questo si allontanarono molto dalla verità. Dio dispose secondo un ordine tutti gli esseri che aveva creati. A certuni diede sensibilità, intelletto e immortalità. Così gli angeli. Ad altri diede sensibilità ed intelletto in una condizione mortale. Così gli uomini. Ad altri ancora diede una sensibilità corporale, senza dar loro né l’intelletto né l’immortalità. Così i bruti. Ad altri finalmente non diede né sensibilità né intelligenza né immortalità. Così le erbe, le piante, le pietre. Tuttavia neppure questi esseri nella loro specie possono esimersi [dalla lode di Dio], essendo la creazione ordinata secondo una certa graduatoria che va dalla terra al cielo, dalle cose visibili a quelle invisibili, dalle cose mortali a quelle immortali. Questo intreccio dei vari esseri creati, la loro bellezza perfetta nel suo ordine, che dalle cose infime si eleva alle più eccelse per ridiscendere da queste alle più insignificanti, senza interruzioni ma non senza il mutuo compensarsi degli esseri [fra loro] differenti, tutto questo loda Dio. Ma in che senso l’universo creato loda Dio? In quanto tu, mirando la creatura e trovandola bella, in essa lodi Dio. La bellezza della terra è come una voce muta che si leva dalla terra. Tu ci mediti, vedi la sua bellezza, la sua fecondità, le sue risorse; vedi come si riproduca un seme facendo germogliare il più delle volte una cosa diversa da quella che era stata seminata. Osservi tutto questo e con la tua riflessione quasi ti metti a interrogarla: la stessa ricerca è una specie d’interrogatorio. Pieno di stupore, continui la ricerca e scrutando la cosa a fondo scopri una grande potenza, una grande bellezza e uno stupefacente vigore. Non potendo avere in sé né da sé questo vigore, subito ti vien da pensare che, se non se l’è potuto dare da sé, gliel’ha dato lui, il Creatore. In tal modo, ciò che hai scoperto nella creatura è la voce della sua confessione che ti porta a lodare Dio. Non è forse vero che, se ti metti a considerare la bellezza sparsa nell’intero mondo creato, la stessa bellezza come con un unico accento ti risponde: Non sono stata io a farmi ma Dio?. 

Publié dans:salmi |on 1 août, 2007 |Pas de commentaires »
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