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SALMO 107 : DIO SALVA L’UOMO DA OGNI PERICOLO (COMMENTO DEI PADRI DELLAL CHIESA)

dal sito:

http://www.padrelinopedron.it/data/edicola/Padre%20Lino%20Pedron%20-%20Salmi/SALMO%20107.doc

SALMO 107

 107 (106) Dio salva l’uomo da ogni pericolo

 1 Alleluia.
 Celebrate il Signore perché è buono,
 perché eterna è la sua misericordia.
 2 Lo dicano i riscattati del Signore,
 che egli liberò dalla mano del nemico
 3 e radunò da tutti i paesi,
 dall’oriente e dall’occidente,
 dal settentrione e dal mezzogiorno.
 4 Vagavano nel deserto, nella steppa,
 non trovavano il cammino per una città dove  5 Erano affamati e assetati,
 veniva meno la loro vita.
 6 Nell'angoscia gridarono al Signore
 ed egli li liberò dalle loro angustie.
 7 Li condusse sulla via retta,
 perché camminassero verso una città dove abitare.
 8 Ringrazino il Signore per la sua misericordia,
 per i suoi prodigi a favore degli uomini;
 9 poiché saziò il desiderio dell'assetato,
 e l'affamato ricolmò di beni.
 10 Abitavano nelle tenebre e nell'ombra di morte,
 prigionieri della miseria e dei ceppi,
 11 perché si erano ribellati alla parola di Dio
 e avevano disprezzato il disegno dell'Altissimo.
 12 Egli piegò il loro cuore sotto le sventure;
 cadevano e nessuno li aiutava.
 13 Nell'angoscia gridarono al Signore
 ed egli li liberò dalle loro angustie.
 14 Li fece uscire dalle tenebre e dall'ombra di  e spezzò le loro catene.
 15 Ringrazino il Signore per la sua misericordia,
 per i suoi prodigi a favore degli uomini;
 16 perché ha infranto le porte di bronzo
 e ha spezzato le barre di ferro.
 17 Stolti per la loro iniqua condotta,
 soffrivano per i loro misfatti;
 18 rifiutavano ogni nutrimento
 e già toccavano le soglie della morte.
 19 Nell'angoscia gridarono al Signore
 ed egli li liberò dalle loro angustie.
 20 Mandò la sua parola e li fece guarire,
 li salvò dalla distruzione.
 21 Ringrazino il Signore per la sua misericordia
 e per i suoi prodigi a favore degli uomini.
 22 Offrano a lui sacrifici di lode,
 narrino con giubilo le sue opere.
 23 Coloro che solcavano il mare sulle navi
 e commerciavano sulle grandi acque,
 24 videro le opere del Signore,
 i suoi prodigi nel mare profondo.
 25 Egli parlò e fece levare
 un vento burrascoso che sollevò i suoi flutti.
 26 Salivano fino al cielo,
 scendevano negli abissi;
 la loro anima languiva nell'affanno.
 27 Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi,
 tutta la loro perizia era svanita.
 28 Nell'angoscia gridarono al Signore
 ed egli li liberò dalle loro angustie.
 29 Ridusse la tempesta alla calma,
 tacquero i flutti del mare.
 30 Si rallegrarono nel vedere la bonaccia
 ed egli li condusse al porto sospirato.
 31 Ringrazino il Signore per la sua misericordia
 e per i suoi prodigi a favore degli uomini.
 32 Lo esaltino nell'assemblea del popolo,
 lo lodino nel consesso degli anziani.
 33 Ridusse i fiumi a deserto,
 a luoghi aridi le fonti d'acqua
 34 e la terra fertile a palude
 per la malizia dei suoi abitanti.
 35 Ma poi cambiò il deserto in lago,
 e la terra arida in sorgenti d'acqua.
 36 Là fece dimorare gli affamati
 ed essi fondarono una città dove abitare.
 37 Seminarono campi e piantarono vigne,
 e ne raccolsero frutti abbondanti.
 38 Li benedisse e si moltiplicarono,
 non lasciò diminuire il loro bestiame.
 39 Ma poi, ridotti a pochi, furono abbattuti,
 perché oppressi dalle sventure e dal dolore.
 40 Colui che getta il disprezzo sui potenti,
 li fece vagare in un deserto senza strade. ,
 41 Ma risollevò il povero dalla miseria
 e rese le famiglie numerose come greggi.
 42 Vedono i giusti e ne gioiscono
 e ogni iniquo chiude la sua bocca.
 43 Chi è saggio osservi queste cose
 e comprenderà la bontà del Signore.

Commento dei Padri della Chiesa

Inizia il quinto libro dei salmi. In questo quinto grado dell’ascensione il profeta si innalza a un vertice dal quale vede tutto il compendio della salvezza dell’umanità (Gregorio di Nissa).
Questo salmo mette in rilievo le misericordie di Dio, misericordie sperimentate in noi e perciò, chi ne ha fatto l’esperienza, le ama in modo particolare. Tuttavia non è stato scritto per l’uno o per l’altro, ma per il popolo di Dio ed è posto davanti a noi come uno specchio, perché noi possiamo riconoscerci in esso (Agostino).
Questo salmo profetizza la riunione universale delle nazioni (Origene).
Il salmo 105 ricordava le promesse ai patriarchi, il salmo 106 le infedeltà giudaiche. Il salmo 107 è una profezia della liberazione dei giudei, la quale è figura della nostra liberazione (Teodoreto).
Questo salmo sintetizza tutta la condizione umana: il dolore del castigo o della penitenza, le misericordie di Dio e la vocazione dei gentili (Girolamo).
vv. 2-3. I giudei sono liberati da Babilonia e noi siamo liberati dal diavolo (Teodoreto).
Eravamo prigionieri del diavolo. La mano del diavolo è senza dubbio ben grande: essa ci teneva stretti in tutte le regioni della terra (Girolamo).
vv. 4-5. I gentili hanno cercato la via della città da abitare, ma non l’hanno trovata. Socrate, Platone, Aristotele sono rimasti con la loro sete: la loro dottrina prometteva la verità e non faceva che acuire la fame (Girolamo).
Non trovavano la città dove avrebbero dovuto abitare. Avevano fame perché i loro dottori erano senza sapienza. Soccombevano esausti, perché non potevano trovare Dio (Cassiodoro).
vv. 6-7. Gridarono non con la voce né con il desiderio, ma con la grandezza della loro miseria (Ruperto).
Il Signore li mise sulla via diritta, insegnò loro come camminare verso la patria. La via era il Vangelo, esso solo ci conduce alla città celeste in cui troviamo la nostra abitazione (Eusebio).
vv. 8-9. Tutto ciò che in noi sembra degno di lode è misericordia del Signore. Questo versetto ritornerà quattro volte, così come gli eletti vengono dai quattro punti cardinali (Cassiodoro).
Ha saziato di beni spirituali quelli che soffrivano la fame del Verbo (Girolamo).
vv.10-12. Il Signore, in quanto è luce, ci ha strappato alle tenebre; in quanto è vita, ci ha strappato all’ombra di morte; in quanto è potente, ha spezzato le nostre catene (Origene).
Eravamo nell’idolatria, vanificavamo il disegno di Dio, perché si sarebbe dovuto rendere gloria e grazie al Creatore vedendo le sue opere; al contrario, come ciechi, cambiavamo la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli… [Rm 1,23] (Eusebio).
Resero vane le parole di Dio rifiutando la legge divina e dedicandosi alle sapienze di questo mondo. Vanificarono il disegno di Dio, che vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della Verità (1Tm 2,4) (Atanasio).
vv. 13-16. Li liberò quando erano schiavi nell’ignoranza della mente, nella mendicità dell’anima, nella povertà, frutto del peccato (Atanasio).
Il genere umano è precipitato fino alla morte; è per questo che il Redentore discenderà fino alla morte (Eusebio).
Cristo è disceso agli inferi per dire ai prigionieri: Uscite! E a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori! [Is 49,9] (Atanasio).
vv. 17-19. La via dell’iniquità conduce necessariamente alla morte (Esichio di Gerusalemme).
Né giudei né gentili sono nella tribolazione senza motivo [cf Rm 1] (Teodoreto).
Rifiutavano ogni nutrimento. Ogni parola di vita che i profeti annunciarono, essi la respinsero; ed erano prossimi alla morte (Girolamo).
vv. 20-22. Mandò la sua Parola. Le loro inclinazioni erano così malvagie che respingevano il cibo spirituale che dona la salvezza. Allora il Figlio di Dio tese loro la mano fino alle porte della morte, perché erano precipitati fin laggiù e gridarono a lui (Eusebio).
Più che le vittime prese dai greggi, piace a Dio il gioioso sacrificio di lode. Deve essere vivo e lieto, affinché quelli che assistono possano comprendere a qual punto il cantore ha fiducia in Dio (Cassiodoro).
vv. 23-28. Il profeta dice questo come parabola. Quelli che compiono lunghi viaggi per mare hanno svariate occasioni per contemplare i segni di Dio: sballottati dalla tempesta o sani e salvi contro ogni speranza. Allo stesso modo i giudei hanno sperimentato le sciagure e le salvezze. Ma tutti gli uomini che considerino la successione imprevista degli avvenimenti, la repentina cessazione della sofferenza, la tranquillità dell’anima e il porto della risurrezione, ammirano colui che è padrone della situazione (Origene).
Sui nostri battellini personali di legno mezzo marcio, come rendere sicura la nostra traversata in mezzo alla tempesta e alle grandi ondate? Questo mare scatenato è la nostra vita ed è necessario attraversarla: la Chiesa ci offre i suoi vascelli che ci conducono ad un ormeggio tranquillo (Esichio di Gerusalemme).
Come naviganti salvati in modo insperato, i giudei sono stati testimoni di intereventi miracolosi del Signore. Ma anche tutta l’umanità salvata e che sa di dover risuscitare (Teodoreto).
vv. 33-39. Le meraviglie del Signore sono tanto più straordinarie, quanto più fa cose contrarie con contrarie: la terra santa traboccava di frutti e messi, ma Gerusalemme divenne incolta per la malizia dei suoi abitanti e tutto il popolo fu privato dei suoi beni, cessò di essere onorato dalle apparizioni di angeli e di profeti, perse il tempio, la sovranità, il sacerdozio e i suoi figli divennero schiavi. Al contrario, la Chiesa delle genti, prima deserta e sterile, divenne laghi d’acqua, sorgenti d’acqua, e fu abitata da quelli che prima avevano fame. Perduti com’erano, erranti in regione lontana, trovarono la riva che è la dottrina del Vangelo e costruirono la città dove abitare, cioè il modo divino di vivere (Origene).
v. 40. Il disprezzo sui potenti: cioè sui farisei e i dottori della legge che guidavano il popolo (Teodoreto).
I giudei hanno abbandonato la via alla quale sono stati chiamati. Dio non induce in errore ma lascia senza guida i disobbedienti (Origene).
vv. 41-42 .Il povero, qui, è il popolo dei pagani. Per mezzo della povertà di Cristo siamo diventati ricchi (cf. 2Cor 8,9).
Il povero è colui che attende tutto da Dio e bussa alla porta del Signore tenendo gli occhi a terra e battendosi il petto, nudo e tremante, perché lo si vesta (Agostino).
Questo povero è uno solo: sono tutti i fedeli del Signore (Cassiodoro).
Le famiglie numerose come greggi sono le Chiese, costituite da diverse stirpi, da tutte le regioni e paesi. Il profeta non descrive il suo tempo, ma vede in anticipo le cose future, per questo aggiunge quanto segue: Vedranno i giusti e ne gioiranno e ogni iniquo chiuderà la sua bocca (v. 42). Cosa vedranno? Vedranno il cambiamento in meglio (Origene).
Vedranno ciò che tanti profeti e re non hanno potuto vedere [cf. Mt 13,16s] (Eusebio).
Avendo il Cristo trionfato sul peccato con la propria immolazione, ogni iniquo chiuderà la sua bocca e non potrà più accusare delle loro infermità quelli che peccano, perché Dio stesso li giustifica [cf. Commento a Gv 1,9] (Cirillo di Alessandria).
v. 43. Non appartiene a tutti discernere e riconoscere il misericordioso disegno della salvezza, ma soltanto a chi ha ricevuto il dono della sapienza e dell’intelligenza divina e grida a Dio: Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge [Sal 119,18] (Didimo di Alessandria).

Publié dans:salmi |on 5 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

di Divo Barsotti: La parola d’Israele è la parola dell’uomo

dal sito:

http://www.figlididio.it/salmi/index.htm

La parola d’Israele è la parola dell’uomo

di Divo Barsotti

È difficile entrare nel mondo dei salmi. In realtà realizzare questa parola, far sì che questa parola divenga la nostra parola, non è impresa facile.
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che questa parola è la parola stessa di Dio; ed è questa che deve divenire parola dell’uomo. L’uomo dunque si realizza nella misura che realizza Dio. Non sarebbe parola di Dio, la parola dei salmi, se non dovesse rivelare in qualche modo la sua na­tura, la sua volontà, se non dovesse rivelare il mondo divino.
Ora, in che modo questa parola può divenire la parola dell’uomo, se l’uomo stesso in qualche modo non incarna Dio? se l’uomo stesso non diviene realizzazione di questa volontà pura, il compimento del disegno di Dio, la rivelazione della sua santità?
Nella misura che questa parola viene pronunciata dall’uomo, che ancora non si è trasformato in Dio, essa, sulle labbra dell’uomo suona menzogna, non può che suonare men­zogna. Se la parola di Dio non cessa di essere parola di Dio per divenire la nostra parola, deve realizzare una nostra trasformazione, anzi la suppone. Finché questa trasformazione non si è compiuta, la parola di Dio non può essere usata da noi che in quanto essa ci condanna. Manifesta infatti la nostra estraneità, dice la nostra lontananza da Dio.
Ma queste nostre parole suonano false. Di fatto la parola dei salmi è parola di Dio non perché suppone una nostra trasformazione, ma perché la opera efficacemente. È infatti la parola di Dio ma diviene preghiera, supplica all’Onnipotenza nelle labbra del povero perseguitato, invocazione alla infinita misericordia nelle labbra dell’uomo peccatore. È ve­ro che è parola di Dio, ma è una parola di Dio che è incarnata in qualche modo, è divenuta già in qualche modo la parola stessa dell’uomo, la parola di un popolo. Tutto un popolo attraverso questa parola ha detto le sue speranze, ha espresso la sua vita profonda, ha gridato il suo dolore, ha manifestato la sua gioia.
Ora questa parola è difficile, anche in quanto è parola dell’uomo, perché non è ancora la parola mia, ma la parola di una certa umanità, di un popolo singolare, di una civiltà alla quale non appartengo. Nella misura che non sono colui che ha scritto, nella misura che questa parola sulle mie labbra non è la parola di chi per primo l’ha pronun­ciata, certo è per me difficile perché non è mia; impone una mia trasformazione in chi per primo l’ha detta, l’ha espressa. E questo vuol dire una cosa immensa, ma anche una difficoltà estrema; vuol dire per me entrare nell’anima di un altro, vuol dire per me entrare nella mentalità, nel modo di sentire di un altro popolo, di un’altra civiltà, di un altro tempo, in una lingua che non è la mia lingua. Gli uomini sono così diversi! Ora, questa parola non è la pa­rola di un popolo al quale appartengo, non è la parola di una civiltà che è la mia civiltà, non è la parola di un uomo che reagisce come reagisco io alle impressioni, ai dolori e alle gioie che intessono la vita di ciascuno di noi. Com’è possibile che questa parola divenga la mia parola?
Si deve dire: la parola di Dio, divenendo parola dell’uo­mo, non si è confinata in un certo luogo, non è divenuta la parola soltanto di un popolo o di uomo singolare, è divenuta la parola dell’umanità. Non per nulla questa parola rimane normativa per tutte le anime ed è il libro della preghiera di tutti: degli uomini di tutte le razze, degli uomini di tutti i tempi.
Ma di qui ancora un’altra difficoltà: questa parola diverrà veramente la mia parola, quando io mi sarò spogliato in qualche modo di ogni mia individualità, non di ogni mia distin­zione personale dall’altro, ma di tutto quello che mi separa, mi chiude. Io debbo divenire persona, non debbo essere più individuo.
L’individuo è l’uomo non solo che si distingue dall’altro, ma colui che in qualche modo dall’altro è diviso. È l’uomo che, nel piano della natura, attesta una sua distinzione dagli altri nella misura che si chiude in se stesso e si difende da una solidarietà, da un’unità con tutti.
Sul piano di natura la legge propria della creatura è l’egoi­smo, non tanto un egoismo morale, che implica il peccato, ma un egoismo metafisico che è inerente alla creatura come tale. In Dio la Persona non è individuo, una natura sepa­rata e divisa, la Persona è puro rapporto di amore. Ora, perché la parola di tutta l’umanità divenga la mia parola, io non posso cessare di essere persona, ma debbo cessare di essere individuo; non posso cessare di essere persona, ma debbo realizzare il mio valore personale divenendo amore puro, divenendo l’uomo nel quale s’incarna ogni valore umano, l’uomo che è uno veramente con tutta l’umanità, l’uomo che non è diviso da alcuno, pur essendo distinto da tutti, l’uomo nel quale vive la vita di tutto l’universo, pur non confondendosi con alcuno.
Come il Padre è tutta la vita eppure non è il Figlio, come il Figlio è tutta la vita eppure non è il Padre, così, se que­sta parola è la parola dell’uomo, io debbo essere tutto l’uo­mo, tutta l’umanità, pur essendo distinto da ciascuno. Pur essendo distinto, tutti debbono vivere in me ed io debbo vivere in tutti un’unica vita; perché unica sia anche la mia e la parola di tutti, una parola che non è più la mia parola, ma è la parola dell’uomo che in ciascuno di noi loda Dio o piange la sua pena. Tutta l’umanità che vive in te la sua sofferenza o la sua gioia, la sua salvezza o la sua dannazio­ne, ecco la parola dei salmi. Che estrema difficoltà dunque far nostra questa parola! Si capisce perché: ci sono ragioni di ordine teologico, di ordine metafisico, di ordine storico. E non sappiamo quali siano le ragioni che fanno più grande questa difficoltà di parlare con la parola di Dio, di parlare con questa parola, di far sì che la nostra parola praticamen­te si identifichi a questa che ogni giorno noi diciamo a Dio e proclamiamo nella Chiesa.
È certo che la parola di Dio non può divenire parola dell’uomo che in quanto l’uomo si trasforma; altrimenti la parola di Dio sulle labbra dell’uomo diviene qualche cosa di sacrilego, come di chi osi far sua la parola di Dio senza essere lui! Far mia questa parola è profanarla, far mia que­sta parola è umiliare Dio. Ma una cosa ci soccorre, una grande verità ci è di aiuto: il fatto che Dio stesso abbia voluto essere uomo, umiliarsi fino alla forma di servo, accettare davvero il nostro stato di peccatori.
È vero che noi non potremo mai far nostra la parola di Dio, ma è vero che la parola di Dio ha voluto essere ve­ramente, fino in fondo, la parola di un uomo, dell’uomo dei dolori, dell’uomo che non conobbe il peccato e è stato fat­to peccato per noi (cf. 2 Cor. 5,21). Prima che Dio si facesse uomo nell’umiliazione suprema dell’incarnazione e della mor­te di croce, Dio si era già umiliato assumendo la nostra povera parola e aveva manifestato la sua volontà in una parola umana. Così la parola di Dio era già divenuta la pa­rola dell’uomo.
Tuttavia Dio si fa uomo, perché l’uomo divenga Dio. Se Dio ha assunto come parola sua la parola dell’uomo – il suo grido di dolore, la sua ansia, la sua speranza, la sua lode –, è vero che questa parola noi possiamo ripeterla, ma la ripetiamo precisamente in un processo onde questa stessa parola ci trasforma in Colui che la dice: la dice attraverso l’uomo, la dice per mezzo nostro, ma Colui che la dice rimane Dio. In altre parole: veramente l’incarnazio­ne del Verbo, la morte di croce, la suprema umiliazione per cui egli scende nell’abisso della nostra umiltà e della nostra miseria, è anche strumento della nostra elevazione per cui noi diveniamo giustizia di Dio in Lui e siamo redenti (cf. 2 Cor. 5,21).
Il mezzo che Dio ha scelto di umiliarsi nella parola dell’uomo, diviene per l’uomo lo strumento che lo innalza perché egli possa ora parlare a Dio e dire a Dio la parola stessa di Dio. La difficoltà sarebbe estrema, sarebbe insuperabile se io presumessi di far mia la parola di Dio; ma non è l’uomo che ardisce far sua la parola di Dio. L’attentato dell’uomo sarebbe sacrilego e blasfemo e il suo atto impotente. Non è così. È Dio che ha fatto sua la parola dell’uomo; ha parlato attraverso la sua parola, attraverso questa parola è lui che si è espresso. Così la parola umana è divenuta parola di Dio. Dio si è rivelato nella parola della nostra debolezza, della nostra povertà, della nostra umiltà; attraverso questa umiliazione di Dio, che assume la parola dell’uomo, l’uomo ora parlando esprime Dio, rivela Dio, lo prega, s’innalza fino a lui e in lui si trasforma. Così Dio dice la parola dell’uomo e l’uomo dice la parola di Dio. La difficoltà è superata non dalla volontà prometeica dell’uomo onde egli da solo tenta di raggiungere Dio, tenta di usur­pare la vita divina e di impadronirsi del suo potere. Dio ha voluto che veramente tu lo possegga, e proprio per questo, prima di farsi uomo, si fa parola sulle tue labbra; per que­sto non si è fatto uomo soltanto sulla croce, ma grido di dolore sulle tue labbra, ma gioia nel tuo cuore che prorompe nel canto.
Rimane l’altra difficoltà di ordine metafisico. Si diceva prima: questa parola di Dio, nella parola dell’uomo, non è la parola di un uomo diviso dagli altri, è veramente la parola dell’uomo, dell’umanità, la parola di un’umanità che conosce, nella sua condizione di pena, la miseria del peccato, la sofferenza della malattia, la persecuzione dei nemici, l’espe­rienza della morte, la solitudine umana; e conosce insieme la gioia della famiglia, l’esaltazione della vita associata nella città, nell’obbedienza al suo re, nella partecipazione agli atti della moltitudine nella guerra, nella costruzione della città, nelle feste religiose: è l’uomo totale che si esprime in questa parola. Come Dio in questa parola si rivela all’uomo, così anche rivela l’uomo a se stesso. Dio non poteva assu­mere la parola dell’uomo che in questa pienezza di una parola che rivelava tutto l’uomo. La difficoltà metafisica consiste in questo: come tu, che sei un uomo singolo, puoi vivere tutta la vita? come tu, nella parola che dici, potrai esprimere te stesso come uno con tutta l’umanità, quasi che tutta l’umanità vivesse in te e tu vivessi in tutta l’uma­nità? come noi non possiamo far nostra la parola di Dio che trasformandoci in Dio per la forza stessa della parola che ci è stata comunicata, così non possiamo far nostra la parola dei salmi, che è la parola dell’uomo, che in una liberazione da ogni egoismo, in una nostra pienezza, in un allargamento e dilatazione della nostra anima fino ad essere solidali, anzi una cosa sola con tutti i fratelli, in tal modo che noi non viviamo una nostra misera vita, ma nella nostra vita viva tutto l’universo, tutta l’umanità, l’umanità di tutti i tempi; ogni uomo, l’assassino come il santo, il padre di famiglia come il sommo sacerdote, il re, il moribondo, l’umiliato, l’oppresso: tutti, perché tutti parlano attraverso questa parola. E tutti debbono essere in te presenti perché tu possa dire questa parola che è la parola dell’uomo totale, dell’uomo uno. La difficoltà qui è estrema perché suppone la liberazione da ogni egoismo. Noi ci teniamo tanto a col­tivare una nostra piccola aiuola; non solo a distinguerci dagli altri, ma anche, in qualche modo a difenderci dagli altri, per una nostra proprietà che tanto più diviene pic­cola quanto più noi la teniamo stretta e la coltiviamo come una cosa preziosa. La proprietà è sempre qualcosa che ci immiserisce, ci chiude nella misura che noi a questa pro­prietà ci attacchiamo. Per veramente possedere ogni cosa occorre non avere più proprietà alcuna. Quello che è proprio non è di tutti: tutto è tuo e tutto è anche di ognuno, perciò nulla ti è proprio, dal momento che tutto vuol possedere, ma perché tu veramente possegga tutto, occorre che tu sia totalmente povero. Liberato da ogni proprietà e perciò da ogni egoismo, veramente tutto l’universo diviene tuo e tutta l’umanità vive nel tuo cuore.
Per vivere i salmi devi essere l’uomo. Per questo i salmi furono la preghiera del Cristo, sono la sua parola. Egli solo, in verità, pienamente poteva far sua questa parola; in lui era tutta l’umanità che parlava, gemeva, supplicava e lodava Dio. In ognuno di noi questa parola può essere veramente la sua parola nella misura che ognuno di noi si sarà trasformato nel Cristo, cioè nell’uomo universale e concreto. E perché questo avvenga bisogna superare le forche caudine, entrare cioè in questa umanità, vivere questa totalità della vita attraverso la porta stretta di un particolare lin­guaggio, di un particolare temperamento, che non è il nostro, di una lingua che non è la nostra lingua, di una cul­tura che non è la nostra cultura. Il genio della lingua: non ci rendiamo nemmeno conto di come una lingua stessa ci plasmi, ci educhi.
La lingua che noi usiamo fa parte delle lingue occidentali. Le famiglie delle lingue sono tre: quella orientale che è pittorica, la famiglia semitica, cioè araba ed ebraica, che espri­me soprattutto la forza del volere, la famiglia occidentale, che è la lingua del pensiero. Usare la lingua italiana, francese, inglese, tedesca, russa, vuol dire essenzialmente pen­sare. Invece parlare per un cinese non vuol dire pensare, vuol dire vedere: egli mette in rapporto le immagini. La stessa scrittura ideografica è simile a una pittura. Anzi la pittura più bella per un cinese è la sua stessa scrittura. Ogni parola è veramente un’immagine. Non il concatenamento logico dell’idea forma il discorso, ma l’accostamento delle immagini, come nella pittura; per questo è difficilissimo insegnare la nostra teologia a un giapponese o ad un cinese. È difficile che egli possa penetrare in un linguaggio puramente concettuale. Ha bisogno di vedere.
La lingua ci educa: ci dà un temperamento, ci dà un modo di pensare e di sentire le cose. Ora noi dobbiamo en­trare in una lingua che non è la nostra, in una lingua che non è logica, come la nostra, e non è pittorica come le lin­gue dell’estremo Oriente. La lingua semitica esprime la pura forza dell’atto, è originaria e immediata come la vita. La poesia dell’Occidente non esprime mai nell’atto imme­diato i sentimenti dell’uomo. Ha bisogno di ricordarli, ha bisogno di decantare i suoi sentimenti; la ragione intervie­ne e fa da mediatrice ai sentimenti del poeta. Questa poe­sia si distingue per una certa purezza, una calma interiore, un certo modo di vedere in distanza le cose: i sentimenti si purificano, ma hanno meno forza. Al contrario la poesia dei salmi: sono parole scomposte che prorompono, è lin­guaggio elementare; anche la parola è azione. È questa la lingua dei mistici. Così l’esperienza religiosa più alta è consegnata alla lingua semitica. Indipendentemente dall’espe­rienza che deriva da una rivelazione autentica di Dio, an­che l’esperienza religiosa più alta, al di fuori delle religioni strettamente rivelate, è consegnata a una lingua semitica fissata nel Corano. Hanno qualche ragione gli arabi a dire che, tradotto, il Corano non è più sacro, non è più parola di Dio e altrettanto dicevano gli ebrei. Anticamente si domandavano se la traduzione dei Settanta fosse anco­ra la Bibbia. Non è la Bibbia, dicevano, perché tradotta non è più parola di Dio. Infatti ogni traduzione è già un tradimento; ogni traduzione è infedeltà. Infedeltà allo spi­rito se non alle parole, se non al senso; ma la parola non esprime soltanto dei concetti, rivela una vita, vuol essere l’espressione dell’essere autentico nella sua totalità. Per que­sto siamo consapevoli che si può tradurre un romanzo o un libro di scienza, ma non si traduce una poesia. Non si traduce Montale in francese e tanto meno in arabo, in cinese. Non rimane più nulla. Nostro Signore, per aver voluto parlare la lingua dell’uomo, ha dovuto assumere la lingua di un popolo e di una civiltà. È vero che in questa civiltà, in questo popolo egli ha espresso tutta la vita dell’uomo, tuttavia è passato attraverso il linguaggio di un popolo e di una civiltà.
Devi superare la difficoltà di un linguaggio che non è il tuo, di un modo di sentire che non è il tuo. Siamo tutti un po’ nobili, decaduti magari, ma nobili e ci teniamo ad avere una certa compostezza. Diceva Pascoli a proposito della poesia italiana: «I nostri poeti, anche se non sono fanciulli, bisogna che abbiano sempre le scarpine bianche e pulite, anche quando giocano». Quando si prega non si gioca: è questo l’atto più solenne dell’uomo. E allora è naturale per noi disporci alla preghiera con la compostezza esteriore e usare un linguaggio corretto, pacato. Ma la pa­rola dei salmi prorompe nel grido, nell’imprecazione che sembra a volte rasenti la ribellione e la bestemmia. La parola è senza pudore: arriva all’espressione del dolore più sconsolato è senza misura. Noi ci sentiamo come spaesati e sconcertati da questo linguaggio. Se vogliamo far nostra questa parola abbiamo bisogno di tutti i rivestimenti di una civiltà che ha sì donato molto all’uomo, ma l’ha anche nascosto a se stesso. Ha dato all’uomo una certa nobiltà esteriore, ma anche l’ha camuffato sotto una maschera.
Com’è difficile far nostra questa parola! Le difficoltà sono grandi. Le potremo noi superare? certo: dobbiamo supe­rarle, perché la Chiesa ci consegna i salmi perché siano la nostra parola, come sono la parola di Dio. E vuole che attraverso questa parola si esprima il nostro essere integrale. E dunque è nella misura in cui noi entreremo nel mistero del Cristo, che questa parola diverrà la nostra parola e ripeterla non sarà per noi una menzogna, ma noi la diremo, come diceva Cassiano, come se noi la componessimo oggi, come se da noi uscisse ora, quasi dalla sua prima sorgente, come se fosse una parola non solo autentica, ma che oggi zampilla nel modo più nativo e più proprio di noi.
Le difficoltà però si superano nella misura che noi prima di tutto siamo docili a Dio, che, come ha voluto assumere la parola dell’uomo, vuole ora parlare egli stesso attraverso l’uomo. Nella misura che ci trasformiamo in Cristo, questa sarà la nostra parola perché è nella misura in cui ci trasformiamo in Cristo che diveniamo anche l’Uomo. Ecce Homo! (Gv. 19,5) Trasformati nel Cristo saremo trasformati in colui che ha assunto la nostra natura per vivere la vita di tutti.
E questo importa un’ascesi: la liberazione da ogni nostro egoismo, ascesi della volontà, ascesi anche della nostra intelligenza, rinunzia al nostro modo di sentire e di vedere, per entrare in un mondo nuovo più ampio e più vero del nostro piccolo mondo. La rinuncia a noi stessi è molto più profonda di quello che comunemente si crede. Comunemente si parla di una rinuncia a noi stessi sul piano morale; si esige invece una rinuncia a tutto quello che noi siamo nel modo stesso di sentire e di pensare, perché il mondo di Dio non è il mondo dell’uomo, né il mondo dell’uomo è esattamente il nostro mondo. Ma tu entri in questo mondo, che è il mondo dell’uomo ed è il mondo di Dio, e non è il tuo mondo, nella misura che tu muori a te stesso per vivere in Cristo Gesù. Per questo l’uso dei salmi importa un’ascesi. È esercizio di ascesi, prima che testimonianza d’esperienza mistica. Come reciteremmo più volentieri dei salmi preghiere composte oggi che rispondono meglio, ci sembra, alla nostra esperienza religiosa, che sono, ci sembra, in modo più vero l’espressione della nostra vita! Come può essere l’espressione della nostra vita la parola di un uomo vissuto duemila anni fa? un uomo che appartiene a un’altra civiltà, a un altro popolo, un uomo che non ha nulla in comune con me tranne la natura umana? Perché tu possa vivere la vita di tutti gli uomini, devi liberarti da tutto quello che è tuo; da tutto quello che è proprio e ti divide e ti contrappone agli altri. Allora, liberandoti veramente da tutti i limiti che ti chiudono, non tanto in te stesso quanto forse nell’esperienza stessa di una certa civiltà e di un certo popolo, tu potrai divenire veramente strumento di una vita universale che attraverso di te si esprime e parla a Dio. Tu puoi dire che anche la parola dei salmi è la parola di un popolo e di una civiltà e non è la parola dell’uomo, ma proprio perché Dio l’ha fatta sua, perché è Dio che ha parlato con questa parola, questa parola è divenuta anche la parola di tutta l’umanità.
La Chiesa comanda la recita dei salmi, che sono la sua preghiera. Questa è l’unica preghiera ispirata, l’unica cioè nella quale l’uomo può parlare, perché questa parola è stata assunta da Dio e sarebbe veramente una vana pretesa e presunzione da parte dell’uomo il credere che altrimenti la sua parola possa essere la parola di tutti. Nemmeno l’ebraismo avrebbe potuto pretendere che il suo linguaggio divenisse la parola di tutta l’umanità, se Dio stesso non avesse assunto questa parola e non fosse divenuta la sua.
La parola di Israele, divenuta parola di Dio, ha spezzato i suoi limiti, è divenuta capace di esprimere e di trasmettere una vita che era più potente della vita di un popolo e si è fatta capace di esprimere la vita dell’uomo. Rimane infatti che Dio, incarnandosi, non si è fatto romano o gre­co, cinese o indiano, ma si è fatto ebreo e questo fatto ha certo conseguenze incalcolabili per Israele. Più di ogni altra nazione il popolo d’Israele sembra aver acquistato la capacità, in forza dell’incarnazione divina, di riassumere tutta l’umanità e di fatto la sua storia è divenuta il paradigma della storia universale. Con l’incarnazione è questo Uomo concreto che appartiene a una razza, a una civiltà, che pienamente e definitivamente realizza l’universalità umana.
Così per la lingua: Dio certo poteva scegliere un’altra lingua, ma ha scelto la lingua ebraica e questa è divenuta, per tale fatto, la lingua di Dio, capace di esprimere tutta la vita dell’uomo, perché dovesse esprimere la vita stessa di Dio.
Questo privilegio tuttavia non è esclusivo della lingua ebraica, perché Dio ha scelto anche la lingua greca: alcuni Vangeli e le lettere di san Paolo sono stati scritti in greco. Eppure rimane vero che se Dio ha scelto, per rivelarci il suo mistero e per annunciarci la salvezza, la lingua greca, non ha scelto questa lingua per la preghiera. Come lingua di insegnamento sembra che la parola universale sia divenuta, con il Nuovo Testamento, la lingua greca; ma i salmi, la preghiera ispirata, rimangono in lingua ebraica.
In quanto l’uomo si rivolge a Dio con la preghiera si esprime ancora e si esprimerà sempre attraverso il genio di una lingua che prestò docilmente al cuore di Cristo i modi e la forma perché egli potesse esprimere la sua stessa preghiera.
Il genio della lingua ebraica è dunque il più atto ad esprimere tutta la vita dell’uomo nella sua preghiera a Dio, il più atto ad esprimere tutta la vita del mondo nella preghiera.

Divo Barsotti

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Giovanni Paolo II: Salmo 84: La nostra salvezza è vicinaLodi del martedì della 3a settimana (Sal 84, 2-3.9.13-14) (2002)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2002/documents/hf_jp-ii_aud_20020925_fr.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 25 settembre 2002

Salmo 84: La nostra salvezza è vicinaLodi del martedì della 3a settimana (Sal 84, 2-3.9.13-14)

1. Il Salmo 84 che abbiamo ora proclamato è un canto gioioso e pieno di speranza nel futuro della salvezza. Esso riflette il momento esaltante del ritorno di Israele dall’esilio babilonese nella terra dei padri. La vita nazionale ricomincia in quell’amato focolare, che era stato spento e distrutto nella conquista di Gerusalemme da parte delle armate del re Nabucodonosor nel 586 a.C.

Infatti, nell’originale ebraico del Salmo si sente risuonare ripetutamente il verbo shûb, che indica il ritorno dei deportati, ma significa anche un «ritorno» spirituale, cioè la «conversione». La rinascita, quindi, non riguarda solo la nazione, ma anche la comunità dei fedeli, che avevano sentito l’esilio come una punizione per i peccati commessi e che vedevano ora il rimpatrio e la nuova libertà come una benedizione divina, per l’avvenuta conversione.

2. Il Salmo può essere seguito nel suo svolgimento secondo due tappe fondamentali. La prima scandita dal tema del «ritorno» con tutte le valenze a cui accennavamo.

Si celebra innanzitutto il ritorno fisico di Israele: «Signore…, hai ricondotto i deportati di Giacobbe» (v. 2); «rialzaci, Dio nostra salvezza… Non tornerai tu forse a darci vita?» (vv. 5.7). È questo un prezioso dono di Dio, il quale si preoccupa di liberare i suoi figli dall’oppressione e s’impegna per la loro prosperità. Egli, infatti, «ama tutte le cose esistenti…, risparmia tutte le cose, perché tutte sono di lui, il Signore amante della vita» (cfr Sap 11,24.26).

Ma, accanto a questo «ritorno», che concretamente unifica i dispersi, c’è un altro «ritorno» più interiore e spirituale. Ad esso il Salmista lascia ampio spazio, attribuendogli un particolare rilievo, che vale non solo per l’antico Israele ma per i fedeli di tutti i tempi.

3. In questo «ritorno» agisce efficacemente il Signore, rivelando il suo amore nel perdonare l’iniquità del suo popolo, nel cancellare tutti i suoi peccati, nel deporre tutto il suo sdegno e mettere fine alla sua ira (cfr Sal 84,3-4).

Proprio la liberazione dal male, il perdono delle colpe, la purificazione dei peccati creano il nuovo popolo di Dio. Ciò è espresso attraverso un’invocazione che è entrata anche nella liturgia cristiana: «Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza» (v. 8).

Ma a questo «ritorno» di Dio che perdona deve corrispondere il «ritorno», cioè la conversione, dell’uomo che si pente. Infatti il Salmo dichiara che la pace e la salvezza vengono offerte a «chi ritorna a lui con tutto il cuore» (v. 9). Chi si mette decisamente sulla via della santità riceve i doni della gioia, della libertà e della pace.

È noto che spesso i termini biblici concernenti il peccato evocano uno sbagliare strada, un fallire la meta, un deviare dal retto percorso. La conversione è appunto un «ritorno» sulla via lineare che conduce alla casa del Padre, il quale ci attende per abbracciarci, perdonarci e renderci felici (cfr Lc 15,11-32).

4. Giungiamo, così, alla seconda parte del Salmo (cfr Sal 84,10-14), tanto cara alla tradizione cristiana. Vi si descrive un mondo nuovo, in cui l’amore di Dio e la sua fedeltà, come se fossero persone, si abbracciano; similmente anche la giustizia e la pace si baciano incontrandosi. La verità germoglia come in una rinnovata primavera e la giustizia, che per la Bibbia è anche salvezza e santità, si affaccia dal cielo per iniziare il suo cammino in mezzo all’umanità.

Tutte le virtù, prima espulse dalla terra a causa del peccato, ora rientrano nella storia e, incrociandosi, disegnano la mappa di un mondo di pace. Misericordia, verità, giustizia e pace diventano quasi i quattro punti cardinali di questa geografia dello spirito. Anche Isaia canta: «Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia. Io, il Signore, ho creato tutto questo» (Is 45,8).

5. Le parole del Salmista, già nel secondo secolo con sant’Ireneo di Lione, sono state lette come annunzio della «generazione di Cristo dalla Vergine» (Adversus haereses, III, 5, 1). La venuta di Cristo è, infatti, la sorgente della misericordia, lo sbocciare della verità, la fioritura della giustizia, lo splendore della pace.

Per questo il Salmo, soprattutto nella sua parte finale, è riletto in chiave natalizia dalla tradizione cristiana. Ecco come lo interpreta sant’Agostino in un suo discorso per il Natale. Lasciamo a lui di concludere la nostra riflessione. « »La verità è sorta dalla terra »: Cristo, il quale ha detto: « Io sono la verità » (Gv 14,6) è nato da una Vergine. « E la giustizia si è affacciata dal cielo »: chi crede in colui che è nato non si giustifica da se stesso, ma viene giustificato da Dio. « La verità è sorta dalla terra »: perché « il Verbo si è fatto carne » (Gv 1,14). « E la giustizia si è affacciata dal cielo »: perché « ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto discendono dall’alto » (Gc 1,17). « La verità è sorta dalla terra », cioè ha preso un corpo da Maria. « E la giustizia si è affacciata dal cielo »: perché « l’uomo non può ricevere cosa alcuna, se non gli viene data dal cielo » (Gv 3,27)» (Discorsi, IV/l, Roma 1984, p. 11).

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Giovanni Paolo II : Salmo 149 (catechesi 23 maggio 2001)

dal sito:

http://www.ansdt.it/Testi/Liturgia/Papa/index.html

Giovanni  Paolo  II 

Salmo 149

festa degli amici di Dio

(Lodi  Domenica  1ª settimana) 

quinta Catechesi di SS. Giovanni Paolo II  su  i Salmi e i Cantici delle Lodi

(mercoledì  23  maggio 2001)

1. “Esultino i fedeli nella gloria, sorgano lieti dai loro giacigli”. Questo appello del Salmo 149, che è stato appena proclamato, rimanda ad un’alba che sta per schiudersi e vede i fedeli pronti a intonare la loro lode mattutina. Tale lode è definita, con un’espressione significativa, “un canto nuovo” (v. 1), cioè un inno solenne e perfetto, adatto ai giorni finali, in cui il Signore radunerà i giusti in un mondo rinnovato. Tutto il Salmo è percorso da un’atmosfera festosa, inaugurata già dall’alleluia iniziale e ritmata poi in canto, lode, gioia, danza, suono dei timpani e delle cetre. La preghiera che questo Salmo ispira è l’azione di grazie di un cuore colmo di religiosa esultanza.

2. I protagonisti del Salmo sono chiamati, nell’originale ebraico dell’inno, con due termini caratteristici della spiritualità dell’Antico Testamento. Per tre volte essi sono definiti innanzitutto come hasidim (vv. 1.5.9), cioè “i pii, i fedeli”, coloro che rispondono con fedeltà e amore (hesed) all’amore paterno del Signore.

La seconda parte del Salmo desta meraviglia, perché è piena di espressioni belliche. Ci sembra strano che, in uno stesso versetto, il Salmo metta insieme “le lodi di Dio nella bocca” e “la spada a due tagli nelle loro mani” (v. 6). Riflettendo, possiamo capire il perché: il Salmo fu composto per dei “fedeli” che si trovavano impegnati in una lotta di liberazione; combattevano per liberare il loro popolo oppresso e rendergli la possibilità di servire Dio. Durante l’epoca dei Maccabei, nel II secolo a.C., i combattenti per la libertà e per la fede, sottoposti a dura repressione da parte del potere ellenistico, si chiamavano proprio hasidim, “i fedeli” alla Parola di Dio e alle tradizioni dei padri.

3. Nella prospettiva attuale della nostra preghiera questa simbologia bellica diventa un’immagine dell’impegno di noi credenti che, dopo aver cantato a Dio la lode mattutina, ci avviamo per le strade del mondo, in mezzo al male e all’ingiustizia. Purtroppo le forze che si oppongono al Regno di Dio sono imponenti: il Salmista parla di “popoli, genti, capi e nobili”. Eppure egli è fiducioso perché sa di aver accanto il Signore che è il vero Re della storia (v. 2). La sua vittoria sul male è, quindi, certa e sarà il trionfo dell’amore. A questa lotta partecipano tutti gli hasidim, tutti i fedeli e i giusti che con la forza dello Spirito conducono a compimento l’opera mirabile che porta il nome di Regno di Dio.

4. Sant’Agostino, partendo dai riferimenti del Salmo al ‘coro’ e ai ‘timpani e cetre’, commenta: “Che cosa rappresenta un coro? […] Il coro è un complesso di cantori che cantano insieme. Se cantiamo in coro dobbiamo cantare d’accordo. Quando si canta in coro, anche una sola voce stonata ferisce l’uditore e mette confusione nel coro stesso” (Enarr. in Ps. 149: CCL 40,7,1-4).

E riferendosi poi agli strumenti utilizzati dal Salmista, si chiede: “Perché il Salmista prende in mano il timpano e il salterio?” Risponde: “Perché non soltanto la voce lodi il Signore, ma anche le opere. Quando si prendono il timpano e il salterio, le mani si accordano alla voce. Così per te. Quando canti l’alleluia, devi porgere il pane all’affamato, vestire il nudo, ospitare il pellegrino. Se fai questo, non è solo la voce che canta, ma alla voce si armonizzano le mani, in quanto con le parole concordano le opere” (ibid., 8,1-4).

5. C’è un secondo vocabolo con cui sono definiti gli oranti di questo Salmo: essi sono gli ‘anawim, cioè “i poveri, gli umili” (v. 4). Questa espressione è molto frequente nel Salterio e indica non solo gli oppressi, i miseri, i perseguitati per la giustizia, ma anche coloro che, essendo fedeli agli impegni morali dell’Alleanza con Dio, vengono emarginati da quanti scelgono la violenza, la ricchezza e la prepotenza. In questa luce si comprende che quella dei “poveri” non è soltanto una categoria sociale ma una scelta spirituale. Questo è il senso della celebre prima Beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3). Già il profeta Sofonia si rivolgeva così agli ‘anawim: “Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia, cercate l’umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore” (Sof 2,3).

6. Ebbene, il “giorno dell’ira del Signore” è proprio quello descritto nella seconda parte del Salmo quando i “poveri” si schierano dalla parte di Dio per lottare contro il male. Essi, da soli, non hanno la forza sufficiente, né i mezzi, né le strategie necessarie per opporsi all’irrompere del male. Eppure la frase del Salmista non ammette esitazioni: “Il Signore ama il suo popolo, incorona gli umili (‘anawim) di vittoria” (v.4). Si configura idealmente quanto l’apostolo Paolo dichiara ai Corinzi: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28).

Con questa fiducia “i figli di Sion” (v. 2), hasidim e ‘anawim, cioè i fedeli e i poveri, si avviano a vivere la loro testimonianza nel mondo e nella storia. Il canto di Maria nel Vangelo di Luca – il Magnificat – è l’eco dei migliori sentimenti dei “figli di Sion”: lode gioiosa a Dio Salvatore, azione di grazie per le grandi cose operate in lei dal Potente, lotta contro le forze malvagie, solidarietà con i poveri, fedeltà al Dio dell’Alleanza (cfr Lc 1,46-55). 

(da L’Osservatore Romano  di giovedì  24 Maggio 2001)

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II, salmi |on 23 mai, 2010 |Pas de commentaires »

I SALMI CANTI SUI SENTIERI DI DIO : I cieli narrano… (Salmo 19)

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo19.htm

I SALMI CANTI SUI SENTIERI DI DIO

I cieli narrano… (Salmo 19)

L’estate col trionfo del sole evoca al lettore attento della Bibbia alcune pagine tutte intrise di luce, di calore, di splendore.

È il caso del Salmo 19 (18 nella numerazione della liturgia), illuminato da due dischi solari, quello dell’astro naturale che incombe anche sulla nostra estate e sulle nostre vacanze e quello della parola di Dio i cui « comandi sono limpidi, danno luce agli occhi ». Il salmo è affacciato, allora, proprio su questi due soli, quello che brilla nel nostro cielo (vv. 2-7) e quello che risplende all’orizzonte delle nostre coscienze (vv. 8-15). Un rabbino medievale, grande studioso della Bibbia, di nome Kimchì, affermava che « come il mondo non si illumina e vive se non per opera del sole, così l’anima non si sviluppa e non raggiunge la sua pienezza di vita se non attraverso la parola di Dio ». E in questi anni più vicini a noi il pastore protestante e teologo D. Bonhoeffer, che è stato impiccato nei campi di concentramento nazisti, scriveva: « Il salmo 19 non può parlare della magnificenza del corso degli astri senza pensare, con uno slancio improvviso e nuovo, alla magnificenza della rivelazione della legge di Dio ».

Noi ci fermeremo a contemplare il primo sole, quello della natura, così come ce lo dipinge il poeta biblico nella prima parte della sua lirica-preghiera. Se questa strofa può essere letta proprio nella cornice di una luminosa giornata estiva, essa però non si riduce ad un idillio paesaggistico. Il sole e il mondo sono sempre agli occhi del credente « creazione », sono quasi una misteriosa parola sussurrata da Dio all’uomo. Il celebre astronomo Keplero nella sua opera Armonia cosmica, dopo aver citato il nostro salmo, scriveva: « Ti ringrazio, mio Dio, nostro creatore, di avermi mostrato la bellezza della tua creazione e così io gioisco dell’opera delle tue mani. Ecco, io ho compiuto l’opera alla quale mi sono sentito chiamato: ho annunciato agli uomini lo splendore delle tue opere. Nella misura in cui il mio spirito limitato le ha potute comprendere, gli uomini ne leggeranno qui le prove ». Ascoltiamo anche noi le parole del salmista:

I cieli narrano la gloria di Dio
e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio
e la notte alla notte ne trasmette notizia.
Non è linguaggio e non sono parole
di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce
e ai confini del mondo la loro parola.
Là pose una tenda per il sole
che esce come sposo dalla stanza nuziale,
esulta come prode che percorre la via.
Egli sorge da un estremo del cielo
e la sua corsa raggiunge l’altro estremo:
nulla si sottrae al suo calore (vv. 2-7).

Si intravedono facilmente all’interno di questa strofa,che costituisce il primo movimento del salmo, alcuni simboli applicati al sole: nuziale, militare, atletico. Il sole, infatti, tanto celebrato soprattutto in Egitto in seguito ad una riforma religiosa di stampo monoteistico imposta dal faraone Akhnaton (XIV sec, a. C.), è dipinto dal poeta biblico come un eroe guerriero che, dopo essere uscito dalla stanza nuziale ove ha trascorso la notte (il grembo delle tenebre), inizia la sua folle corsa sull’orizzonte come un campione che non conosce soste e stanchezze, mentre tutto il pianeta è avvolto dal calore irresistibile del giorno.

Questo intreccio di immagini nuziali, sportive e militari era noto anche nelle preghiere mesopotamiche: « O Sole, guerriero ed atleta, e tu Notte, sua sposa, lanciate sempre uno sguardo favorevole alle mie suppliche e alle mie pie azioni! ».

Questo primo movimento del salmo si snoda, però, su due piccoli quadri. Il primo raccoglie il canto dei cieli, presentati come se fossero persone che fanno da testimoni entusiasti dell’opera creatrice di Dio. Essi, infatti, « narrano », « annunciano » le meraviglie del Creatore che li ha fatti. Anche il giorno e la notte sono rappresentati come messaggeri che trasmettono di postazione in postazione la grande notizia del Signore che si rivela proprio nelle sue creature. Spazio (i cieli) e tempo (notte e giorno) sono, perciò, coinvolti in una specie di « vangelo »di gioia e di luce, « nell’universo – scriveva un commentatore tedesco dei Salmi, H. Gunkel – risuona una musica teologica ».

Si tratta, però, di una musica e di un messaggio che non conoscono parole sonore ed echi; eppure questa strana voce silenziosa percorre tutto l’universo. Lo sguardo interiore dell’uomo e il suo orecchio spiritualmente attento possono decifrare questo enigma che è il creato. Il mondo muto si rivela all’occhio e all’orecchio dell’uomo come una realtà che parla e canta. S. Giovanni Crisostomo, celebre padre della Chiesa di Cappadocia (nell’attuale Turchia centrale), scriveva: « Questo silenzio dei cieli è una voce più risonante di quella di una tromba. Questa voce grida ai nostro occhi e ai nostro orecchi la grandezza di chi li ha fatti ». Il salmo si trasforma, allora, in un invito a vivere la nostra vacanza non come un semplice spazio vuoto, di riposo, di divertimento, di dispersione ma come un tempo colmo di scoperte e di stupore. Lo scrittore inglese Chesterton, il famoso creatore del personaggio popolare di P. Brown, sacerdote-investigatore, affermava che « il mondo non perirà per mancanza di meraviglie ma per mancanza di meraviglia ».

Il secondo quadro è avvolto dalla luce del sole, il principe del nostro orizzonte. La « tenda » è la notte ove il sole si ritira come fa il nomade che all’incombere della tenebra si rifugia nella sua tenda. Da questa camera nuziale notturna il sole esce all’alba come sposo – guerriero – atleta, pronto ad iniziare il suo lavoro – conquista – corsa negli spazi siderali.  Ecco, ormai il poeta vede fiammeggiare il sole in pieno cielo, tutta la terra è pervasa dal suo calore, l’aria è immobile, nessun angolo può sfuggire alla sua luce. Ma a questo punto il salmo ha una svolta: diventa un inno al sole della parola di Dio. E noi invitiamo chi ci ha seguito fin qui a prendere tra le mani una Bibbia e a concludere da solo la lettura del Salmo 19 scoprendo i raggi di luce che emanano dalla parola di Dio.

GIANFRANCO RAVASI

(da SE VUOI)

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Papa Benedetto, commento al salmo 125 ( salmo di domenica 21 marzo 2010)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050817_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Mercoledì, 17 agosto 2005

Salmo 125
Dio nostra gioia e nostra speranza
Vespri – Mercoledì 3a settimana

1. Ascoltando le parole del Salmo 125 si ha l’impressione di vedere scorrere davanti agli occhi l’evento cantato nella seconda parte del Libro di Isaia: il «nuovo esodo». È il ritorno di Israele dall’esilio babilonese alla terra dei padri in seguito all’editto del re persiano Ciro nel 538 a.C. Allora si ripeté l’esperienza gioiosa del primo esodo, quando il popolo ebraico fu liberato dalla schiavitù egiziana.

Questo Salmo acquistava particolare significato quando veniva cantato nei giorni in cui Israele si sentiva minacciato e impaurito, perché sottomesso di nuovo alla prova. Il Salmo comprende effettivamente una preghiera per il ritorno dei prigionieri del momento (cfr v. 4). Esso diventava, così, una preghiera del popolo di Dio nel suo itinerario storico, irto di pericoli e di prove, ma sempre aperto alla fiducia in Dio Salvatore e Liberatore, sostegno dei deboli e degli oppressi.

2. Il Salmo introduce in un’atmosfera di esultanza: si sorride, si fa festa per la libertà ottenuta, affiorano sulle labbra canti di gioia (cfr vv. 1-2).

La reazione di fronte alla libertà ridonata è duplice. Da un lato, le nazioni pagane riconoscono la grandezza del Dio di Israele: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro» (v. 2). La salvezza del popolo eletto diventa una prova limpida dell’esistenza efficace e potente di Dio, presente e attivo nella storia. D’altro lato, è il popolo di Dio a professare la sua fede nel Signore che salva: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi» (v. 3).

3. Il pensiero corre poi al passato, rivissuto con un fremito di paura e di amarezza. Vorremmo fissare l’attenzione sull’immagine agricola usata dal Salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (v. 5). Sotto il peso del lavoro, a volte il viso si riga di lacrime: si sta compiendo una semina faticosa, forse votata all’inutilità e all’insuccesso. Ma quando giunge la mietitura abbondante e gioiosa, si scopre che quel dolore è stato fecondo.

In questo versetto del Salmo è condensata la grande lezione sul mistero di fecondità e di vita che può contenere la sofferenza. Proprio come aveva detto Gesù alle soglie della sua passione e morte: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

4. L’orizzonte del Salmo si apre così alla festosa mietitura, simbolo della gioia generata dalla libertà, dalla pace e dalla prosperità, che sono frutto della benedizione divina. Questa preghiera è, allora, un canto di speranza, cui ricorrere quando si è immersi nel tempo della prova, della paura, della minaccia esterna e dell’oppressione interiore.

Ma può diventare anche un appello più generale a vivere i propri giorni e a compiere le proprie scelte in un clima di fedeltà. La perseveranza nel bene, anche se incompresa e contrastata, alla fine giunge sempre ad un approdo di luce, di fecondità, di pace.

È ciò che san Paolo ricordava ai Galati: «Chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo» (Gal 6,8-9).

5. Concludiamo con una riflessione di san Beda il Venerabile (672/3-735) sul Salmo 125 a commento delle parole con cui Gesù annunziava ai suoi discepoli la tristezza che li attendeva e insieme la gioia che sarebbe scaturita dalla loro afflizione (cfr Gv 16,20).

Beda ricorda che «piangevano e si lamentavano quelli che amavano Cristo quando lo videro preso dai nemici, legato, portato in giudizio, condannato, flagellato, deriso, da ultimo crocifisso, colpito dalla lancia e sepolto. Gioivano invece quelli che amavano il mondo…, quando condannavano a morte turpissima colui che era per loro molesto anche solo a vederlo. Si rattristarono i discepoli della morte del Signore, ma, conosciuta la sua risurrezione, la loro tristezza si mutò in gioia; visto poi il prodigio dell’ascensione, con gioia ancora maggiore lodavano e benedicevano il Signore, come testimonia l’evangelista Luca (cfr Lc 24,53). Ma queste parole del Signore si adattano a tutti i fedeli che, attraverso le lacrime e le afflizioni del mondo, cercano di arrivare alle gioie eterne, e che a ragione ora piangono e sono tristi, perché non possono vedere ancora colui che amano, e perché, fino a quando stanno nel corpo, sanno di essere lontani dalla patria e dal regno, anche se sono certi di giungere attraverso le fatiche e le lotte al premio. La loro tristezza si muterà in gioia quando, terminata la lotta di questa vita, riceveranno la ricompensa della vita eterna, secondo quanto dice il Salmo: “Chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”» (Omelie sul Vangelo, 2,13: Collana di Testi Patristici, XC, Roma 1990, pp. 379-380).

Salmo 50 (51) – (lectio)

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/libri_poetici_sapienziali/preghiera_richiesta_perdono.htm

Salmo 50 (51) – (lectio)

La bellezza e l’importanza vitale di questo salmo, proprio alla scoperta di un cammino di preghiera, è così espresso da Charles de Foucauld. « E’ un compendio di adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. A partire dalla considerazione di noi stessi e dalla vista dei nostri peccati, questo salmo sale fino alla contemplazione di Dio passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini » (citato da Ravasi G. Il libro dei salmi. Voll. II, EDB pag 13).
Questo salmo attraversa tutta la storia della spiritualità. Costituisce lo schema interno alle Confessioni di S. Agostino; è stato meditato e commentato da uomini come S. Gregorio Magno, il Savonarola, Lutero e Dostoevskij. Musicisti come Bach, Donizzetti e altri più recenti l’hanno musicato. Grandi pittori come G. Rouault si sono ispirati ad esso. « Meditandolo e pregandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e della storia » (C. M. Martini).

A lungo, come dicono i vv. 1-2, si è pensato che l’autore fosse Davide. Dal suo cuore sarebbe sgorgato il salmo dopo il suo adulterio con Betsabea, l’uccisione del marito Uria e l’ascolto della provocatoria parabola del profeta Natan (Cf 2Sam 11-12).
Oggi, gli esegeti sono invece propensi a cogliere, nel salmo, elementi teologici tipici dei profeti, specie di Geremia. Sarebbe dunque databile intorno al IV sec. a.C. dopo l’esilio babilonese. Va comunque sottolineato che la carica esistenziale, giunta dai profeti, ha fatto rielaborare in forma di preghiera personale, adatta a tutti i tempi, un’esperienza autentica di peccato e di conversione, nel più fiducioso ricorso a Dio.

E’ tale da farci cogliere una cosa importantissima nel rapporto coscienza del peccato e nostra preghiera: al centro – luce liberazione e salvezza – c’è la giustizia salvifica di Dio che è una sola cosa con la sua misericordia.
Lui è più grande di ogni nostro peccato: Sulla bilancia: peccato-Dio il piatto che pesa di più è quello dell’ « Esserci di Dio » ed « Esserci » come Misericordia.
La struttura risulta una grande armonia scandita da queste parti:

Introduzione: vv. 1-2 Si attribuisce il Salmo a Davide caduto in grave colpa.

vv.1-8 Si esplicita una consapevolezza acuta e dolorosa del peccato come enorme male. I verbi sono tutti all’indicativo ed esprimono dei fatti, degli errori commessi, in sostanza, contro Dio.

vv. 9-14 Si esprime la supplica. La percezione di Dio qui è certezza che Egli è assoluta fonte di perdono di grazia di rigenerazione e di gioia. I verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia ecc.

vv. 15-19 Riguarda il futuro: quel che il salmista intravede come progetto di Dio. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua acclamerà.

vv. 20-21 Appendice liturgica che è stata aggiunta in seguito.

vv. 3-5 « Pietà di me, o Dio secondo la tua bontà, secondo l’immensa tua misericordia, cancella le mie trasgressioni ».
Esordio importantissimo! L’accento è messo su Dio, anche se è forte il senso del peccato. Viene in mente quello che l’esegeta A. Gelin ha chiamato il « biglietto da visita di Dio nell’A.T. »: Jaweh, Jaweh, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione (Es 34,6-7).
Attingendo poi all’immagine di Dio – Padre che ci ha svelato Gesù, come non pensare a Lc 15 e a quella che si può dire la descrizione della psicologia del Padre misericordioso, nella parabola di Lui che accoglie e perdona? Interessante notare che il salmista dice: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia » o « perché sei misericordioso ». L’accento è messo sull’ »intuire » (pur senza riuscire a capire!) l’enorme sproporzione tra il modo di essere dell’uomo e questa misericordia che è il modo di essere di Dio.
Le parole ebraiche tradotte con misericordia sono « hesed » e « rahamin ». Hesed esprime l’atteggiamento di Dio: lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
Dio è colui che io non pretendo di conoscere: però posso essere certo/a che per Lui sono importante, talmente Egli ha cura di me, « perfino dei capelli del mio capo », per dirla con Gesù! (cf Mt 10,30; Lc 12,7)
Hesed è uno dei vocaboli fondamentali sia della teologia salmica che di quella dell’Alleanza (ricorre 245 volte nell’A.T., di cui 127 solo nei salmi).
Ma è pure importante il termine rahamin (plurale di rehem) che evoca le viscere materne, simbolo archetipo dell’amore tutto donato. « Si dimentica forse una madre del suo bambino? Anche se ciò avvenisse, io non ti dimenticherò mai » (cf Is 49,15 e 30,18).
Nel Talmud « Misericordioso » è quasi il cognome di Dio che è così definito nella sua realtà più intima.

vv. 4-7 « Lavami dalla mia colpa, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia trasgressione, il mio peccato mi è sempre dinanzi. Contro te solo ho peccato ».
Con una ripetizione martellante ora il salmista porta alla ribalta il peccato, scoperto in tutta la sua nequizia. In ebraico sono usate tre parole di molto peso: Ht’= peccato; pèsa= colpa; awon= trasgressione e ribellione.
L’idea che il salmista ci comunica è che il peccato è il male fondamentale in sostanza, è l’unico vero male dell’uomo. Spezza infatti l’Alleanza nuziale con Dio; è uno sbandamento, è fallire il colpo nel « tiro a segno » della vita; è la rivolta contro Dio, fonte della vita e della gioia. In Es 21,8; Ger 3,20; Is 1,20; 50,5 emerge un’idea precisa dell’assoluta distruttività del peccato. Se Dio infatti costruisce pace e armonia in noi e nella storia, mediante la nostra libera adesione alla sua Legge, il peccato rovina e distrugge l’uomo e ciò che è correlato a lui perché si propone come volontà e progetto alternativo all’unica fonte di bene che è Dio.
v. 8 « Ecco, tu ami la verità della coscienza e nel mio intimo mi fai conoscere la sapienza ».
E’ un versetto che fa scivolare in un certo senso la prima nella seconda parte del salmo. Viene espresso che la coscienza lucida e forte di quello che è il peccato non trova però soluzione attraverso un rituale magico ma attraverso il sincero umiliarsi del cuore consapevole di aver fatto un gran « guasto »; un cuore però nello stesso tempo fiducioso nel perdono di Dio e nella possibilità di ricominciare con Lui a scegliere « la via della vita ».
E’ il « vuoto » del cuore contrito e umiliato che permette poi l’irrompere in noi della sapienza come capacità di vedere e decidere secondo ciò che piace a Dio.

vv. 9-11 « Purificami… lavami. Distogli il tuo volto dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe ».
Il salmo qui diventa supplica la cui forza è espressa dai verbi all’imperativo. Le immagini intensificano, attraverso la loro espressività simbolica, l’anelito alla purificazione. L’issopo è un’erba aromatica connessa al rito dell’agnello pasquale (Es 12,22), mentre la neve parla di un rinnovato candido splendore al cuore che viene perdonato da Dio (cf Is 1,18).
Anche l’immagine antropomorfica del « volto » di Dio (cf v. 11 e v. 13) approfondisce questo parlare con Dio, perché il volto è espressione, a volte dello sdegno e della punizione di Dio che non può sopportare il peccato (cf Sl 38,2; 90,8) così com’è espressione soprattutto della fonte di grazia e di pacificazione: « Esulterò di gioia per la tua grazia, perché hai guardato alla mia miseria » (Sl 30,8). Per questa persuasione il salmista è arrivato ora a pregare: « Fammi sentire gioia e allegria, esulteranno le ossa che hai spezzato » (v. 10). Il perdono infatti provoca una gioia che afferra tutto l’essere umano, anche nella sua realtà fisica ( le « ossa »).
Sentiamo risuonare Isaia: « Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore e le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,4).

vv. 12-14 « Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo ».
La supplica diventa il grido di chi sempre più conosce Dio e, in preghiera, impara a conoscere se stesso alla Sua luce, chiedendo la forza del suo Spirito. Interessante il fatto che, nel testo ebraico, appaiono tre intense invocazioni allo Spirito Santo. L’italiano traduce: « sostieni in me uno spirito generoso », ma il testo originale dice: « rafforzami col tuo Spirito generoso ». Il senso è molto più consolante!
Siamo al momento culminante del salmo: è un’epiclesi penitenziale simile all’epiclesi nella Consacrazione, momento vertice della celebrazione eucaristica.
Importantissimo anche il termine « crea ». E’ il primo verbo della Bibbia: « In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gn 1,1). La Bibbia riserva questa parola solo per Dio che fa sgorgare l’essere, l’assoluta novità dal nulla.
Solo Dio crea! L’uomo può ricevere l’essere, non lo dà. Correlata a questa richiesta di nuova creazione è l’altra supplica: « rendimi la gioia », nel testo originale: « fa risorgere in me la gioia ».
Il senso che viene da questa correlazione è profondo: dove c’è vera conoscenza di Dio e del suo perdono può esserci gioia vera, intensa!

vv. 15-19 « Insegnerò ai ribelli le tue vie (…) la mia lingua acclamerà la tua giustizia (…). Un cuore contrito e umiliato, o Dio, tu non disprezzi ».
E’ un finale fortemente intriso di speranza! Chi ha sperimentato lo forza travolgente della misericordia e « conosce » d’essere stato « ri-creato » da Dio, diventa un testimone, uno che sente l’urgenza dell’annuncio .
Sempre però anche quest’azione missionaria è sostenuta da Dio che ne è il propulsore. Quel Dio che non gradisce sacrifici e olocausti (v.18) formalistici e vuoti d’amore, unisce invece intimamente a sé lo spirito, meglio ancora il cuore che ha saputo entrare nell’umile e piena contrizione.

vv. 20-21 « Nel tuo amore favorisci Sion (…). Allora amerai i sacrifici legittimi ».
Gli esegeti hanno letto qui un’appendice liturgica, di valore secondario. Non è più solo il peccatore che si pente e chiede il perdono; è tutto il popolo che domanda a Dio di dimenticare le sue ribellioni e di gradire nuovamente gli olocausti, i riti d’Israele.

Se voglio imparare a pregare, è bene ch’io impari anzitutto a conoscere Dio nella sua identità di AMORE – MISERICORDIA e anche a conoscere me nella mia identità di persona che ha peccato.
Troppo spesso si prega con una conoscenza molto vaga sia di Dio che di se stessi. Si ha l’idea di un « paparone » quasi nonno e bonaccione, oppure di un giudice irato; un dio supportato da devozionalismi vari, la cui immagine si gioca nelle oscure paure della psiche o viene imbrattata da tante banalità di catechesi e omelie malfatte, da libercoli spiritualistici; oppure l’idea è di un Dio astratto da teologia impregnata di raziocinio. Un dio… non un Dio vivente, un Dio « tappabuchi »! Non Dio-Amore, Misericordia infinita!
Si prega anche con una cattiva coscienza di se stessi senza sufficiente capacità di giudizio su di sé.
Perfino confessandosi, il credente a volte più che accusare sé cerca giustificazioni, attenuanti, accusando gli altri. Scrive il Card. Martini: « Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati; ne è però la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che è solo mio e non va, l’ho fatto io e lo disapprovo » (La scuola della Parola. Mondadori, 1995 p. 46).
Bisogna dunque prendere coscienza che se, nelle mostre confessioni e nell’atteggiamento di fondo del nostro essere, siamo sempre propensi a scusare noi e ad accusare gli altri, siamo lontani dalla conoscenza di noi e tanto più dalla realtà del pentimento cristiano.
Un’altra presa di coscienza per aprirci alla ricchezza di questo salmo, riguarda il nostro contesto socioculturale. E’ molto bello che finalmente si parli anche di « peccato sociale » di « strutture di peccato », nella consapevolezza che il peccato tocca la Chiesa, disgrega la società e inquina gli aspetti politici ed economici delle comunità nazionali e mondiali.
Questo salmo però ci ricorda che, dietro ogni volto d’uomo, dentro ogni situazione umana, Dio è la grande Presenza. Quando io tratto male qualcuno, lo inganno, gli nego aiuto, è Dio che io tratto male e offendo! Il salmista infatti non dice: « Ho peccato » ma « Ho peccato contro di Te ». Ed è sulla scorta di tutto il salmo che il nostro pregare chiedendo perdono a Dio lungi da farci affondare nel deprimente senso di colpa, ci fa rimbalzare nella piena fiducia. « Il mio peccato mi è sempre davanti », « Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto » dico con piena verità, ma senza indugiare con sguardo depresso sulle mie bassezze e miserie; perché volgendomi a Dio, grido a Lui con piena fiducia: « Pietà di me secondo la tua bontà, secondo l’immensa tua misericordia ».

- Quando prego, dopo una caduta, che idea ho di Dio nel mio cuore? Sono persuaso della sua infinita misericordia?

- Ho consapevolezza dell’enormità del peccato e riconosco lealmente qual è il peccato in cui più spesso cado? Oppure scivolo nella confusione e nella superficialità spirituale che tende a scusare me e a colpevolizzare gli altri?

- Vado a Dio oppresso/a da sensi di colpa o, mettendomi alla sua Presenza riconosco e consegno il mio peccato nella certezza del perdono di Dio?

- Peccato personale e sociale: radice di tutto è davvero, secondo me, l’aver rotto con Dio-Amore? Ne ho una persuasione inattaccabile?

Prego lentamente il salmo, mi soffermo sui versetti che più mi colpiscono, che rispondono, oggi, alla mia situazione spirituale. Li ripeto e memorizzo.
Non dimentico tra gli altri, quello che dice: « Crea in me un cuore puro, rendimi la gioia di essere salvato ». Lo mormoro sul ritmo del respiro.

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, salmi |on 27 février, 2010 |Pas de commentaires »

SALMO 8: GRANDEZZA DI DIO E DIGNITA’ DELL’UOMO

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/2-Salmo_8.html

SALMO 8: GRANDEZZA DI DIO E DIGNITA’ DELL’UOMO
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Meditando il Salmo 8, che recitiamo alle Lodi del sabato della quarta settimana, non possiamo non rilevare che esso sia anzitutto un mirabile inno di lode. Soprattutto in questo salmo emerge l’intensità spirituale, e la bellezza poetica.
La Bibbia, infatti, ci invita ad aprire il cammino della nostra giornata con un canto che non solo proclami le meraviglie operate da Dio e la nostra risposta di fede, ma le celebri «con arte» (Sal 46,8), cioè in modo bello, luminoso, dolce e forte al tempo stesso.
Splendido tra tutti è il Salmo 8, in cui l’uomo, immerso in un fondale notturno, quando nell’immensità del cielo s’accendono la luna e le stelle (cf v. 4), si sente come un granello nell’infinito e negli spazi illimitati che lo sovrastano.

Dio si china sull’uomo

Al centro del Salmo 8, infatti, emerge una duplice esperienza. Da un lato, la persona umana si sente quasi schiacciata dalla grandiosità del creato, «opera delle dita» divine. Tale curiosa locuzione sostituisce l’«opera delle mani» di Dio (cf v. 7), quasi per indicare che il Creatore abbia tracciato un disegno o un ricamo con gli astri splendenti, lanciati nell’immensità del cosmo.
Dall’altro lato, però, Dio si china sull’uomo e lo incorona come suo viceré: «Di gloria e di onore lo hai coronato» (v. 6). Anzi, a questa creatura così fragile affida tutto l’universo, perché ne tragga conoscenza e sostentamento di vita (cf vv. 7-9).
L’orizzonte della sovranità dell’uomo sulle altre creature è specificato quasi evocando la pagina di apertura della Genesi: greggi, armenti, bestie della campagna, uccelli del cielo e pesci del mare sono consegnati all’uomo perché, imponendo loro il nome (cf Gn 2,19-20), ne scopra la realtà profonda, la rispetti e la trasformi attraverso il lavoro e la finalizzi ad essere fonte di bellezza e di vita. Il Salmo ci rende consapevoli della nostra grandezza, ma anche della nostra responsabilità nei confronti del creato (cf Sap 9,3).

L’uomo è chiamato a cose grandi

Rileggendo il Salmo 8, l’autore della Lettera agli Ebrei vi ha scoperto una comprensione più profonda del disegno di Dio nei riguardi dell’uomo. La vocazione dell’uomo non può essere limitata all’attuale mondo terreno; se il Salmista afferma che Dio ha posto tutto sotto i piedi dell’uomo, questo vuol dire che gli vuole assoggettare anche «il mondo futuro» (Eb 2,5), «un regno incrollabile» (12,28). In definitiva, la vocazione dell’uomo è una «vocazione celeste» (3,1). Dio vuole «condurre alla gloria» celeste «una moltitudine di figli» (2,10). Perché questo progetto divino si attuasse, era necessario che la vita fosse tracciata da un «pioniere» (cf ibid.), nel quale la vocazione dell’uomo trovasse il suo primo adempimento perfetto. Questo pioniere è Cristo.
L’autore della Lettera agli Ebrei ha osservato in proposito che le espressioni del Salmo si applicano a Cristo in maniera privilegiata, cioè più precisa che per gli altri uomini. Infatti, il Salmista adopera il verbo «abbassare», dicendo a Dio: «abbassasti l’uomo un poco in confronto degli angeli, di gloria e onore lo coronasti» (cf Sal 8,6; Eb 2,6). Per gli uomini ordinari, questo verbo è improprio; non sono stati «abbassati» in confronto degli angeli, giacché non si sono mai trovati al di sopra di essi. Invece per Cristo, il verbo è esatto, perché, in quanto Figlio di Dio, egli si trovava al di sopra degli angeli ed è stato abbassato quando è diventato uomo, poi è stato coronato di gloria nella sua Risurrezione. Così Cristo ha adempiuto pienamente la vocazione dell’uomo e l’ha adempiuta, precisa l’autore, «a vantaggio di tutti» (Eb 2,9).

La vittoria nel pericolo

In questa luce, sant’Ambrogio commenta il Salmo e l’applica a noi. Egli parte dalla frase in cui si delinea l’«incoronazione» dell’uomo: «Di gloria e di onore lo hai coronato» (v. 6). In quella gloria egli vede, però, il premio che il Signore ci riserva quando abbiamo superato la prova della tentazione.
Ecco le parole del grande Padre della Chiesa nella sua Esposizione del Vangelo secondo Luca: «Il Signore ha incoronato il suo diletto anche di gloria e di magnificenza. Quel Dio che desidera distribuire le corone, procura le tentazioni: perciò, quando sei tentato, sappi che ti si prepara la corona. Abolisci i combattimenti dei martiri, abolirai anche le loro corone; abolisci i loro supplizi, abolirai la loro beatitudine» (IV, 41: Saemo 12, pp. 330-333).
Dio intreccia per noi quella «corona di giustizia» (2Tm 4,8) che ricompenserà la nostra fedeltà a Lui mantenuta anche nel tempo della tempesta che scuote il nostro cuore e la nostra mente. Ma egli è in ogni tempo attento alla sua creatura prediletta e vorrebbe che in essa brillasse sempre l’«immagine» divina (cf Gn 1,26), così che sappia essere nel mondo segno di armonia, di luce, di pace.

                                                                       Giovanni Paolo II
                                                            L’Osservatore Romano, 25-09-2003

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, salmi |on 25 février, 2010 |Pas de commentaires »

Quaresima: Sete e silenzio (salmo 41, 2-3)

dal sito:

http://www.mariadimagdala.191.it/riflessioni.htm

Quaresima

SETE e SILENZIO

Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…
(Salmo 41,2-3)

Siamo riusciti ad arrivare, con o senza i cinque sensi, a questo mormorio gemente e silenzioso? Ahimè, no. Troppo spesso siamo dei senza-sete di Dio, dei senza-sete di preghiera e di silenzio.
Questa sete di Dio, che farebbe sorgere in noi il desiderio del silenzio, ci fa paura… E allora preferiamo stordirci con ogni tipo di divertimento e di ebbrezza. Prima di tutto siamo talmente sazi di bevande che non sappiamo nemmeno più cosa significhi aspettare per placare la sete. Questo si può osservare nella vita quotidiana della città, dove per un nonnulla – a forza di abitudini, di pasti consumistici! – dal primo caffé del mattino fino al bicchierone d’acqua prima di avvolgerci nelle coperte, viviamo in una continua liquefazione, nella circolazione di liquidi, circondati da slogan che sostengono le meravigliose proprietà delle acque minerali e naturali, senza parlare degli aperitivi che dovrebbero aprirci lo stomaco per consumare sempre di più, oltre che sempre meglio. Tutto ciò sfocia in un’astenia spirituale.
Ed è ancora più evidente se dobbiamo fare una lunga camminata in compagnia, sia in montagna che in pianura: dopo la respirazione e la cadenza che segnano il ritmo del gruppo, i segni rivelatori saranno il silenzio e il desiderio di placare la sete.
I neofiti avidi e senza controllo si precipitano ad ogni sosta sulle borracce o sulla prima sorgente che capita: si dissetano con ingordigia, condizionati come sono dall’abitudine al consumo passivo: «Fatto subito, ben fatto!». Questo atteggiamento genera risate volubili e sonore, esclamazioni, rozzi gorgoglii, e quanto può nuocere al raccoglimento della tappa! È ben diverso riuscire a trattenere la voglia di bere fino alla sosta successiva, abituando così il proprio equilibrio psicofisico a marce più lunghe che portano alla sobrietà.
Silenzio e sobrietà vanno di pari passo.
Avviene la stessa cosa se consideriamo il rapporto del silenzio con la sete di preghiera: la fretta non ci può essere d’aiuto. Il desiderio di bere si trattiene nei silenzi ritmati della respirazione e dei battiti del cuore. La preghiera è una sosta silenziosa che può aiutarci a vincere la sete… e a ravvivare il desiderio di bere. Sete simbolo del desiderio.

L’anima mia languisce…
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente…            
(Salmo 83,3)

Questo desiderio spirituale viene infatti descritto dal salmista come una sete:

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
di te ha sete l’anima mia,
a te anela la mia carne,
come terra deserta, arida, senz’acqua.         
(Salmo 62,2)

La nostra sete è davvero provocata dalla secchezza, dall’aridità del nostro cuore, da tutte le macchie interiori che ci trasformano in una scorza polverosa. Lo dice anche Isaia:

Di notte anela a te l’anima mia,
al mattino ti cerca il mio spirito.         
(Isaia 26,9)

L’aridità fa prendere coscienza della mancanza:

Vagavano nel deserto, nella steppa…
Erano affamati e assetati
veniva meno la loro vita…                  
(Salmo 106,4-5)

Il desiderio cresce fino all’esasperazione, come un grido violento rivolto a Dio, lui che «saziò il deside­rio dell’assetato» (Salmo 106,9), che con la sua po­tenza «percosse la rupe e ne scaturì acqua, e strariparono torrenti» (Salmo 77,20), lui che «spaccò le rocce nel deserto e diede loro da bere come dal grande abisso. Fece sgorgare ruscelli dalla rupe e scorrere l’acqua a torrenti» (Salmo 77,15-16).
Questo desiderio si traduce anche in zelo:

Mi divora lo zelo della tua casa,
perché i miei nemici dimenticano le tue parole.
(Salmo 118,139)

E lo stesso fuoco si ritrova nell’anima che brucia di desiderio:

Io mi consumo nel desiderio
dei tuoi precetti in ogni tempo.         
(Salmo 118,20)

Solo la parola di Dio placa questo ardore, questo fuoco che arde senza distruggere l’anima, come il Roveto ardente:

Stilli come pioggia la mia dottrina, scenda come rugiada il mio dire; come scroscio sull’erba del prato, come spruzzo sugli steli del grano.
(Deuteronomio 32,2)

E già in queste immagini sono annunciate le fertilità del futuro:

Ridusse i fiumi a deserto,
a luoghi aridi le fonti d àcqua e la terra fertile d palude
per la malizia dei suoi abitanti. Ma poi cambiò il deserto in lago,
e la terra arida in sorgenti d àcqua. Là fece dimorare gli affamati
ed essi fondarono una città dove abitare. Seminarono campi e piantarono vigne,
e ne raccolsero frutti abbondanti.
(Salmo 106,33-37)

Il silenzio è il segno della quiete della fecondità ritrovata, e in modo del tutto naturale l’anima riposa:

Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
(Salmo 130,2)

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, salmi |on 20 février, 2010 |Pas de commentaires »

Salmo 50 (51)

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/libri_poetici_sapienziali/preghiera_richiesta_perdono.htm

Salmo 50 (51)

La bellezza e l’importanza vitale di questo salmo, proprio alla scoperta di un cammino di preghiera, è così espresso da Charles de Foucauld. « E’ un compendio di adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. A partire dalla considerazione di noi stessi e dalla vista dei nostri peccati, questo salmo sale fino alla contemplazione di Dio passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini » (citato da Ravasi G. Il libro dei salmi. Voll. II, EDB pag 13).
Questo salmo attraversa tutta la storia della spiritualità. Costituisce lo schema interno alle Confessioni di S. Agostino; è stato meditato e commentato da uomini come S. Gregorio Magno, il Savonarola, Lutero e Dostoevskij. Musicisti come Bach, Donizzetti e altri più recenti l’hanno musicato. Grandi pittori come G. Rouault si sono ispirati ad esso. « Meditandolo e pregandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e della storia » (C. M. Martini).

A lungo, come dicono i vv. 1-2, si è pensato che l’autore fosse Davide. Dal suo cuore sarebbe sgorgato il salmo dopo il suo adulterio con Betsabea, l’uccisione del marito Uria e l’ascolto della provocatoria parabola del profeta Natan (Cf 2Sam 11-12).
Oggi, gli esegeti sono invece propensi a cogliere, nel salmo, elementi teologici tipici dei profeti, specie di Geremia. Sarebbe dunque databile intorno al IV sec. a.C. dopo l’esilio babilonese. Va comunque sottolineato che la carica esistenziale, giunta dai profeti, ha fatto rielaborare in forma di preghiera personale, adatta a tutti i tempi, un’esperienza autentica di peccato e di conversione, nel più fiducioso ricorso a Dio.

E’ tale da farci cogliere una cosa importantissima nel rapporto coscienza del peccato e nostra preghiera: al centro – luce liberazione e salvezza – c’è la giustizia salvifica di Dio che è una sola cosa con la sua misericordia.
Lui è più grande di ogni nostro peccato: Sulla bilancia: peccato-Dio il piatto che pesa di più è quello dell’ « Esserci di Dio » ed « Esserci » come Misericordia.
La struttura risulta una grande armonia scandita da queste parti:

Introduzione: vv. 1-2 Si attribuisce il Salmo a Davide caduto in grave colpa.

vv.1-8 Si esplicita una consapevolezza acuta e dolorosa del peccato come enorme male. I verbi sono tutti all’indicativo ed esprimono dei fatti, degli errori commessi, in sostanza, contro Dio.

vv. 9-14 Si esprime la supplica. La percezione di Dio qui è certezza che Egli è assoluta fonte di perdono di grazia di rigenerazione e di gioia. I verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia ecc.

vv. 15-19 Riguarda il futuro: quel che il salmista intravede come progetto di Dio. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua acclamerà.

vv. 20-21 Appendice liturgica che è stata aggiunta in seguito.

vv. 3-5 « Pietà di me, o Dio secondo la tua bontà, secondo l’immensa tua misericordia, cancella le mie trasgressioni ».
Esordio importantissimo! L’accento è messo su Dio, anche se è forte il senso del peccato. Viene in mente quello che l’esegeta A. Gelin ha chiamato il « biglietto da visita di Dio nell’A.T. »: Jaweh, Jaweh, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione (Es 34,6-7).
Attingendo poi all’immagine di Dio – Padre che ci ha svelato Gesù, come non pensare a Lc 15 e a quella che si può dire la descrizione della psicologia del Padre misericordioso, nella parabola di Lui che accoglie e perdona? Interessante notare che il salmista dice: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia » o « perché sei misericordioso ». L’accento è messo sull’ »intuire » (pur senza riuscire a capire!) l’enorme sproporzione tra il modo di essere dell’uomo e questa misericordia che è il modo di essere di Dio.
Le parole ebraiche tradotte con misericordia sono « hesed » e « rahamin ». Hesed esprime l’atteggiamento di Dio: lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
Dio è colui che io non pretendo di conoscere: però posso essere certo/a che per Lui sono importante, talmente Egli ha cura di me, « perfino dei capelli del mio capo », per dirla con Gesù! (cf Mt 10,30; Lc 12,7)
Hesed è uno dei vocaboli fondamentali sia della teologia salmica che di quella dell’Alleanza (ricorre 245 volte nell’A.T., di cui 127 solo nei salmi).
Ma è pure importante il termine rahamin (plurale di rehem) che evoca le viscere materne, simbolo archetipo dell’amore tutto donato. « Si dimentica forse una madre del suo bambino? Anche se ciò avvenisse, io non ti dimenticherò mai » (cf Is 49,15 e 30,18).
Nel Talmud « Misericordioso » è quasi il cognome di Dio che è così definito nella sua realtà più intima.

vv. 4-7 « Lavami dalla mia colpa, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia trasgressione, il mio peccato mi è sempre dinanzi. Contro te solo ho peccato ».
Con una ripetizione martellante ora il salmista porta alla ribalta il peccato, scoperto in tutta la sua nequizia. In ebraico sono usate tre parole di molto peso: Ht’= peccato; pèsa= colpa; awon= trasgressione e ribellione.
L’idea che il salmista ci comunica è che il peccato è il male fondamentale in sostanza, è l’unico vero male dell’uomo. Spezza infatti l’Alleanza nuziale con Dio; è uno sbandamento, è fallire il colpo nel « tiro a segno » della vita; è la rivolta contro Dio, fonte della vita e della gioia. In Es 21,8; Ger 3,20; Is 1,20; 50,5 emerge un’idea precisa dell’assoluta distruttività del peccato. Se Dio infatti costruisce pace e armonia in noi e nella storia, mediante la nostra libera adesione alla sua Legge, il peccato rovina e distrugge l’uomo e ciò che è correlato a lui perché si propone come volontà e progetto alternativo all’unica fonte di bene che è Dio.
v. 8 « Ecco, tu ami la verità della coscienza e nel mio intimo mi fai conoscere la sapienza ».
E’ un versetto che fa scivolare in un certo senso la prima nella seconda parte del salmo. Viene espresso che la coscienza lucida e forte di quello che è il peccato non trova però soluzione attraverso un rituale magico ma attraverso il sincero umiliarsi del cuore consapevole di aver fatto un gran « guasto »; un cuore però nello stesso tempo fiducioso nel perdono di Dio e nella possibilità di ricominciare con Lui a scegliere « la via della vita ».
E’ il « vuoto » del cuore contrito e umiliato che permette poi l’irrompere in noi della sapienza come capacità di vedere e decidere secondo ciò che piace a Dio.

vv. 9-11 « Purificami… lavami. Distogli il tuo volto dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe ».
Il salmo qui diventa supplica la cui forza è espressa dai verbi all’imperativo. Le immagini intensificano, attraverso la loro espressività simbolica, l’anelito alla purificazione. L’issopo è un’erba aromatica connessa al rito dell’agnello pasquale (Es 12,22), mentre la neve parla di un rinnovato candido splendore al cuore che viene perdonato da Dio (cf Is 1,18).
Anche l’immagine antropomorfica del « volto » di Dio (cf v. 11 e v. 13) approfondisce questo parlare con Dio, perché il volto è espressione, a volte dello sdegno e della punizione di Dio che non può sopportare il peccato (cf Sl 38,2; 90,8) così com’è espressione soprattutto della fonte di grazia e di pacificazione: « Esulterò di gioia per la tua grazia, perché hai guardato alla mia miseria » (Sl 30,8). Per questa persuasione il salmista è arrivato ora a pregare: « Fammi sentire gioia e allegria, esulteranno le ossa che hai spezzato » (v. 10). Il perdono infatti provoca una gioia che afferra tutto l’essere umano, anche nella sua realtà fisica ( le « ossa »).
Sentiamo risuonare Isaia: « Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore e le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,4).

vv. 12-14 « Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo ».
La supplica diventa il grido di chi sempre più conosce Dio e, in preghiera, impara a conoscere se stesso alla Sua luce, chiedendo la forza del suo Spirito. Interessante il fatto che, nel testo ebraico, appaiono tre intense invocazioni allo Spirito Santo. L’italiano traduce: « sostieni in me uno spirito generoso », ma il testo originale dice: « rafforzami col tuo Spirito generoso ». Il senso è molto più consolante!
Siamo al momento culminante del salmo: è un’epiclesi penitenziale simile all’epiclesi nella Consacrazione, momento vertice della celebrazione eucaristica.
Importantissimo anche il termine « crea ». E’ il primo verbo della Bibbia: « In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gn 1,1). La Bibbia riserva questa parola solo per Dio che fa sgorgare l’essere, l’assoluta novità dal nulla.
Solo Dio crea! L’uomo può ricevere l’essere, non lo dà. Correlata a questa richiesta di nuova creazione è l’altra supplica: « rendimi la gioia », nel testo originale: « fa risorgere in me la gioia ».
Il senso che viene da questa correlazione è profondo: dove c’è vera conoscenza di Dio e del suo perdono può esserci gioia vera, intensa!

vv. 15-19 « Insegnerò ai ribelli le tue vie (…) la mia lingua acclamerà la tua giustizia (…). Un cuore contrito e umiliato, o Dio, tu non disprezzi ».
E’ un finale fortemente intriso di speranza! Chi ha sperimentato lo forza travolgente della misericordia e « conosce » d’essere stato « ri-creato » da Dio, diventa un testimone, uno che sente l’urgenza dell’annuncio .
Sempre però anche quest’azione missionaria è sostenuta da Dio che ne è il propulsore. Quel Dio che non gradisce sacrifici e olocausti (v.18) formalistici e vuoti d’amore, unisce invece intimamente a sé lo spirito, meglio ancora il cuore che ha saputo entrare nell’umile e piena contrizione.

vv. 20-21 « Nel tuo amore favorisci Sion (…). Allora amerai i sacrifici legittimi ».
Gli esegeti hanno letto qui un’appendice liturgica, di valore secondario. Non è più solo il peccatore che si pente e chiede il perdono; è tutto il popolo che domanda a Dio di dimenticare le sue ribellioni e di gradire nuovamente gli olocausti, i riti d’Israele.

Se voglio imparare a pregare, è bene ch’io impari anzitutto a conoscere Dio nella sua identità di AMORE – MISERICORDIA e anche a conoscere me nella mia identità di persona che ha peccato.
Troppo spesso si prega con una conoscenza molto vaga sia di Dio che di se stessi. Si ha l’idea di un « paparone » quasi nonno e bonaccione, oppure di un giudice irato; un dio supportato da devozionalismi vari, la cui immagine si gioca nelle oscure paure della psiche o viene imbrattata da tante banalità di catechesi e omelie malfatte, da libercoli spiritualistici; oppure l’idea è di un Dio astratto da teologia impregnata di raziocinio. Un dio… non un Dio vivente, un Dio « tappabuchi »! Non Dio-Amore, Misericordia infinita!
Si prega anche con una cattiva coscienza di se stessi senza sufficiente capacità di giudizio su di sé.
Perfino confessandosi, il credente a volte più che accusare sé cerca giustificazioni, attenuanti, accusando gli altri. Scrive il Card. Martini: « Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati; ne è però la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che è solo mio e non va, l’ho fatto io e lo disapprovo » (La scuola della Parola. Mondadori, 1995 p. 46).
Bisogna dunque prendere coscienza che se, nelle mostre confessioni e nell’atteggiamento di fondo del nostro essere, siamo sempre propensi a scusare noi e ad accusare gli altri, siamo lontani dalla conoscenza di noi e tanto più dalla realtà del pentimento cristiano.
Un’altra presa di coscienza per aprirci alla ricchezza di questo salmo, riguarda il nostro contesto socioculturale. E’ molto bello che finalmente si parli anche di « peccato sociale » di « strutture di peccato », nella consapevolezza che il peccato tocca la Chiesa, disgrega la società e inquina gli aspetti politici ed economici delle comunità nazionali e mondiali.
Questo salmo però ci ricorda che, dietro ogni volto d’uomo, dentro ogni situazione umana, Dio è la grande Presenza. Quando io tratto male qualcuno, lo inganno, gli nego aiuto, è Dio che io tratto male e offendo! Il salmista infatti non dice: « Ho peccato » ma « Ho peccato contro di Te ». Ed è sulla scorta di tutto il salmo che il nostro pregare chiedendo perdono a Dio lungi da farci affondare nel deprimente senso di colpa, ci fa rimbalzare nella piena fiducia. « Il mio peccato mi è sempre davanti », « Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto » dico con piena verità, ma senza indugiare con sguardo depresso sulle mie bassezze e miserie; perché volgendomi a Dio, grido a Lui con piena fiducia: « Pietà di me secondo la tua bontà, secondo l’immensa tua misericordia ».

- Quando prego, dopo una caduta, che idea ho di Dio nel mio cuore? Sono persuaso della sua infinita misericordia?

- Ho consapevolezza dell’enormità del peccato e riconosco lealmente qual è il peccato in cui più spesso cado? Oppure scivolo nella confusione e nella superficialità spirituale che tende a scusare me e a colpevolizzare gli altri?

- Vado a Dio oppresso/a da sensi di colpa o, mettendomi alla sua Presenza riconosco e consegno il mio peccato nella certezza del perdono di Dio?

- Peccato personale e sociale: radice di tutto è davvero, secondo me, l’aver rotto con Dio-Amore? Ne ho una persuasione inattaccabile?

Prego lentamente il salmo, mi soffermo sui versetti che più mi colpiscono, che rispondono, oggi, alla mia situazione spirituale. Li ripeto e memorizzo.
Non dimentico tra gli altri, quello che dice: « Crea in me un cuore puro, rendimi la gioia di essere salvato ». Lo mormoro sul ritmo del respiro.

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, salmi |on 19 février, 2010 |Pas de commentaires »
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