RAV DI SEGNI: IL MAGISTERO RABBINICO DI RAV ELIO TOAFF A ROMA (per il giorno della memoria)
http://moked.it/rabbanutroma/files/2010/05/toaff.pdf
Riccardo Di Segni
IL MAGISTERO RABBINICO DI RAV ELIO TOAFF A ROMA
(dall’indirizzo web direi maggio 2010)
La presenza di rav Toaff come rabbino capo a Roma si distingue prima di tutto per il suo record storico di durata: cinquanta anni, dal 1951 al 2001. Si tratta di un fatto estremamente raro nelle biografie dei singoli rabbini e nelle storie delle comunità: perché vi sono sempre stati, anche se non molto frequenti, dei rabbini molto longevi, ma difficilmente vi sono state delle comunità disposte a convivere con lo stesso rabbino per un periodo tanto lungo. Quindi bisogna riflettere anche sui meccanismi di una convivenza molto prolungata ma mai semplice. L’attività di Rav Toaff è conosciuta ai più per la sua presenza nella scena politica, prima, e in quella interreligiosa dopo. Il suo ruolo come guida religiosa della comunità romana, e in qualche modo di quella italiana in generale, viene un po’ offuscato da questi maggiori eventi mediatici. Ma non si può fare a meno di studiare tutto questo aspetto che appare invece essenziale. Le note che seguono sono solo una breve serie iniziale di impressioni e testimonianze, perché ben altro è il lavoro da fare per ricostruire un percorso molto ricco e complesso. Per comprenderne appieno i termini, è essenziale prima di tutto riferirsi al curriculum formativo. Rav Toaff ricevette l’ordinazione rabbinica al Collegio Rabbinico di Livorno, diretto da suo padre rav Alfredo Sabato. L’attività rabbinica quindi è intrinseca alla sua esperienza formativa, ma è stata respirata e vissuta in famiglia fin dall’inizio, e in un contesto del tutto particolare, quello di Livorno, comunità madre dell’ebraismo sefardita con tutta la sua pungente arguzia toscana e con tutte le sue tradizioni ebraiche specifiche, la sua storia, le sue tipografie. Ancora negli anni venti e trenta Livorno era una comunità molto vivace culturalmente, in grado di ospitare il famoso convegno ebraico del 1924 in cui si esibirono e scontrarono i Sereni e i Rosselli; la vita ebraica ruotava intorno alla storica Sinagoga, che fu poi distrutta da un bombardamento alleato nella seconda guerra mondiale; era ricca di pratica religiosa e, malgrado fenomeni di assimilazione diffusi, abbondava di attività di studio; soprattutto ospitava un Collegio Rabbinico, fratello antagonista del Collegio Rabbinico fiorentino. Vani erano stati per circa venti anni, sullo sfondo di una crisi di risorse costante, i tentativi di unificare i due istituti rabbinici toscani. I fiorentini vantavano una certa superiorità scientifica, cui i livornesi, ancora sotto l’influsso culturale di Elia Benamozegh, opponevano forse una maggiore radicalità tradizionale. Ma sempre di Italia ebraica si trattava, per cui il modello comune era quello di un’ortodossia temperata, aperta al confronto con le scienze e il mondo esterno, e con forti simpatie per il sionismo. A Livorno gli studenti del Collegio Rabbinico facevano il loro percorso di studi laici liceali tutto all’interno dell’istituto, dove il direttore rabbinoAlfredo Toaff indossava anche le vesti di professore di latino e greco. Gli studenti erano subito addestrati in attività parallele come la chazanut e la shechità, secondo il modello che voleva produrre un rabbino in grado di assicurare tutti i servizi essenziali in qualsiasi luogo si fosse recato(esperienze formative di cui rav Toaff in seguito fece tesoro). Poi c’erano gli esami di stato. Nell’anno in cui uno scritto di maturità si tenne di Sabato, non ci fu niente da fare con il governo e il futuro rav Toaff con i suoi compagni di classe dovette ripetere l’anno. Per l’università (di cui il titolo era fortemente richiesto) gli studenti andavano a Pisa, il che rappresentava il primo incontro forte con il mondo esterno. Rav Toaff si laureò in giurisprudenza all’Università di Pisa, riuscendo a completare gli studi già in regime di leggi razziali. Iniziò il suo magistero rabbinico ad Ancona, interrotto dalla fuga durante la persecuzione nazista; quindi fu rabbino a Venezia. In questo decennio drammatico un aspetto particolare che incise profondamente sulla formazione rabbinica “sul campo” fu quello dell’ondata di fughe opportunistiche, di ripensamenti e di battesimi sotto la persecuzione che il rabbinato italiano dovette fronteggiare con la sola forza del convincimento. Rav Toaff arrivò a Roma in età relativamente giovane (36 anni) ma con un’esperienza di gestione comunitaria già formata. Il rabbino che arrivava a Roma era un sefardita livornese, prodotto eccellente di una scuola rabbinica con un preciso orientamento tra modernità e tradizione, che rimarrà perennemente legato alle sue origini culturali e alla figura del padre, riferimento costante per istruzioni, consigli ed esempi di comportamento. “Così faceva il babbo” è stata la risposta ripetuta in tante occasioni in cui è stata presa una decisione o un orientamento su questioni controverse. A Roma, ad accogliere il nuovo rabbino, c’era anche il peso non indifferente della memoria dei suoi predecessori. A parte il caso infame che nessuno rimpiangeva, la tenacia pastorale di rav Panzieri ancora oggi ricordata, ma soprattutto la personalità monumentale e affascinante di rav Prato si imponeva su tutti e proponeva un confronto rischioso. Ma rav Toaff seppe giocare con grazia il passaggio tra vecchio e nuovo, tra anziano e giovane e non faticò a imporre un suo modello carismatico.Per capire il senso dell’attività specificamente religiosa di rav Toaff nei primi anni a Roma bisogna tener presente una situazione per molti aspetti del tutto differente da quella di oggi. Sulla situazione economica, psicologica e morale della Comunità, che si leccava le ferite della persecuzione, in cui molte famiglie stentavano a riprendersi ma molte erano le speranze e le energie infuse nella ricostruzione, altri parleranno in questo volume. Qui è importante riflettere sulle condizioni religiose in quei tempi, che non possono essere giudicate con il metro di oggi. Riferendosi ai modelli principali di osservanza religiosa il quadro è presto fatto: fino al 1967, anno dell’arrivodegli ebrei libici a Roma, era funzionante una sola macelleria kasher (oggi ce ne sono otto). La kasherut sostanzialmente era un optional, abbandonata dalla stragrande maggioranza delle persone, che si limitavano a forme più o meno rigorose di astensione da certi alimenti, come il maiale (per alcuni da evitare il Sabato). Rav Toaff ricorda che al suo arrivo fu invitato da un’importante famiglia che voleva salutarne l’arrivo e la illustre padrona di casa offrì un rinfresco in casa sua con tanto di maiale, riservando un vassoio a qualcosa di teoricamente permesso. Lo shabbat è ancora oggi un problema, figuriamoci sessanta anni fa. Taharat hamishpacha, “la purezza familiare”, neppure il caso di parlarne, con il miqwè adibito alle sole spose e a un gruppo di signore contabili con le dita di una mano. Il Seder di Pesach, solo per poche famiglie. In compenso una frequenza abbastanza assidua alle tefillot del Sabato e delle feste in tre-quattro Sinagoghe, con organo funzionante di Sabato al Tempo Maggiore. E, in controtendenza rispetto alle cifre alte delle altre comunità italiane, una percentuale piuttosto contenuta di matrimoni misti (forse spiegabile per la struttura sociale più tradizionale della maggioranza della comunità in rapporto alle sue attività economiche allora prevalenti).Si farebbe un grave errore pensando che solo Roma ebraica si trovasse in una tale situazione; all’epoca il quadro era lo stesso, se non ancora più grave, in altri centri europei con ben altra popolazione ebraica: persino a Parigi fino agli anni sessanta c’era un’unica macelleria kasher. A fronteggiare questa situazione c’era una sparuta pattuglia di rabbini di stile ortodosso moderno di cui rav Toaff faceva parte senza complessi, mentre i maestri di stile charedì erano isolati e limitavano la loro influenza a gruppi ristretti e poco comunicanti con gli altri. La storia religiosa ebraica dell’Europa occidentale di questi ultimi sessanta anni, ancora da scrivere seriamente, è quella di una progressiva riscoperta e valutazione dell’importanza del modello religioso e dello studio della Torà nelle comunità; del crescente ruolo di rabbinati più tradizionali; delle comunicazioni tra i mondi, sempre problematiche se non traumatiche, che hanno messo in discussione atteggiamenti e certezze acquisite: sono gli incontri/scontri tra aree e modelli come Diaspora- Israele, Modern Orthodox – Charedi, emigrazione nord africana – comunità stanziali, chiusura-“outreach” (di cui il fenomeno più rilevante è stato il movimento Chabad). Il ruolo dei rabbini europei -tra cui rav Toaff- occupanti le posizioni decisive del dopoguerra è stato quello difficilissimo di guidare il ritorno all’ebraismo della Torà da posizioni di allontamento remoto; il paradosso è stato che dopo aver avviato e sostenuto questo processo virtuoso, e sono stati gli unici a prendersene carico, ne sono stati in qualche modo travolti e superati da modelli ritenuti più rigorosi e coerenti.In una rapida rassegna possiamo ricordare alcune linee guida nella conduzione rabbinica di rav Toaff a Roma. Per la kasherut, settore costantemente problematico, riuscì a portare a Roma, con l’aiuto del Lubavitcher Rebbe , un giovane shochet che per decenni ha garantito al qualità del servizio; si adoperò a controllare personalmente e costantemente l’esercizio degli shochatim e della vendita nelle macellerie, assicurandone il controllo: già ai tempi dell’unico macellaio “Angelino” ‘era un controllore fisso tutto il giorno, e non era un risultato semplice per quei tempi. Le azzime si fabbricavano a Roma, e si è continuato a farlo fino agli inizi degli anni settanta quando è sembrata più conveniente l’importazione da Israele e dalla Francia, ma finché la produzione durava bisognava garantirne la correttezza halakhica e anche questo non era semplice. Lentamente e faticosamente è stata messa su un’organizzazione di controllo e certificazione di prodotti, ma questo è stato possibile solo quando la richiesta del mercato è stata tale da consentirne l’avvio. L’investimento che ritengo più rilevante, soprattutto per i suoi risultati nei tempi medi e lunghi, è stato quello sull’educazione. Rav Toaff non ha mai rinunciato a dedicare parte considerevole del suo tempo all’insegnamento diretto e alla formazione di insegnanti e rabbini. Non c’è un conto preciso, ma sono decine le persone di qualsiasi responsabilità nel campo dell’insegnamento che hanno seguito le sue lezioni. Che si distinguevano prima di tutto per il calore umano, la leggerezza, l’esperienza di vita con storie e casistiche vive. Studiare con rav Toaff era una vacanza piacevole in mezzo a lezioni forse più ricche tecnicamente, ma spesso fredde se non glaciali dal punto di visto umano. Un insegnante così trasmette passione allo studente. E nell’ambito dell’insegnamento è stata importante non solo la didattica diretta, quanto anche la direzione e la vigilanza sugli istituti. Costante tendenza di molte gestioni comunitarie, assillate da difficoltà finanziarie e non molto capaci di comprendere il senso di un investimento educativo, è stata la volontà di stringere, limitare, rinviare, se non chiudere classi, scuole, istituti. Contro queste tendenze di chiusura e, al contrario, a sostegno di nuove aperture si è ripetutamente schierato con forza rav Toaff. Ricordo tra l’altro la sua epica battaglia a metà degli anni settanta quando nell’Unione delle Comunità c’era chi voleva chiudere il Collegio Rabbinico o metterlo sotto il bavaglio di un pretenzioso Istituto Superiore di Studi Ebraici. “Provateci e domani me lo riapro per conto mio”, fu la sua risposta di sfida e il Collegio continuò a funzionare. La difesa della scuola rabbinica è uno degli esempi di un’attività a costante protezione delle istituzioni religiose, continuamente esposte all’attacco di riformatori che hanno a cuore l’economia delle comunità e non comprendono altri valori. La difesa valoriale dei principi espone spesso il rabbino ad aspri conflitti con la dirigenza comunitaria; rav Toaff non se ne è mai sottratto, rischiando spesso l’isolamento. C’è chi oggi tende a presentare la sua figura come quella del rabbino che permetteva tutto, a differenza di una banda di talebani oggi imperante. Si dimenticano episodi vari e ripetuti di liti e conflitti. Perchè dimenticare ad esempio la sua posizione di fermezza nel casus del consiglio della comunità di Firenze scoppiato (fine anni ’60) intorno a una vicenda di matrimonio misto? Un altro importante settore in cui si è espressa l’attività rabbinica di rav Toaff è stato il Beth Din, il tribunale rabbinico, che si occupa prevalentemente di divorzi, conversioni e controversie. Su quest’ultimo aspetto, non molto frequente ma necessario per la pace sociale della comunità, l’autorità del Beth Din dipende dall’autorevolezza dei suoi membri e del suo presidente in primo luogo; nel comporre controversie il rispetto personale attribuito a rav Toaff è stato essenziale in molti casi complessi. Sull’attività in campo matrimoniale il Beth Din di Roma ha svolto un ruolo essenziale di continuità nella situazione geografica italiana, con il riconoscimento di rabbinati esteri, in un campo molto delicato nel quale è necessaria attenzione e competenza. Svolgendo questa attività rav Toaff non dimenticava mai nello stesso tempo di formare tecnicamente coloro che lo aiutavano. Consultando i registri si vede come nei primi due decenni l’attività nel campo dei divorzi è stata sporadica; dopo, anche per l’introduzione della legge sul divorzio in Italia c’è stato un sensibile incremento che dura fino ad oggi. Questa variazione di comportamento sociale è chiaramente un problema etico prima che tecnico-giuridico, rav Toaff se ne rese bene conto, tentando di richiamare all’ordine; ma i problemi oggi richiedono ben altri interventi che i semplici richiami. Ma l’aspetto più delicato dell’attività di Beth Din è stato sempre quello delle conversioni, che si divide in due grandi capitoli, quella degli adulti e quella dei minori. Non c’è tribunale che si occupi di questi temi che non sia esposto a critiche, spesso molto aspre, sia sui principi che sui casi singoli che spesso nella pratica contraddicono le buoni intenzioni dichiarate all’inizio e la fiducia accordata dal tribunale al candidato. Nelle sue linee tendenziali rav Toaff seguì la tradizione ricevuta nella sua formazione, gli indirizzi trasmessigli dal padre e l’orientamento del rabbinato italiano dai tempi dell’unità d’Italia, che non si distingueva poi tanto da quello del rabbinato europeo occidentale. Oggi il pensiero è differente, ma non tanto perché i principi siano cambiati, quanto per condizioni sociali molto differenti; i fenomeni limitati di un tempo sono diventati molto più estesi e le scelte pratiche non possono essere più quelle di un tempo. Si sbaglierebbe però a concludere, con la leggerezza di molti critici, che la politica di rav Toaff sia stata di totale apertura senza condizioni. E’ un giudizio affrettato e le testimonianze di coloro che sono stati accettati o respinti dovrebberoessere prese in seria considerazione per ricostruire la storia vera. Un ultimo aspetto esemplare del rabbinato di rav Toaff che deve essere sottolineato è il modo in cui ha gestito il suo ritiro (“a riposo”, come commenta egli stesso ironicamente). Dal momento in cui ha cessato la sua attività non ha più voluto intervenire nelle questioni comunitarie e specificamente rabbiniche, mai un giudizio, mai un commento; una prova di autocontrollo eccezionale per un personaggio che per 50 anni è stato il responsabile delle principali decisioni rabbiniche e comunitarie, tanto più stupefacente quando si vede che le linee delle decisioni attuali possono non essere sovrapponibili al suo passato orientamento. Eppure rav Toaff ha saputo mantenere un mirabile silenzio. Un’ultima (per ora), magistrale lezione.