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IN RELAZIONE CON L’ASSOLUTAMENTE ALTRO: ELOGIO DELLA PREGHIERA – MICHEL QUESNEL

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/quesnel_saggezza_cristiana5.htm

MICHEL QUESNEL

LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE

IN RELAZIONE CON L’ASSOLUTAMENTE ALTRO

ELOGIO DELLA PREGHIERA

Quando parliamo di preghiera dobbiamo cominciare con l’illustrare ciò di cui non parliamo. Perché ci sono mille ed uno modi di pregare e chi ne parla è per forza condizionato dalla forma di preghiera alla quale egli stesso tiene di più, quella che lo fa vivere e lo nutre. Ciò non implica che le altre forme non rivestano interesse per lui, che le disprezzi o che non le pratichi; soltanto, gli sono meno essenziali. Tenendo conto di questo, non parleremo qui della preghiera comunitaria o liturgica, né del rosario, né del breviario, ma della preghiera solitaria e silenziosa, cuore a cuore con Dio. Alcuni la definiscono meditazione, altri orazione mentale. Manteniamo il termine preghiera, che è meno tecnico e più dinamico.
In alcune famiglie cristiane, quando un bambino va a dormire, i genitori gli ricordano: « Non dimenticare di recitare la tua preghiera ». Gli ricordano un’attività importante, ma con parole maldestre: non sono io che recito la preghiera, è piuttosto la preghiera che si dispiega in me; e non è la mia preghiera, perché non mi appartiene. Un dirigente superiore molto occupato, che aveva conservato fin dall’ infanzia la buona abitudine di non addormentarsi senza mettersi in presenza di Dio, chiamava questo momento, per lui indispensabile, « il mio quarto d’ora di umiltà ». L’espressione è semplice e felice. Esprime una dimensione fondamentale della preghiera, questo tempo più o meno lungo regalato a Dio, che mette le cose alloro posto. Dio è Dio (« nome di Dio! » aggiungerebbe Maurice Clavel) (3), io sono io e non sono che me stesso, gli altri sono gli altri. Se non mi prendo regolarmente del tempo affinché questi tre poli siano posizionati ciascuno in rapporto agli altri due, la mia vita non può che andare alla deriva: nel falso misticismo, se ipertrofizzo il posto di Dio; nell’orgoglio, se amplifico il mio; in un’anarchica oblazione, se è il servizio al prossimo ad occupare tutto il paesaggio. « L’uomo che non prega è un animale senza ragione », amava dire san Filippo Neri. Pregare è proprio dell’uomo più ancora che ridere; integrando la preghiera alla vita, la persona umana accede a un surplus di umanità.
Fra il prossimo, Dio e me stesso, è evidentemente Dio colui che più vive e più ama. Pregare, allora, significa semplicemente lasciarlo agire e ricevere umilmente ciò che mi dona. La mia partecipazione può essere soltanto minima; consiste essenzialmente nel tempo che impiego a non fare altro, il che è già molto, visto che, da buon cittadino del XXI secolo, di solito rincorro minuti preziosi. lo mi offro, e Dio agisce. Che cosa faccio, concretamente, in questo tempo? Nulla di eccezionale: sono disponibile. Per quanto tempo? Per un tempo significativo… Almeno quanto ne consacro ogni giorno ad informarmi sull’ attualità; se pretendo che Dio sia importante per me, deve essere il primo ad essere servito. Altrimenti mi inganno. Regalandogli il mio tempo, mi privo di una parte di vita che potrei dedicare all’azione, è vero; la preghiera non è priva di rapporto con la morte. Forse questo spiega in parte le reticenze che ho a dedicarle del tempo…
Se sottolineiamo in questo modo la dimensione del rendersi disponibili, non è illusorio il rischio che l’attenzione si disperda. Chiamiamo questa eventualità distrazione. Che è normale, che esprime il ritornare in superficie della mia vita. Esistono dei metodi per concentrarmi di più. Non è inutile un’immagine: un bel paesaggio dinanzi agli occhi se sono all’aperto; un crocifisso, un’icona, un lume, un poco d’incenso se sono in luogo chiuso. E poiché il Dio vivente ha avuto la buona idea di parlare agli uomini attraverso la Bibbia, è normale che essa divenga un supporto abituale alla mia preghiera. Ciascuno deve trovare i mezzi che più gli si addicono. Questi non rimangono in genere gli stessi a mano a mano che la vita si evolve. Il modo di pregare cambia con l’età. Non abbiamo mai finito di imparare a pregare, e in questo stanno il fascino e la perpetua novità della preghiera.
I maestri spirituali distinguono, nell’ orazione mentale, un susseguirsi di tempi: il raccoglimento, la lettura, la meditazione, l’adorazione. Lista che somiglia a un bell’ideale: spiriti ben disciplinati vi si ritrovano, ma altri ci vedono uno schema troppo rigido. Senza dubbio è più realistico porre l’accento su alcuni fondamentali atteggiamenti di preghiera, che si concatenano come possono in relazione a ciò che stiamo vivendo. È opportuno fare attenzione, nel lungo termine, a non dimenticare nessuno di questi momenti; per questo è bene, in certi casi, per valutare la propria preghiera, ritornare sulle ultime parole pronunciate, soli o aiutati da un fratello.
La preghiera è offerta. lo mi offro a Dio, mi svuoto in parte di me, scavo in me uno spazio affinché egli possa venire ad occuparlo. Charles de Foucault esprimeva questo concetto in termini di abbandono: « Padre mio, mi abbandono a te; fa di me quello che ti piacerà. Qualsiasi cosa farai, io ti ringrazio. . . « . Infatti è da Dio che ricevo vita, movimento, esistenza, come ricordano gli Atti degli Apostoli (At 17,28). Attraverso la preghiera opera una legittima restituzione, preparatoria alla restituzione ultima, quella del giorno nel quale non potrò fare altro che rimettere la mia vita, tutta intera, nelle mani di Dio. Riguardo ai tre poli che abbiamo indicato all’inizio, la dimensione della preghiera è quella che mi mette al posto giusto.
La preghiera è intercessione, comunione con gli altri, apertura alla vita del mondo fuori di me: dà uno spazio alle persone coinvolte in avvenimenti vicini o lontani, alle loro gioie, alle loro pene, ai morti, ai nascituri… Questa parte della mia preghiera può nutrirsi del sopravvenire di distrazioni. Piuttosto che scacciarle, è meglio trasformarle in intenzioni. È questo lo spazio per la preghiera di domanda, quella che più spesso ci riserva le delusioni più grandi. Quante giuste cause abbiamo presentato a Dio con fervore senza tuttavia essere esauditi? La saggezza consiste allora nell’ aprirsi al mistero di una volontà divina che non dominiamo, così come scriveva sant’ Agostino nella Lettera a Proba: « Se quanto avviene contraddice la nostra preghiera, sopportandolo pazientemente e rendendo grazie per tutto, non possiamo in nessun modo dubitare che doveva compiersi quanto era conforme alla volontà di Dio, e non alla nostra ». Tuttavia spesso sono necessarie dure battaglie per arrivare a questo distacco.
Nella preghiera di intercessione, che dedichiamo molto spontaneamente ai viventi, bisogna anche inserire i nostri fratelli che non sono più o non sono ancora in questo mondo. In altre parole, i defunti – è un classico – ed i nascituri, cosa assai meno abituale. L’estensione della preghiera non ha motivo di limitarsi allo spazio; merita anche di dispiegarsi sulla linea del tempo. In questo caso, possiamo anche parlare di preghiera di comunione.
Riguardo ad un defunto, la preghiera consiste nella presentazione a Dio del suo vissuto, senza pretendere di influenzare le decisioni divine nell’aldilà. Chi pretendo di essere io per reclamare da Dio, per una persona amata, un favore che egli stesso potrebbe non desiderare di concedergli? Riguardo ai nascituri, l’impegno è più grande. Lo sguardo che dirigo su di loro mi porta a preparare una terra capace di accoglierli in buone condizioni. E tutti sanno che questo obiettivo non è raggiunto!
La preghiera è adorazione, momentaneo oblio degli altri e di sé per aprirsi a Dio. Tutto sarebbe vano se Dio non fosse Amore con la A maiuscola, se l’elezione del popolo ebreo e la missione di Gesù non fossero segni di questo amore. Che un essere onnipotente si possa essere compromesso a tal punto con un minuscolo pianeta dell’universo immenso, oltrepassa ogni possibilità di comprensione. L’adorazione onora la dimensione spirituale della meraviglia.
Gesù stesso aveva un’esperienza intensa della relazione di preghiera col Padre. Le consegne che egli dà a proposito della preghiera nel Discorso della montagna sono l’espressione della sua esperienza. E sono da meditare sempre.
* * *
« Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate » (Mt 6,5-8).
[13] Clavel (1920 – 1979) fu giornalista, filosofo e scrittore: Dieu est Dieu, nom de Dieu! (Dio è Dio, nome di Dio!) è il titolo di una sua opera del 1976 (n.d.t.).

IN RELAZIONE CON L’ASSOLUTAMENTE ALTRO

ELOGIO DEL SILENZIO
« Silenzio! » Chi tra noi non ricorda i richiami dei maestri che esortavano gli alunni irrequieti a tacere? Era – lo è ancora? – un modo di ristabilire l’ordine. Il silenzio va d’accordo con l’ordine; il rumore ha spesso il sapore del disordine. Ma bisogna distinguere rumore da rumore, così come silenzio da silenzio.
La musica insulsa delle stazioni della metropolitana e degli aeroporti, che sentiamo senza ascoltarla, pretende di avere la medesima funzione pacificante dei richiami al silenzio dei maestri di scuola; perché il vuoto sonoro, in quei vasti spazi disumanizzati, genererebbe angoscia ed inquietudine. I giovani che nutrono di decibel le loro orecchie al ritmo proveniente dalle loro cuffie, principalmente sui mezzi di trasporto pubblico, vogliono insieme colmare il vuoto e coprire le diverse musiche che si riversano fuori dagli altoparlanti. Tengono il volume alto. Attraverso questo gesto contestano l’ordine uniforme che pretendiamo di imporre loro. Lo vediamo, rumore e silenzio sono ambivalenti. Qual è allora il silenzio che possiamo considerare come aspetto della saggezza?
Innanzitutto è il risultato del saper tacere. « Lo sciocco dice quello che sa, il saggio sa quello che dice », afferma un proverbio orientale. C’è « un tempo per tacere e un tempo per parlare », scrive Qoélet (Qo 3,7). Visto che non si può sempre dire qualcosa di intelligente, spesso è meglio non dire nulla. Talvolta, nella Bibbia, perfino Dio tace. Giobbe e alcuni autori di salmi colpiti dalle disgrazie glielo rimproverano, come se il silenzio di Dio, quando si attenderebbe da lui una parola di conforto, potesse essere considerato come silenzio colpevole. Ma il silenzio di Dio, quando tutto ciò che potrebbe dire gli verrebbe rimproverato, non è forse il miglior discorso? Di fronte all’infelicità, spesso non c’è parola che valga. Un silenzio rispettoso della sofferenza dell’ altro può essere il più bel volto dell’amore.
Il silenzio è una risorsa della memoria e del pensiero. Ci vuole tranquillità per far vivere i ricordi; ci vuole tranquillità anche per riflettere. Il silenzio del mattino può essere straordinariamente fecondo. Fare la doccia mattutina in silenzio anziché facendo sbraitare la radio permette di dare corpo alle idee sfuggite durante la notte. Alimenta la disposizione di veglia dei sensi e del pensiero. Le idee possono abbondare; è bene allora avere a portata di mano carta e matita, per non perdere nessuno dei preziosi prodotti della materia grigia.
Il silenzio ha anche qualcosa a che vedere con la solitudine, in quanto una folla è quasi sempre rumorosa; ciò è ancor più vero nei Paesi dell’oriente o del sud, nei quali un occidentale ha spesso difficoltà a prender sonno, a meno che non sia protetto da solide mura d’albergo, proprio per il fatto che, fuori, il rumore non cessa quasi mai. Allora il silenzio diventa un lusso; non bisogna nascondersi che, spesso, è proprio questo il caso. La giovane madre di famiglia spossata dalle grida dei suoi bambini vi aspira, anche se non ha le condizioni per raggiungerlo. Può rimproverarli con una forza pari a quella del maestro di scuola, con successo ineguale. Non si tratta qui più solo di una questione di ordine. Si tratta di una questione di sopravvivenza.
San Vincenzo De Paoli affermava: « Il rumore non fa bene e il bene non fa rumore ». Silenzio e bene, effettivamente, sono collegati. E poiché il bene ha rapporto con la saggezza, non vi è saggezza possibile senza silenzio. L’assenza di rumore è necessaria per estraniarsi, prendere le distanze, trovarsi soli con se stessi. Gustare il silenzio può essere la via per ritrovare il gusto degli altri o per meglio intendere la « melodia segreta » dell’universo, l’eco assordante del Big Bang iniziale che permette di prendere coscienza dell’ antichissima età e dell’immensità del mondo, per citare un bel titolo di Trinh Xuan Thuan, astrofisico vietnamita che vive negli Stati Uniti.
Possiamo allora offrire il silenzio come offriamo un regalo. Durante le attività di gruppo, quando le persone stanno insieme per più giorni, a viaggiare o a vivere in qualche posto gli uni sugli altri – nelle stazioni sciistiche, per esempio -, è auspicabile stabilire insieme delle pause di silenzio. Se, all’interno dei ritmi stabiliti, non ne sono state previste, il gruppo perde in fretta la motivazione. Ognuno fa di questa pausa quello che vuole: per gli uni sarà il momento della lettura tranquilla, per altri quello della preghiera, o della corrispondenza. .. La stessa cosa meriterebbe di trovar posto nelle liturgie. Tempi di celebrazione, di canti e della parola, sono spesso troppo chiacchieroni. La persona in dialogo con Dio cerca invano dei momenti per interiorizzare ciò che ha appena visto o sentito. I gruppi di preghiera comunitaria come quelli che organizza la comunità di Taizé hanno trovato, in questo campo, un equilibrio interessante: l’alternanza di silenzi e di melodie molto dolci aiutano i singoli, sostenuti dalla preghiera dei vicini, a lasciarsi raggiungere dal Dio vivente, attivo nel cuore a condizione che questo accetti di lasciarsi abitare. Comprendiamo anche perché certi cattolici abbiano ritrovato il gusto – che si era un poco perduto – dell’adorazione eucaristica: oltre al Santo Sacramento che si dona allo sguardo, i luoghi nei quali la si pratica sono generalmente spazi di silenzio intenso e raccolto, lontani dai rumori della città. Sono spazi necessari. Nel IX secolo prima dell’era cristiana, il profeta Elia fuggiva dinanzi alla regina Gezabele. Si ritrovò all’Oreb, altro nome del Sinai, dove, qualche secolo prima, Mosé aveva incontrato Dio nel tuono e nel fuoco. Ma il Dio che si offre a lui si mostra in altri modi, che non sono privi di analogia con la melodia segreta dell’universo.
* * *
« Entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: – Che fai qui, Elia? -. Egli rispose: – Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita -. Gli fu detto: – Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore -. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna » (1Re 19,9-13).

IN RELAZIONE CON L’ASSOLUTAMENTE ALTRO

ELOGIO DELLA SOLITUDINE
La solitudine è come un’amante capricciosa. Quando non la vorremmo si impone, e quando abbiamo bisogno di lei non arriva. Chi può pretendere di non avere mai sofferto di solitudine? La canicola del 2003 ha messo in evidenza i suoi disastri: le persone anziane morte durante quell’ estate per ipertermia o per disidratazione sono morte soprattutto di solitudine; è questo che l’analisi del fenomeno ha subito rivelato.
La Bibbia stessa identifica la solitudine come pericolo o veleno: « Non è bene che l’uomo sia solo », dice Dio nel libro della Genesi, prima di formare una compagna che gli sia adatta. Ed è vero che l’isolamento può generare la follia; la persona umana è fatta per vivere in relazione. È anche vero che la misantropia si nutre di una mancanza di fiducia nell’ altro che non ha nulla di evangelico. Alceste è un atrabiliare patologico (14), non un modello di saggezza.
Effettivamente la solitudine ricercata si presta volentieri alla caricatura. Tuttavia, a condizione di fame moderato uso – e fatte salve le vocazioni particolari come quelle dei Certosini -, la solitudine è strutturante. È perfino una condizione necessaria della lucidità e della libertà. Che lo si voglia o no, la vita di ognuno comporta momenti di solitudine. Soffriamo da soli, moriamo da soli; la vicinanza che ci offrono amici o parenti non può annullare la distanza. Una sentenza proverbiale, che ho letto da qualche parte, affermava: « Chi non ama la solitudine non ama la libertà, perché si è davvero liberi solo quando si è soli ». Dobbiamo, però, guardarci dall’ erigere questa affermazione a linea generale di condotta, cosa che equivarrebbe a teorizzare una misantropia latente. In ogni caso, se vogliamo governare la nostra vita e non farci governare da lei, dobbiamo beneficiare di un’autonomia che solo la solitudine garantisce. Rifiutarla, significa privarsi di momenti essenziali.
I nostri tempi, è vero, non amano la solitudine. Numerose tra le innovazioni tecniche inventate negli ultimi decenni sono principalmente strumenti per infrangerla. Se è assai utile per arricchire la documentazione, il Web diventa perverso quando viene usato come sostitutivo di relazioni che non si è più capaci di stabilire. Il navigatore ha l’illusione di essere in comunicazione con numerosi corrispondenti. Ma spesso solo per scoprire un mondo di isolamento e di frustrazione simile al suo. Si potrebbe dire la stessa cosa del telefono cellulare. Invenzione superba, che permette di entrare in relazione qualunque sia il luogo in cui ci si trova, spesso assume l’immagine di un ridicolo gadget. La persona che, nel corso di un viaggio di due ore, telefona per tre volte a quella che l’accoglierà all’arrivo, imponendole un insipido commentario di tutte le fermate e di tutte le partenze nelle stazioni intermedie, rivela la propria incapacità di stare da sola, piuttosto che la propria incapacità di comunicare. Le sue chiamate assomigliano soprattutto a messaggi di sconforto. Che cosa farà quando dovrà intraprendere il viaggio ultimo che nessuno potrà compiere al suo posto e alla sua ora? E che dire dei telefonini per bambini giunti di recente sul mercato, con un tasto per il babbo ed un tasto per la mamma, moderne immagini di un cordone ombelicale che i genitori non sanno tagliare, e di grande ostacolo al raggiungimento dell’autonomia da parte del figlioletto?
All’ opposto di tutti questi tentati vi angosciosi di rompere la solitudine, la saggezza invita, al contrario, a riservarsi regolarmente alcuni momenti per confrontarsi con se stessi e con Dio. In un certo senso, il cristiano non è mai solo. Quando devo affrontare situazioni difficili – lutti, incontri con persone sofferenti o in fin di vita – e mi metto in cammino per vivere questi momenti, è bene che non stia in altra compagnia se non quella di me stesso. Materialmente parlando, sono solo, ma l’accompagnamento di Colui che non abbandona mai i suoi in qualche modo mi si impone. Porto Dio nei miei bagagli. Egli mi saprà ispirare la parola giusta e gesti pieni di sollecitudine. Se mi è necessario prepararmi spiritualmente a questo tipo di incontri, non è necessario che preveda dettagliatamente quello che dirò o farò; Dio provvederà. Sarebbe certo più piacevole andarci in tanti. Ma significherebbe fare la scelta della diversione. La solitudine mi mette alla prova; certo, rivela la mia fragilità strutturale. Ma mi pone in una situazione di verità dinanzi a persone fragili o ferite; e per questo motivo è la compagnia della quale ho bisogno più che di qualsiasi altra.
Nei momenti più difficili della sua missione, Gesù era solo. La maggior parte dei discepoli non lo avevano seguito al Getsemani, ed i tre che stavano con lui si erano addormentati; alla fine della scena egli rimprovera loro la loro noncuranza e la loro leggerezza. Questo in ogni caso non significa che avrebbero potuto dispensarlo dalla battaglia che egli stesso doveva affrontare. Questa battaglia la si combatte soltanto da soli, con o senza Dio.
* * *
« Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo perché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia. lo ho vinto il mondo » (Gv 16,32-33).
[14] Riferimento al protagonista della commedia di Molière Il misantropo, il sottotitolo della quale è l »’atrabiliare innamorato » (n.d.t.).

Publié dans:preghiera (sulla) |on 4 février, 2013 |Pas de commentaires »

Cos’è la Preghiera (sul tema San Giovanni Damasceno)

http://www.ilprofetadelvento.it/LA%20PREGHIERA.htm

Cos’è la Preghiera

(cit. : Pregare è riporre la propria vita in Dio. San Giovanni Damasceno, VII sec.)

Che cos’è la preghiera? E, in particolare, che cos’è la preghiera cristiana? E’ atto dell’uomo o è atto di Dio? In verità, nessun uomo può pregare se ciò non è suscitato da Dio; recitare formule è un conto, essere nella preghiera è un altro. E questo perché la preghiera, prima di ogni altra cosa, prima ancora che si esprima nelle sue varie modalità, di lode o di ringraziamento, di supplica o di intercessione, è uno stato d’essere. Pregare è riporre la propria vita in Dio. San Giovanni Damasceno (VII sec.) scriveva: “La preghiera è elevazione dell’anima a Dio”. Pregare è quindi un atteggiamento del cuore, in particolare un atteggiamento di umiltà: una rinuncia al proprio orgoglio, per porre la propria fiducia in Dio. Quanto a noi, “nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare”, diceva San Paolo (Rm 8,26). L’umiltà è dunque il fondamento della preghiera, “la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera” (CCC 2559). La preghiera, più che esprimere la nostra ricerca di Dio, esprime la ricerca di Dio verso di noi. Più che esprimere la nostra sete, esprime la sete che Dio ha di noi: “Egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete; la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui” (CCC 2560). La nostra preghiera di domanda è, in realtà, già una risposta. Qualunque sia il linguaggio della preghiera, è tutto l’uomo che prega. Ma da dove viene la preghiera? Per più di mille volte, nella Sacra Scrittura è detto che la preghiera viene dal cuore: è il cuore che prega. Dicendo questo ci indica che la preghiera viene dallo spirito, viene da Dio, perché il nostro cuore è la dimora di Dio in noi. E’ anche la dimora dove io sto (o dovrei stare), dove io abito, o, semiticamente parlando, da cui discendo. “E’ il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo. E’ il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. E’ il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. E’ il luogo dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’Alleanza” (CCC 2563). La preghiera cristiana è dunque relazione d’alleanza, un’alleanza fra Dio e l’uomo, realizzata in Cristo. E’ sia azione di Dio sia azione dell’uomo. Sgorga sia dallo Spirito Santo sia da noi. Nella nostra vita è, di fatto, la fedele compagna, l’amica sincera, l’alleata continua. Possiamo dire che la preghiera è la prua alta con cui affrontiamo i marosi della vita. Pregare è fidarsi, è posarsi in Dio, anziché nelle cose e nelle creature. Pregare è scegliere Dio: sceglierlo al posto della propria fragilità. La preghiera è una consegna totale, è lasciare agire Dio perché è il Signore. Lasciare che compia lui le nostre opere. Pregare non è dire parole, ma lasciare che il Verbo dialoghi attraverso di noi. E’ parlare con le parole di Dio, lasciare fluire dall’anima un linguaggio di segni arcani che racchiudono tutta l’efficacia della Grazia. Pregare è amare, perché a esprimersi non sono le nostre parole, ma il Verbo dell’Amore.
La preghiera, dunque, è la Vita. E’ la Via. E’ l’Essere.
E’ il ritorno alla propria origine; al proprio senso; alla propria storia. E’ ripercorrere il cammino della storia della salvezza, posare i nostri passi sulle orme dei Padri, dei Profeti, dei Patriarchi, dei Santi. Pregare è, come nella metafora del figliol prodigo, un ritorno al Padre. Un abbandono alla sua volontà.
Pregare è esaudire i desideri di Dio. Nella preghiera, quando è vera, non ci s’incontra con ciò che vogliamo, ma con ciò che Dio vuole da noi.
La preghiera è dunque figliolanza perfetta.
E’ un viaggio interiore in cui ci si arrende all’amore.
Inoltre la preghiera è tempio dello Spirito Santo, realizzazione dei suoi carismi.
In particolare la preghiera cristiana non è mai atto solitario; esprime comunione anche quando si prega da soli, perché tramite l’amore si coabita insieme nell’universale comunione dei cuori.
“Nella Nuova Alleanza la preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo” (CCC 2565), nell’unico corpo mistico che è la Chiesa

LODE ALLA SAPIENZA INCREATA

http://www.certosini.info/preghiera/medit/guillerand/guillerand_30.htm

Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO XXX

LODE ALLA SAPIENZA INCREATA

Tu sei, o mio Dio, l’Ordine infinito. L’ordine che regna quaggiù è meraviglioso. Ciò che noi possiamo intravederne ci abbaglia: e ciò che noi vediamo è così poco! Tu sei talmente l’Ordine che anche i disordini lo procurano! Tu hai l’arte – la grande arte – di fare l’armonia dalle dissonanze!
Bisogna, è vero, saper superare, per riconoscere questo Ordine supremo, la durata effimera, le circostanze presenti, ciò che non è, e attendere che il presente superficiale e passeggero abbia prodotto ciò che vedeva il tuo sguardo eterno e ciò che voleva il tuo Amore immenso.
La tua Sapienza, o mio Dio, è questo sguardo che supera i tempi e i luoghi, ed è questo volere che si eleva al di sopra del passeggero. Essa è fatta di intelligenza che ordina e di amore che si dona.
L’ordine è figlio dell’intelligenza che ama, e il cui nome proprio è la Sapienza. In noi, l’intelligenza e la volontà, nate dallo stesso centro profondo, sembrano nondimeno dividersi. Io parlerei più esattamente dicendo:  » sembrano distinguersi « . Poiché distinzione non è divisione. Ma in te, o mio Dio, ove tutto è uno, esse non fanno che uno. La Sapienza è l’atto unico col quale tu ti conosci nel tuo amore, e tu ti ami conoscendoti, col quale generi il tuo Verbo comunicandogli il Soffio della tua vita, e col quale tu lo riprendi e ritieni eternamente in te attraverso il movimento di questo Soffio. La Sapienza è questo movimento partito dal Principio ove esso ha la sua sorgente, effuso nel Verbo ove esso diviene Luce che lo mostra, Parola che lo esprime, Immagine che lo rappresenta, raggio sostanziale che ne è lo sfavillio splendido, figura ove esso riproduce i suoi tratti e si fa conoscere. Questo movimento nel Principio è Luce e Amore, nel Verbo è Luce e Amore, e lo è egualmente in se stesso, nel luogo che li unisce, che li porta e li conserva l’uno nell’altro.
E questo movimento che si è comunicato al nulla e che l’ha riempito d’immagini finite dell’Essere che è. Tutti gli esseri e l’ordine che regna in ciascuno di essi e in tutto l’insieme, rappresenta la tua Sapienza, o mio Dio. Ed è questa Sapienza che io debbo ammirare, adorare, amare, quando il mondo si rivela a me nello splendore delle sue meraviglie e della sua armonia. Io debbo vedere nel mondo la tua grandezza, la tua intelligenza, la tua potenza, tutto il gioco di ciò che io chiamo le tue perfezioni e che in te non sono che la perfezione unica della tua Pienezza d’Essere. Io debbo vedere in ciascuno, nell’unità di ciascuno, un’immagine di questa Pienezza infinita; io debbo vedere in tutti gli elementi che lo compongono e in tutti i movimenti ordinati che costituiscono la sua attività, il tuo Amore che unifica tutto, che ordina tutto, che si rappresenta unendo, che unisce ordinando, che per ordinare regola il posto e l’agire di ciascuno, li conserva, li concorda, li sviluppa nella pace, per il bene di tutti e di tutto l’insieme al quale essi appartengono.
Tale è quel gioco di cui parla il tuo Spirito stesso nei tuoi Libri Santi, un gioco sapiente, misurato, armonioso, ove tutto si fa dolcemente, amorosamente, secondo un piano previsto fin nei minimi dettagli e attraverso leggi generali o particolari che rapiscono, quando si studiano, e che assicurano la felicità propria e quella del mondo quando da noi stessi vengono osservate; leggi che tendono tutte a far regnare in tutto e in tutti la pace infinita.
Quando il mondo si lascia condurre da questa Sapienza, vede chiaramente e non urta contro alcun ostacolo, poiché essa è Luce; il mondo è felice e passa attraverso le sofferenze passeggere come condotto dalla tua mano d’amore, poiché essa è l’Amore. Il mondo partecipa alla tua Luce, che non vede che l’Amore, al tuo Amore che non vuole che il Bene, al tuo Bene che è l’Essere; … e rientra nella tua Unità, come il Verbo di cui è l’espressione esteriore, multipla, frammentata, ma unificata da Lui nella Sapienza che tutto ordina.
La tua Sapienza risplende in tutto come in te stesso: nel movimento degli astri, nel movimento delle stagioni che essi comandano, in quello delle piante che sono regolate dalle stagioni, degli esseri animati che un istinto così sicuro e saggio dirige, degli esseri intelligenti che, come tali, possono errare, ma che possono profittare delle loro esperienze perfino sbagliate per elevarsi più in alto e raggiungerti; in quello dei puri spiriti che l’intelligenza istintiva, lo sguardo intuitivo, porta a te d’un sol balzo per sempre, e che vedono ciò che tu vedi e come tu lo vedi, spiriti che vedono nella Luce del tuo Amore e che amano tutto ciò che tu ami; e nel movimento delle intelligenze incarnate ma definitivamente spiritualizzate che fanno entrare la stessa materia nella dimora ove tu ti doni per sempre, e ove tutto ha il suo posto eterno, quella dimora che è il culmine della creazione, e in Colui che è al tempo stesso il capo di tutta la tua opera e il divin Operaio grazie al quale tutto è stato fatto. Così, io rientro con tutto questo insieme nella Sorgente essenziale ove tutto era prima di essere realizzato da te, ove tutto si completa quando, col tuo Verbo Incarnato e nel tuo Verbo Incarnato, tu l’hai ripreso e compiuto.
E’ lì che io canterò eternamente questa Sapienza che non fa che uno con la tua Vita, che non fa che uno con te. E’ lì che io vedrò tutto, amerò tutto, possiederò tutto, che la mia visione sarà il mio amore, che il mio amore sarà Luce, e che luce e amore uniti, ma non confusi, procederanno sotto i miei occhi dal tuo Essere che non farà che uno con essi.

Publié dans:meditazioni, preghiera (sulla) |on 6 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

PREGARE DIO PADRE CI INSEGNA LA VERA NOZIONE DI PATERNITÀ

http://www.zenit.org/article-30806?l=italian

PREGARE DIO PADRE CI INSEGNA LA VERA NOZIONE DI PATERNITÀ

Un commento all’udienza generale del Papa di mercoledì 23 maggio

di Massimo Introvigne

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 24 maggio 2012 (ZENIT.org) – All’udienza generale del 23 maggio Benedetto XVI ha proseguito nella sua «scuola della preghiera» dedicata a san Paolo. La settimana scorsa il Pontefice aveva mostrato come san Paolo c’insegna a farci guidare nella preghiera dallo Spirito Santo.
Questa settimana il Papa insiste su come lo Spirito Santo, a sua volta, ci guidi a rivolgerci al Padre come aveva fatto Gesù nel Getsemani: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). E l’udienza diventa così occasione per alcune profonde riflessioni su una nozione oggi in crisi, quella della paternità.
Il riferimento a Dio come Padre, che risuona nel Padre Nostro, emerge anche in due testi di san Paolo. Il primo è tratto dalla Lettera ai Galati: «E che voi siete figli lo prova che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida in noi: Abbà! Padre!» (Gal 4,6). Il secondo, dalla Lettera ai Romani: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15).
Dopo avere rilevato ancora una volta che «il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell’amore al Padre che ci ama», Benedetto XVI spiega che in entrambi i brani san Paolo accenna a una nostra «relazione filiale analoga a quella di Gesù» con Dio Padre.
Naturalmente, «diversa è l’origine e diverso è lo spessore: Gesù è il Figlio eterno di Dio che si è fatto carne, noi invece diventiamo figli in Lui, nel tempo, mediante la fede e i Sacramenti del Battesimo e della Cresima». Nella Lettera agli Efesini lo stesso san Paolo ci assicura che Dio, in Cristo, «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4).
Il Papa lamenta – e non è la prima volta – la nostra perdita della capacità di stupirci di fronte al mistero della paternità di Dio. «Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola “padre” con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera».
Ma questo, oggi, ha anche una possibile spiegazione psicologica e sociologica: «la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L’assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi».
Ma nulla è definitivamente perduto. Dall’insegnamento di Gesù sulla paternità di Dio possiamo imparare molto anche sul ruolo umano del padre. «Critici della religione hanno detto che parlare del “Padre”, di Dio, sarebbe una proiezione dei nostri padri al cielo. Ma è vero il contrario: nel Vangelo, Cristo ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità».
Dobbiamo dunque «lasciarci scaldare il cuore» da questa nozione della paternità che Gesù c’insegna, e che ha due dimensioni: la creazione e l’adozione. Anzitutto, Dio è nostro Padre, perché è nostro Creatore. «Ognuno di noi, ogni uomo e ogni donna è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui»: «per Lui non siamo esseri anonimi, impersonali, ma abbiamo un nome». «Le tue mani mi hanno plasmato», dice il salmista (Sal 119,73), con un’immagine che il Papa afferma di amare particolarmente.
C’è poi il secondo elemento, l’adozione, con cui Gesù «ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio». Anche qui si tratta di analogia, non d’identità: «il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita». Ma neppure si tratta di una semplice metafora. «Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova».
Torniamo ai due brani di san Paolo, e notiamo che hanno «una diversa sfumatura». Nella Lettera ai Galati san Paolo afferma che lo Spirito grida in noi «Abbà! Padre!». Nella Lettera ai Romani ci dice invece che siamo noi a gridare «Abbà! Padre!».
Qui l’Apostolo «vuole farci comprendere che la preghiera cristiana non è mai, non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è solo un “agire nostro”, ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce per primo: è lo Spirito Santo che grida in noi, e noi possiamo gridare perché l’impulso viene dallo Spirito Santo».
Detto in termini che riecheggiano sant’Agostino  – che è sempre un punto di riferimento di Benedetto XVI – noi «non potremmo pregare se non fosse iscritto nella profondità del nostro cuore il desiderio di Dio, l’essere figli di Dio. Da quando esiste, l’homo sapiens è sempre in ricerca di Dio, cerca di parlare con Dio, perché Dio ha iscritto se stesso nei nostri cuori». La prima iniziativa nella preghiera viene sempre da Dio, e «la sua presenza apre la nostra preghiera e la nostra vita, apre agli orizzonti della Trinità e della Chiesa».
Un secondo aspetto molto importante è che «la preghiera dello Spirito di Cristo in noi e la nostra in Lui, non è solo un atto individuale, ma un atto dell’intera Chiesa». Non solo «quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli», ma non stiamo inventandoci una relazione con Dio più o meno fantasiosa.
Al contrario, «siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio; certo i musicisti e gli strumenti sono diversi – e questo è un elemento di ricchezza –, ma la melodia di lode è unica e in armonia». San Paolo stesso lo spiega ai cristiani di Corinto: «Ci sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; ci sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; ci sono diverse attività, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). È tutto un «unico grande mosaico della famiglia di Dio in cui ognuno ha un posto e un ruolo importante, in profonda unità con il tutto».
Un terzo aspetto è che la nostra preghiera «Abba!, Padre!» avviene sempre in unione «anche con Maria, la Madre del Figlio di Dio. Il compimento della pienezza del tempo, del quale parla san Paolo nella Lettera ai Galati (cfr 4,4), avviene al momento del “sì” di Maria, della sua adesione piena alla volontà di Dio: “ecco, sono la serva del Signore” (Lc 1,38)».
Solo così è davvero possibile che «la nostra preghiera cambi, converta costantemente il nostro pensare, il nostro agire per renderlo sempre più conforme a quello del Figlio Unigenito, Gesù Cristo».

Un tempo di silenzio perchè Dio parli (Enzo Bianchi)

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Un tempo di silenzio perchè Dio parli 

 ENZO BIANCHI, Pregare la Parola,
Introduzione alla «lectio divina»,

…sii dunque avvolto dal silenzio e il tempo della lectio ritmi la tua vita…
Cerca che il luogo della lectio divina e l’ora del giorno ti permettano il silenzio esteriore, preliminare necessario al silenzio interiore.
Il Maestro è qui e ti chiama (cf. Giovanni 11,28) e per udirne la voce devi far tacere le altre voci, per ascoltare la Parola devi abbassare il tono delle parole. Ci sono tempi più adatti al silenzio rispetto ad altri: nel cuore della notte, al mattino presto, alla sera… vedi tu secondo il tuo orario di lavoro, ma resta fedele al tempo e determinalo nella tua giornata una volta per tutte. Non è serio andare incontro al Signore quando hai un vuoto tra gli impegni da riempire con la preghiera come se il Signore fosse un tappabuchi. E non dire mai: «Non ho tempo!», perché così tu dichiari di essere idolatra: il tempo della giornata è al tuo servizio e non tu schiavo del tempo!
Sii dunque avvolto dal silenzio e il tempo della lectio ritmi la tua vita. Tu sai che bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai (cf. Luca 18,1-8 e 1 Tessalonicesi 5,17), ma sai anche che occorrono dei tempi precisi e specifici per fare questo esplicitamente e visibilmente onde sostenere la memoria Dei in tutta la tua giornata. Sei un innamorato del Signore o tendi a esserlo? Allora non disdegnare di consacrare a lui quel tempo che consacri abitualmente, senza fatica, ogni giorno a tua moglie, a tuo marito, ai tuoi familiari, ai tuoi amici.
Un tempo di silenzio perchè Dio parli   
E non dimenticare che questo tempo per la lectio deve essere sufficientemente lungo, non un ritaglio. Devi prendere calma, devi essere in pace, certamente alcuni minuti non bastano. Per la lectio occorre almeno un’ora, dicono i Padri…
Nella giornata quante parole ascolti! Quante letture fai! Che le parole non soffochino la Parola: anche in questo devi essere vigilante. Se le parole mondane sono abbondanti, che primato concreto può avere la Parola su di esse? Fare la lectio divina puntualmente ogni giorno non ti esime mai dal verificare il rapporto tra Parola e parole. Queste per la loro quantità e la loro qualità possono soffocare la voce divina e non permettere che questa cresca e dia in te il suo frutto (cf. Marco 4,13-20). Che senso ha leggere di tutto, alimentarsi di argomenti mondani, fare letture che lasciano profonde tracce di impurità nel cuore e poi pretendere di vivere della Parola che esce dalla bocca di Dio? Se non vigili sul rapporto Parola-parole nella tua vita sei condannato a restare dilettante, un orecchiante paralizzato nei confronti di un vero cammino di iniziazione.

Publié dans:Enzo Bianchi, preghiera (sulla) |on 17 mai, 2012 |Pas de commentaires »

« NON PREGHIAMO IL ROSARIO MECCANICAMENTE, MA CON IL CUORE »

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« NON PREGHIAMO IL ROSARIO MECCANICAMENTE, MA CON IL CUORE »

Intervista al cardinale Prosper Grech dopo la Messa per la Madonna di Fatima celebrata in Santa Maria delle Grazie alle Fornaci

di Salvatore Cernuzio
ROMA, giovedì, 17 maggio 2012 (ZENIT.org) – “Avete presente le fontane a piazza San Pietro? Quelle a due piani, dove dalla fonte principale sgorga l’acqua che bagna il primo livello e, da quello, scende al secondo? Ecco, questa è la grazia di Maria: una grazia che sovrabbonda che riempe Lei e poi arriva a tutti noi”.
È questo uno dei tanti significativi esempi utilizzati dal cardinale maltese Prosper Grech, nella Messa vespertina di ieri, presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie alle Fornaci, dove l’immagine della Vergine di Fatima sarà ospitata fino al 20 maggio, insieme alle reliquie dei Beati Francesco e Giacinta.
Ieri è stata la giornata dedicata ai malati e ai sofferenti. Al termine della sua omelia, tutta incentrata sulla preghiera dell’Ave Maria, il porporato ha infatti distribuito il sacro olio per l’unzione degli infermi a numerosi fedeli malati giunti in Chiesa per salutare la Madonna pellegrina.
“Maria è salute degli infermi”, ha ricordato nella sua meditazione, “Lei dà la forza di sopportare la sofferenza e i mali”. Ricordando l’importanza della preghiera e invitando i fedeli a “non abbandonarla in questo mese mariano”, il cardinal Grech ha sottolineato poi che la Madonna “è via sicura che porta a Cristo, rifugio certo verso la salvezza”.
Intervistato da ZENIT, il cardinale ha spiegato che “dipende dalla nostra fede” credere nel potere d’intercessione di Maria e, dunque, nell’efficacia della preghiera.
“Si può anche pregare Maria senza fede – ha affermato – e Lei, nella sua misericordia, può anche ascoltare”. Ma solo attraverso “una relazione personale con Cristo e poi con Sua Madre”, si può giungere ad “una preghiera che esce dal cuore e che risponde con il cuore di Maria”.
“Quante Ave Maria abbiamo pregato nella nostra vita? Migliaia e migliaia, io credo”, ha proseguito il porporato, “e cosa preghiamo noi? Prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte”. 
“Maria in quell’ultimo momento – ha spiegato – ci tiene la mano, non soltanto per confortarci, ma per darci la fede per fare quel salto nelle braccia di Cristo, in modo che Lei ci presenti a Gesù e Gesù al Padre”.
“La penitenza, il digiuno e la preghiera, sono vie concrete di salvezza indicate da Maria”, aveva affermato il cardinale nell’omelia.
Anche durante l’intervista ha ribadito questo concetto, dicendo: “Gesù ha predicato in tutto il suo Vangelo la penitenza per i nostri peccati per entrare nel Regno di Dio. E sua Madre lo ripete in ogni apparizione: la confessione, atto di vera e sincera contrizione, e la preghiera”.
La preghiera, in particolare, è un atto fondamentale per la vita del cristiano, soprattutto quella rivolta alla Madonna: “Ciò che noi non osiamo chiedere al Padre o per paura o per mancanza di fede – ha detto – lo rimettiamo nelle mani della Mamma”.
E Lei, ha aggiunto il porporato, più volte “ha indicato nel Rosario uno strumento forte nelle mani del cristiano al quale bisogna tornare. Una via non solo di preghiera, ma di meditazione”.
Una forma di orazione che sembra ormai passata o che, come ha osservato il cardinale, viene recitata meccanicamente.
“Nel terzo mistero glorioso, ad esempio, diciamo: lo Spirito Santo è disceso sugli apostoli… Padre Nostro che sei nei cieli… Ave Maria e via dicendo. Ma che significato ha questo per noi? Davvero stiamo riflettendo sul fatto che lo Spirito Santo è sceso sugli apostoli, sulla Chiesa e quindi su di me? Bisogna entrare pienamente nel significato di queste parole”, ha asserito.
Alla domanda di quale sia il senso di questo mese mariano, tempo di grazia in cui fioriscono tante iniziative che fanno volgere il cuore a Maria, il cardinal Grech ha risposto che esso è “un tempo ricco di opportunità per noi, perché si riscopre la devozione per la Madre di Dio che nella Chiesa cattolica è cominciata dall’inizio e continuerà sempre in quanto intimamente unita al Signore”.
Un ultimo pensiero il cardinale l’ha rivolto ai malati e ai sofferenti, nella giornata di ieri, a loro dedicata: “Sul mio stemma ho “In te Domine speravi” e naturalmente “non confundar in aeternum”, cioè in Te Signore ho sperato, a Te mi affido perché non sia perduto per sempre. Questa dovrebbe essere la nostra preghiera continua. Affidiamola a Maria, la Madre, affinché la offra a Gesù”.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 17 mai, 2012 |Pas de commentaires »

LE PREGHIERE STERILI (Di A. Guillerand, monaco certosino)

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Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO XXV

LE PREGHIERE STERILI

Non vi sono delle preghiere sterili, non vi sono che delle anime inaridite. La preghiera dell’anima inaridita non è una preghiera; non è una elevazione verso Dio. Tale anima non è dinanzi a Dio, alla sua altezza. Essa resta in se stessa… e vi muore. Solamente le labbra mormorano delle parole che potrebbero essere delle preghiere, o le braccia si tendono in gesti che somigliano a un movimento verso il cielo. Ma nulla, nelle profondità spirituali, accompagna queste manifestazioni esteriori, che mentono.  » Le loro labbra mi onorano – dice Gesù – ma il loro cuore è lontano da me! « . Gesù nulla detesta più di questa menzogna. Dio, in un altro libro della Scrittura, la definisce  » assolutamente esecrabile « . E io lo comprendo! Tale menzogna spezza l’unità umana. Essa dà al corpo e all’anima, sostanzialmente uniti, due movimenti divergenti. Ci abbassa al di sotto di noi stessi. Sant’Agostino la paragona al muggito delle bestie. E si può andare più lontano, perché il muggito è il grido di un individuo inferiore; la preghiera che mente è invece la parola di un essere diviso e ridotto in polvere, non è la parola di un uomo.
Né vale molto di più la preghiera dell’orgoglio: è quella del fariseo al tempio. Egli non si pone dinanzi a Dio ma dinanzi a se stesso; e domanda a Dio di fare altrettanto. La condanna del Maestro, dal cuore dolce e umile, è nota: essa dice il risultato di questo atteggiamento in una formula schiacciante, che i commentatori dell’Evangelo non hanno forse messo abbastanza in rilievo:  » Questi se ne andò perdonato, e l’altro no  » (Lc 18,14). La preghiera del fariseo era una forma di paragone in cui il fariseo si attribuiva il primo posto sulla terra, e anche, sembra, in cielo. Il confronto con il pubblicano, solo rappresentante presente del genere umano, era un contrasto che faceva risaltare la sua superiorità. Gesù, riprendendo questo confronto, lo capovolge, e con una sola parola ristabilisce la verità. Ma quale parola!  » L’altro! « . Egli non lo confronta; non dice  » quello « , né  » il secondo « . Gesù gli dà il nome che si merita propriamente:  » l’altro « , un pronome indeterminato.
Il fariseo appartiene ancora alla categoria umana nella quale prendeva il primo posto. Ma perde ogni carattere, ogni determinazione; si perde nella massa amorfa. Resta un individuo, non è più una persona. Cessa di essere in rapporto con la Personalità infinita, nella quale ogni personalità umana si compie. Resta separato da essa; il peccato che li divide e del quale veniva a chiedere il perdono nel tempio, continua ad avvilupparlo con i suoi legami, che lo immobilizzano in se stesso; legami che ha appena finito di rinserrare ancor di più. Il fariseo non è più che  » l’altro « , colui che non ha saputo costituirsi liberandosi di se stesso e che non ha saputo entrare nella Verità di Dio.  » Tu credi di essere ricco e senza bisogno – dice Gesù nell’Apocalisse – e non dubiti che sei misero, miserabile, spoglio di tutto, senza luce e tutto nudo  » (Ap 3,17).
L’umiltà non è tuttavia la sfiducia. Essa piuttosto vi si oppone. L’umiltà è un sì felice miscuglio che si fa molta fatica a definirla con precisione. La migliore definizione è quella che la eguaglia alla verità. L’umiltà è un’equazione; è il giusto rapporto percepito, accettato, amato, con ciò che è. Ciò che è, è che Dio è l’Essere stesso e che noi non siamo che in Lui. L’anima che si mantiene a questo posto, dinanzi all’Essere, onde Egli si comunichi a lei e la faccia essere, è nella verità… è umile.
Dopo la colpa, la verità è che noi non siamo più dinanzi a Dio, è che ci siamo distolti da Lui, e che solo Lui può ri-volgerci verso di Sé. La preghiera dell’anima diffidente non dice che la metà di questa verità; essa dimentica la seconda, così importante e dolce:  » Quest’anima – dice san Giacomo – è come il flutto del mare, in perpetuo movimento  » (Gc 1,6). Dio non può fissare in lei i propri tratti; tale anima non è lo specchio trasparente nel quale Dio possa riprodurre la propria Immagine e generarla. In una parola, ai piedi del Signore, quando si prega, bisogna essere figli e dire  » Padre nostro « .

Publié dans:preghiera (sulla) |on 29 mars, 2012 |Pas de commentaires »

LE ALI DELLA PREGHIERA

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Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO XXIV

LE ALI DELLA PREGHIERA

Su questo argomento è stato scritto molto, e sono state dette delle cose deliziose. A prima vista la loro diversità è un po’ sconcertante. Gli autori parlano di due ali poiché il paragone sembra esigerlo… ma sono ben lontani dall’accordarsi, quando bisogna determinarle. Per san Giovanni Crisostomo le ali sono l’elemosina e il digiuno. Per Ugo di San Vittore sono il pensiero della nostra debolezza e il ricordo della divina misericordia. Per altri autori sono la compunzione e le lacrime; per altri ancora, la fiducia e l’obbedienza, la giustizia e l’umiltà.
Tutti hanno ragione. Sono queste delle energie divine che ci sostengono e che ci portano a Dio. L’elemosina, il dono di ciò che noi possediamo, e del nostro cuore che vi si è attaccato, a quelli che sono nel bisogno, rappresenta una rassomiglianza divina che non può non farci potenti sull’Amore il cui vivo desiderio è l’unione nella rassomiglianza. Dio dona a coloro che donano e nella misura stessa nella quale essi donano. E quello che Gesù ha così sovente espresso in formule dense e incisive:  » Date e vi sarà dato  » (Lc 6,38). Ogni atto di generosità è una piuma che spinge le ali della preghiera e ne accresce la potenza.
Il digiuno è un’elemosina fatta direttamente a Dio. E’ per Lui che ci si priva; è per essere più fortemente attaccati a Dio che ci si distacca da quel nutrimento che ci viene da Lui e che non si può prendere che per Lui. Offrire a Dio il sacrificio di tutto ciò che non è indispensabile per la vita fisica significa dunque elevarsi al di sopra di se stessi per salire fino a Lui. Una tale ascensione è già una preghiera; essa ci pone al suo livello, dinanzi a Lui, e prepara i colloqui intimi delle più alte orazioni.
E su questo stesso piano che ci pone la vista della nostra miseria e della divina misericordia senza fondo. Sono due oceani che si sviluppano al di là della meschinità dei nostri  » io  » individuali e che si ricongiungono nell’infinito, Poiché non si può vedere la propria piccolezza che alla luce della divina grandezza. Staccata da tale grandezza non se ne può vedere che una piccola parte, e che pur schiaccia. Dinanzi al cuore immenso che si china verso di essa per innalzarla e per riempirla di Sé, la nostra miseria è la più dolce realtà: essa apre all’anima gli orizzonti dell’amore ove l’attende Colui che è la Verità e la Vita, e le viene detto:  » Entra e dimora qui per sempre « . Qui scorre la sorgente di ogni vera preghiera. La vista della nostra miseria è l’umiltà, quella vera, che procede dall’amore, che se ne nutre e a esso ritorna; l’umiltà che dice:  » Io sono nulla, ma Dio è tutto. Ora, Dio si offre a me e, in Lui, io ho tutto « . La vista della sua misericordia è la giustizia che rende a ciascuno ciò che gli è dovuto. A Dio è dovuto questo atto di fede: Dio ama donarsi a ciò che non è, anche se questo nulla l’ha offeso.
Così tutte queste idee si ricongiungono. Gli autori, secondo le prospettive in cui li pone lo Spirito che dirige i segreti pensieri, fanno zampillare l’una o l’altra idea, e tutte le anime, le cui diversità sono conosciute da questo stesso Spirito, vi vengono a bere l’acqua della quale hanno bisogno.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 21 mars, 2012 |Pas de commentaires »

LA COMPUNZIONE NELLA PREGHIERA

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Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO XIII

LA COMPUNZIONE NELLA PREGHIERA

Il cuore non è la sensibilità… se non in quanto questa è portata a un piano superiore, il piano della ragione. E’ utile distinguerli bene. La sensibilità è il cuore della bestia: la bestia ha molto cuore, ma l’uomo che non ha altra sensibilità ne è privo assolutamente. Come si conosce poco la psicologia ai nostri giorni! Si confonde la più bassa impressionabilità animale con questa sensibilità che è essenziale per l’uomo vero, e che viene eccitata solamente dalla verità, dal bene, dalla giustizia e dalla bellezza.
La compunzione è lo strale che penetra nel cuore dell’uomo al pensiero o al ricordo di queste grandi realtà… e soprattutto al pensiero o al ricordo della realtà delle realtà: Dio.
La compunzione prende delle forme diverse e può avere delle cause differenti. La parola compunzione sembra riservata per designare la contrizione del cuore al pensiero o al ricordo del peccato… e più specialmente dei propri peccati. Ma si adatta anche alle vive impressioni che provocano in un cuore i peccati degli altri, o la possibilità di commetterne, o il timore delle gravi conseguenze delle colpe, o il solo pensiero della Passione che le ha tutte cancellate, o quello del Dio presente che si dona e che ci protegge da ogni male, o la speranza della riunione futura con Lui nella patria, o la pena di vedere prolungarsi l’esilio che separa da Lui. I movimenti provocati sono gli stessi, vi sono solamente alcune sfumature che solo il soggetto discerne. La causa profonda è identica: è l’amore. Dispiacere, desiderio, speranza, o gioia… la compunzione è sempre un frutto della carità divina; ne porta il sigillo e ne ha, davanti a Dio, il merito. Dio vi ritrova il suo soffio che, partito dal suo cuore, si comunica al nostro e rientra nel suo, arricchito di ciò che il nostro cuore ha amato.
La compunzione vera e completamente soprannaturale è una grazia di elezione. Essa comporta su Dio, sulla sua grandezza e la sua bellezza, sul suo amore, sulle nostre relazioni con Lui, sulla dolcezza della vita che queste relazioni costituiscono, delle luci vive e rare. L’anima che le riceve deve avere una trasparenza che solamente un lungo esercizio di distacco provocato dall’amore può ottenere. I Santi Padri hanno cantato questa grazia in termini splendidi:  » Umile lacrima del cuore – scrive san Girolamo – tu sei una regina, tu sei onnipotente; tu non temi il tribunale del giudice, tu imponi silenzio ai tuoi accusatori; nulla ti arresta; tu hai accesso al trono della grazia, e non te ne allontani mai con le mani vuote; e la pena che tu causi al demonio è per lui più terribile della stessa pena dell’inferno. Tu trionfi dell’Invincibile, tu leghi e obblighi l’Onnipotente. La preghiera sola lo intenerisce, ma l’anima che piange, pregando, gli è irresistibile; la preghiera è un olio che lo dispone a esaudire, le lacrime sono uno strale che gli ferisce il cuore e lo forza ad agire « .
 » Gli angeli – dice san Bernardo – si inebriano con le lacrime della penitenza e delle sante orazioni; è un vino che li inebria; vi trovano il profumo della vera vita, il sapore della divina grazia, il gusto dei perdoni che assolvono, il sano vigore dell’innocenza riconquistata, la gioia della riconciliazione con Dio e la pace serena della coscienza riordinata « .
 » La compunzione – dice san Gregorio – è l’olocausto opimo e abbondante delle vittime che Dio ama. Le lacrime lo bagnano di un liquore che egli gradisce sopra tutti gli altri « .
 » Le lacrime – dice san Giovanni Climaco – danno alla preghiera le ali, ed essa vola d’un balzo fino al cuore di Dio « .
Evidentemente le lacrime di cui qui si parla non sono necessariamente le lacrime degli occhi. Delle anime superficiali possono ingannarsi. Esse si sovreccitano, si rappresentano vivamente ciò che può commuoverle, sono felici quando le provocano e misurano il loro amore verso Dio da questo segno esteriore, talvolta infantile. Si tratta invece delle lacrime del cuore, che lo sforzo per procurarsi le altre può facilmente far inaridire. Si tratta di un movimento tutto interiore e spirituale che solo lo Spirito d’Amore può eccitare in noi, che occorre domandare a Lui con fiducia e attendere nella pace. E’ una fiamma chiara e pura che improvvisamente s’innalza come da un braciere nascosto, illumina lo spirito, tocca le corde della sensibilità, commuove tutta l’anima e fa passare in lei come un fremito divino che la strappa a se stessa e le fa dire:  » Mio Dio « , in maniera tutta nuova e che prima non conosceva. Allora, la distanza che separa l’anima da Colui che si rivela così, il ricordo delle sue colpe che hanno scavato questo abisso, Gesù in croce e Maria ai suoi piedi per espiarle, l’inferno che le punisce, ahimè, senza assolverle, questi pensieri che sorgono improvvisamente davanti all’anima, e che cessano di essere dei pensieri per diventare delle visioni, tutto ciò l’opprime come un frutto maturo e fa sgorgare il dolce e inebriante liquore delle lacrime.
Le lacrime del cuore non sono tuttavia una vetta; l’anima che piange vede più in alto di sé, vi aspira, intravede che può e deve superarsi, e nondimeno resta ancora nel cerchio di un  » io  » allargato, ma non spezzato e scomparso. Lo Spirito d’Amore che vuole strapparla da tale cerchio prepara così il ratto divino che è il suo scopo definitivo. Egli vuole averla tutta, sottrarla a se stessa e al creato, rapirla in Sé. Allora le lacrime, che sono i fiori del cammino, cessano, ed essa gusta le gioie anticipate della patria.
Checché ne sia, la grazia delle lacrime è un dono prezioso. Bisogna desiderarlo, domandarlo, prepararvisi. Bisogna desiderarlo e domandarlo con il pensiero certo, la convinzione profonda e vivente che Dio vuole accordarcelo molto più sicuramente di quanto noi stessi possiamo volerlo, e che il nostro desiderio non è mai altro – anche quello di una santa Teresa o di un san Giovanni della Croce – che una piccolissima scintilla dell’immenso desiderio che Dio ha di esaudirci.
Bisogna avere il coraggio di guardare spesso, sotto il suo aspetto reale e nella luce della verità, questa cosa orribile che si chiama peccato: un colpo diritto, violento, deliberato, capace di uccidere, dato all’Amore che è in noi, per sbarazzarci di Lui e rimpiazzarlo con noi. Bisogna vedere questa orribile cosa divenuta il pane quotidiano di tante anime, trangugiata come l’acqua, e che si stabilisce come padrone in un mondo che è debitore del suo essere e del suo sussistere a non altri che a questo Amore che viene crocifisso. Bisogna mettersi dinanzi a questo Amore in croce. E’ una persona vivente, è un uomo di trentatré anni, in piena vitalità, con una ricchezza di sensibilità inaudita; e che possiede tutte le delicatezze degli organi, del cuore e dello spirito. Il cielo e la terra, il Creatore e la creatura, il finito e l’infinito, riuniti, non fanno in Lui che una sola cosa; in Lui vi sono tutti i diritti, tutte le grandezze, ogni verità e ogni bene, tutto ciò che può suscitare ammirazione, rispetto, simpatia, tenerezza. Durante trent’anni lo si ignora…. probabilmente non senza già perseguitarlo; durante tre anni si ha per Lui gelosia, lo si attacca, si sbarra il passo alla sua azione; durante tre ore di agonia intima, Egli porta nella sua anima filiale il peso della collera del Padre suo irritato. Per dodici ore il suo corpo è colpito, torturato in tutti i sensi, sotto tutte le forme, e il suo cuore soffre per tutte le sofferenze dei suoi amati che sono là per centuplicare la sua pena con quella propria. Nell’ultimo momento, quando è giunto all’estremo, all’estremo delle forze, del sangue, dell’onore, della tenerezza, il Padre suo, rimasto il suo solo sostegno, sembra come ritirarsi, abbandonarlo e finirlo con questo colpo supremo. Allora tutto è compiuto: il peccato è pagato. Ma a quale prezzo! E’ il prezzo di un’anima che si è consegnata al male.
 » Noi piangiamo un’anima abbandonata dal corpo – dice sant’Agostino – ma quali viscere cristiane dunque abbiamo per non piangere un’anima che si è separata dal suo Dio? « .
Sant’Agostino ha ragione di denunciare la nostra insensibilità spirituale. Ma sa quello che ci manca e come lo si debba ottenere, lui che ha tanto pianto le sue colpe. Ci manca la Luce dell’Amore che ci faccia vedere le colpe nella loro divina e spaventosa verità. Per ottenerla, bisogna domandarla e attenderla. Non brilla sempre al momento in cui la domandiamo, ma presto o tardi essa si dona a coloro che sanno attenderla.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 13 février, 2012 |Pas de commentaires »

LA COMPUNZIONE NELLA PREGHIERA

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Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO XIII

LA COMPUNZIONE NELLA PREGHIERA

Il cuore non è la sensibilità… se non in quanto questa è portata a un piano superiore, il piano della ragione. E’ utile distinguerli bene. La sensibilità è il cuore della bestia: la bestia ha molto cuore, ma l’uomo che non ha altra sensibilità ne è privo assolutamente. Come si conosce poco la psicologia ai nostri giorni! Si confonde la più bassa impressionabilità animale con questa sensibilità che è essenziale per l’uomo vero, e che viene eccitata solamente dalla verità, dal bene, dalla giustizia e dalla bellezza.
La compunzione è lo strale che penetra nel cuore dell’uomo al pensiero o al ricordo di queste grandi realtà… e soprattutto al pensiero o al ricordo della realtà delle realtà: Dio.
La compunzione prende delle forme diverse e può avere delle cause differenti. La parola compunzione sembra riservata per designare la contrizione del cuore al pensiero o al ricordo del peccato… e più specialmente dei propri peccati. Ma si adatta anche alle vive impressioni che provocano in un cuore i peccati degli altri, o la possibilità di commetterne, o il timore delle gravi conseguenze delle colpe, o il solo pensiero della Passione che le ha tutte cancellate, o quello del Dio presente che si dona e che ci protegge da ogni male, o la speranza della riunione futura con Lui nella patria, o la pena di vedere prolungarsi l’esilio che separa da Lui. I movimenti provocati sono gli stessi, vi sono solamente alcune sfumature che solo il soggetto discerne. La causa profonda è identica: è l’amore. Dispiacere, desiderio, speranza, o gioia… la compunzione è sempre un frutto della carità divina; ne porta il sigillo e ne ha, davanti a Dio, il merito. Dio vi ritrova il suo soffio che, partito dal suo cuore, si comunica al nostro e rientra nel suo, arricchito di ciò che il nostro cuore ha amato.
La compunzione vera e completamente soprannaturale è una grazia di elezione. Essa comporta su Dio, sulla sua grandezza e la sua bellezza, sul suo amore, sulle nostre relazioni con Lui, sulla dolcezza della vita che queste relazioni costituiscono, delle luci vive e rare. L’anima che le riceve deve avere una trasparenza che solamente un lungo esercizio di distacco provocato dall’amore può ottenere. I Santi Padri hanno cantato questa grazia in termini splendidi:  » Umile lacrima del cuore – scrive san Girolamo – tu sei una regina, tu sei onnipotente; tu non temi il tribunale del giudice, tu imponi silenzio ai tuoi accusatori; nulla ti arresta; tu hai accesso al trono della grazia, e non te ne allontani mai con le mani vuote; e la pena che tu causi al demonio è per lui più terribile della stessa pena dell’inferno. Tu trionfi dell’Invincibile, tu leghi e obblighi l’Onnipotente. La preghiera sola lo intenerisce, ma l’anima che piange, pregando, gli è irresistibile; la preghiera è un olio che lo dispone a esaudire, le lacrime sono uno strale che gli ferisce il cuore e lo forza ad agire « .
 » Gli angeli – dice san Bernardo – si inebriano con le lacrime della penitenza e delle sante orazioni; è un vino che li inebria; vi trovano il profumo della vera vita, il sapore della divina grazia, il gusto dei perdoni che assolvono, il sano vigore dell’innocenza riconquistata, la gioia della riconciliazione con Dio e la pace serena della coscienza riordinata « .
 » La compunzione – dice san Gregorio – è l’olocausto opimo e abbondante delle vittime che Dio ama. Le lacrime lo bagnano di un liquore che egli gradisce sopra tutti gli altri « .
 » Le lacrime – dice san Giovanni Climaco – danno alla preghiera le ali, ed essa vola d’un balzo fino al cuore di Dio « .
Evidentemente le lacrime di cui qui si parla non sono necessariamente le lacrime degli occhi. Delle anime superficiali possono ingannarsi. Esse si sovreccitano, si rappresentano vivamente ciò che può commuoverle, sono felici quando le provocano e misurano il loro amore verso Dio da questo segno esteriore, talvolta infantile. Si tratta invece delle lacrime del cuore, che lo sforzo per procurarsi le altre può facilmente far inaridire. Si tratta di un movimento tutto interiore e spirituale che solo lo Spirito d’Amore può eccitare in noi, che occorre domandare a Lui con fiducia e attendere nella pace. E’ una fiamma chiara e pura che improvvisamente s’innalza come da un braciere nascosto, illumina lo spirito, tocca le corde della sensibilità, commuove tutta l’anima e fa passare in lei come un fremito divino che la strappa a se stessa e le fa dire:  » Mio Dio « , in maniera tutta nuova e che prima non conosceva. Allora, la distanza che separa l’anima da Colui che si rivela così, il ricordo delle sue colpe che hanno scavato questo abisso, Gesù in croce e Maria ai suoi piedi per espiarle, l’inferno che le punisce, ahimè, senza assolverle, questi pensieri che sorgono improvvisamente davanti all’anima, e che cessano di essere dei pensieri per diventare delle visioni, tutto ciò l’opprime come un frutto maturo e fa sgorgare il dolce e inebriante liquore delle lacrime.
Le lacrime del cuore non sono tuttavia una vetta; l’anima che piange vede più in alto di sé, vi aspira, intravede che può e deve superarsi, e nondimeno resta ancora nel cerchio di un  » io  » allargato, ma non spezzato e scomparso. Lo Spirito d’Amore che vuole strapparla da tale cerchio prepara così il ratto divino che è il suo scopo definitivo. Egli vuole averla tutta, sottrarla a se stessa e al creato, rapirla in Sé. Allora le lacrime, che sono i fiori del cammino, cessano, ed essa gusta le gioie anticipate della patria.
Checché ne sia, la grazia delle lacrime è un dono prezioso. Bisogna desiderarlo, domandarlo, prepararvisi. Bisogna desiderarlo e domandarlo con il pensiero certo, la convinzione profonda e vivente che Dio vuole accordarcelo molto più sicuramente di quanto noi stessi possiamo volerlo, e che il nostro desiderio non è mai altro – anche quello di una santa Teresa o di un san Giovanni della Croce – che una piccolissima scintilla dell’immenso desiderio che Dio ha di esaudirci.
Bisogna avere il coraggio di guardare spesso, sotto il suo aspetto reale e nella luce della verità, questa cosa orribile che si chiama peccato: un colpo diritto, violento, deliberato, capace di uccidere, dato all’Amore che è in noi, per sbarazzarci di Lui e rimpiazzarlo con noi. Bisogna vedere questa orribile cosa divenuta il pane quotidiano di tante anime, trangugiata come l’acqua, e che si stabilisce come padrone in un mondo che è debitore del suo essere e del suo sussistere a non altri che a questo Amore che viene crocifisso. Bisogna mettersi dinanzi a questo Amore in croce. E’ una persona vivente, è un uomo di trentatré anni, in piena vitalità, con una ricchezza di sensibilità inaudita; e che possiede tutte le delicatezze degli organi, del cuore e dello spirito. Il cielo e la terra, il Creatore e la creatura, il finito e l’infinito, riuniti, non fanno in Lui che una sola cosa; in Lui vi sono tutti i diritti, tutte le grandezze, ogni verità e ogni bene, tutto ciò che può suscitare ammirazione, rispetto, simpatia, tenerezza. Durante trent’anni lo si ignora…. probabilmente non senza già perseguitarlo; durante tre anni si ha per Lui gelosia, lo si attacca, si sbarra il passo alla sua azione; durante tre ore di agonia intima, Egli porta nella sua anima filiale il peso della collera del Padre suo irritato. Per dodici ore il suo corpo è colpito, torturato in tutti i sensi, sotto tutte le forme, e il suo cuore soffre per tutte le sofferenze dei suoi amati che sono là per centuplicare la sua pena con quella propria. Nell’ultimo momento, quando è giunto all’estremo, all’estremo delle forze, del sangue, dell’onore, della tenerezza, il Padre suo, rimasto il suo solo sostegno, sembra come ritirarsi, abbandonarlo e finirlo con questo colpo supremo. Allora tutto è compiuto: il peccato è pagato. Ma a quale prezzo! E’ il prezzo di un’anima che si è consegnata al male.
 » Noi piangiamo un’anima abbandonata dal corpo – dice sant’Agostino – ma quali viscere cristiane dunque abbiamo per non piangere un’anima che si è separata dal suo Dio? « .
Sant’Agostino ha ragione di denunciare la nostra insensibilità spirituale. Ma sa quello che ci manca e come lo si debba ottenere, lui che ha tanto pianto le sue colpe. Ci manca la Luce dell’Amore che ci faccia vedere le colpe nella loro divina e spaventosa verità. Per ottenerla, bisogna domandarla e attenderla. Non brilla sempre al momento in cui la domandiamo, ma presto o tardi essa si dona a coloro che sanno attenderla.

Publié dans:meditazioni, preghiera (sulla) |on 13 février, 2012 |Pas de commentaires »
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