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CONSIDERAZIONI SULLA PREGHIERA – VESCOVO IGNATIJ BRJANCIANINOV (1807-1867)

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VESCOVO IGNATIJ BRJANCIANINOV (1807-1867)

CONSIDERAZIONI SULLA PREGHIERA

La preghiera, essendo figlia dell’attuazione dei comandamenti evangelici, è anche, secondo l’unanime opinione dei Padri[64], la madre di tutte le virtù. Essa le genera per effetto dell’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito del Signore. Le virtù, che danno origine alla preghiera, si distinguono da quelle prodotte dalla preghiera. Le prime riguardano l’anima, le seconde lo spirito. La preghiera è essenzialmente il risultato del primo e sommo tra i due comandamenti in cui si fondano la Legge, i Profeti e l’Evangelo[65]. All’uomo è impossibile tendere a Dio con tutta la sua mente, con tutta la sua forza, e con tutto il suo essere senza l’aiuto della preghiera, allorché, per così dire, questa risorge dai morti[66], e riprende vita per effetto della grazia, come se quest’ultima fosse la sua anima. La preghiera è lo specchio su cui si riflettono i progressi compiuti dai monaci. Considerando la sua preghiera, un monaco apprende se ha raggiunto la salvezza oppure è ancora in preda alle miserie del mare in tempesta, lontano dal porto della Santità. In quest’indagine egli ha per guida David il quale, ispirato da Dio, scrisse: “Ho appreso che tu mi hai amato, in quanto il mio nemico non gioisce su di me. Tu mi hai accolto perché in me non c’è malvagità e mi hai confermato di fronte a Te per l’eternità”[67].
Queste parole significano: Signore, ho appreso che tu hai avuto pietà di me e mi hai fatto tuo, poiché continuamente ho respinto vittoriosamente, con la forza della mia preghiera, tutti i pensieri malvagi, tutte le fantasie e le tentazioni del demonio. Questa misericordia di Dio verso l’uomo si manifesta quando quest’ultimo prova pietà per il suo prossimo, senza alcuna eccezione, e perdona a quanti gli hanno fatto torto[68].
La preghiera deve essere la principale attività ascetica del monaco. In essa si concentrano e si sintetizzano tutte le sue attività, in quanto per suo tramite egli si congiunge strettamente a Dio, si unisce a Lui in un solo spirito[69]. Subito all’ingresso nel monastero è necessario imparare la vera preghiera, per perfezionarsi in essa e per guadagnarsi la salvezza per mezzo suo. Alla vera preghiera ed al perfezionamento in essa si oppongono la nostra natura corrotta e gli angeli caduti, che si sforzano di trattenerci nella nostra condizione di schiavitù, di esseri caduti e di costringerci a respingere Dio, il che è comune agli uomini ed ai demoni.

La preparazione alla preghiera
Data l’importanza della preghiera, prima di praticarla è necessario prepararsi. “Anzi prima di pregare, preparati e non essere come un uomo che tenta il Signore”[70]. “Andando a presentarsi davanti al Re e Dio ed a parlare con lui – scrive san Giovanni Climaco – prepariamoci nel modo dovuto, affinché Egli da lungi non veda che noi non abbiamo le armi e la veste necessarie per presentarci ad un Sovrano, e non comandi ai suoi servi e ministri di legarci e di cacciarci lontano dal suo Volto stracciando le nostre richieste e gettandocele in faccia”[71]. La prima preparazione consiste nel respingere il ricordo del male ricevuto e la condanna del nostro prossimo. Lo stesso Signore ci ha comandato di prepararci così: “Quando vi apprestate a pregare, perdonate se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro, che è nei Cieli, rimetta i vostri peccati. Se voi non li rimetterete agli altri, neppure il Padre vostro, che è nei cieli, perdonerà a voi le vostre colpe”[72]. L’ulteriore preparazione consiste nell’allontanare ogni preoccupazione terrena con l’aiuto della Fede in Dio, sottomettendoci ed affidandoci alla Sua volontà nella consapevolezza dei nostri peccati e nel sentimento di contrizione e di umiltà che da essa deriva. La contrizione è l’unico sacrificio che Dio accoglie dall’uomo caduto: “Se avessi voluto sacrifici, te li offrirei”, dice al Signore il Profeta in nome di ogni uomo caduto nel peccato che ancora vi si trova; ma Tu rifiuti non solo un qualsiasi sacrificio particolare, materiale o spirituale, ma “neppure gradisci un olocausto. Il sacrificio a Dio è la contrizione dello spirito; Dio non disprezzerà un cuore contrito ed umiliato”[73].
Sant’Isacco Siro ripete la seguente massima di un altro Santo Padre: “Se uno non si riconosce peccatore, la sua preghiera non è gradita a Dio”[74]. Durante la preghiera poniti davanti a Dio invisibile, come se tu lo vedessi, nella certezza che Egli ti vede e con attenzione ti osserva. Poniti davanti a Dio invisibile, come un criminale, convinto d’innumerevoli delitti e condannato ad una pena, sta dinanzi al giudice minaccioso e severo. Ed è proprio così, giacché tu ti trovi di fronte al tuo onnipotente Signore e Giudice. Tu stai davanti ad un tale Giudice, di fronte a cui “non si giustifica alcun vivente”[75], il quale sempre riesce vincitore “quando giudica”[76], il quale non condanna solo quando, per l’ineffabile suo amore per gli uomini, dopo aver perdonato all’uomo i suoi peccati, “non entra in giudizio con il suo servo”[77]. Provando timore di fronte a Dio e sentendo in tal modo la sua presenza nella tua preghiera, vedrai, non con la vista del corpo, ma spiritualmente, l’Invisibile ed apprenderai che la preghiera significa stare dinanzi al tremendo tribunale del Signore[78]. Prega con il capo chino, con gli occhi fissi a terra, immobile ed in piedi. Aiuta la preghiera con il pianto del cuore, sospirando dal profondo dell’animo, con lacrime abbondanti. Un atteggiamento esteriore ispirato alla pietà durante la preghiera è assolutamente necessario ed assai utile per chiunque si dedichi ad essa, specialmente per i principianti, nei quali la disposizione dell’anima particolarmente si conforma a quella del corpo.
L’Apostolo comanda di ringraziare durante la preghiera: “Siate assidui nella preghiera – egli dice – siate vigili in essa con il ringraziamento”[79]. L’Apostolo afferma che il ringraziamento è voluto dallo stesso Dio: “Pregate incessantemente; ringraziate di tutto; questa è la volontà di Dio nei vostri riguardi in Gesù Cristo”[80]. Che cosa significa ringraziamento? È la glorificazione di Dio per i suoi infiniti benefici nei confronti di tutta l’umanità e di ogni singolo. Grazie a tale ringraziamento entra nell’anima una meravigliosa calma; entra la gioia, indipendentemente dal fatto che da ogni parte ci circondano affanni; entra una viva fede, per effetto della quale l’uomo allontana da sé tutte le preoccupazioni, calpesta il timore umano e quello dei demoni e si sottomette pienamente alla volontà di Dio. Questa disposizione spirituale è un’ottima preparazione alla preghiera. “Come accoglieste il Signore Cristo Gesù – scrive l’Apostolo –, così vivete in Lui, radicati e fondati in Lui ed illuminati dalla fede, così come avete appreso, sovrabbondando di ringraziamenti in essa”, cioè acquistando per mezzo del ringraziamento la pienezza della fede. “Rallegratevi sempre nel Signore, e di nuovo vi dico: rallegratevi, il Signore è vicino. Non vi preoccupate di alcunché, ma in tutto le vostre richieste si esprimano al Signore con la preghiera, con la supplica e con il ringraziamento”[81].

L’attenzione durante la preghiera
La preghiera ha bisogno della presenza inseparabile e della collaborazione dell’attenzione. Grazie all’attenzione la preghiera diventa parte integrante di colui che prega; ma se l’attenzione manca, essa è estranea a chi prega. Se c’è l’attenzione, essa produce abbondanti frutti; senza di essa produce solo spine. Il frutto della preghiera è l’illuminazione della mente, la commozione del cuore e la vita dello Spirito che rinasce nell’anima. Le spine significano la morte dell’anima, la presunzione farisaica, che nasce dall’indurimento del cuore soddisfatto dalla quantità delle preghiere e del tempo impiegato in esse. L’attenzione, che tiene lontana dalla preghiera la distrazione per opera di pensieri estranei o di fantasticherie, è un dono della grazia di Dio. Il desiderio sincero di ottenere il dono salutare dell’attenzione si manifesta costringendo se stessi all’attenzione in ogni preghiera. L’attenzione artificiosa, così chiameremo quella non ancora illuminata dalla grazia, consiste nel rinchiudere la mente nelle parole della preghiera, secondo il consiglio di san Giovanni Climaco. Se la mente, per la sua inesperienza nella preghiera, sfuggirà alla chiusura nelle parole, l’attenzione la deve riportare in esse. È propria della mente, a causa del peccato, l’incostanza e la tendenza a distrarsi. Ma Dio può concederle la costanza e la da al momento opportuno in cambio della fermezza e della sopportazione nella preghiera. Contribuisce particolarmente all’attenzione durante la preghiera una pronuncia non veloce delle sue parole. Pronuncia le parole della preghiera senza alcuna fretta, affinché la mente, pienamente soddisfatta, possa rimanere rinchiusa in esse e non ne lasci sfuggire alcuna. Pronuncia le parole a voce abbastanza alta, quando preghi da solo, e ciò ti aiuterà ad essere attento.
La preghiera attenta si può e si deve facilmente apprendere compiendo le devozioni in cella[82]. Caro fratello, non respingere il peso di una certa noia e di una costrizione nell’apprendimento iniziale delle attività a cui un monaco attende in cella ed in particolare delle preghiere che vi si recitano. Provvediti a tempo di un’arma validissima, la preghiera; apprendi in tempo ad usarla, la preghiera è onnipotente, perché in essa agisce l’onnipotenza di Dio. Essa è “la spada spirituale, cioè la parola”[83]. La preghiera, per la sua natura, è la permanenza dell’uomo accanto a Dio, la sua unione con Dio. Per i suoi effetti essa è la riconciliazione dell’uomo con Dio, madre e figlia delle lacrime, ponte che passa oltre le tentazioni, muro che difende dagli affanni, vittoria sulle avversità, attività senza fine, fonte di virtù, origine di doni spirituali, progresso invisibile, nutrimento dell’anima, illuminazione della mente, vittoria sulla disperazione, annuncio di speranza, liberazione dalla tristezza, ricchezza dei monaci[84]. Da principio è necessaria la costrizione nella preghiera, ma ben presto essa comincia a procurare conforto ed in tal modo diviene meno pesante la costrizione e siamo incoraggiati a vincere noi stessi. Ma quest’ultima è necessaria per la preghiera nel corso di tutta la vita e rari furono gli asceti che riuscirono a liberarsene grazie al ricchissimo conforto della Grazia. La preghiera uccide l’uomo vecchio che è in noi; finché egli vive in noi, si oppone ad essa, come al morso della morte. Gli spiriti caduti, conoscendo la potenza della preghiera ed il suo effetto salutare, cercano in ogni modo di allontanare da essa l’asceta, insegnandogli ad impiegare il tempo, destinato alla preghiera, in altre occupazioni. Oppure cercano di annientarla o di macchiarla con vani pensieri o con la distrazione peccaminosa, facendo sorgere, nel tempo in cui essa viene compiuta, infiniti pensieri terreni e peccaminosi e fantasticherie.

Publié dans:Ortodossia, preghiera (sulla) |on 17 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

GIORGIO PRECA E I NUOVI MISTERI DEL ROSARIO – (I MISTERI DELLA LUCE) (2007)

http://www.ocarm.pcn.net/ita/articles/ac03-ita.htm

GIORGIO PRECA E I NUOVI MISTERI DEL ROSARIO – (I MISTERI DELLA LUCE) (2007)

(non ne sapevo niente, ho appena letto questo articolo in inglese)

John Formosa, SDC Anthony Cilia, O.Carm.

Il 16 ottobre 2002, il Santo Padre ha dato inizio al 25° anniversario del suo pontificato con la pubblicazione della Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae (RVM) con la quale ha promulgato l’ « Anno del Rosario » (da ottobre 2002 a ottobre 2003) e ha presentato alla Chiesa, oltre ai quindici misteri del rosario già esistenti, altri cinque nuovi Misteri della Luce sulla vita pubblica di Gesù. La promulgazione di questa Lettera Apostolica, e in modo particolare l’introduzione dei cinque nuovi misteri, hanno creato tra molti credenti reazioni diverse. Infatti, molti mezzi di comunicazione hanno focalizzato l’attenzione più sull’introduzione dei nuovi misteri che sull’insegnamento in generale della stessa RVM. Numerosi giornalisti hanno sottolineato che « l’idea del Santo Padre circa questi nuovi misteri potrebbe essere stata presa dagli scritti di un sacerdote maltese che lo stesso Pontefice ha beatificato nel 2001, don Giorgio Preca. » [cfr. The Guardian del 16 ottobre 2002; The Wanderer (USA), The Tablet, Catholic Herald, Catholic Times (Gran Bretagna), The Catholic Weekly (Australia) e il giornale elettronico Daily Spirit (USA).] Non ci è dato sapere da dove il Santo Padre abbia attinto per l’introduzione di questi nuovi misteri. Eppure eliminando alcune piccole diversità, i cinque nuovi misteri proposti dal Santo Padre sono quasi identici a quelli proposti da don Giorgio nel 1957! Appare anche un po’ misterioso il fatto che il Santo Padre chiami i nuovi misteri dalla vita pubblica di Gesù « Misteri della Luce », con la stessa nomenclatura proposta dal Santo! Se accettiamo l’origine di questi Misteri della Luce al santo Giorgio Preca, si pone un altro interrogativo: « Come questi misteri sono arrivati nelle mani del Santo Padre per introdurli nella Lettera Apostolica sul rosario? » Il postulatore della Causa di Canonizzazione di Giorgio Preca ha cercato d’indagare ma fino ad ora non è riuscito ad ottenere delle risposte. Sono state ipotizzate diverse possibilità e tra l’altro e la più plausibile, pare essere quella di aver attinto l’informazione su internet. Infatti alcuni siti cattolici di lingua inglese, già prima della pubblicazione della Lettera Apostolica RVM, fanno riferimento a questi Misteri della Luce, probabilmente introdotti da qualche maltese che ha bevuto dalla spiritualità del Santo. Malgrado manchino prove concrete, i misteri sulla vita pubblica di Gesù hanno trovato un posto privilegiato nell’insegnamento della Chiesa e saranno adottati e meditati da milioni di cattolici in tutto il mondo.

I Misteri della Luce del Santo Preca Nel 1957 la società istituita da don Giorgio ha compiuto 50 anni dalla sua fondazione. Don Giorgio non ha voluto celebrazioni esterne ma ha desiderato solo che quest’anno fosse per tutti i soci un anno di avvicinamento più intimo a Dio. A tale scopo ha pubblicato il libro Kollokwji ma’ Alla (Colloqui con Dio) – ovvero, 60 discorsi che mettono in risalto il suo grande amore per il Creatore. Oltre a questi colloqui, durante lo stesso anno, don Giorgio ha proposto l’idea di aggiungere altri cinque misteri del rosario circa la vita pubblica di Gesù. Allora questi misteri erano per l’uso privato dei membri della sua società, come aveva fatto anche per i Colloqui. Alcuni dei suoi seguaci, vissuti al tempo del fondatore, raccontano che don Giorgio ha presentato i Misteri della Luce per la prima volta durante uno dei loro incontri del mercoledì. Non ha comunicato come questi misteri siano nati, se presi da qualche libro o su sua ispirazione. Solitamente, quando proponeva qualche cosa nuova ai suoi seguaci diceva: « Ecco cosa ho trovato oggi per voi …. » Ma in quella occasione non ha pronunciato questa frase, e sembra che l’idea dei Misteri della Luce è stata originata proprio da lui. Gli stessi testimoni affermano che quella sera, dopo aver spiegato l’importanza della meditazione su tutta la vita di Gesù, e che al rosario, in qualche modo mancava questo aspetto, ha parlato di quanto li abbia trovati piacevoli e quanto si sia sentito felice nel meditare questi « nuovi » misteri dalla vita pubblica di colui che ha dichiarato: « Io sono la luce del mondo » (Gv 8, 12). I Misteri della Luce proposti da don Giorgio sono apparsi per la prima volta in pubblico in un articolo intitolato Id-Devozzjoni ta’ Dun Gorg lejn ir-Ruzarju (La devozione di don Giorgio per il rosario) pubblicato nella rivista Dun Gorg, N. 5, luglio-dicembre 1973. La divulgazione dei misteri continuò nel 1987 quando Vincent Caruana (1912-1998), membro della società, ha pubblicato un libretto intitolato Gesù Kristu – Alla – Bniedem – Feddej (Gesù Cristo – Dio – Uomo – Redentore), con il sottotitolo Episodji mill-Evangelju f’ghamla ta’ Ruzarju fuq idea originali ta’ Dun Gorg Preca (Episodi dal Vangelo nella forma di un rosario sull’idea originale di don Giorgio, Ed., P.E.G. Ltd., Marsa, Malta). Nella sua introduzione Caruana presenta i Misteri della Luce affermando che « sono stati pubblicati e divulgati per la prima volta dal Servo di Dio don Giorgio Preca ». Con queste due pubblicazioni i Misteri della Luce hanno superato i limiti dell’uso privato per i membri della società, e divulgati tra molti fedeli sia a Malta che in altre parti del mondo. Altri, ispirati dall’insegnamento di don Giorgio, hanno perfino introdotto questi misteri nei propri siti web dedicati al rosario.

I Misteri della Luce secondo don Giorgio e il Santo Padre

Secondo don Giorgio: 1. Gesù, dopo essere battezzato al Giordano, fu trasferito nel deserto. 2. Gesù che si rivela vero Dio con la parola e i miracoli. 3. Gesù che insegna le Beatitudini sulla montagna. 4. Gesù che si trasfigura sulla montagna. 5. Gesù che fa l’ultima cena con gli Apostoli.

Secondo il Santo Padre: 1. Gesù battezzato al Giordano da Giovanni. 2. Gesù che si rivela con il primo segno alle nozze di Cana. 3. Gesù che predica il regno di Dio e la conversione. 4. Gesù che si trasfigura sul monte Tabor. 5. Gesù che istituisce l’Eucaristia.

Quando le due versioni vengono confrontate, risulta una grande somiglianza tra i Misteri della Luce proposti da don Giorgio nel 1957 e quelli dal Santo Padre. E’ vero che ci sono alcune leggere differenze, ma queste non sono così grandi come potrebbero apparire. * Nel primo mistero don Giorgio, oltre al Battesimo di Gesù al Giordano aggiunge la sua ritirata nel deserto, dove si è preparato per quaranta giorni prima di dare inizio alla sua missione. Chi conosce bene il Santo può capire perché ha aggiunto questo dalla vita di Gesù. Inizialmente lui ha scritto questi misteri per i suoi seguaci, cioè, per mostrargli la necessità di una buona preparazione nella loro missione della proclamazione della Parola. * Nel secondo mistero, don Giorgio propone la meditazione su come Gesù si riveli Dio con la parola e i miracoli. Il Santo Padre propone un solo miracolo, quello avvenuto alle nozze di Cana, che nelle parole dell’evangelista San Giovanni (2,11) aveva proprio quello scopo. * Nel terzo mistero, don Giorgio propone Gesù nell’insegnamento delle Beatitudini, chiamate « la Carta Costituzionale » della Chiesa che doveva istituire Gesù. Non possiamo negare che con la predicazione delle beatitudini Gesù ha anche annunziato il Regno di Dio e ha invitato tutti gli uomini alla conversione di vita. * Nel quarto e quinto mistero abbiamo gli stessi episodi dalla vita di Gesù proposti da don Giorgio e dal Santo Padre. Per quanto riguarda quando meditarli, don Giorgio e il Santo Padre suggeriscono di inserirli tra i Misteri della Gioia e quelli del Dolore. La differenza tra le due proposte è solo nel giorno. Il Santo propone il lunedì (al posto dei Misteri della Gioia, e questi in cambio vengono meditati la domenica), mentre il Santo Padre ha proposto il giovedì, che in realtà è un giorno più adatto perché associato all’istituzione dell’Eucaristia. E’ anche giusto che i Misteri della Gioia, che toccano gli eventi principali dalla vita di Maria, vengano meditati di sabato, giorno dedicato alla Vergine Santa. Oltre ai Misteri della Luce, nella RVM ci sono dei concetti che sono simili a quelli predicati da don Giorgio. * Per esempio il Santo Padre fa riferimento all’importanza di una breve pausa di silenzio dopo l’enunciazione del mistero per la contemplazione e meditazione (cfr. 31). Questa idea don Giorgio non soltanto la praticava ma anche la raccomandava ai suoi ascoltatori. * Il Santo Preca amava chiamare il rosario « scuola di insegnamento » in modo particolare per la meditazione dei misteri. E’ interessante notare che il Santo Padre, nella sua Lettera Apostolica RVM, fa riferimento al rosario come « scuola di Maria » (cfr. 1, 3, 15, 34). * La Lettera Apostolica RVM (cfr. 35) propone, dopo il Gloria Patri, l’introduzione di una preghiera come conclusione di ogni mistero. A questo scopo don Giorgio ha scritto varie preghiere alla Vergine Maria e alle virtù relative ai misteri da recitare prima del Pater Noster.

Conclusione Durante la sua vita il santo Preca si è impegnato molto per la divulgazione del santo rosario. Come un vero devoto della Vergine Maria ha praticato con fervore questa preghiera mariana dal cuore cristologico, l’ha raccomandata volentieri ai suoi ascoltatori, e ha anche scritto varie volte sulla sua importanza e efficacia. Le somiglianze che si riscontrano nell’insegnamento del Santo Padre nella Lettera Apostolica RVM e quello di don Giorgio, mostrano la profonda spiritualità di questo santo carmelitano, una spiritualità che ha superato i limiti geografici della sua terra nativa ed è passata alla Chiesa universale!

Publié dans:preghiera (sulla), preghiere, ROSARIO (IL) |on 4 décembre, 2013 |Pas de commentaires »

PREGHIERA DI LODE

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PREGHIERA DI LODE

La meraviglia, ossia saper vedere
La preghiera non è conquista dell’uomo.
E’ dono.

La meraviglia, ossia saper vedere La preghiera non è conquista dell’uomo.E’ dono.La preghiera non nasce allorché « voglio » pregare. Ma quando mi è « dato » di pregare.E’ lo Spirito che ci dona e rende possibile la preghiera (Rm 8,26; 1Cor 12,3).La preghiera non è iniziativa umana.Può essere soltanto risposta.Dio mi precede sempre. Con le Sue parole.  Con le Sue azioni.
Senza le « imprese » di Dio, i Suoi prodigi, le Sue gesta, non nascerebbe la preghiera.
Sia il culto come l’orazione personale sono possibili soltanto perché Dio « ha compiuto meraviglie », è intervenuto nella storia del Suo popolo e nelle vicende di una Sua creatura.
Maria di Nazareth ha la possibilità di cantare, « magnificare il Signore », unicamente perché Dio « ha fatto cose grandi »  (Lc 1,49).
Il materiale per la preghiera viene fornito dal Destinatario.
Non ci fosse la Sua parola rivolta all’uomo, la Sua misericordia, l’iniziativa del Suo amore, la bellezza dell’universo uscito dalle Sue mani, la creatura rimarrebbe muta.
Il dialogo della preghiera si accende quando Dio interpella l’uomo con dei fatti « che mette sotto i suoi occhi ».
Ogni capolavoro ha bisogno di apprezzamento.
Nell’opera della creazione è l’Artefice Divino stesso che si compiace della propria opera:  « …Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona… »   (Genesi 1,31)
Dio gode di quanto ha fatto, perché si tratta di una cosa molto buona, molto bella.
E’ soddisfatto, oserei dire « sorpreso ».
L’opera è perfettamente riuscita.
E Dio si lascia sfuggire un  « oh! » di meraviglia.
Ma Dio aspetta che il riconoscimento nello stupore e nella gratitudine avvenga anche da parte dell’uomo.
La lode non è altro che l’apprezzamento della creatura per ciò che ha fatto il Creatore.
« …Lodate il Signore:
 è bello cantare al nostro Dio,
dolce è lodarLo come a Lui conviene… »( Salmo 147,1)
La lode è possibile soltanto se ci si lascia « sorprendere » da Dio.
La meraviglia è possibile esclusivamente se si intuisce, se si scopre l’azione di Qualcuno in ciò che sta davanti ai nostri occhi.
La meraviglia implica la necessità di fermarsi, ammirare, scoprire il segno dell’amore, l’impronta della tenerezza, la bellezza nascosta sotto la superficie delle cose.
« ….Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le Tue opere… »  (Sal 139,14)
 
La lode va sottratta alla cornice solenne del Tempio e riportata anche nell’ambito modesto della quotidianità domestica, là dove il cuore fa l’esperienza dell’intervento e della presenza di Dio nelle umili vicende dell’esistenza.
La lode diventa così una specie di « festa dei giorni feriali », canto che riscatta la monotonia sorpresa che annulla la ripetitività, poesia che sconfigge la banalità.
 
Bisogna che il « fare »sfoci nel « vedere », la corsa s’interrompa per lasciar posto alla contemplazione, la fretta lasci il posto alla sosta estatica.
Lodare significa celebrare Dio nella liturgia dei gesti ordinari.
Complimentarsi con Lui che continua a fare « una cosa buona e bella », in quella creazione stupefacente ed inedita che è la nostra vita di ogni giorno.
 
E’ bello lodare Dio senza preoccuparsi di stabilire i motivi.
La lode è un fatto di intuizioni e di spontaneità, che precede ogni ragionamento.
Nasce da un impulso interiore ed ubbidisce ad un dinamismo di gratuità che esclude ogni calcolo, ogni considerazione utilitaristica.
Non posso non godere per ciò che Dio è in se stesso, per la Sua gloria, per il Suo amore, indipendentemente dall’inventario delle « grazie » che mi concede.
 
La lode rappresenta una forma particolare di annuncio missionario.
Più che spiegare Dio, più che presentarLo come oggetto dei miei pensieri e ragionamenti, manifesto e racconto la mia esperienza della Sua azione.
Nella lode non parlo di un Dio che mi convince, ma di un Dio che mi sorprende.
 
Non si tratta di meravigliarsi per eventi eccezionali, ma di saper cogliere lo straordinario nelle realtà più comuni.
Le cose più difficili da vedere sono proprio quelle che abbiamo sempre sotto gli occhi!
 
I Salmi : massimo esempio di preghiera di lode
« ….. Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa. Signore, mio Dio, ti loderò per sempre…. »  (Salmo 30)
 
« ….Esultate, giusti, nel Signore; ai retti si addice la lode.  Lodate il Signore con al cetra, con l’arpa a dieci corde a Lui cantate.  Cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate… »  (Salmo 33)
 
« ….Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la mia lode.  Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino.
Celebrate con me il Signore, esaltiamo insieme
 il Suo nome…. »  (Salmo 34)
 
« ….Perchè ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi?  Spera in Dio: ancora potrò lodarLo,
Lui, salvezza del mio volto e mio Dio…. »  (Salmo 42)
 
« ….Voglio cantare, a Te voglio inneggiare: svegliati, mio cuore, svegliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora.  Ti loderò tra i popoli Signore, a Te canterò inni tra le genti, perché la Tua bontà è grande fino ai cieli, la Tua fedeltà fino alle nubi…. »    (Salmo 56)
 
« ….O Dio, Tu sei il mio Dio, all’aurora Ti cerco,
di Te ha sete l’anima mia…..poichè la Tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la Tua lode… »    (Salmo 63)
 
« ….Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore.  Sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre.  Dal sorgere del sole al suo tramonto, sia lodato il nome del Signore…. »    (Salmo 113)
 
« ….Lodate il Signore nel Suo santuario, lodatelo nel firmamento della Sua potenza. Lodatelo per i Suoi prodigi, lodatelo per la Sua immensa grandezza.
Lodatelo con squilli di tromba, lodatelo con arpa e cetra; lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui flauti, lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti; ogni vivente dia lode al Signore.   Alleluia!…. »    (Salmo 150)
 

Publié dans:preghiera (sulla) |on 25 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA DI S. FRANCESCO: “CON GESU’ SEMPRE NEL CUORE”

http://digilander.iol.it/benparker/NET/NUOVI%20FILOCALIA/VARI/Francesco.htm

(il sito è sull’esicasmo)

LA PREGHIERA DI S. FRANCESCO: “CON GESU’ SEMPRE NEL CUORE”

Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra

Pregava il Padre suo in segreto
 Alla periferia della città c’era una grotta, in cui essi andavano sovente, parlando del «tesoro». L’uomo di Dio, già santo per desiderio di esserlo, vi entrava, lasciando fuori il compagno ad attendere, e, pieno di nuovo insolito fervore, pregava il Padre suo in segreto.
Desiderava che nessuno sapesse quanto accadeva in lui là dentro; e, celando saggiamente a fin di bene il meglio, solo a Dio affidava i suoi santi propositi.
Supplicava devotamente Dio eterno e vero di manifestargli la sua via e di insegnargli a realizzare il suo volere.
Si svolgeva in lui una lotta tremenda, né poteva darsi pace, finché non avesse compiuto ciò che aveva deliberato.
Mille pensieri l’assalivano senza tregua e la loro insistenza lo gettava nel turbamento e nella sofferenza.
Bruciava interiormente di fuoco divino, e non riusciva a dissimulare il fervore della sua anima.
Deplorava i suoi gravi peccati, le offese fatte agli occhi della maestà divina.
Le vanità del passato o del presente non avevano per lui più nessuna attrattiva, ma non si sentiva sicuro di saper resistere a quelle future.

Portava Gesù sempre nel cuore
 I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l’abbondanza dei santi affetti del cuore, e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori.
Era davvero molto occupato con Gesù.
Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra.
Quante volte, mentre sedeva a pranzo, sentendo o pronunciando lui il nome di Gesù, dimenticava il cibo temporale e, come si legge di un santo, «guardando, non vedeva e ascoltando non udiva».
C’è di più, molte volte, trovandosi in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava a invitare tutte le creature alla lode di Gesù.
Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perchè fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui, che egli aveva la grazia di contemplare, durante l’estasi, nella gloria indicibile e incomprensibile, seduto alla «destra del Padre», con il quale l’egualmente altissimo Figlio dell’Altissimo, assieme con lo Spirito Santo vive e regna, vince e impera, Dio eternamente glorioso, per tutti i secoli. Amen!

Si sentiva un peccatore perdonato
 Un giorno, pieno di ammirazione per la misericordia del Signore in tutti i benefici a lui elargiti, desiderava conoscere dal Signore che cosa sarebbe stato della sua vita e di quella dei suoi frati.
A questo scopo si ritirò, come spesso faceva, in un luogo adatto per la preghiera. Vi rimase a lungo invocando con timore e tremore il Dominatore di tutta la terra, ripensando con amarezza gli anni passati malamente e ripetendo: «O Dio, sii propizio a me peccatore!»
A poco a poco si sentì inondare nell’intimo del cuore di ineffabile letizia e immensa dolcezza.
Cominciò come a uscire da sé: l’angoscia e le tenebre, che gli si erano addensate nell’animo per timore del peccato, scomparvero, ed ebbe la certezza di essere perdonato di tutte le sue colpe e di vivere nello stato di grazia.
Poi, come rapito fuori di sé e trasportato in una grande luce, che dilatava lo spazio della sua mente, poté contemplare liberamente il futuro.
Quando quella luce e quella dolcezza dileguarono, egli aveva come uno spirito nuovo e pareva un altro.

Poneva tutta la sua fiducia in Dio
 In quella fossa, che era sotto la casa, ed era nota forse ad uno solo, rimase nascosto per un mese intero, non osando uscire che per stretta necessità.
Mangiava nel buio del suo antro il cibo che di tanto in tanto gli veniva offerto, e ogni aiuto gli era dato nascostamente. Con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse dalle mani di chi perseguitava la sua anima e gli concedesse la grazia di compiere i suoi voti.
Nel digiuno e nel pianto invocava la clemenza del Salvatore e, diffidando di se stesso, poneva tutta la sua fiducia in Dio.
Benché chiuso in quel rifugio tenebroso, si sentiva inondato da indicibile gioia, mai provata fino allora. Animato da questa fiamma interiore, decise di uscire dal suo nascondiglio ed esporsi indifeso alle ingiurie dei persecutori.

Il suo contegno nella preghiera
 Quando ritornava dalle sue preghiere personali, durante le quali si trasformava quasi in un altro uomo, cercava di conformarsi quanto più poteva agli altri, per il timore che, se appariva col volto raggiante, il venticello dell’ammirazione non gli togliesse il merito guadagnato. Anzi spesso ripeteva ai suoi intimi: «Quando il servo di Dio nella preghiera è visitato dal Signore con qualche nuova consolazione, deve prima di terminare, alzare gli occhi al cielo e dire al Signore a mani giunte:  « Tu, o Signore, hai mandato dal cielo questa dolce consolazione a me indegno peccatore: io te la restituisco, affinché tu me la metta in serbo, perché io sono un ladro del tuo tesoro ! ».
E ancora: «Signore, toglimi il tuo bene in questo mondo, e conservamelo per il futuro ».
E continuava: « Così deve comportarsi, in modo che, quando esce dalla preghiera, si mostri agli altri così poverello e peccatore, come se non avesse conseguito nessuna nuova grazia ».
E spiegava: «Per una mercede di poco valore capita di perdere un bene inestimabile e di provocare facilmente il nostro benefattore a non ridarlo più».
Infine, era suo costume alzarsi a pregare così di nascosto e silenziosamente, che nessuno dei compagni poteva accorgersi che si alzava o pregava. Quando invece alla sera si metteva a letto, faceva rumore e quasi strepito, per far sentire a tutti che andava a coricarsi.

Insegnava a pregare e lodare Dio
 Quando, poi, i frati gli chiesero che insegnasse loro a pregare, disse: Quando pregate, dite:   Padre nostro, e: «Ti adoriamo, o Cristo,  in tutte le tue chiese che sono in tutto il mondo,  e ti benediciamo, perché,  per mezzo della tua santa croce,  hai redento il mondo».
Inoltre insegnò loro a lodare Dio in tutte le creature e prendendo lo spunto da tutte le creature, ad onorare con particolare venerazione i sacerdoti, come pure a credere fermamente e a confessare schiettamente la verità della fede, così come la tiene e la insegna la santa Chiesa romana.
Essi osservavano in tutto e per tutto gli insegnamenti del padre santo e, appena scorgevano qualche chiesa da lontano, o qualche croce, si volgevano verso di essa, prostrandosi umilmente a terra e pregando secondo la forma loro indicata.

Si dimostrava poverello e peccatore
 Quando, trovandosi in pubblico, veniva improvvisamente visitato dal Signore, cercava sempre di celarsi in qualche modo ai presenti, perché gli intimi contatti con lo Sposo non si propagassero all’esterno.
Quando pregava con i frati, evitava assolutamente le espettorazioni, i gemiti, i respiri affannosi, i cenni esterni, sia perché amava il segreto, sia perché, se rientrava nel proprio intimo, veniva rapito totalmente in Dio.
Spesso ai suoi confidenti diceva cose come queste «Quando il servo di Dio, durante la preghiera, riceve la visita del Signore, deve dire: « O Signore, tu dal cielo hai mandato a me, peccatore e indegno, questa consolazione, e io la affido alla tua custodia, perché mi sento un ladro del tuo tesoro ».
E quando torna dall’orazione, deve mostrarsi così poverello e peccatore, come se non avesse ricevuto nessuna grazia speciale».

Trascorreva il tempo nella preghiera
 Francesco, uomo di Dio, sentendosi pellegrino nel corpo lontano dal Signore, cercava di raggiungere con lo spirito il cielo e, fatto ormai concittadino degli Angeli, ne era separato unicamente dalla parete della carne. L’anima era tutta assetata del suo Cristo e a Lui si offriva interamente nel corpo e nello spirito.
Delle meraviglie della sua preghiera diremo solo qualche tratto, per quanto abbiamo visto con i nostri occhi ed è possibile esporre ad orecchio umano, perché siano d’esempio ai posteri.
Trascorreva tutto il suo tempo in santo raccoglimento, per imprimere nel cuore la sapienza; temeva di tornare indietro se non progrediva sempre.
E se a volte urgevano visite di secolari o altre faccende, le troncava più che terminarle, per rifugiarsi di nuovo nella contemplazione.
Perché a lui, che si cibava della dolcezza celeste, riusciva insipido il mondo, e le delizie divine lo avevano reso di gusto difficile per i cibi grossolani degli uomini.

I suoi luoghi di preghiera
 Cercava sempre un luogo appartato, dove potersi unire non solo con lo spirito, ma con le singole membra, al suo Dio.
E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola col mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica, per non svelare la manna nascosta.
Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave.
Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto  (cfr. il parallelo con gli esicasti).
Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore.

Il suo fervore
Quando pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo.
E in realtà, per offrire a Dio in molteplice olocausto tutte le fibre del cuore, considerava sotto diversi aspetti Colui che e sommamente Uno.
Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente.
Ma di quanta dolcezza sarà stato inondato, abituato come era a questi trasporti? Soltanto lui lo sa; io non posso che ammirarlo. Solo chi ne ha esperienza, lo può sapere; ma è negato a chi non l’esperimenta. Quando il suo spirito era nel pieno del fervore, egli con tutto l’esteriore e con tutta l’anima completamente in deliquio si ritrovava già nella perfettissima patria del regno dei cieli.
Il Padre era solito non trascurare negligentemente alcuna visita dello Spirito: quando gli si presentava, l’accoglieva e fruiva della dolcezza che gli era stata data, fino a quando il Signore lo permetteva.
Così, se avvertiva gradatamente alcuni tocchi della grazia mentre era stretto da impegni o in viaggio, gustava quella dolcissima manna a varie e frequenti riprese.
Anche per via si fermava, lasciando che i compagni andassero avanti, per godere della nuova visita dello Spirito e non ricevere invano la grazia.

Pregava senza interruzione
 Il servo di Cristo, vivendo nel corpo, si sentiva in esilio dal Signore e, mentre al di fuori era divenuto totalmente insensibile, per amor di Cristo, ai desideri della terra, si sforzava, pregando senza interruzione, di mantenere lo spirito alla presenza di Dio, per non rimanere privo della consolazione del Diletto.
Camminando e sedendo, in casa e fuori, lavorando e riposando, con la forza della mente restava così intento nella orazione da sembrare che avesse dedicato ad essa ogni parte di se stesso: non solo il cuore e il corpo, ma anche l’azione e il tempo.
Molte volte veniva investito da tale eccesso di devozione che, rapito al di sopra di se stesso, e oltrepassando i limiti della sensibilità umana, ignorava totalmente quanto avveniva al di fuori, intorno a lui.

Pregava in solitudine
 Per raccogliere con maggior raccoglimento l’interiore elargizione delle consolazioni spirituali, si recava nella solitudine e nelle chiese abbandonate, per pregarvi di notte, quantunque anche là provasse le orrende battaglie dei demoni, che venivano a conflitto con lui, quasi con un contatto fisico, e si sforzavano di stornarlo dall’impegno della preghiera.
Ma l’uomo di Dio li metteva in fuga con la potenza e l’instancabile fervore delle preghiere, e così se ne restava solo e in pace.
Riempiva i boschi di gemiti, cospargeva quei luoghi di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi dall’intimità di un più segreto santuario, ora rispondeva al giudice, ora supplicava il Padre, ora scherzava con lo Sposo, ora dialogava con l’amico.
Là fu visto, di notte, mentre pregava, con le mani e le braccia stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e circondato da una nuvoletta rifulgente: così la meravigliosa
luminosità e il sollevarsi del corpo diventavano testimonianza della illuminazione e della elevazione avvenuta dentro il suo spirito.

Su di lui lo spirito di profezia
 Indizi sicuri comprovano, inoltre, che durante queste elevazioni, per virtù soprannaturale, gli venivano rivelate le cose incerte ed occulte della sapienza divina, anche se egli non le divulgava all’esterno, se non nella misura in cui urgeva lo zelo della salvezza dei fratelli e dettava l’impulso della rivelazione dall’alto.
La dedizione instancabile alla preghiera, insieme con l’esercizio ininterrotto delle virtù, aveva fatto pervenire l’uomo di Dio a così grande chiarezza di spirito che, pur non avendo acquisito la competenza nelle Sacre Scritture mediante lo studio e l’erudizione umana, tuttavia, irradiato dai fulgori della luce eterna, scrutava la profondità della Scrittura stessa con intelletto limpido e acuto.
Si poso’ su di lui anche lo spirito multiforme dei profeti con tale pienezza e varietà di grazie che, per la potenza mirifica di quello spirito, egli si faceva vedere presente ai suoi frati assenti ed aveva notizia sicura dei lontani.
Penetrava pure i segreti dei cuori, come pure preannunziava gli eventi del futuro. Lo dimostrano con evidenza molti esempi e noi ne riporteremo qui alcuni.

La sua preghiera era efficace
 Mentre Francesco attraversava una provincia, gli venne incontro l’abate di un monastero, che lo venerava con profondo affetto.
L’abate scese da cavallo e si trattenne per qualche ora in conversazione con Francesco parlando sulla salvezza dell’anima sua. Al momento del commiato, l’abate gli chiese con viva devozione che pregasse per lui. Gli rispose Francesco: «Lo farò volentieri».
Quando l’abate fu un poco lontano, il Santo disse al suo compagno: «Fratello, fermiamoci un momento, perché voglio pregare per l’abate, come ho promesso». E si raccolse in orazione.
Era infatti abitudine di Francesco, se qualcuno per devozione lo avesse richiesto di pregare Dio per la salvezza della sua anima, di fare orazione più presto che poteva, per timore di scordarsene.
L’abate intanto seguitava il suo cammino. Non si era allontanato molto da Francesco, quando il Signore lo visitò nel cuore. Un soave calore gli soffuse il volto e per un istante si sentì elevato in estasi. Tornato in sé, subito si rese conto che Francesco aveva pregato per lui, cominciò a lodare Dio, e fu ricolmo di letizia nel corpo e nello spirito.
Da quel giorno provò per il Santo una devozione più grande, poiché aveva sperimentato in se stesso l’alta santità di Francesco. E finché visse considerò quello un grande miracolo, e più volte raccontava l’accaduto ai fratelli e agli altri.

La preghiera cibo dell’anima
 Una volta, che pioveva a dirotto, Francesco, obbligato dalla malattia, andava a cavallo. Era tutto bagnato, e scese dal giumento, quando volle dire le ore canoniche; e le recitò con fervente devozione e concentrazione, stando immobile sulla strada mentre la pioggia veniva giù senza sosta, come fosse in chiesa o in una celletta.
Disse poi al compagno: « Se il corpo esige di prendere in tutta pace e comodità il suo cibo, che insieme con lui diventerà pasto dei vermi: con quanta pietà e devozione non deve prendere l’anima il suo cibo, che è Dio stesso! »

Invocava il suo dolcissimo Iddio
 Andò una notte frate Lione al luogo e all’ora usata per dire mattutino con santo Francesco; e dicendo da capo al ponte, com’egli era usato, Domine, labia mea aperies, e santo Francesco non rispondendo, frate Lione non si tornò addietro, come santo Francesco gli avea comandato, ma con buona e santa intenzione passò il ponte ed entrò pianamente in cella sua, e non trovandolo, si pensò che fusse per la selva in qualche luogo in orazione.
Di che egli esce fuori e al lume della luna il va cercando pianamente per la selva: e finalmente egli udì la voce di santo Francesco e, appressandosi, il vide stare ginocchioni in orazione con la faccia e con le mani levate al cielo, e in fervore di spirito si dicea: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo? »
E queste medesime parole pure ripetea, e non dicea niuna altra cosa.
Per la qual cosa frate Leone, forte maravigliandosi di ciò levò gli occhi e guatò in cielo; e guatando sì vide venire dal cielo una fiaccola di fuoco bellissima e splendentissima, la quale discendendo si posò in capo di santo Francesco; e della detta fiamma udiva uscire voce, la quale parlava con santo Francesco; ma esso frate Lione non intendea le parole.
Vedendo questo e riputandosi indegno di stare così presso a quello luogo santo dov’era quella mirabile apparizione e temendo ancora di offendere santo Francesco o di turbarlo dalla sua considerazione, s’egli da lui fossi sentito, si si tirò pianamente addietro e, stando da lunge, aspettava di vedere il fine.
E guardando fiso, vide santo Francesco stendere tre volte le mani alla fiamma e finalmente dopo grande ispazio, e’ vide la fiamma ritornarsi in cielo.
Di che egli si muove sicuro e allegro della visione e tornavasi alla cella sua.

La sua gioia
 Avvenne che un ecclesiastico spagnolo, persona pia, ebbe la fortuna di incontrarsi e di parlare con san Francesco. Tra le altre cose che riferì riguardo ai frati che si trovavano in Spagna, rese felice il Santo con questa notizia: « I tuoi frati nel nostro paese vivono in un povero eremo, e si sono dati questo regime di vita: metà attendono ai lavori domestici e metà alla contemplazione. Ogni settimana, il gruppo degli attivi passa alla contemplazione e quello dei contemplativi all’esercizio del lavoro.
« Un giorno era già stata preparata la tavola, e, dato il segnale per chiamare gli assenti, arrivano tutti, eccetto uno, del gruppo contemplativo. Dopo un po’ vanno alla sua cella per chiamarlo a tavola, ma egli già si nutriva alla mensa ben più lauta del Signore.
« Era prostrato con la faccia a terra, le braccia aperte in forma di croce e non dava segno di vita né col respiro né con altro movimento. Due candelabri accesi, uno al capo e l’altro ai piedi, illuminavano la cella con una luce sfolgorante in modo meraviglioso.
« Lo lasciano in pace per non turbare l’estasi e non svegliare la diletta, sino a che non voglia». Però i frati cercano di osservare attraverso le fessure della cella, stando dietro il muro e spiando per le inferriate. Per essere brevi, mentre gli amici sono intenti ad ascoltare colei che se ne stava nel giardino, all’improvviso scompare tutto quel bagliore ed il frate ritorna in se stesso. Subito si alza e, recatosi a tavola, si accusa di essere giunto in ritardo.
Ecco – concluse l’ecclesiastico spagnolo – quanto è accaduto nella nostra terra! Francesco non stava in sé dalla gioia, inebriato com’era dal profumo dei suoi figli. Subito si mise a lodare il Signore e, come se il sentire parlare bene dei frati fosse l’unica sua gloria, esclamò dal più profondo del cuore:
« Ti ringrazio, Signore, che santifichi e guidi i poveri, perché mi hai riempito di gioia con queste notizie! Benedici, ti prego, con la più ampia benedizione e santifica con una grazia particolare tutti quelli che rendono odorosa di buoni esempi la loro professione religiosa! »

Era compassionevole con tutti
 Francesco voleva un giorno recarsi ad un eremo per dedicarsi più liberamente alla contemplazione; ma, poiché era assai debole, ottenne da un povero contadino di poter usare del suo asino.
Si era d’estate, ed il campagnuolo che seguiva il Santo arrampicandosi per sentieri di montagna, era stanco morto per l’asprezza e la lunghezza del viaggio.
Ad un tratto, prima di giungere all’eremo, si sentì venir meno riarso dalla sete. Si mise a gridare dietro al Santo, supplicandolo di avere misericordia di lui, perché senza il conforto di un po’ d’acqua sarebbe certamente morto.
Il Santo, sempre compassionevole verso gli afflitti, balzò dall’asino, e inginocchiato a terra alzò le mani al cielo e non cessò di pregare fino a quando si senti esaudito. «Su, in fretta – gridò al contadino – là troverai acqua viva, che Cristo misericordioso ha fatto scaturire ora dalla roccia per dissetarti».
Mirabile compiacenza di Dio, che piega così facilmente ai suoi servi! L’uomo bevve l’acqua scaturita dalla roccia per merito di chi pregava e si dissetò alla durissima selce. Non vi era mai stato in quel luogo un corso d’acqua, né si trovò dopo, per quante ricerche siano state fatte.
Quale meraviglia, se un uomo ripieno di Spirito Santo riunisce in sé le opere mirabili di tutti i giusti? Non è certo cosa straordinaria, se ripete azioni simili a quelle di altri Santi chi ha il dono di essere unito a Cristo per una grazia particolare.

 Amò sino alla fine i suoi frati
 Poi il Santo alzò le mani al cielo, glorificando il suo Cristo, perché poteva andare libero a lui senza impaccio di sorta.
Ma per dimostrare che in tutto era perfetto imitatore di Cristo suo Dio, amò sino alla fine i suoi frati e figli, che aveva amato fin da principio.
Fece chiamare tutti i frati presenti nella casa, e cercando di lenire il dolore che dimostravano per la sua morte, li esortò con affetto paterno all’amore di Dio.
Si intrattenne a lungo sulla virtù della pazienza e sull’obbligo di osservare la povertà, raccomandando più di ogni altra norma il santo Vangelo. Poi, mentre tutti i frati gli erano attorno, stese la sua destra su di essi e la pose sul capo di ciascuno cominciando dal suo vicario, disse:
«Addio voi tutti figli miei, vivete nel timore del Signore e conservatevi in esso sempre! E poiché si avvicina l’ora della prova e della tribolazione, beati quelli che persevereranno in ciò che hanno intrapreso! Io infatti mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla sua grazia».

GESU’ E LA PREGHIERA

http://www.filosofico.net/preghierafilosofia3.htm

GESU’ E LA PREGHIERA

Con Gesù, il tema della preghiera viene declinato in maniera diversa e, se vogliamo, innovativa. Egli si colloca del tutto nel giudaismo, anche se spalanca la porta al Cristianesimo. Parlando di lui, affronteremo essenzialmente cinque temi diversi:

1)     La preghiera in Gesù (ossia il modo e le forme in cui egli pregava);
2)     L’insegnamento che egli ci ha lasciato a proposito della preghiera;
3)     Il testo della principale preghiera di Gesù, vale a dire il “Padre nostro” (riportato da Luca e da Matteo);
4)     La preghiera che con Gesù i discepoli rivolgevano a Dio;
5)     La preghiera rivolta a Gesù stesso.

1) Sappiamo che Gesù partecipava alle preghiere che si svolgevano al suo tempo, vale a dire le preghiere giudaiche. Sappiamo inoltre che, da adolescente, egli fece viaggi a Gerusalemme in occasione della Pasqua, che frequentava la sinagoga e che addirittura fu chiamato a fare la lettura (in particolare, lesse Isaia). Dai testi sacri, apprendiamo inoltre che Gesù, prima della Passione, se la prese coi mercanti del tempio e coi cambiavalute, nel tentativo di riportare il culto a una più alta dimensione spirituale. Ancora, sappiamo che egli condivise la cena pasquale coi suoi discepoli e pregò con loro. Insomma, si può dire che Gesù si comportò come un pio giudeo del suo tempo, prendendo parte a tutte le forme di preghiere. In altri passi dei testi sacri, affiorano aspetti più intimi che fanno riferimento alla sua preghiera personale: ad esempio, Luca mostra più volte Gesù nell’atto di isolarsi per poter pregare da solo. Altre volte, egli è raffigurato nell’atto di combattere il demonio e le sue tentazioni, invocando il Padre. Particolarmente significativo è l’aspetto che potremmo dire “filiale” della preghiera di Gesù, alludendo con quest’espressione alla sua familiarità con Dio, da lui iteratamente definito “Padre”, con la confidenza e la fiducia tipica del bambino nei confronti del genitore. Anche sulla Croce, Gesù si rivolge a Dio invocandoLo e chiamandoLo “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Il Vangelo di Giovanni sviluppa poi i discorsi che Gesù tenne al cospetto dei suoi discepoli: in particolare, il capitolo 17 si presenta come una lunga preghiera.
2) Nei “Sinottici”, vi sono sezioni sugli insegnamenti di Gesù a proposito della preghiera, i quali costituiscono il contesto del “Padre nostro”. Nella prospettiva di Gesù, la preghiera non deve moltiplicare le parole, come fanno indebitamente i Pagani (è difficile stabilire a quali pagani si alluda, visto che le preghiere pagane erano generalmente piuttosto stringate). Inoltre, la preghiera non dev’essere ipocrita, dev’essere non esibita, bensì sentita, personale, silenziosa, in opposizione ai farisei. Nella preghiera, la richiesta di beni materiali dev’essere subordinata alla richiesta della venuta del Regno di Dio, l’interiorità deve prevalere sull’esteriorità.
Addentriamoci ora nella preghiera “Padre nostro”, che sarà ereditato dai Cristiani: esso è tramandato in due maniere differenti da Luca e da Matteo; la versione del secondo, è più ricca, è quella che si è “imposta” nella tradizione cristiana e con buona probabilità è il frutto di un rimaneggiamento della preghiera di Gesù. Come prima cosa, si può rilevare come, nel “Padre nostro”, Dio venga dapprima elogiato ed esaltato e, in seconda battuta, gli si rivolgano delle richieste. L’esaltazione di Dio avviene in tre momenti: a) “sia santificato il tuo nome”, b) “venga il tuo regno”, c) “sia fatta la tua volontà” (quest’ultima esaltazione è assente in Luca). L’esordio della preghiera quale si ha in Matteo – “Padre nostro” – è la tipica invocazione che si ritrova nelle “Diciotto benedizioni” e nella “Preghiera per i defunti”, preghiere che la tradizione ebraica rivolgeva già prima a Dio: si tratta, dunque, di una formula stereotipa. Dal canto suo, Luca esordisce soltanto con “Padre”, invocazione che si ritrova in quasi tutte le religioni (ma non nell’Islam), dagli Egizi ai Greci, e che dev’essere posta in relazione al fatto che, tradizionalmente, Israele è “figlio primogenito” di Dio. Lo stesso tema dell’avvento del regno di Dio era già diffuso nella religiosità ebraica anteriore e dev’essere inteso, oltre che nel più scontato senso materiale, in quello astratto di regalità divina che, per un verso, vige già ora e, per un altro verso, si attuerà solo in un futuro a cui si tende escatologicamente. La seconda parte del “Padre nostro” è dedicata alle richieste umane, proprio come nei Salmi: la prima richiesta è quella del “pane quotidiano”, che dev’essere inteso nel senso più materiale e anche in riferimento al passo biblico della manna piovuta dal cielo con cui può sfamarsi il popolo nel deserto. In secondo luogo, si avanza una richiesta concernente i debiti: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Con quest’espressione, Gesù adombra l’idea secondo cui, nella misura in cui noi perdoniamo gli altri, Dio perdona noi. Come terza richiesta, si chiede a Dio di liberare dalle tentazioni: “non indurci in tentazione”. Questa traduzione è ingannevole, perché fa parere che Dio tenti l’uomo: in realtà, dev’essere intesa in questo significato: “non lasciarci in balia della tentazione”. L’ultima richiesta avanzata nel “Padre nostro” è quella di affrancare l’uomo dal male: “liberaci dal male”.   
4) I Vangeli riportano episodi nei quali Gesù prega insieme coi suoi discepoli: pensiamo all’episodio della “trasfigurazione”, nel quale i discepoli vivono un’esperienza estatica, o a quando Gesù si raccoglie insieme ad alcuni discepoli per pregare sul monte. L’episodio forse più famoso è quello dell’“ultima cena”, in cui Gesù celebra un pasto di ringraziamento che i Vangeli presentano come cena pasquale, benché manchino i tratti tipici della Pasqua (ad esempio l’agnello).
5) Sono anche attestati episodi in cui vengono rivolte preghiere a Gesù: tali preghiere, tuttavia, non presentano i tratti del culto, giacché Gesù non è ancora diventato un oggetto di culto. Sono piuttosto preghiere con le quali si richiede a Gesù di sanare lebbrosi, di guarire disabili, di far camminare paralitici: sono piuttosto ambigue per il fatto che, pur non essendo ancora diventato oggetto di culto, Gesù è visto come una persona a cui abbandonarsi con piena fiducia. Sullo sfondo, sono già presenti i futuri atteggiamenti con cui ci si rivolgerà a Gesù quando diverrà oggetto di culto. In altri episodi, egli si presenta come intermediario che, nel sanare i malati, esegue la volontà di Dio.
Possiamo notare come il messaggio di Gesù, in origine, non fosse universale, bensì rivolto ai “figli perduti” di Israele: eppure nel suo agire erano implicite le basi per quell’universalizzazione del Cristianesimo che sarà successivamente operata da Paolo di Tarso. Com’è noto, Gesù opera in Galilea, terra in cui i pagani erano numerosi ma disposti, per così dire, a macchia di leopardo, con la conseguenza che v’erano zone in cui essi erano del tutto assenti. In particolare, i pagani risiedevano nelle città, mentre i Giudei prediligevano i villaggi e la loro refrattarietà alla penetrazione della cultura greca. Sappiamo però di una città, Sefforis, popolosa e sviluppata che stranamente non è mai menzionata nei Sinottici, benché fosse vicinissima alle altre città (Cafarnao) che vengono invece citate: forse Gesù non s’è mai voluto recare a Sefforis? E perché? Probabilmente perché in quella città c’erano i pagani, i quali esulavano dai suoi interessi e cadevano al di fuori del suo messaggio, il quale abbiamo visto essere rivolto soltanto agli Ebrei. Come dicevamo, è con Paolo di Tarso che il verbo cristiano si universalizza e, con esso, lo stesso messaggio di salvezza diventa universale.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

NOME AMATO DAL CIELO E INVOCATO SULLA TERRA – LA DISARMANTE FORZA DELLA PREGHIERA

http://www.zenit.org/it/articles/nome-amato-dal-cielo-e-invocato-sulla-terra

NOME AMATO DAL CIELO E INVOCATO SULLA TERRA

LA DISARMANTE FORZA DELLA PREGHIERA

Roma, 10 Settembre 2013 (Zenit.org) Mario Piatti, ICMS

Lungo la prima metà del corrente mese di settembre si susseguono, nella Liturgia, riferimenti espliciti a Maria Santissima: festeggiata, in particolare, nel giorno della sua Natività (l’8) e celebrata nella memoria del suo Santo Nome (il 12). Il popolo di Dio, da secoli, eleva il cuore alla Vergine, quasi a voler associare, nel breve arco di una settimana, il ricordo affettuoso del “compleanno” e dell’“onomastico” della sua dolcissima Madre.
Ella compare, sullo scenario della Storia – prima di Gesù – quale fecondo terreno di Grazia, disposto dalla sapiente mano di Dio per accogliere il suo Figlio prediletto. Nulla della “vita nascosta” di Maria, condivisa con i suoi cari nella intimità della sua dimora, sembra interessare il mondo, che segue altre vie e continua, in ogni epoca, a perseguire i suoi idoli e le sue illusioni.
Nel silenzio e nella umiltà di quel “piccolo mondo”, benedetto dal Cielo, apre gli occhi alla vita Colei che – unica tra le creature umane – non conobbe il contagio della colpa e attraversò indenne i nostri stessi sentieri. La sua presenza, tenerissima e casta, illuminò l’esistenza di Gioacchino e Anna, per abbracciare poi, di generazione in generazione, la vicenda e la storia di ogni uomo. Un angelo – secondo la narrazione degli Apocrifi – annunziò profeticamente a sua madre: “Anna, Anna, il Signore ha esaudito la tua supplica: concepirai e genererai; della tua prole si parlerà su tutta la terra” (Protovangelo di Giacomo, IV).
Il mistero di quella vita immacolata sorprende, per la sua disarmante semplicità, che la renderà gradita e facilmente accessibile a chiunque; e, al tempo stesso, stupisce per la sua impenetrabile profondità, che la riveste di una luce soprannaturale, di inarrivabile grandezza.
La Chiesa si manifesta, nello scorrere dei secoli, in quella medesima luminosità, discreta e solenne, propria della Vergine, riflesso vivo della limpida bellezza delle “cose di Dio”, che affascinano e invitano alla imitazione e alla contemplazione.
Umiltà, fervore, custodia incessante della presenza di Dio e della sua Santa Volontà scandiscono i giorni di Maria che – come ancora riportano gli Apocrifi – sarebbe stata accolta nel Tempio, seppur bambina, a tutela del suo candore. Il racconto della sua infanzia, redatto con tratti ingenui e con finissima delicatezza, parla della sua permanenza nella Casa del Signore, nutrita dalle mani di un angelo (cfr. Protovangelo di Giacomo, VIII).
In realtà, come sappiamo, i quattro Vangeli “canonici” nulla ci attestano dei primi anni di Maria, lasciando spazio alla nostra devota immaginazione e alla penna di molti autori, dai primi secoli fino alle “visioni” e alle intuizioni di mistici e di Santi.
Il mistero, che si realizza tra quelle mura, ha il sapore famigliare delle cose comuni, di tutti i giorni: del vociare domestico, del lavoro, dell’aria che rinfresca le nostre stanze, ogni mattino. Ma trasmette anche il riverbero della onnipotenza di Dio, che si compiace del cuore degli umili, perché in loro ritrova se stesso, come in uno specchio vivo e santo.
La salvezza del mondo sarebbe passata attraverso il Cuore di una sconosciuta fanciulla di Nazareth, aperta alla Grazia, colma dello Spirito del Signore. I pensieri di Dio, come sempre, non coincidono con le prospettive troppo anguste dell’uomo.
Anche la pace, sempre minacciata e sempre tanto invocata da tutti, passa attraverso canali inattesi e spesso disprezzati dalla “sapienza” mondana ed è impetrata e favorita dalla nostra supplica, dalle nostre ginocchia piegate, dalle mani congiunte per ottenere luce e propositi, finalmente retti, ai cosiddetti “grandi” della terra.
Là, dove imperano l’incomprensione e la violenza, Dio parla il linguaggio del perdono, del dialogo, dell’ascolto e del reciproco rispetto e cancella il crepitio delle armi per la disarmante forza della preghiera.
Ancora una volta il Papa – come i suoi predecessori – ha convocato le sue “divisioni”, ha passato in rassegna le “truppe scelte” di un esercito che non ha velleità di potere e di conquista, che non sia quello della carità e dell’amore. Ancora una volta Pietro ha testimoniato al mondo, incredulo, la onnipotenza della Grazia che, sola, può risanare alla radice la fonte ultima del male, purificando il cuore dalla lebbra dell’egoismo, della cattiveria e del peccato.
A Fatima la Madre di Cristo interpellò la generosità di tre bambini, nel 1917, chiedendo loro di pregare perché finisse la guerra – la prima grande Guerra Mondiale – e di lì a pochi mesi la pace tornò a regnare tra i popoli, seppure quale possesso precario e mai definitivo, almeno quaggiù in terra.
Oggi si rivolge a noi, con lo stesso assillo e con la medesima materna preoccupazione, perché apriamo il cuore alla supplica fiduciosa e con la nostra stessa vita ci rendiamo autentici “operatori di pace”. Guardando a Lei, impariamo, ancora una volta, le “strategie del Cielo” e anche noi ci rendiamo disponibili a collaborare per il vero bene dell’Uomo, nel tempo e nella Eternità.

Padre Mario Piatti icms è direttore del mensile “Maria di Fatima

Publié dans:Maria Vergine, preghiera (sulla) |on 11 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

VITA DI PREGHIERA – UN PENSIERO A SANTA MONICA

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VITA DI PREGHIERA – UN PENSIERO A SANTA MONICA

lunedì 27 agosto 2007

Un caro saluto a te che mi leggi!
Il pensiero di stamattina, rivolge lo sguardo verso una donna e mamma, perché il calendario universale ricorda Santa Monica, delineata dal figlio Agostino (Santo) nelle sue « Confessioni » come una madre cristiana e contemplativa.
Ho postato come titolo « Vita di preghiera », perché santa Monica è stata una donna di preghiera e la sua preghiera l’ha trasformata in vita quotidiana.
La sua stessa vita è stata elogiata, e continua ad esserlo, dalla parola di Dio (vedi Sir 26,1-21). La stessa Parola di Dio che preghiamo, ci descrive santa Monica come una donna virtuosa, un dono del Signore, l’ornamento più bello della casa.
Quale invito per tutti davanti una così grande santa della Chiesa cattolica? Una delle cose a prima impatto nella vita di questa donna è quello della preghiera fiduciosa. Ella andava alla Fonte per apprendere il modo di come pregare e la sua preghiera è diventata un gettare sempre le proprie speranze nel Signore (Sal 54,23) confidare sempre in Lui (Sal 36,3; 61,9).
Tanti possono essere gli ostacoli nella nostra quotidianità, ma nulla è impossibile a Dio, nulla è impossibile se ricaviamo quella forza necessaria dalla preghiera, dal quel « rapporto intimo di amicizia » (Santa Teresa d’Avila) con il Signore.
Questo rapporto conduce a vivere d’amore fino a morire d’amore, direbbe Santa Teresa di Lisieux. Quest’amore è una continua conversione del cuore che si fa ricerca del volto di Dio in tutte le situazioni della nostra storia, della nostra società.
L’umiltà è un’altro insegnamento di vita di preghiera di Santa Monica, dove possiamo trovare il vero incontro con Dio e non saremo più noi a pregare, ma saremo mossi dallo Spirito Santo. La preghiera dell’umile è quella che trasforma dentro e fuori di noi, perché penetra le nubi e giunge al cuore di Dio. Essa è simile a quella di un figlio che si solleva dalla sua miseria per gettarsi con fiducia fra le braccia del Padre.
Ascoltiamo l’invito che sgorga dal cuore (aggiungiamo: di una madre come Santa Monica), dalla stessa Parola di Dio: « Cercate il mio volto! Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto! » (Sal 27,8-9).
Buona preghiera!

Publié dans:preghiera (sulla), Santi |on 26 août, 2013 |Pas de commentaires »

LA NATURA MISTERIOSA DELLA PREGHIERA – CARLO MARIA MARTINI

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 LA NATURA MISTERIOSA DELLA PREGHIERA   

DI S. EM. CARD. CARLO MARIA MARTINI

Meditazione ai sacerdoti della diocesi di Milano tenuta il 30 ottobre 1991 a Rozzano, diocesi di Milano. Il testo è tratto da: Carlo Maria Martini, « Briciole dalla Tavola della Parola », Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp. 55-61.

Introduzione
Sono stato molto colpito dalla prima lettura della messa feriale di oggi, mercoledì della trentesima settimana «per annum», in particolare dove si dice: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).
È un brano che mi ha sempre affascinato, incuriosito anche inquietato, perché non facile da spiegare, in quanto si riferisce alla natura misteriosa della nostra preghiera. Possiamo farci aiutare nella nostra riflessione dalla spiegazione che Agostino dà delle parole di san Paolo.
Nella Lettera a Proba che viene proposta nell’Ufficio di Lettura delle settimane venticinquesima e ventiseiesima del tempo «per anno» – il Vescovo di Ippona risponde alla domanda: Che cosa vuol dire pregare?
A proposito dei vv. 26-27 della Lettera ai Romani po­ne l’obiezione fondamentale: Che cosa significa che lo Spirito intercede per i credenti? E risponde: «Non dobbiamo intendere questo nel senso che lo Spirito santo di Dio, il quale nella Trinità è Dio immortale e un solo Dio con il Padre e con il Figlio, interceda per i santi, come uno che non sia quello che è, cioè Dio» (1).
Dunque, se san Paolo sembra non avere difficoltà ad affermare che lo Spirito santo, cioè Dio, prega Dio, noi però teologicamente l’abbiamo.
Possiamo capire che il Figlio, in quanto incarnato in Gesù, prega il Padre; ma lo Spirito come fa a pregare il Padre?
Dietro a questo problema dogmatico, affrontato da Agostino, c’è poi tutto il problema della preghiera conscia e inconscia, della preghiera di cui ci accorgiamo o meno e quindi il brano della Lettera ai Romani costituisce una porta molto interessante per costringerci a entrare in questo mondo immenso.
Vorrei cercare di socchiudere almeno un poco quella porta incominciando col porre due premesse, quindi riprendendo l’espressione: lo Spirito intercede, prega, geme per noi.

Le due definizioni della preghiera
In una prima premessa richiamo le due definizioni tradizionali della preghiera, che non sembrano andare tanto d’accordo.
 - La preghiera è elevatio mentis in Deum, un elevare la mente a Dio. Il riferimento è anzitutto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di esaltazione, quella che troviamo bene espressa nel cantico di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore». O, ancora, nella recita del Padre nostro, quando diciamo: «che sei nei cieli», parole che indicano l’innalzamento degli occhi, la dimensione verticale dell’orazione, che sale dal basso verso l’alto.
- L’altra definizione è petitio decentium a Deo, che probabilmente è complementare alla precedente. La richiesta a Dio di ciò che conviene è una preghiera che si esprime soprattutto nella domanda, nella supplica, nell’implorazione, nella petizione. Se circa una metà dei salmi sono di lode e di esaltazione, l’altra metà sono di petizione, di supplica, di richiesta di perdono. Così pure il Padre nostro, se nella prima parte è elevatio mentis in Deum, nella seconda parte è petitio, richiesta di cose convenienti (il pane, la liberazione dalla tentazione, il perdono). Anche l’Ave Maria incomincia con l’elevazione della mente a Maria e a Gesù e poi si fa richiesta di preghiera per noi peccatori.
Ci sono dunque due linee che si intersecano, quella orizzontale e quella verticale, e costituiscono nel loro insieme la preghiera cristiana. Può essere allora utile, parlando della preghiera, mettere a fuoco ora l’uno ora l’altro dei due elementi, che si alternano anche nella nostra esistenza: a volte siamo più portati a elevare la mente a Dio (nel «prefazio» della messa, per esempio), in altri momenti alla petitio decentium a Deo (come nelle orazioni della messa).

Come si realizza questo secondo elemento della preghiera, che è la richiesta di cose convenienti?
Scrive Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime »(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).
Risuona la parola di Gesù: Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.
Concludendo, la preghiera di richiesta deve partire dal cuore, non va fatta superficialmente, deve essere un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Che cos’è conveniente chiedere nella preghiera
Una seconda premessa, limitandoci alla preghiera di petizione: che dobbiamo chiedere? La formula patristica dice: decentium, cose convenienti. E comincia il problema: che cosa ci conviene? Perché Dio non ci dona ciò che non conviene, pur se lo domandiamo. Non a caso Matteo conclude la riflessione sulla preghiera con queste parole: «quanto più il Padre vostro celeste darà cose buone a coloro che gliele chiedono», cose che convengono (Matteo 7, 11).
Paolo insegna che noi non sappiamo che cosa ci con­viene («Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare») e quindi dobbiamo istruirci sulle cose convenienti per poter pregare bene.
I Padri insistono soprattutto su una cosa conveniente, che esprimono con un’unica parola, ben indicata nella Lettera a Proba: «Quando preghiamo non dobbiamo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non diciamo piuttosto col salmista: « Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario » (Salmo 26, 4)?».
E Agostino specifica: si tratta della «vita beata» (3). Tale formula sintetica ha il vantaggio di una lunga tradizione filosofica: parte da Aristotele, è ripresa dallo stoicismo, riappare in Cicerone, è usata da Ambrogio.
La sola cosa che dobbiamo chiedere, l’unico oggetto fondamentale della richiesta è la vita beata, la vita felice. Continua la Lettera a Proba: «Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (…). Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbiamo però riflettere che a lui non importa tanto la manifestazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci (… ). Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo, perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare (…). E perciò che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: « Pregate incessantemente » (1 Tessalonicesi 5, 17) se non questo: desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla, quella vita beata che niente varrebbe se non fosse eterna?» (4).
La domanda che Dio esaudisce sempre, la domanda che è oggetto di gemito è la pienezza della vita, la vita eterna.
Ogni richiesta che non è orientata a questa non è conveniente e non può né deve essere oggetto di preghiera.
E quando non sappiamo se ciò che chiediamo è o non è ordinato alla vita beata, allora lo è sotto condizio­ne, lo è se e in quanto ci è utile per tale vita.
Mi sembra molto importante capire qual è la cosa fondamentale nella quale si riassume ogni nostro desiderio e ogni nostra richiesta. Noi, uomini e donne, noi persone umane storiche, siamo ciò che desideriamo; il nostro desiderio è il farsi della personalità. Se dunque il nostro desiderio culmina in questa pienezza di vita, diventiamo davvero in Cristo questa pienezza di vita.
Ma se i nostri desideri sono limitati, inferiori, noi stessi finiamo con l’essere persone limitate, blocchiamo il nostro sviluppo verso la pienezza della vita.
Forse a noi dice poco il termine «vita beata» che, invece, era tanto significativo per gli antichi. Lo stesso Nuovo Testamento usa un’altra espressione: «Regno di Dio»; le richieste «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà» sottolineano dunque che il desiderio e le invocazioni della seconda parte del Padre nostro sono subordinate al Regno, sono mezzi, condizioni per il suo avvento. E ancora, il Nuovo Testamento parla di «Spi­rito santo».
Gesù, conclude l’istruzione sulla preghiera nel vangelo secondo Luca, dopo aver esortato a cercare, a bussare, a chiedere, con queste parole: «Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo» (Matteo dice: «cose buone») «a coloro che glielo chiedono» (Luca 11, 13). L’oggetto della domanda è lo Spirito santo, che significa la vita con Cristo, l’essere con lui, la pienezza della vita beata che consiste nell’essere incorporati per sempre a Gesù nella Chiesa.
Le diverse espressioni (vita beata, Regno, Spirito santo) in realtà si completano, si integrano, si sovrappongono come l’oggetto fondamentale della preghiera di domanda, e quindi come l’oggetto del gemito, dell’attesa.
Proclamando, per esempio: «nell’attesa della tua venuta», esprimiamo il nostro desiderio di fondo, cioè che la pienezza del Regno si realizzi, che lo Spirito santo venga e purifichi ogni realtà, che l’umanità si ritrovi presto nella vita beata, nella perfetta pace e nella perfetta giustizia. Sant’Ambrogio usa anche un altro termine: il bene sommo, summum bonum, che ha forse il vantaggio di dire insieme l’essere di Dio e il suo comunicarsi a noi nello Spirito, nel Regno, in Gesù, nella Chiesa, nella Grazia, nella pienezza della redenzione.
Questo dunque è ciò che dobbiamo chiedere, con  assoluta certezza di ottenerlo, alla luce della Sacra Scrittura e dell’insegnamento dei Padri.

[1] Lettera a Proba 130, 14, 27 – 15, 28; CSEL 44, 71-73.
[2]  Ibid., 130, 9, 18 – 10, 20: CSEI. 44, GO-63.
[3]  130, 8, 15.17 – 9, 18: CSEL 44, 56-57.59-60.
[4]  Ibidem.

LA PREGHIERA DELLA POVERA GENTE

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/voillaume_pregare_per_vivere8.htm

LA PREGHIERA DELLA POVERA GENTE

René Voillaume
PREGARE PER VIVERE

ATTENDERE LA VENUTA DI GESÙ

Le nostre pesantezze e impotenze al momento di pregare ci portano, talvolta, a chiederei se non vi sia qualche metodo misterioso che ei possa indicare, finalmente, la via da seguire. Non credo che tale metodo esista e, comunque, non potrebbe essere diverso da ciò che il Signore ei ha già detto nel Vangelo. Gesù resterà sempre il maestro supremo della preghiera, non solo perché ne ha parlato con conoscenza di causa, ma per l’esempio della sua vita, perché ha pregato meglio di qualsiasi altro! Gesù ha vissuto la preghiera perfetta, in una vita particolarmente disturbata e talvolta schiacciante. Ma, soprattutto, egli resta il maestro della nostra preghiera perché lui solo, gratuitamente e per amore, può metterei nella intelligenza, nella memoria e nel cuore il vero spirito di preghiera. Ogni volta che Gesù aveva voluto condurre alcuni dei suoi apostoli a pregare con lui, il Vangelo nota che, benché scelti, essi finivano con l’addormentarsi. Sul Tabor, mentre il loro maestro parlava con Mosè ed Elia della sua prossima morte, «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» (Le. 9, 32). Al Getsemani «egli ritorna dai suoi discepoli e li trova addormentati» (Me. 14, 37-40). Ma Gesù non si è né scoraggiato, né impazientito. Gli apostoli erano uomini rudi, costretti alla pesca notturna e abituati a ricuperare un arretrato di sonno in qualunque momento della giornata. Chi di noi, nella pesante stanchezza di uomo della vita operaia, non ha sperimentato questa rivalsa del corpo sullo spirito? Ci si addormenta, non importa dove! Credo che dovette succedere qualche volta anche al Signore di riposarsi di giorno delle notti abbreviate dall’afflusso dei visitatori o dalla preghiera troppo mattutina: durante l’attraversata del lago in tempesta, «egli stava a poppa dormendo sopra un guanciale» (Mc. 4, 38). Questi fatti ci mettono a nostro agio e nella realtà della nostra esistenza poiché, malgrado tutto, Gesù ha ben trovato il modo di lavorare il cuore dei suoi apostoli fino a insegnare loro a pregare.
Non bisogna, tuttavia, concludere che noi non abbiamo altro da fare che attendere la visita dello Spirito di Gesù. Dobbiamo andarvi incontro e sforzarci lungo la via stretta. Bisogna sforzarsi alla preghiera e, contemporaneamente, attendere il Signore per pregare veramente. In tutto ciò, non vi è contraddizione. Salvo quando il Signore viene a fare tutto da solo, bisogna saper tenere conto di queste due realtà: la speranza umile e sempre rinnovata della sua visita e la nostra attesa nello sforzo.

Le condizioni di una preghiera autentica
La nostra costante inquietudine è quella di sapere come trovare nella nostra vita le condizioni per una preghiera autentica e come fare per dedicarci generosamente. Ci è forse successo di dubitare, in certi momenti, che la cosa sia possibile. Davanti alla gravità di questo problema, confesso di essermi sentito talvolta come all’inizio di una via sconosciuta, di un sentiero terribilmente stretto e pericoloso. Una delle principali obiezioni mosse alla vita che conduciamo è che la fatica, il chiasso di cui per lo più siamo circondati e, insieme, la pesantezza di spirito provocata da uno sforzo fisico penoso e prolungato, sembrano escludere qualsiasi possibilità di una autentica vita di orazione. Questo problema è grave non solo per noi, ma per milioni di povera gente, di lavoratori asserviti per vivere a un lavoro spesso massacrante. Capisco bene che ci dovrebbe essere una risposta a questa obiezione. Dio ci spinge a condividere sempre più integralmente la sorte dei poveri, pur approfondendo nelle anime nostre il senso della nostra vocazione alla preghiera; e poi, leggendo il Vangelo, non sembra che Gesù abbia mai voluto fare della preghiera qualcosa di raro, di riservato agli uomini che godono della calma e della libertà, necessarie a una meditazione fruttuosa: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e troverete il riposo per le anime vostre» (Mt. 11, 28-30).
Sì, bisogna ammetterlo: al momento della preghiera noi saremo, per lo più, incapaci di meditare, di pensare. E tutto il problema è di sapere se abbiamo un’altra via per raggiungere Dio nella preghiera. Per un certo periodo, più o meno lungo, secondo i casi, sarà normale e anzi utile che il nostro dialogo con Dio inizi con uno scambio in cui abbiano la loro parte il pensiero, l’immaginazione e le emozioni sensibili. Ma questo dialogo deve poi progredire verso una zona di noi stessi situata molto al di là della sensibilità, delle immagini, della riflessione. A ogni tappa, non temiamo di semplificare, e anche di attualizzare, il nostro incontro con Dio. All’inizio della nostra vita di preghiera – inizio che può durare a lungo – sappiamo per esempio aprire il Vangelo o la Bibbia, non tanto per meditare le parole divine, quanto per tenerci sotto la loro luce, leggendo e rileggendo attentamente i versetti senza analizzare, senza discutere con noi stessi. Tutto ciò è semplice, compatibile con la dura fatica delle giornate di lavoro. E sono inizi a cui converrà talvolta tornare, molto più tardi, lungo la strada. Ma soprattutto non ancoriamoci mai a dei mezzi, qualunque siano. Andiamo a Dio con tutto il nostro essere, come possiamo; innanzi tutto con le nostre attività umane, che la presenza della grazia in noi rende soprannaturali. Ma sono la fede, la speranza e la carità, viventi in noi, che ci portano in Dio stesso. Qui ci vorrà molto coraggio. Ma bisogna sapere che tali atti non dipendono dalle impressioni sensibili e confortanti che ne riportiamo; ci basta sapere che siamo figli di Dio e che vagliamo darci a lui. Dimentichiamo, generalmente, che la parte migliore del nostro essere non è quella che possiamo sentire. Possiamo certo aver coscienza di noi stessi mediante i nostri pensieri, atti di volontà e sentimenti; ma la nostra natura di figli di Dio ci sfugge. Potremo cosi giungere a esercitare in modo vitale la fede, la speranza e la carità, il che è già una preghiera vera, anche se spoglia. Forse, allora, il Signore verrà lui stesso a completare in noi le sue misericordie. Non è necessario che lo sentiamo. La nostra preghiera non è mai così reale, casi profonda, come quando si svolge al di fuori del campo della coscienza sensibile. Il vero orante si perde di vista, il suo unico sguardo è rivolto a Dio ed è uno sguardo di pura fede, di speranza e di amore che niente di sensibile, e spesso niente di sentito} consolerà. Ci sembra di mancare di fiducia, e ogni punto di appoggio ci viene a mancare; tuttavia, è allora che cominciamo ad agire sul piano propriamente divino. Crediamo di essere a un cattivo passo ed è proprio allora che la nostra vita si ordina finalmente come Dio la vuole. Quando camminiamo solo spinti dalla fede pura, quando restiamo davanti al Santissimo senza troppo saperne il come e il perché, quando le parole del Vangelo o della liturgia ci sembrano spoglie di ogni sapore, di ogni potere emotivo, allora, se siamo stati fedeli e se Dio lo vuole, si compie in noi il mistero della fede e incominciamo a penetrare nella zona dell’anima nostra in cui sgorga la vita divina. È solo alla luce di questa prospettiva e convinti di una tale verità, che possiamo riflettere sul problema della preghiera.
Meditare non è dunque pregare; tutt’al più la meditazione può essere la preparazione alla preghiera e, per alcuni, la porta d’ingresso. La meditazione non è preghiera e non è neppure essenziale come preparazione alla preghiera quando circostanze indipendenti dalla nostra volontà ci obbligano a seguire un’altra strada.
Poiché, vi è un’altra strada. Ancor più: la meditazione può talvolta diventare un ostacolo alla preghiera, come uno schermo fra Dio e noi, una strada troppo facile che invita al girovagare.
Dio non può venirci incontro che nella misura delle realtà del nostro amore e questa non si trova che sul sentiero della fede pura. Questo sentiero passa per l’oscurità della spogliazione della ragione e del sensibile. Ora, una tale spogliazione è richiesta non solo dalla natura stessa della purificazione, ma anche dal modo abituale di agire del Signore Gesù che non può accostarsi a noi senza bruciarci con la sua agonia e la sua croce. Coloro che passano per la meditazione dovranno necessariamente arrivare qui, e lo Spirito Santo, se sono fedeli, verrà alla sua ora a spezzare un ordinamento troppo razionale della loro « vita spirituale », rendendo impossibile ogni meditazione, per obbligare la loro volontà a tendere direttamente verso Dio solo, al di là di ogni idea e di ogni sentimento. Poiché neppure il sentimento, più della meditazione, è preghiera.
Dobbiamo credere fermamente che la verità della preghiera, la via dell’unione a Dio è al di là dei sentimenti, delle parole, delle idee. Si minimizza troppo la realtà della preghiera, non se ne ha un’idea abbastanza elevata. Non si crede abbastanza che Dio possa venire veramente in noi, per fare la nostra preghiera; oppure, se ci si crede, si ha tendenza a riserva me la riuscita a un piccolo numero di privilegiati, a coloro a cui il chiostro procura una cornice di silenzio favorevole alla meditazione. Perché dovrebbe essere così? Coloro la cui condizione di vita impedisce di meditare sarebbero, perciò, impossibilitati a pregare? La preghiera non è forse al di là della riflessione? I poveri non possono meditare; non hanno testa per fare ciò; non hanno la cul~ tura richiesta, non conoscono il meccanismo della meditazione, oppure sono troppo stanchi. Condividendo la vita dei lavoratori, noi dobbiamo condividere anche il loro modo di pregare.
A forza di coraggio perseverante, con atti di fede e di amore semplici e nudi potremo metterci davanti a Dio e attenderlo aprendogli il fondo del nostro essere, così come è. Il risultato sarà spesso una preghiera dolorosa, pesante, in apparenza poco spirituale; ma attraverso questo sforzo di fede, nell’atteggiamento coraggioso del corpo, si tradurrà la sete e l’attesa di Dio che, nondimeno, è nell’intimo nostro. La volontà vuole pregare; essa desidera e chiede la preghiera. Certi giorni, avremo solo questa povera cosa da offrire al Signore, ed è a lui che competerà di fame una vera preghiera e un mezzo di unione con lui.
Dovremo, senza dubbio, essere pazienti, costantemente pronti a una coraggiosa perseveranza, attraverso le oppressioni e gli abbrutimenti. Per alcuni, questa continua vigilanza nell’esercizio, già molto spoglio, delle virtù teologali, durerà forse tutta la vita. Dio, che ci guida, lo sa. Ma noi possiamo e dobbiamo domandare, umilmente e incessantemente, al Signore Gesù di compiere in noi questo dono, di venire lui stesso a pregare in noi, in modo inenarrabile, quella preghiera che lui solo può dire al Padre suo. E bisogna pur direi che un’autentica unione, nella dura vita fisica, come può essere la nostra, potrà rivestire delle forme così semplici, direi volentieri così banali, che non avremo sempre necessità di riconoscerla come tale.
Non dobbiamo dunque. subire la nostra vita di fatica e di lavoro come una condizione inferiore e sfavorevole, ma abbracciarla risolutamente come un mezzo privilegiato di purificazione e per noi di introduzione, se Dio lo vuole, al dono gratuito dell’unione divina. Dobbiamo avere il desiderio di andare direttamente verso una preghiera dolorosa di fede. L’impossibilità a meditare, benché provenga da circostanze esteriori puramente materiali, potrà allora divenire, sotto l’azione divina, un vero passaggio all’orazione di fede. Il Signore non ci ha promesso altro. Per la povera gente, sono sicuro che il Signore deve accettare questo itinerario ridotto; ma credo che, per meritare questo gradimento, bisogna essere umili e veramente piccoli.

Perseverare con coraggio
Non abbiamo paura di perderci su questo cammino; non potremo temere nulla, a patto di perseverarvi con coraggio: è questa, anzi, la sola condizione veramente essenziale. Gesù non ci ha chiesto altro. È notevole, che riunendo tutti gli insegnamenti del Signore sulla preghiera non vi si trova quasi che una sola raccomandazione: la perseveranza!
Non temiamo di sentire nella nostra preghiera e dalla nostra preghiera stessa, un senso di completo disgusto per le nostre debolezze, le nostre colpe, la nostra miseria. Rileggiamo la parabola del fariseo e del pubblicano, entrambi saliti al tempio per pregare, e capiremo perché le preferenze del Signore sono chiaramente per il pubblicano, timido e consapevole delle sue colpe. È anzi probabile che più la nostra preghiera sarà stata generosa, e più sarà stato lancinante e opprimente il senso della nostra Incapacità. Che importa! Andiamo dunque innanzi a Dio così come siamo, e accettiamo di pregare come Dio ci chiede di farlo e non diversamente. Soprattutto, non temiamo di alleggerire la nostra preghiera e di renderla sensibile prendendo un libro. Probabilmente perderemo il nostro tempo. Si tratta solo di essere realmente presenti a Dio, non con il pensiero, l’immaginazione o i sentimenti, a cui succederà di vagabondare altrove, ma con il desiderio continuamente rinnovato della volontà. Talvolta, l’unico modo possibile di esprimere questa volontà ben reale, sarà il rimanere fisicamente presenti, in ginocchio, ai piedi del tabernacolo. E questo basterà. Nel tempo della preghiera, bisogna saperne accettare le esigenze. Dovremo quindi spesso andare alla preghiera come alla croce; ciò è assai più profondamente vero di quanto pensiamo, poiché è proprio nella preghiera che siamo associati al lavoro di redenzione che si operò sulla croce. Andiamo alla preghiera per perderci e saremo sicuri di realizzare pienamente la volontà del Signore, «poiché chi vorrà salvare la sua anima la perderà, ma chi perderà la sua anima per causa mia la salverà» (Mt. 16, 25).

La preghiera dei Piccoli Fratelli di Gesù
I Piccoli Fratelli di Gesù sono chiamati, da parte loro, a vivere uno sforzo di preghiera e di fede che talvolta sgorgherà dalla sofferenza della loro vita, ma più spesso, forse, dalla piena comunione con la miseria fisica e morale di coloro che li circondano. Questo inserimento nell’umanità dolorante è veramente legato allo sgorgare della loro preghiera, e per essi non ci può essere dosaggio in questo campo. Non meravigliamoci, dunque di scoprire che la nostra preghiera dovrà il più delle volte prendere la forma di uno slancio doloroso, di una oscura attesa o di una sete insoddisfatta tesa verso Gesù salvatore, in una consapevolezza della nostra totale incapacità, così chiara, in certi momenti, da essere dolorosa. Non credo che sia nella nostra vocazione ricevere una forma di orazione in cui potremmo fermarci a riposare. Per amore, noi abbiamo legata la nostra sorte agli uomini che sono penosamente in marcia verso la luce. Attraverso l’esercizio della preghiera di fede, otterremo loro quel minimo di fede indispensabile per orientare le loro vite verso Dio; con lo sforzo della speranza che, in certe ore, solleverà pesantemente il nostro cuore verso Gesù, daremo sollievo a quelli che disperano; e con un amore che sarà soprattutto una sete mai spenta di trovare Gesù o di possederlo maggiormente, con questa forma di amore che è desiderio, più che riposo nel possesso, otterremo per gli uomini, curvati verso terra, di desiderare, sia pur confusamente, colui che è tutto l’amore. È in questo senso, che lo Spirito Santo lavorerà nel nostro cuore, ed è bene che sappiamo in quale direzione ci condurrà per non disturbare la sua azione in noi, e perché siamo a nostro agio in questa forma di preghiera.
Come sempre, Gesù deve essere il nostro modello. Noi siamo più specialmente chiamati a rivivere la preghiera che saliva dal suo cuore quando era premuto dalla folla dei malati e dei poveri, stanco della fatica del cammino, tra la polvere delle strade, quando era disturbato e sollecitato da tutti, al punto da non trovare più il tempo per mangiare.
È anche la faticosa e sanguinosa preghiera dell’agonia nel Getsemani, quella preghiera di offerta di se stesso, unita a una visione acuta della miseria degli uomini, questa miseria che noi accostiamo e che niente dovrebbe riuscire a farci dimenticare. È la preghiera che è rimasta come la piccola fiammella vacillante di un lume celato sotto il pesante mantello della stanchezza del suo corpo ferito, mentre si trascinava sulle pietre della via, schiacciato dalla croce e durante gli ultimi sforzi dell’agonia. Il più grande atto della vita di Gesù, la più grande prova del suo amore, l’atto che salvò il mondo, non si è compiuto nel riposo e nel fiorire di una preghiera calma – come avrebbe potuto avvenire – ma nello sforzo doloroso di una preghiera che non trovava più un cammino facile fra le fatiche di un corpo spezzato dalla sofferenza.
La nostra preghiera non è separata dalla nostra vita di carità, di disponibilità, di partecipazione agli affanni e al lavoro dei poveri. L’abbiamo provato tutti; tutti abbiamo meglio capito che non potremmo separare questo ricordo da quello di Gesù e facilmente ci sale dal cuore un gran desiderio di preghiera contemporaneamente a un doloroso sentimento di impotenza. Bisognerà far crescere questo desiderio di preghiera ma, soprattutto, bisogna che esso si concluda in un atto di preghiera. L’azione dello Spirito Santo è abbastanza multiforme per far nascere e stabilire in noi una preghiera continua, quella alla quale Gesù chiama tutti gli uomini, tutti i poveri peccatori, e alla quale dobbiamo tendere con tutta la nostra fede; Gesùnon può burlarsi della povera gente e, se esige da noi una cosa, è perché essa è possibile con il suo aiuto. Portare alla perfezione dell’amore la preghiera del pubblicano, quella della peccatrice, quella di tutti i malati e i ciechi che assediano Gesù giorno e notte: è a questa grazia che dobbiamo aprire il nostro cuore. Allora, la nostra preghiera sarà nella nostra vita e non a fianco di essa, e vi troverà il suo alimento, perché avremo imparato a guardare ogni cosa, nella fede, con gli occhi stessi del Signore.
La nostra preghiera deve anche essere una adorazione. Il contatto troppo continuo con gli uomini rischia di farci dimenticare questo aspetto. Non lasciamoci trascinare, sotto il pe. so delle sofferenze dell’umanità, a cedere alla tentazione, provata dagli apostoli quando furono testimoni dell’atto di inutile sciupio di Maddalena, che spargeva un profumo prezioso sul corpo del Cristo. Gesù merita per se stesso di essere adorato, amato, che si perda del tempo per lui, anche quando vi sono al mondo esseri che piangono e soffrono. Vi è in questo aspetto di perdita di tempo per amo. re, sotto cui ci si presenta talvolta l’atto della preghiera pura, un mezzo per verificare il valore della nostra fede nella trascendenza divina e per purificare i nostri rapporti con gli uomini.
Raramente questo aspetto della nostra vita che non serve a niente e non è utile a nessuno sarà capito, e questo costituirà una tentazione di più, soprattutto in un ambiente in cui l’effìcacia acquista un criterio di valore assoluto. Mi pare, tuttavia, che anche allora, la nostra preghiera non potrà tendere alla contemplazione nel mistero di Dio allo stesso modo di quella di un solitario: anche qui non potremo separarci dal peso delle anime e dalle loro miserie, che sentiremo sempre gravare su di noi. La nostra preghiera sarà più vicina a ciò che avveniva quando Gesù, stanco per la fatica, saliva sulla montagna a pregare in segreto. Come non avrebbe portato con sé, nella sua anima di redentore, tutto quel cumulo di sofferenze morali e fisiche che gli erano sfilate davanti durante la giornata? Ritroveremo, forse, attraverso ciò, un’adorazione più pura. L’adorazione è l’ammirazione del mistero supremo e nascosto della divinità. Sappiamo, da Gesù, che questo è un mistero di amore e di misericordia, poiché si è espresso interamente nei gesti divini della incarnazione e della redenzione. Una adorazione che sgorga da un cuore totalmente disponibile al prossimo è la vera e pura adorazione.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 18 juin, 2013 |Pas de commentaires »

CARLO MARIA MARTINI – ESERCIZI SPIRITUALI CON IL PADRE NOSTRO – I MEDITAZIONE

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/martini_padrenostro2.htm

CARLO MARIA MARTINI

NON SPRECATE PAROLE

ESERCIZI SPIRITUALI CON IL PADRE NOSTRO

I MEDITAZIONE

I contesti evangelici del Padre Nostro

La prima meditazione che vi propongo sarà piuttosto breve, direi introduttiva e anche un po’ esegetica, formale, pur restando valido quanto abbiamo detto. La dividerò in tre parti.
Una prima parte di lectio, dove ci fermeremo sui versetti di Lc 11 e di Mt 6 riferiti al Padre Nostro.
Poi una seconda parte di meditatio, in cui proporrò qualche riflessione sintetica sui contesti del Padre Nostro, sull’occasione in cui viene insegnato. Per concludere con una contemplatio nella quale vorrei mettere a fuoco quali atteggiamenti ci sono suggeriti per questi giorni dai brani evangelici.
Sappiamo che i vangeli in cui il Padre Nostro è riportato sono due. E c’è da stupirsi, perché vorremmo che fossero tre, vorremmo che pure in Marco ci fosse il Padre Nostro. Gli esegeti discutono se non l’ha riferito perché non lo conosceva oppure perché non era preoccupato di tramandare tutte le parole di Gesù.

Il Padre Nostro nel vangelo di Luca
Leggiamo anzitutto Lc 11. Il contesto in cui il Padre Nostro viene insegnato si situa durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme che inizia in 9,51, quindi già abbastanza avanti nella sua biografia. Ricordiamo che a Gerusalemme c’è una tradizione, testimoniata dalla basilica del Pater noster, secondo cui la preghiera sarebbe stata insegnata là, sul monte degli Ulivi, verso la fine della vita di Gesù. In ogni caso, per Luca l’insegnamento del Padre Nostro è tardivo.
- «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare» (11, 1a). Questo è avvenuto molte volte nella vita di Gesù: per esempio la notte precedente la scelta dei dodici apostoli (cf Lc 6, 12); la notte seguente la moltiplicazione dei pani, sempre presso il lago («Salì sul monte, solo, a pregare» – Mt 14,23); la mattina dell’inizio del suo ministero a Cafarnao, quando si alza presto e va in un luogo appartato a pregare («Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» – Mc 1,35); al Getsemani, sul Tabor e in altre circostanze ancora.
- E proprio in una di queste occasioni, «quando ebbe finito» – nessuno ha voluto interromperlo, vedendolo molto raccolto e concentrato – «uno dei discepoli gli disse: « Signore, insegnaci a pregare »» (11, 1b).
È interessante che la domanda sia posta da uno dei discepoli, non da tutti e non da un discepolo qualificato come Pietro o Giacomo o Giovanni. Egli esprime il desiderio comune, che gli altri non osavano manifestare.
- E continua: «Come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (11,1c). Noi non sappiamo nulla della preghiera insegnata dal Battista ai suoi discepoli, ma è probabile che egli, come avveniva nella comunità di Qumran, desse indicazioni in proposito. Qui comunque si suppone che il Battista insegnava a pregare.
Non è facile capire che cosa il discepolo chiedeva veramente. Potremmo rivolgerci a lui e domandargli: spiegaci che cosa volevi. Volevi che Gesù ti insegnasse con quale contenuto bisogna pregare? Lo si dedurrebbe dalla risposta; e tuttavia ci stupisce, perché di contenuti gli Ebrei ne avevano già tanti, basti pensare all’immensa ricchezza dei salmi. Oppure la tua domanda era sul modo di pregare, quel modo che Gesù indica in Mt 6, 6: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto»?
Era dunque sull’atteggiamento esteriore: in ginocchio, con gli occhi chiusi, in un luogo appartato?
Oppure era sull’atteggiamento interiore, che sviluppa distesamente Luca quando raccomanda la perseveranza dell’ orazione (11,5-8) e afferma: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete» (v. 9)?
Quale delle tre ipotesi interpreta la richiesta del discepolo? Probabilmente tutte e tre. In ogni caso Gesù prende la domanda come riferita al contenuto.
- «Ed egli disse loro: « Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, / venga il tuo Regno; / dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e perdonaci i nostri peccati, / perché anche noi perdoniamo ogni nostro debitore, / e non ci indurre in tentazione» (11,2-4).
L’istruzione viene poi prolungata nel riferimento all’ atteggiamento interiore con cui pregare, piuttosto ampio mentre la preghiera è di per sé brevissima – tre versetti, cinque domande espresse in modo lapidario.
Cerchiamo di capire le parole di Gesù.
- Comincia da un esempio concreto: «Poi aggiunse: « Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti, e se quegli dall’ interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzèrà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza »» (vv. 5-8). È un esempio concreto più lungo del Padre Nostro.
Gesù passa quindi all’esortazione diretta, triplice: «Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (vv. 9-10).
E ancora un esempio molto incisivo: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?» (vv. 11-12).
Infine la conclusione: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono!» (v. 13). È interessante che non sia ripresa nessuna delle domande del Padre Nostro, ma si parla dello Spirito santo. Forse per questo una variante di manoscritti molto antichi aggiunge, dopo la richiesta del pane quotidiano: «Il tuo Spirito santo venga su di noi e ci purifichi».
Gesù inizia da un contesto concreto, dalla sua preghiera, e risponde a una domanda, prima con un contenuto, poi esplicando a lungo gli atteggiamenti di perseveranza instancabile nell’ orazione. Atteggiamenti di perseveranza che saranno ripresi anche altrove nel vangelo secondo Luca, come nella parabola del giudice iniquo e della vedova importuna: «Disse loro una parabola stilla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: « C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi. E il Signore soggiunse: Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? »» (18,1-8). È questo l’atteggiamento di cui Gesù sottolinea l’importanza.

Il Padre Nostro nel vangelo di Matteo
Il contesto matteano del Padre Nostro si colloca nel quadro del Discorso della montagna, che comprende i capitoli da 5 a 7 del vangelo.
Dopo le antitesi del c. 5, Gesù passa, nel c. 6, a descrivere tre atti di culto, di religione: elemosina, preghiera e digiuno. Di ciascuno insiste che non vanno compiuti per essere visti dagli uomini. In tale contesto, a proposito del secondo atto di culto, è inserito il Padre Nostro.
- Anche in questo caso la descrizione è assai ampia. Dapprima Gesù stigmatizza la preghiera per così dire dei religiosi ipocriti del suo popolo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini». Segue il giudizio negativo: «In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (6,5); a dire: ciò che hanno fatto non serve a niente.
In un secondo momento sottolinea l’atteggiamento positivo: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (v. 6).
È un’istruzione anzitutto sull’atteggiamento esteriore, e successivamente interiore, della preghiera: nel silenzio, nel raccoglimento, nel nascondimento.
- Riprende quindi l’esortazione riferendosi ai pagani: «Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di essere ascoltati a forza di parole» (v. 7). Accenna probabilmente alle monotone invocazioni nei templi che venivano recitate all’infinito. Ricordo di aver visto in qualche rappresentazione o in qualche film, e anche visitando monasteri o templi orientali, la ruota della preghiera che viene girata ininterrottamente, così che l’invocazione sia sempre ripetuta davanti a Dio.
«Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (v. 8). Viene perciò criticata la preghiera che pretende di far conoscere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno. Notiamo che c’è una certa tensione rispetto al passo di Luca che affermava: insistete nella preghiera. Gesù ammonisce: non pensate che la vostra insistenza sia magica.
- Proprio in tale contesto insegna il Padre Nostra «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli / sia santificato il tuo nome; / venga il tuo Regno; / sia fatta la tua volontà, / come in cielo così in terra. / Dacci oggi il nostro pane quotidiano, / e rimetti a noi i nostri debiti / come noi li rimettiamo ai nostri debitori, / e non ci indurre in tentazione, / ma liberaci dal male» (vv. 9-13). Preghiera più lunga di quella di Luca che comprende due domande più tre; in Matteo sono tre più tre e addirittura, secondo alcuni, se si calcola l’ultima sdoppiandola, sono tre più quattro cioè sette.
Gesù continua parafrasando la penultima richiesta: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (vv. 14-15).

Qualche osservazione esegetica
Passando al momento della meditatio, possiamo domandarci: quale dei due contesti è il più originario? Quale delle due formule la più antica?
- Gli esegeti ritengono – penso con buone ragioni- che il contesto lucano è il più antico: non siamo all’inizio dell’attività pubblica, in un primo discorso programmatico, ma forse già un po’ avanti nel ministero. E si tratta di un’occasione concreta, la preghiera di Gesù, immersa nell’ esperienza vissuta. In Matteo invece l’insegnamento sembra inserito all’interno di un discorso: «Non sprecate parole… ma dite così» (cf 6,7-9).
Riteniamo perciò più probabile il contesto di Luca, pur se la questione non disturba molto l’esegesi.
Anche sull’ antichità della formula si è discusso: è più antica la formula breve o la formula lunga?
Oggi ci si accorda su una specie di compromesso: è più antica la formula breve di Luca, ma è più originaria la formula matteana; Matteo ha parole più arcaiche, Luca ha il contenuto più antico.
Noi useremo dell’una e dell’altra delle formule; mi è sembrato tuttavia utile introdurvi alla complessità della ricerca.
- Gli esegeti fanno inoltre notare che la preghiera in Luca è la terza di tre pericopi successive: la parabola del samaritano – la carità – (10, 29-37); il dialogo con Marta e Maria – l’ascolto della Parola – (10,38-42); la preghiera del Padre Nostro (11,1-4). Quasi a mettere in luce che carità, ascolto della Parola e preghiera sono inscindibili.
- Nel Padre Nostro di Matteo c’è poi una peculiarità interessante. Un’ analisi attenta mostra infatti che il Padre Nostro sta esattamente al centro del Discorso della montagna.
È un insegnamento per noi, perché siamo ammoniti che il Discorso della montagna non lo vive se non chi prega.

Indicazioni per la preghiera
In conclusione, vi suggerisco qualche applicazione per la preghiera personale.
Tutti noi, come il discepolo inno minato, abbiamo detto tante volte: «Signore, insegnaci a pregare!». Che cosa chiedevamo?
- Penso che molta gente, quando pone tale domanda, non di rado desidera anzitutto raggiungere quell’unità interiore, quel raccoglimento, quel possesso di sé, quella gioia di tenersi bene in mano che è caratteristica di una preghiera profonda. Si tratta di atteggiamenti positivi e utili, ma siamo ancora nell’ambito di una preghiera psicologica, tesa a ottenere alcuni benefici: imparare a essere calmo, tranquillo, raccolto, pacificato, coordinato, senza una sarabanda di pensieri che mi frulla per la testa . Di fatto coloro che si dedicano alle pratiche yoga o zen imparano simili cose: il raccoglimento, il dimenticare tutto, l’astrarsi dal mondo esteriore, il concentrarsi su un unico punto, magari sul nulla, l’eliminare ogni pensiero per vivere nella calma più assoluta.
Forse noi pure abbiamo bisogno di tali atteggiamenti per pregare bene. Ci vuole un minimo di concentrazione e unità, proprio perché la preghiera è anche salute psicologica.
- Noi vogliamo tuttavia chiedere a Gesù di insegnarci a pregare nello Spirito, soprattutto di insegnarci la disposizione interiore e quali siano le richieste da presentare.
Spesso quando iniziò la preghiera apro il testo della lettera ai Romani, là dove si dice che nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cf 8,26a) e dico: Signore, vedi che non so pregare. Però tu hai promesso lo Spirito in aiuto alla mia debolezza e lo Spirito intercede per me «con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8, 26b-27).
Quindi per me, per noi imparare a pregare vuol dire imparare ad affidarci allo Spirito che ci muove a recitare il Padre Nostro, fino a raggiungere quel bellissimo stato d’animo su cui ho meditato molte volte, in tanti momenti della mia vita: «Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,19-20).
- Oltre a questa disposizione fondamentale di abbandono allo Spirito, per il cammino degli esercizi, vorrei suggerirne qualche altra che Gesù ha messo in luce.
Abbiamo visto che ne ha evidenziate soprattutto quattro: il nascondimento, la sobrietà delle parole, la perseveranza e la fiducia filiale.
Pregando davanti a Dio, ognuno può scegliere quale di questi atteggiamenti gli è più necessario.
Certamente è necessaria la fiducia filiale: il Padre non mi lascerà mancare il pane quotidiano quando glielo chiedo.
Altrettanto necessaria è la perseveranza: in questi giorni proveremo fatica, caldo, sonno, nervosismo, aridità. Donaci, Signore, di perseverare!
E naturalmente abbiamo bisogno del nascondimento, perché gli esercizi sono la preghiera nascosta per eccellenza, sconosciuta al mondo e conosciuta solo da Dio.
Abbiamo inoltre bisogno di una certa sobrietà, che consiste non tanto nel pregare poco, bensì nell’imparare una preghiera distesa, non nervosa, che non cerca di forzare Dio, ma si affida amabilmente a Lui.

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