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LA PREGHIERA DI BENEDIZIONE

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LA PREGHIERA DI BENEDIZIONE

“… Benedite, poiché siete stati chiamati per ereditare la benedizione…” (1 Pietro 3,9)
La preghiera risulta impossibile se non si ha il senso della lode, che implica la capacità di stupirsi.
La benedizione (= ber’ ha) occupa un posto di spicco nell’ Antico Testamento.
Essa è come “una comunicazione di vita da parte di Jahweh”.
Tutto il racconto della creazione è punteggiato dalle benedizioni del Creatore.
La creazione è vista come una grandiosa “opera di vita”: qualcosa di buono e di bello insieme.
La benedizione non è un atto sporadico, ma un’azione incessante di Dio.
E’, per così dire, il segno del favore di Dio impresso nella creatura.
Oltre che un’azione che fluisce in maniera continuata, inarrestabile, la benedizione è efficace.
Non rappresenta un vago augurio, ma produce ciò che esprime. Ecco perché la benedizione (come il suo opposto, la maledizione) viene sempre considerata nella Bibbia irreversibile: non si può ritrattare né annullare.
Raggiunge infallibilmente lo scopo.
La benedizione è principalmente “discendente”. E’ Dio soltanto che ha il potere di benedire perché è Lui la sorgente della vita.
L’uomo, quando benedice, lo fa a nome di Dio, come suo rappresentante.
Tipica, a questo riguardo, la stupenda benedizione contenuta nel libro dei numeri ( 6,22-27):
“…Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il Suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il Suo volto e ti conceda pace…”
Ma esiste pure una benedizione “ascendente”.
L’uomo, così, può benedire Dio nella preghiera. Ed è questo un altro aspetto interessante.
La benedizione, in sostanza, vuol dire questo: tutto viene da Dio e tutto deve tornare a Lui nell’azione di grazie, nella lode; ma, soprattutto, ogni cosa va usata secondo il piano di Dio, che è un progetto di salvezza.
Fissiamo l’atteggiamento di Gesù nell’episodio della moltiplicazione dei pani: “…Prese i pani e , dopo aver reso grazie, li distribuì…” (Gv. 6,11)
Rendere grazie significa ammettere che ciò che si possiede è dono e va riconosciuto come tale.
In fondo la benedizione, come azione di grazie, comporta una duplice restituzione: a Dio (riconosciuto come Donatore) e ai fratelli (riconosciuti come destinatari, partecipi insieme a noi del dono).
Con la benedizione nasce l’uomo nuovo.
E’ l’uomo di benedizione, che è in armonia con tutto il creato.
La terra appartiene ai “miti”, ossia a coloro che non rivendicano nulla.
La benedizione, dunque, rappresenta una linea di confine che divide l’uomo economico dall’uomo liturgico: il primo tiene per sé, l’altro si dona.
L’uomo economico dispone delle ricchezze, quello liturgico, ossia l’uomo eucaristico, è padrone di se stesso.
Allorchè un uomo benedice non è mai solo: il cosmo intero si unisce alla sua minuscola parola di benedizione ( Cantico di Daniele 3,51 – Salmo 148).
La benedizione ci impegna ad usare la lingua in un unico senso.
L’Apostolo Giacomo, con frasi roventi, denuncia un abuso purtroppo molto frequente: “…Con la lingua benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. E’ dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei. Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce ed amara?Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi? Neppure una sorgente salata può produrre acqua dolce…” (Gc. 3,9-12)
La lingua viene dunque “consacrata” attraverso la benedizione. E noi purtroppo ci permettiamo di “sconsacrarla” con la maldicenza, il pettegolezzo, al menzogna, le mormorazioni.
Adoperiamo la bocca per due operazioni di segno opposto e pensiamo sia tutto regolare.
Non ci rendiamo conto che le due cose si escludono a vicenda. Che non si può, al tempo stesso, “ dire bene “ di Dio e “dire male” del prossimo.
La lingua non può esprimere benedizione, che è vita, e insieme gettare veleno che minaccia e addirittura spegne la vita.
Il Dio che incontro quando “salgo fino al Lui” nella preghiera, è il Dio che mi obbliga a “ridiscendere”, a cercare il prossimo, a trasmettere un messaggio di benedizione, ossia di vita.
L’esempio di Maria
E’ provvidenziale che sia rimasta una preghiera della Madonna : il Magnificat.
Così la madre del Signore ci fa da maestra nella preghiera di lode e di ringraziamento.
E’ bello avere Maria come guida, perché fu lei a insegnare a Gesù a pregare; fu lei che gli insegnò le prime “berakòth”, le preghiere di ringraziamento ebraiche.
Fu lei che fece scandire a Gesù le prime formule di benedizione, come facevano ogni mamma ed ogni papà in Israele.
Nazareth dovette diventare presto la prima scuola del ringraziamento. Come in ogni famiglia Ebraica si ringraziava dal “levar del sole fino al suo tramonto”.
La preghiera di ringraziamento è la più bella scuola di vita, perché ci guarisce dalla nostra superficialità, ci fa crescere nel rapporto con Dio, nella gratitudine e nell’amore, ci educa profondamente alla fede.

IL CANTO DELL’ANIMA
“Siate capaci di colmare la terra di Misericordia!
Riempite tutte le solitudini di oggi, tutte le
assenze di amore, tutte le nostalgie di accoglienza.
Siate mani di risurrezione.
Abbiate la gioia di Cristo Risorto
e presente in mezzo a noi;
la gioia della preghiera che giura sull’impossibile.
La gioia della fede, del chicco di grano,
seminato, forse per tanto tempo,
nell’oscurità della terra, squarciato dalla morte,
dalla persecuzione, dal dolore,
e che diventa, adesso,
spiga di pane, di primavera”.
(Suor Maria Rosa Zangara, fondatrice delle figlie della Misericordia e della Croce)

Publié dans:preghiera (sulla) |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

MARIA NELLA PIÙ ANTICA PREGHIERA EUCARISTICA

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MARIA NELLA PIÙ ANTICA PREGHIERA EUCARISTICA

Introduzione

L’anafora della Tradizione apostolica figura la più antica anafora eucaristica finora conosciuta. È un testo che affascina gli studiosi della liturgia. I motivi di tale fascino sono vari : l’antichità del testo, la teologia arcaica, l’influsso che ha esercitato sulla struttura e sui contenuti delle altre preghiere eucaristiche, l’aura di mistero che la circonda, poiché non sappiamo chi ne sia l’autore (attribuita un tempo a Ippolito di Roma), quale il luogo di composizione (di incerta origine – alessandrina ?, romana ?) quale la data precisa, se pure certamente molto antica :
Lo scritto risale al primo quarto del terzo secolo (vale a dire prima di 225) il testo scritto trasmette una tradizione che risale probabilmente molto più presto ancora ; l’originale greco è perso, ne abbiamo delle traduzioni latine, copte, arabi, etiopi…
In quel tempo, la creazione dell’anafora era libera, l’autore della tradizione apostolica ha scritto questo bel testo, come una proposta e non già siccome una norma fissa.
Nel 1970 è entrata nel Missale Romanum come Prece eucaristica II.

1) Presentazione dell’anafora
Il passaggio della liturgia ebraica alla liturgia cristiana fu progressivo. Il genere letterario dell’anafora eucaristica della tradizione apostolica è la Berakah, ed il Birkat hamazon, la preghiera ebraica che fa il memoriale degli avvenimenti della liberazione che Dio ha compiuto (senza un avvenimento di saluto, non c’è liturgia) e offre un ringraziamento a Dio per i beni della creazione.
Allontanandosi dai suoi modelli giudaici l’anafora della Tradizione apostolica rivolge immediatamente la lode riconoscente al Signore per aver inviato nel mondo il suo «diletto servo Gesù Cristo [...] come salvatore e redentore», nel Cristo la storia della salvezza è riassunta. Alla creazione vi è solo un riferimento: «per mezzo del quale [il Verbo] facesti ogni cosa ».
Questa preghiera si è ispirata alle omelie pasquali della liturgia della notte di Pasqua (la Pasqua nel suo doppio senso di passione dell’agnello messo a morte e nel senso di passaggio verso il Padre e verso la gloria) a cominciare dal celebre Perì Pascha di Meliton di Sardo nel secondo secolo.
È una preghiera trinitaria, si rivolge al Padre, per il Cristo, col santo Spirito : « [Noi] ti rendiamo grazie o Dio per il tuo diletto servo Gesù Cristo (…) [a te] Padre, e al Figlio con il santo Spirito »
La preghiera esprime una realtà su Gesù (cristologia): Gesù è il figlio amatissimo del Padre, come fu manifestato nel suo battesimo al Giordano ed alla sua trasfigurazione.
La preghiera esprime la sua missione di salvezza (soteriologia).
La preghiera esprime il disegno del Padre e l’unione del Padre con il Figlio: il Padre e il Figlio sono inseparabili. L’idea di messaggero sottolinea che il Cristo è mandato del Padre (Gv 5), compie la salvezza la quale è il disegno del Padre. Il Cristo è « il tuo Verbo inseparabile per cui hai creato tutto » si ispira del Prologo di Giovanni (Gv 1). Il Cristo è chiamato « servo », in latino « puer », in greco « pais » che significa servo, come nei carmi del servo del libro di Isaia.
Dio salva tramite la sua solidarietà con noi, perché si è fatto uomo.
Gesù è la manifestazione del Padre « si è manifestato come tuo Figlio », questa manifestazione è stata data sulla croce e nella Risurrezione.

Ecco il testo antico :
« Ti ringraziamo, o Dio, per[2] il tuo diletto Servo Gesù Cristo, che negli ultimi tempi mandasti a noi [come] salvatore e redentore e messaggero della tua volontà ;
lui, che è il tuo inseparabile Verbo, per mezzo del quale facesti ogni cosa, e [che], nella tua compiacenza, mandasti dal cielo nel seno di una Vergine ;
ed egli essendo stato concepito nel grembo, si incarnò e si manifestò [come] tuo Figlio, nato dallo Spirito santo e dalla Vergine.
Egli, volendo compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, stese le mani mentre pativa, per liberare dalla passione coloro che in te hanno creduto.
Egli, quando si consegnava alla volontaria passione, per sciogliere [il potere del] la morte e rompere i vincoli del diavolo per calpestare l’inferno e illuminare i giusti, per fissare il limite [della morte] e manifestare la risurrezione, prendendo il pane [e] rendendo ti grazie, disse: « Prendete, mangiate: questo è il mio corpo, che per voi sta per essere spezzato ». Allo stesso modo [ prese] anche il calice, dicendo : « Questo è il mio sangue, che per voi sta per essere versato. Quando fate questo, [voi] fate il mio memoriale ! »
Celebrando dunque il memoriale della sua morte e risurrezione [noi] ti offriamo il pane e il calice, rendendo ti grazie perché ci hai resi degni di stare dinanzi a te e di servirti.
E ti chiediamo di mandare il tuo Spirito santo sull’offerta della santa Chiesa, [perché,] radunando[li] in un solo [corpo], dia a tutti coloro che partecipano ai santi [misteri] di essere riempiti di Spirito santo, per la conferma della fede nella verità, affinché ti lodiamo e ti glorifichiamo per il tuo servo Gesù Cristo, per mezzo del quale a te [è] la gloria e l’onore, ( [a te] Padre, e al Figlio con il santo Spirito) nella tua santa Chiesa,ora e nei secoli dei secoli, Amen. »

Maria nell’anafora della Tradizione apostolica
Nel «rendimento di grazie», la Vergine è menzionata due volte (non sono ricordati infatti né gli angeli né i patriarchi né i profeti né gli apostoli o martiri) :
« Ti ringraziamo, o Dio, per il tuo diletto Figlio Gesù Cristo, che negli ultimi tempi mandasti a noi come salvatore e redentore e messaggero della tua volontà [...], mandasti dal cielo nel seno di una Vergine ed egli essendo stato concepito nel grembo, si incarnò e si è manifestò come Figlio tuo, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine».
– «gli ultimi tempi» sono quelli in cui Dio ha mandato sulla terra il suo «Figlio diletto», il suo «Verbo inseparabile» perché si facesse uomo. L’espressione «ultimi tempi» è da collegare con Galati 4,4 («Quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna») e con la grande tradizione giovannea del Figlio quale «inviato dal Padre». Il tempo in cui è venuto Gesù è l’ultimo non solo in senso cronologico, ma anche in senso qualitativo : determina la «pienezza del tempo», espressione che designa il compimento definitivo dell’epoca preparatoria e l’inizio di un’epoca nuova che dà significato e valore a tutto l’arco della storia.
- « mandasti a noi come salvatore e redentore e messaggero della tua volontà [...], che hai mandato dal cielo nel seno di una Vergine » : l’Incarnazione è un invio : in essa uno invia, il Padre, l’altro è inviato, il Figlio. L’invio ha un percorso di kenosis: dal cielo, cioè da Dio, al grembo di una Vergine. Lo scopo è la salvezza del genere umano.
- L’espressione « nel seno di una Vergine » attesta la fede della Chiesa nella reale umanità di Cristo contro la tendenza del docetismo gnostico a ridurre il corpo del signore a una semplice apparenza, Dio visita realmente il suo popolo ; l’espressione rileva anche la singolarità dell’evento e la sua origine divina: il fatto inaudito di una Vergine che concepisca e partorisca (cf. Is 7, l4 ; Mt l, 23 ; Lc 1,27. 31) è opera non dell’uomo ma dello Spirito di Dio (cf. Lc 1,35)[3] ; « Vergine » allude anche alla perfezione morale di Maria.
- « ed egli essendo stato concepito nel grembo » («in utero habitus») : ritroviamo affermata la realtà dell’Incarnazione. Tuttavia di essa viene considerata ora non tanto la scesa del Verbo nel grembo di Maria quanto la sua permanenza nel ventre della Vergine.
- «nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine». L’espressione riecheggia la formula del simbolo battesimale di cui la stessa Tradizione fornisce uno dei testi più antichi : «Credi in Cristo Gesù, Figlio di Dio, che è nato per mezzo dello Spirito Santo dalla Vergine Maria [...] è morto ed è risorto il terzo giorno ?» (Tradizione Apostolica 21). Il motivo per cui viene rivolta al battezzando questa domanda prima che egli venga immerso nelle acque del fonte battesimale è evidente: perché la concezione-nascita verginale di Cristo, Figlio di Dio, appartiene al nucleo centrale della fede.
Quest’arcaica menzione della Vergine non scomparirà più dall’anafora eucaristica ma sarà un elemento presente in ogni prece eucaristica, destinato ad acquisire progressivo rilievo cultuale.
Il motivo di tale menzione non è venerare la Madre del Signore ma glorificare Dio per il dono di Gesù, suo Figlio, nato dalla Vergine. Ma tale menzione, che ha luogo in un contesto marcatamente liturgico, mette in rilievo la funzione essenziale che Maria ha svolto nella storia della salvezza : essa è la madre Vergine di Cristo, Verbo di Dio, salvatore dell’uomo.
Dal punto di vista liturgico non è fuori luogo affermare che la venerazione alla Madre del Signore è sorta presso l’altare del Signore e il fonte battesimale.

[1] Cf. Meliton di Sardes, De corpo e anima, traduction de O. Perler, SC 123, Cerf, 1966, p.238-240
[2] Dobbiamo riconoscere alla preposizione latina « Per + accusativo » un valore causale (ringraziamo per Cristo, a causa di lui) e non semplicemente un valore mediale (ringraziamo per mezzo di Cristo).
[3] l’affermazione della maternità verginale era tanto più necessaria in quanto, fin dalla fine del secolo I, in ambienti eterodossi di matrice giudeo-cristiana gli ebioniti ed altri -, essa veniva negata : Gesù – sostenevano era figlio di Giuseppe e di Maria, concepito e nato come tutti gli altri uomini.
Bibliografia :
Ignazio CALABUIG, Il culto di Maria in occidente, In Pontificio Istituto Liturgico sant’Anselmo, Scientia Liturgica, sotto la direzione di A.J. CHUPUNGCO, vol V, Piemme 1998. p. 270
C. GIRAUDO. La struttura letteraria della preghiera eucaristica. Saggio sulla genesi letteraria di una forma. Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1981, (Analecta Biblica 92). Cap. VII / II. L’anafora della Tradizione apostolica, pp. 290-295.
C. GIRAUDO. Eucaristia per la Chiesa. Prospettive teologiche sull’eucaristia a partire dalla «lex orandi» Roma – Brescia I E. P .U .G . Morcelliana, 1989, pp. 410-411.

F. Breynaert

ENZO BIANCHI, LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ- LA PREGHIERA

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124067

ENZO BIANCHI, LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ

La preghiera, una relazione

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma…

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma nella libertà amorosa dei suoi atti, dei suoi interventi che lo mostrano essere egli stesso alla ricerca dell’uomo. È pertanto vero che, lungi dall’essere il frutto del naturale senso di autotrascendenza dell’uomo o l’esito del suo innato senso religioso, la preghiera cristiana, che contesta ogni autosufficienza antropocentrica, appare come risposta dell’uomo alla decisione gratuita e prioritaria di Dio di entrare in relazione con l’uomo. È Dio che, secondo tutte le pagine bibliche, cerca, interroga, chiama l’uomo, il quale è condotto dall’ascolto alla fede, e nella fede reagisce attraverso il rendimento di grazie (benedizione, lode ecc.) e la domanda (invocazione, supplica, intercessione ecc.), cioè attraverso la preghiera sintetizzata nei suoi due momenti fondamentali. La preghiera è dunque oratio fidei (Giacomo 5, 15), eloquenza della fede, espressione dell’adesione personale al Signore.
Al tempo stesso la rivelazione biblica attesta anche la dimensione della preghiera come ricerca di Dio fatta dall’uomo: ricerca come spazio che l’uomo predispone allo svelarsi, che resta libero e sovrano, di Dio a lui; ricerca come apertura dell’uomo all’evento dell’incontro in vista della comunione; ricerca come affermazione dell’alterità di Dio stesso rispetto all’uomo, come segno del fatto che egli non può essere posseduto dall’uomo anche quando dall’uomo è conosciuto; ricerca come elemento costitutivo della dialettica dell’amore, della relazione di dialogicità centrale nella preghiera. Se la preghiera cristiana è risposta al Dio che ci ha parlato per primo, essa è anche invocazione e ricerca del Dio che si nasconde, che tace, che cela la sua presenza. La dialettica amorosa presente nel Cantico dei Cantici, il gioco di nascondimento e scoperta, di desiderio e ricerca tra amante e amata può applicarsi anche alla preghiera. I Salmi lo mostrano: «o Dio, dall’aurora io ti cerco, la mia anima ha sete di te, mio Dio [...] ti parlo nelle veglie notturne, [...] il mio essere aderisce a te, la tua destra mi abbraccia e mi sostiene» (Salmo 63). E il dialogo amoroso presente nel Cantico è in fondo la realtà a cui la Scrittura vuole condurre l’uomo nel suo rapporto con Dio. È forse questa dimensione relazionale ciò che meglio esprime il proprium della preghiera cristiana, preghiera che si immette e vive all’interno della relazione di alleanza stabilita da Dio con l’uomo.
Posta questa fondamentale premessa, possiamo dire che, se la vita è adattamento all’ambiente, la preghiera, che è vita spirituale in atto, è adattamento al nostro ambiente vitale ultimo che è la realtà di Dio in cui tutto e tutti sono contenuti. Essenziale, come disposizione fondamentale della preghiera cristiana, è l’accettazione e la confessione della propria debolezza. Esemplare è l’atteggiamento del pubblicano della parabola evangelica (Luca 18,9-14) che prega presentandosi a Dio così com’è in realtà, senza menzogne e senza maschere, senza ipocrisie e senza idealizzazioni, e accettando come propria verità quello che Dio pensa di lui, lo sguardo di Dio su di lui. Solo chi è capace di un atteggiamento realistico, povero e umile, può stare davanti a Dio accettando di essere conosciuto da Dio per ciò che egli è veramente. Del resto ciò che davvero è importante è la conoscenza che Dio ha di noi, mentre noi ci conosciamo solo in modo imperfetto (cfr. 1 Corinti 13,12; Galati 4,9). Base di partenza per la preghiera è allora la confessione della nostra incapacità di pregare: «Noi non sappiamo cosa domandare per pregare come si deve, ma lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Romani 8,26). Da questa confessione scaturisce l’apertura all’accoglienza della vita di Dio in noi. La preghiera porta il soggetto a decentrarsi dal proprio «io» per vivere sempre più della vita di Cristo in lui, per vivere sotto la guida dello Spirito, per vivere da figlio nei confronti del Padre. Questo decentramento non ha nulla a che vedere con il «far il vuoto in se stessi» che scimmiotta atteggiamenti spirituali afferenti ad altre tradizioni culturali e religiose. È un decentramento finalizzato all’agape, all’amore. Infatti il fine della preghiera cristiana, che la distingue anche dalle forme di meditazione e dalle tecniche di ascesi o di concentrazione diffuse nelle religioni orientali, è la carità, l’uscita da sé per l’incontro con la persona vivente di Gesù Cristo e per pervenire ad amare gli uomini «come lui ci ha amati». Questa relazionalità, che è riflesso della vita del Dio trinitario e che abbraccia tanto Dio quanto gli altri uomini, è dunque il contrassegno fondamentale della preghiera cristiana.

BENEDETTO XVI – L’UOMO IN PREGHIERA (5) – 4 SETTEMBRE: SAN MOSÈ PROFETA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110601_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 1° giugno 2011

L’UOMO IN PREGHIERA (5) – 4 SETTEMBRE: SAN MOSÈ PROFETA

L’intercessione di Mosè per il popolo (Es 32,7-14)

Cari fratelli e sorelle,

leggendo l’Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosè, proprio come uomo di preghiera. Mosè, il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando. Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35).

Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.

Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c’è bisogno di salvezza.

La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto, per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 32,12). L’opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un’incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore, è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.

Poi, Mosè si appella alla fedeltà di Dio, rammentandogli le sue promesse: «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”» (Es 32,13). Mosè fa memoria della storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l’iniziativa. Non a motivo dei loro meriti, essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore (cfr Dt 10,15). E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L’intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l’intercessore solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera, egli rinuncia alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore. La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è neppure presa in considerazione dall’“amico” di Dio, che invece è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo la distruzione del vitello d’oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32). Con la preghiera, desiderando il desiderio di Dio, l’intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé. In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso – «cancellami» -, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull’alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio. E non solo si offre – «cancellami» -, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo. E così tutta la sua esistenza di uomo e di Figlio è grido al cuore di Dio, è perdono, ma perdono che trasforma e rinnova.

Penso che dobbiamo meditare questa realtà. Cristo sta davanti al volto di Dio e prega per me. La sua preghiera sulla Croce è contemporanea a tutti gli uomini, contemporanea a me: Egli prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo e l’anima umana. E ci invita a entrare in questa sua identità, facendoci un corpo, uno spirito con Lui, perché dall’alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui. Preghiamo il Signore perché questa identificazione ci trasformi, ci rinnovi, perché il perdono è rinnovamento, è trasformazione.

Vorrei concludere questa catechesi con le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […] né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).

 

A. TRAPÈ: INTRODUZIONE A SANT’AGOSTINO : UOMO DI PREGHIERA

http://www.augustinus.it/vita/uomo/index.htm

A. TRAPÈ: INTRODUZIONE A SANT’AGOSTINO – L’UOMO

CAPITOLO SETTIMO

UOMO DI PREGHIERA

Contro la curiosità (che è ben altra cosa dalla studiosità) Agostino si munisce con il raccoglimento interiore, indispensabile per lo spirito di preghiera e per la contemplazione. L’interiorità agostiniana non è solo un principio di metafisica o un assioma di dottrina spirituale, ma è insieme un programma di vita contemplativa: il vescovo d’Ippona la pone al centro della formazione sua e dei suoi discepoli.  » Tu infatti – scrive all’amico Nebridio – puoi abitare piacevolmente anche in compagnia del tuo spirito; si richiede invece un grande sforzo perché essi (si riferisce a quelli che erano con sé a Tagaste) possano fare la stessa cosa  » 1. Già a Cassiciaco raccomandava ai giovani Licenzio e Trigenzio di  » abituarsi a vivere in se stessi  » 2. Quanto a sé, mise in atto questo proposito fino alle mète più alte. Si vedano le Confessioni sulla cura che aveva per vincere la curiosità ed evitare ogni benché minima distrazione. Si accusa di lasciarsi distogliere dall’attenzione a gravi pensieri quando, in campagna, passando s’imbatte in un cane che insegue una lepre o, in casa, si ferma a vedere un ragno che dà la caccia alle mosche avvolgendole nella sua rete. È vero che da questi piccoli fatti prende lo spunto per lodare il Signore, ma, conclude,  » altra cosa è rialzarsi subito, altra non cadere « .
E dopo la costatazione della propria debolezza, il gemito del dolore e la speranza:  » Di tali miserie è piena la mia vita, e l’unica mia speranza è riposta nella tua misericordia grande assai  » 3. Perciò supplica il Signore che lo liberi dalle distrazioni o, come egli dice, dal multiloquio, quello che soffre interiormente anche quando tace con il labbro.  » Liberami, o Dio, dal multiloquio, che è dentro nella mia anima, misera al tuo cospetto e fiduciosa nella tua misericordia; poiché io non taccio con i pensieri anche quando taccio con la lingua. E se i miei pensieri non fossero se non quelli che piacciono a te, non ti pregherei di liberarmi da questo multiloquio. Ma molti dei miei pensieri, tu lo sai, sono pensieri di uomini, cioè pensieri vani. Dammi almeno di non acconsentire ad essi e, quando mi dilettano, di respingerli, senza fermarmi in essi quasi sonnecchiando  » 4.
Sostenuto da questa brama di solitudine e di silenzio interiore, Agostino percorse tutti i gradi della vita di orazione fino alla contemplazione più alta. La preghiera divenne l’atteggiamento abituale della sua anima. Ne abbiamo uno splendido documento nelle Confessioni. Dedicava alla meditazione e alla preghiera metà della notte, la prima o la seconda parte, quando non dovesse occuparla a scrivere libri 5.  » Lo svegliarmi di notte s’era tramutato in consuetudine per il mio amore di raggiungere il vero. Se tali problemi mi assillavano, vi riflettevo sopra o durante la prima parte della notte o durante la seconda, comunque per circa una metà della notte  » 6. Un saggio di queste notturne meditazioni c’è restato nella preghiera che apre i Soliloqui, dove la foga degli affetti, il sentimento della colpa, il bisogno di liberazione e l’invocazione della grazia si uniscono alla più alta idea di Dio,  » sopra il quale non vi è nulla, fuori del quale nulla, senza il quale nulla « , e ne fanno una stupenda litania d’amore 7.
Del resto, avendo identificato la preghiera con il desiderio ( » Se desideri sempre, preghi sempre  » 8), aveva trovato il modo di fare di tutta la vita una preghiera, tanto più ardente quanto più il desiderio gli bruciava nel cuore. Il Signore, poi, vi aggiunse i doni altissimi della contemplazione. L’estasi di Ostia non è l’unico esempio 9. Intorno a questo mirabile brano di letteratura religiosa sono state mosse non poche discussioni a causa dello schema filosofico nel quale l’esperienza mistica viene narrata. Ma bisogna riconoscere che dentro uno schema antico v’è un’anima nuova, un’esperienza religiosa che, se non viene dall’alto, l’uomo, da solo o con gli aiuti ordinari della grazia, non può raggiungere. La presenza di Monica, che condivise con il suo Agostino quell’esperienza, c’impedisce di dare a quel brano un’interpretazione che lo racchiuda nell’ambito d’una meditazione filosofica.
Ci preme notare, inoltre, che il ricordo di quell’esperienza restò indelebile nell’animo di Agostino: ridiscendendo dalla regione della fecondità indeficiente, dove Dio pasce in eterno i beati con il pascolo della verità, aveva lasciate lassù, come prigioniere,  » le primizie dello spirito  » (Rom, 8, 27). Quell’esperienza e questo ricordo spiegano la commozione che lo investe e che traspira dalle sue parole ogni volta che parli di Dio: v’è in lui la nostalgia d’un bene gustato per un momento e a cui si ha fretta di tornare per sempre.
Ma l’esperienza di Ostia, abbiamo detto, non fu l’unica. Ce lo assicura egli stesso con un linguaggio trasparente.  » E talora, scrive nelle Confessioni, tu mi fai entrare in un sentimento quanto mai insolito, in una non so quale dolcezza, che se diventerà in me perfetta io non so dire che mai sarà, che non sarà certo questa vita. Ma il peso delle mie miserie mi fa ricadere nello stato usuale da cui mi sento riassorbire e trattenere: piango molto, ma la stretta non si allenta. Tanta forza ha il peso della consuetudine! Qui potrei stare e non voglio, lì vorrei stare e non posso: misero dall’una parte e dall’altra  » 10.

UFFICIATURA DELLA PARAKLISIS (alla Madre di Dio)

http://www.abbaziadipulsano.org/home/primo-piano/108

UFFICIATURA DELLA PARAKLISIS

« L’abisso della tua sviscerata bontà concedi a me che ti invoco, tu che hai generato il Misericordioso, il Salvatore di tutti quelli che ti inneggiano.. »

dai tropari della paraklisis

Paràklisis è una parola greca che significa conforto, supplica, intercessione, consolazione e venerazione. L’Ufficiatura della paraklisis è una preghiera impetratoria alla Madre di Dio assai diffusa nella Chiesa Bizantina, in preparazione alla grande festa della Dormizione della Madre di Dio. . Il canone originario della Paraklisis è di 9 odi composte di 3 o 4 strofe. Il primo tropario di ogni ode si chiama irmos e serve da prototipo e modello alle successive strofe, le quali lo seguono nel numero delle sillabe, negli accenti ritmici e nella melodia. Al canone originario di 9 odi sono stati aggiunti nel tempo i salmi 142 e 50, la pericope evangelica della visitazione (1,31-47.56), altri inni come i megalinaria, i kathismata e i kondakia ed alcune preghiere litaniche (penitenziali), seguendo lo schema che ricalca quello del mattutino. L’ufficiatura del « Piccolo canone paracletico”che si celebra in Abbazia (chiamato così per distinguerlo da quello del « Grande canone paracletico” sempre dedicato alla Madre di Dio) è attribuita al monaco innografo Theostericto (prima metà del IX secolo) del monastero di Medicius in Bitinia, indicato da alcuni testi liturgici col nome di Teofane.
Questa traduzione italiana dal testo originale greco è frutto della Chiesa Bizantina di Piana degli Albanesi in Sicilia, efficace testimonianza di unità tra la Chiesa orientale e la Chiesa occidentale: unica Chiesa, unico Cristo Dio-uomo, nato dalla Vergine Maria, l’Emmanuele, Dio che rimane sempre con noi. La Chiesa ci offre questa preghiera come un tesoro da cantare nei tempi liturgici e nei momenti di difficoltà personali: essa serve a riaccendere nei nostri cuori quel santo fervore che ci conduce ad una forte esperienza del soprannaturale e a segnare un ritorno più consapevole alla venerazione delle sante icone della Madre di Dio. Il cercare « nella fede di Maria il sostegno per la propria fede » (Redemptoris Mater, n°27) ci sprona ad attingere alle fonti della Grazia, Cristo Risorto, le energie per affrontare le difficoltà della vita e per testimoniare con coraggio – ognuno nel proprio ambito sociale – la fede cristiana.

Publié dans:Maria Vergine, preghiera (sulla) |on 1 août, 2014 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA, PEGNO DELLA SALUTE SPIRITUALE (PAVEL EVDOKIMOV)

http://cristiano-ortodosso-italiano.blogspot.it/2013/09/la-preghiera-pegno-della-salute.html

LA PREGHIERA, PEGNO DELLA SALUTE SPIRITUALE (PAVEL EVDOKIMOV)

sabato 28 settembre 2013

“Pregate incessantemente”, insiste san Paolo, poiché la preghiera è la sorgente e la forma più intima della nostra vita spirituale. La vita di preghiera, la sua densità, la sua profondità, il suo ritmo, misurano la nostra salute spirituale e li rivelano a noi stessi. È in uno spirito raccolto e tranquillo che sta la vera preghiera e che l’essere viene misteriosamente visitato. “L’amico dello Sposo sta là e lo ascolta”; la condizione essenziale dello stato di preghiera è precisamente “di stare là”, ascoltare la presenza di Cristo.
All’inizio, la preghiera è agitata; l’uomo versa l’intero contenuto del suo essere psichico; ma nella preghiera, la chiacchiera dissipa. Ma, “basta tenere le mani levate”, dice san Marco [il Monaco]. La preghiera domenicale è breve*. Un eremita la cominciava al tramonto del sole, e la terminava dicendo “amen” ai primi raggi del sole che sorgeva. Non si tratta di discorsi; gli spirituali si accontentavano di pronunciare il nome di Gesù ma, in questo nome, contemplavano il Regno.
Una grave deformazione trasforma la preghiera nella ripetizione meccanica di formule. Ma, secondo i maestri, non basta avere la preghiera, le regole, l’abitudine; occorre diventare preghiera, essere la preghiera incarnata: fare della propria vita una liturgia, pregare con le cose più quotidiane, vivere la comunione incessante. Gli spirituali citano la storia di un artigiano conciatore che parla delle tre forme della preghiera: la richiesta, l’offerta e la lode, e mostra come essi diventano lo stato di preghiera e possono santificare tutti i momenti del tempo, anche per colui che non ne dispone. La mattina, avendo fretta, quest’uomo molto semplice presentava tutti gli abitanti di Alessandria dinanzi al volto di Dio dicendo: “Abbi pietà di noi, peccatori”. Di giorno, durante il suo lavoro, il suo cuore non cessava di sentire che tutta la sua opera era come un sacrificio: “A te, Signore”; e la sera, in piena gioia di trovarsi ancora sano e in vita, il suo cuore poteva soltanto dire: “Gloria a te”. È la concezione orante della vita stessa dove il lavoro più modesto di un operaio o di una casalinga e la creazione di un genio sono compiuti allo stesso modo dell’offerta dinanzi al volto di Dio, come un compito affidato dal Padre.
Secondo la Bibbia, il nome di Dio è una forma ed un luogo della sua presenza. La “preghiera di Gesù” o la “preghiera del cuore” libera i suoi spazi e vi attira Gesù con l’invocazione incessante: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Questa preghiera del pubblicano dell’Evangelo contiene tutto il messaggio biblico: la Signoria di Gesù, la sua filiazione divina, dunque la confessione della Trinità, l’abisso della caduta che invoca l’abisso della misericordia divina. Questa preghiera risuona incessantemente in fondo al cuore, prende il ritmo della respirazione, attaccata al soffio, anche durante il sonno: “Dormo, ma il mio spirito veglia” (Cantico dei cantici 5, 2). Gesù attirato nel cuore, è la liturgia interiorizzata ed il Regno nel cuore alleviato. Il nome riempie l’uomo come suo tempio, lo trasmuta in luogo della presenza divina.
L’invocazione del nome di Gesù è alla portata di qualsiasi uomo ed in tutte le circostanze della sua vita. Pone il nome come un sigillo divino su qualsiasi cosa. San Giovanni Crisostomo dice: “La tua casa sia una Chiesa; ammira il tuo Maestro; che i bambini si uniscano a te in una preghiera comune”. Questa preghiera porterà dinanzi al Padre 1e preoccupazioni e le sofferenze di tutti gli uomini, le loro tristezze e le loro gioie. Ogni istante il nostro tempo si rinfresca a questo contatto di fuoco degli spiriti in preghiera.
Nelle case dei fedeli, si vede sempre l’icona messa in alto, e nel punto dominante della preghiera, ella guida lo sguardo verso l’Altissimo e l’unico necessario. La contemplazione orante attraversa, per così dire, l’icona e si ferma soltanto al contenuto vivo e presente che traduce. Di un’abitazione neutra, fa “una Chiesa domestica”, della vita di un fedele, una liturgia interiorizzata e continuata. L’ospite, entrando, si inchina dinanzi all’icona, raccoglie lo sguardo di Dio ed in seguito saluta il padrone della casa. Si comincia col rendere onore a Dio e gli onori resi agli uomini vengono in seguito. Essendo punto di focalizzazione, mai una decorazione, l’icona centra tutto l’interiore sull’irradiazione dell’oltre che regna sovrano. La piccola lampada davanti all’icona riflette il movimento dello spirito; essere un fuoco sempre in preghiera ed in presenza dell’invisibile. È la dimensione liturgica della vita spirituale.
La preghiera liturgica
La preghiera liturgica introduce di primo acchito nella coscienza collegiale, secondo il senso della parola leitourgia, che significa l’opera comune. Insegna la vera relazione tra me e gli altri, ci aiuta a staccarci da noi stessi e a fare nostra la preghiera dell’umanità. Per essa, il destino di ciascuno ci diventa presente. Il pronome liturgico non è mai al singolare.
La liturgia filtra ogni tendenza troppo soggettiva, emozionale e momentanea; piena di un’emozione sana e di una vita emozionale potente, offre la sua forma completata, resa perfetta da lunghi secoli e generazioni che hanno pregato nello stesso modo. Sento la voce di Giovanni Crisostomo, di Basilio, di Simeone e di tanti altri; hanno lasciato traccia del loro spirito adorante e mi associo alla loro preghiera. Questa pone la misura e la regola, ma sollecita anche la preghiera spontanea, personale, dove il cuore canta e parla liberamente al suo Signore.
Occorre attendere il momento d’ispirazione, a rischio di non trovarlo mai? La preghiera comporta sempre un aspetto di sforzo. “Quando l’uomo si mette a pregare, gli ostacoli cercano di impedirlo…; l’orazione esige una lotta, un combattimento”, dicono i maestri. Origene nota sulla preghiera che l’ascesa di una montagna alta è faticosa. I maestri consigliano di fare “come se” l’ispirazione non facesse difetto, ed il miracolo della grazia s’opera.
Ma ancora, “perché pregare? Dio non sa ciò che ci occorre?”. Dio ascolta la nostra preghiera; la rettifica e ne fa un elemento che si aggiunge alla sua decisione. L’insistenza della vedova dell’Evangelo strappa una risposta ed esprime la potenza della fede [cfr. Luca 18, 1-8]. Forse l’inferno dipende anche dalla violenza dei santi, dalla fiamma della loro preghiera e che la salvezza di tutti, Dio la attende anche dalla nostra preghiera…
Non abbiamo tempo sufficiente per pregare? Ne abbiamo, molto più di quanto pensiamo. Quanti momenti di pigrizia e di distrazione possono diventare momenti di preghiera? Si può offrire anche la preoccupazione, se apre un dialogo con Dio. Si può offrire anche la stanchezza che impedisce di pregare ed anche l’incapacità di pregare. “Il ricordo di Dio, un sospiro, senza avere formulato una sola parola, è già preghiera”, dice san Barsanufio. Lo starets Amvrosij consiglia: “Tutti i giorni, leggete un capitolo degli Evangeli, e quando l’angoscia vi prende, leggete nuovamente fino a che se ne vada; se ritorna, leggete nuovamente l’Evangelo”. È il passaggio dalla “parola scritta alla parola sostanziale” (Nicodemo l’Aghiorita) e questo passaggio è decisivo per la vita spirituale. La parola misteriosamente spezzata si consuma eucaristicamente, dicono i Padri.
Pavel Evdokimov

(tratto da: Paul Evdokimov, La nouveauté de l’Esprit. Études de spiritualité, Bellefontaine, 1977).

Publié dans:Ortodossia, preghiera (sulla) |on 31 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

PREGHIERA E IMMAGINE DI DIO – Enzo Bianchi

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124091

PREGHIERA E IMMAGINE DI DIO

Enzo Bianchi

L’uomo che prega si rivolge a Dio «che non si vede» (cfr. 1 Giovanni 4,20). E tuttavia nella preghiera è implicata necessariamente una certa immagine di Dio da parte dell’uomo… il rischio è quello di forgiarsi un Dio a propria immagine e somiglianza e rendere la preghiera un atto autogiustificatorio, autistico, rassicurante.

L’uomo che prega si rivolge a Dio «che non si vede» (cfr. 1 Giovanni 4,20). E tuttavia nella preghiera è implicata necessariamente una certa immagine di Dio da parte dell’uomo. È evidente allora come sia facile il rischio della menzogna e dell’idolatria: il rischio è quello di forgiarsi un Dio a propria immagine e somiglianza e rendere la preghiera un atto autogiustificatorio, autistico, rassicurante. L’esempio della preghiera del fariseo e del pubblicano al Tempio nella parabola lucana (Luca 18,9-14) è significativo. I due diversi atteggiamenti di preghiera esprimono due differenti immagini di Dio relative a due differenti immagini che i due uomini hanno di sé. In particolare, la preghiera del fariseo manifesta l’atteggiamento di chi «si sente a posto con Dio»; ai suoi occhi il suo Dio non può che confermare il suo agire, eppure la frase finale della narrazione sconfessa l’immagine di Dio che quest’uomo aveva: egli non tornò a casa sua giustificato! Mentre il pubblicano si espone radicalmente all’alterità di Dio entrando così nel rapporto giusto con Dio, il fariseo sovrappone il suo «ego» all’immagine di Dio: nella sua preghiera c’è (con)fusione tra il suo «io» e «Dio». Rischio, questo, molto frequente presso gli uomini religiosi!
Ora, il primato dell’ascolto nella preghiera cristiana indica che essa è lo spazio in cui le immagini di Dio che noi forgiamo vengono spezzate, purificate, convertite. La preghiera, infatti, è ricerca di un incontro fra due libertà, quella dell’uomo e quella di Dio. In questa ricerca la distanza fra immagine di Dio forgiata dall’uomo e alterità rivelata di Dio diviene lo scarto fra la domanda e l’esaudimento, fra l’attesa e la realizzazione. Ecco perché al cuore della preghiera cristiana c’è l’invocazione: «Sia fatta la tua volontà» (Matteo 6,10). Nello scarto fra volontà dell’uomo e volontà di Dio la preghiera agisce come spazio di conversione e accettazione della volontà di Dio. È lo scarto, ed è la preghiera, che ha vissuto Gesù stesso al Getsemani: «Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi» (Marco 14,36). È lo scarto, ed è la preghiera, che Paolo ha vissuto con particolare drammaticità: «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Corinti 12,7-9). Paolo accetta la contraddizione portata alla sua richiesta che non viene esaudita e così la sua preghiera lo porta a riflettere esistenzialmente l’immagine del Dio che non l’esaudisce, ma che gli resta accanto nella sua debolezza. Paolo deve accettare la modificazione della sua, pur corretta e rispettosa, immagine di Dio. Così la sua vita si conforma sempre più all’immagine rivelata di Dio: quella del Cristo crocifisso.
La preghiera cristiana conforma l’orante all’immagine del Cristo crocifisso. E il Crocifisso nel suo grido sulla croce ha accettato l’assenza assoluta di immagini di Dio. Il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15,34) denuncia la distanza fra l’immagine conosciuta del volto di Dio e la realtà presente. E dopo il grido dell’abbandono, secondo Marco, c’è solo un urlo inarticolato: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Marco 15,37). Non c’è più parola, non c’è più immagine; non c’è più teo-logia, non c’è più parola su Dio; non c’è più rappresentazione di Dio. Dunque, non c’è più riduzione di Dio a idolo! Il silenzio e il buio delle tre ore dall’ora sesta all’ora nona sono il sigillo di questo indicibile e invisibile di Dio che salvaguarda il suo mistero e la sua alterità.
Ma proprio quel radicale annichilimento di immagini di Dio (chi mai ha raffigurato Dio in un condannato a morte?) e di parole su Dio (il Dio crocifisso non spezza forse ogni 16 gos?) è l’abolizione radicale dell’idolatria, della riduzione di Dio a immagine dell’uomo. La presenza di Dio, l’immagine di Dio ormai va vista lì, nel Cristo crocifisso: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1,15). Sì, il Cristo crocifisso annichilisce Dio come immagine dell’uomo e ci presenta un uomo come immagine (eikon) di Dio. Il Cristo crocifisso è l’immagine di Dio che spezza le nostre immagini di Dio. Il Crocifisso è anche l’immagine di fronte alla quale noi preghiamo, ma che deve spezzare le immagini che, volenti o nolenti, proiettiamo su Dio. L’immagine di Dio manifestata dal Cristo crocifisso smentisce l’immagine di Dio «professata» dal fariseo al Tempio, immagine connessa a una certa considerazione di sé supportata da un’immagine – spregiativa – degli altri. La preghiera è dunque composizione attorno al Cristo crocifisso delle immagini di sé, degli altri e di Dio. L’immagine di Dio che è il Cristo crocifisso custodisce Paolo dalla tentazione dell’orgoglio, del «super-io» (il «montare in superbia», hyper-airomai, 2 Corinti 12,7, convertito nel porre il proprio vanto nelle sofferenze patite «per Cristo», hypèr Christou, 2 Corinti 12,10) e lo conduce, grazie alla preghiera, a parteciparla nella sua vita: «lo porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (Galati 6,17; cfr. Colossesi 1,24). Così la preghiera, conformando al Cristo crocifisso, diviene anche promessa di resurrezione, spazio di trasfigurazione nell’immagine gloriosa del Signore (cfr. 2 Corinti 3,18).

Publié dans:Enzo Bianchi, preghiera (sulla) |on 14 mai, 2014 |Pas de commentaires »

PREGHIERA AL PADRE DELLA VERITÀ, DELLA SAPIENZA E DELLA FELICITÀ – SANT’AGOSTINO

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20021008_agostino-soliloqui_it.html

PREGHIERA AL PADRE DELLA VERITÀ, DELLA SAPIENZA E DELLA FELICITÀ

Agostino, Soliloqui, 1,1.2-4

« O Dio, creatore dell’universo, concedimi prima di tutto che io ti preghi bene, quindi che mi renda degno di essere esaudito, e infine di ottenere da te la redenzione. O Dio, per la cui potenza tutte le cose che da sé non sarebbero, si muovono verso l’essere; o Dio, che non permetti che cessi d’essere neanche quella realtà i cui elementi hanno in sé le condizioni di distruggersi a vicenda; o Dio, che hai creato dal nulla questo mondo, di cui gli occhi di tutti avvertono l’alta armonia; o Dio, che non fai il male ma lo permetti perché non avvenga il male peggiore; o Dio, che manifesti a pochi, i quali si rivolgono a ciò che veramente è, che il male non è reale; o Dio, per la cui potenza l’universo, nonostante la parte non adatta al fine, egualmente lo raggiunge; o Dio, dal quale la dissimilitudine non produce l’estrema dissoluzione, poiché le cose peggiori si armonizzano con le migliori; o Dio, che sei amato da ogni essere che può amare, ne sia esso cosciente o no; o Dio, nel quale sono tutte le cose, ma che la deformità esistente nell’universo non rende deforme, né il male meno perfetto, né l’errore meno vero; o Dio, che hai voluto che soltanto gli spiriti puri conoscessero il vero; o Dio, padre della verità, padre della sapienza, padre della vera e somma vita, padre della felicità, padre del buono e del bello, padre della luce intelligibile, padre del nostro risveglio e della nostra illuminazione, padre del pegno che ci ammonisce di tornare a te!
Te invoco, Dio verità, fondamento, principio e ordinatore della verità di tutti gli esseri che sono veri; o Dio sapienza, fondamento, principio e ordinatore della sapienza di tutti gli esseri che posseggono sapienza, o Dio vera e somma vita, fondamento, principio e ordinatore della vita degli esseri che hanno vera e somma vita; Dio beatitudine, fondamento, principio e ordinatore della beatitudine di tutti gli esseri che sono beati; o Dio bene e bellezza, fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli; o Dio luce intelligibile, fondamento, principio e ordinatore della luce intelligibile di tutti gli esseri che partecipano alla luce intelligibile; o Dio, il cui regno è tutto il mondo che è nascosto al senso; o Dio, dal cui regno deriva la legge per i regni della natura; o Dio, dal quale allontanarsi è cadere, verso cui voltarsi è risorgere, nel quale rimanere è avere sicurezza; o Dio, dal quale uscire è morire, al quale avviarsi è tornare a vivere, nel quale abitare è vivere; o Dio, che non si smarrisce se non si è ingannati, che non si cerca se non si è chiamati, che non si trova se non si è purificati; o Dio, che abbandonare è andare in rovina, a cui tendere è amare, che vedere è possedere; o Dio, al quale ci stimola la fede, ci innalza la speranza, ci unisce la carità; o Dio, per mezzo del quale trionfiamo dell’avversario: ti scongiuro!
O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale; o Dio, da cui siamo stimolati alla vigilanza; o Dio, col cui aiuto sappiamo distinguere il bene dal male; o Dio, col cui aiuto fuggiamo il male e operiamo il bene; o Dio, col cui aiuto non cediamo ai perturbamenti; o Dio, col cui aiuto siamo soggetti con rettitudine al potere e con rettitudine l’esercitiamo; o Dio, col cui aiuto apprendiamo che sono anche di altri le cose che una volta reputavamo nostre e sono anche nostre le cose che una volta reputavamo di altri; o Dio, col cui aiuto non ci attacchiamo agli adescamenti e irretimenti delle passioni; o Dio, col cui aiuto la soggezione al plurimo non ci toglie l’essere uno; o Dio, col cui aiuto il nostro essere migliore non è soggetto al peggiore; o Dio, col cui aiuto la morte è annullata nella vittoria; o Dio, che ci volgi verso di te; o Dio, che ci spogli di ciò che non è e ci rivesti di ciò che è; o Dio, che ci rendi degni di essere esauditi; o Dio, che ci unisci; o Dio, che ci induci alla verità piena; o Dio, che ci manifesti la pienezza del bene e non ci rendi incapaci di seguirlo né permetti che altri lo faccia; o Dio, che ci richiami sulla vita; o Dio, che ci accompagni alla porta; o Dio, che fai sì che si apra a coloro che picchiano; o Dio, che ci dai il pane della vita; o Dio, che ci asseti di quella bevanda, sorbendo la quale non avremo più sete; o Dio, che accusi il mondo sul peccato, la giustizia e il giudizio; o Dio, col cui aiuto non siamo influenzati da coloro che non credono; o Dio, col cui aiuto riproviamo coloro i quali affermano che le anime non possiedono alcun merito dinanzi a te; o Dio, col cui aiuto non diveniamo adoratori degli elementi inetti e impotenti; o Dio, che ci purifichi e ci prepari ai premi divini: viemmi incontro benevolo!
In qualsiasi modo io possa averti pensato, il Dio uno sei tu, e tu vieni in mio aiuto, una eterna e vera essenza, dove non ci sono discordia, oscurità, cangiamento, bisogno, morte, ma somma concordia, somma chiarezza, somma costanza e durata, somma pienezza, somma vita; dove nulla manca, nulla ridonda, dove colui che genera e colui che è generato sono una medesima cosa; Dio, cui sono soggette tutte le cose prive di autosufficienza, cui obbedisce ogni anima buona; per le cui leggi ruotano i poli, le stelle compiono le loro orbite, il sole rinnova il giorno, la luna mitiga la notte, e tutto il mondo, mediante le successioni e i ritorni dei tempi, conserva, per quanto la materia sensibile lo comporta, la grande uniformità dei fenomeni, attraverso i giorni con l’alternarsi del giorno e della notte, attraverso i mesi con le lunazioni, attraverso gli anni con i ritorni di primavera, estate, autunno e inverno, attraverso i lustri col compimento del corso solare, attraverso i secoli col ritorno delle stelle alle loro origini; o Dio, per le cui leggi esistenti per tutta la durata della realtà non si permette che il movimento difforme delle cose mutevoli sia turbato, ma che venga ripetuto, sempre secondo uniformità, nella dimensione rotante dei tempi; per le cui leggi è libera la scelta dell’anima e sono stati stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi con leggi fisse e universali; o Dio, da cui provengono a noi tutti i beni e sono allontanati tutti i mali; o Dio, sopra del quale, fuori del quale e senza il quale non c’è nulla; o Dio, sotto il quale è il tutto, nel quale è il tutto, col quale è il tutto; che hai fatto l’uomo a tua immagine e somiglianza, il che può comprendere chi conosce te stesso: ascolta, ascolta, ascolta me, mio Dio, mio Signore, mio re, mio padre, mio fattore, mia speranza, mia realtà, mio onore, mia casa, mia patria, mia salvezza, mia luce, mia vita; ascolta, ascolta, ascolta me nella maniera tua, soltanto a pochi ben nota! »

Publié dans:preghiera (sulla), Sant'Agostino |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »

DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII … CENTRI DELL’APOSTOLATO DELLA PREGHIERA – 1942

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1943/documents/hf_p-xii_spe_19430117_apostolato-preghiera_it.html

DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII AD UNA RAPPRESENTANZA DI CENTRI DELL’APOSTOLATO DELLA PREGHIERA*

Domenica, 17 gennaio 1942

Nel contemplarvi qui riuniti intorno a Noi, cari Crociati dell’Eucaristia, diletti Zelatori, Zelatrici, Direttori e membri dell’Apostolato della preghiera, Ci sembra di far Nostra, quasi rivivendola, una scena grandiosa e commossa che ci presenta la Sacra Scrittura. Noi vediamo, salito sulla vetta del monte Horeb, mentre il popolo di Dio combatteva nel piano, Mosè orante con le braccia e le mani alzate, preludente e inconscia immagine del gran Mediatore dalle braccia distese sulla croce. Ai fianchi del pregante Condottiero, per timore che gli venissero meno le forze in quell’implorante atto faticoso, ecco due dei suoi più fidi sorreggergli le braccia con filiale sollecitudine, pieni di fede nella efficacia della preghiera del loro Capo (Exod. 17).
Anche Noi da questo colle del Vaticano assistiamo ad una grande contesa, incomparabilmente più vasta e più fiera di quella, pur immane, che mette in conflitto, gli uni contro gli altri, i popoli della terra; contesa spirituale, la quale altro non è che un episodio della lotta permanente e intima del male contro il bene, di Satana contro Cristo.
Noi, le mani tese verso il cielo, sentiamo gravare sulle Nostre spalle il peso di una indicibile responsabilità, premere il Nostro cuore un dolore profondo, che trova in voi, fedelissimi, un conforto nel tenervi che fate a Noi dappresso, unendo la vostra preghiera alla Nostra, i vostri sacrifici alle Nostre pene, le vostre opere alle Nostre fatiche. Non siete voi forse che nel corso di ciascun mese « tutte le vostre preghiere, le vostre opere, le vostre sofferenze della giornata » dirigete alle grandi intenzioni generali della Vittima divina, alla riparazione dei peccati e alle intenzioni particolari che Noi stessi vi diamo per consegna?
1. Il mondo troppo spesso ha o si fa una idea ben meschina della forza della preghiera e di coloro che pregano; non vi vede se non una occupazione tranquillamente pia, o ansiosamente sollecita, o liricamente esaltata di anime assenti dalla terra e dalla vita comune e sociale, anime che chiama mistiche, senza comprendere la bellezza, la grandezza, il significato profondo di questa parola.
Era dunque assente dalla terra e si disinteressava del mondo la grande mistica Teresa di Avila, la cui opera era mossa e guidata dalla brama di strappare le regioni cattoliche all’errore invadente e dilacerante il grembo della Sposa di Cristo? (cfr. Sta. Teresa de Jesus, Camino de perfección c. I). Del resto, uno dei corifei del libero pensiero nel secolo scorso diede alla disdegnosa concezione di frivoli filosofanti una vigorosa smentita dicendo : « Teresa fu il vero avversario della Riforma: ella fonda un Ordine per combatterla con la preghiera, con le lagrime e con l’amore. Non si erano mai intesi simili gemiti dopo il Golgota ».
La preghiera, le lagrime, l’amore, sono in realtà grandi cose: sono i doni che ogni mattina voi presentate al Cuore di Gesù per mezzo del Cuore immacolato di Maria nella vostra offerta quotidiana dell’Apostolato della preghiera; sono i doni del cuor vostro al Cuore di Cristo, perché conforti voi e il mondo nei travagli e affanni di quaggiù.
Voi li offrite in unione col sacrificio che Gesù stesso da secoli offre continuamente sull’altare. Uniti come siete a Lui, anche la vostra preghiera deve salire verso l’Eterno Padre, da questa terra di cui voi prendete in mano e fate vostri tutti gli interessi.
Non si può infatti comprendere pienamente il carattere e il vigore della Chiesa né misurare adeguatamente i benefici effetti della sua azione, se non si tengono in conto e in particolare pregio le preghiere e i sacrifici in tal guisa offerti dai fedeli. La investigazione storica suole proporsi l’ardua impresa di esaminare e determinare, fino a qual segno e in quale grado la Chiesa, nei vari periodi della sua esistenza, sia pervenuta a compiere la missione affidatale. Noi non intendiamo qui di ponderare le difficoltà di ordine generale che una simile valutazione incontra, come pure prescindiamo dalla considerazione che sembra quasi impossibile di racchiudere in qualche modo entro i confini di formule storiche il tranquillo, ma, anche nei tempi di procella e di declinamento, sempre vigoroso torrente della quotidiana vita ed opera della Chiesa. In un punto però tale ricerca storica necessariamente fallisce. Il fine proprio di tutta l’azione della Chiesa è soprannaturale; perciò soltanto nell’altro mondo apparirà con luminosa chiarezza quali ingenti benefici essa ha apportati alla umana famiglia, quante anime, per virtù della preghiera e del sacrificio di Cristo e dei fedeli a Lui uniti, essa condusse a Dio e alla loro eterna felicità. Voi però, diletti figli e figlie, potete avere la lieta e sicura coscienza di appartenere, come seguaci del passato, come avanguardie del presente e dell’avvenire, all’esercito di coloro che, mediante quotidiani sacrifici e preghiere hanno cooperato, cooperano e coopereranno con Cristo al raggiungimento di quell’altissimo fine.
2. La vera preghiera del cristiano, da Gesù insegnata a tutti, ma che è, a titolo speciale, la vostra, è preghiera essenzialmente di apostolato. Essa assomma in sé la santificazione del nome di Dio, l’avvento e la diffusione del suo regno, la filiale adesione alle disposizioni della sua amorosa Provvidenza e alla sua volontà redentrice e beatificante; quindi, tutti gli interessi, materiali e spirituali, degli uomini : il pane quotidiano, il perdono dei peccati, l’unione fraterna che non conosce odi né rancori, il soccorso nelle tentazioni per non soccombervi, la liberazione da ogni male. Un così gran cumulo di favori da quale altra pienezza può venire se non dai tesori di Dio, di quel Dio che si degna di accordarli alla nostra preghiera? Ecco perché, nell’immensa sciagura e crisi del genere umano, Noi confidiamo nell’aiuto delle vostre orazioni più ancora che nell’abilità dei più saggi Uomini di Stato e nel valore dei più strenui combattenti. Davanti a Dio l’arma della preghiera e della fede è più potente che non le armi di acciaio e di bronzo.
Di ciò la storia non rende forse in ognuna delle sue pagine aperta testimonianza? Le grandi gesta della Sposa di Cristo sono state sempre avviate e sostenute dalla preghiera e dal sacrificio dei fedeli. La restaurazione ecclesiastica nel secolo undecimo fu preparata dal movimento dì Cluny, iniziato già cento anni prima: movimento di vita interiore, di preghiera, di più puri e severi costumi, che solcò il terreno all’opera dei grandi Uomini di Chiesa con a capo Gregorio VII. Date un rapido sguardo al secolo decimo sesto, così grave per la Cattolicità. Nei suoi primi decenni si odono da ogni parte alti lamenti di decadimento morale. Verso la fine del secolo ecco la Chiesa rifiorire in una forza giovanile, in una prosperità e santità, quali si conoscono soltanto nei suoi tempi più fortunosi e felici. Chi ha fatto un così mirabile cambiamento? La storia lo attribuisce al lavoro potente di riforma ecclesiastica, in modo particolare ai decreti del Concilio di Trento. Ma a che cosa sarebbero valsi tutti i programmi e i decreti di riforma senza la preparazione, la collaborazione e le preghiere dei grandi Santi, di cui quel secolo fu ricco come pochi altri nei fasti della Chiesa? Si è domandato con un senso di stupore in qual modo la Francia cattolica sia potuta sopravvivere alla tempesta della grande rivoluzione, che sembrava aver distrutto quasi ogni traccia di vita ecclesiastica. L’indagine storica ha risposto che il merito principale si deve ascrivere alla pietà e alla fede intrepida della donna cattolica. Ma questi sono soltanto pochi esempi fra mille.
Se ora la Chiesa si trova dinanzi a doveri immani e a molteplici cure: azione in favore della pace; opere di carità e di soccorso ai sofferenti; lavoro missionario; riconducimento degli increduli alla fede, dei fratelli separati alla unità della Chiesa, della civiltà odierna alla onestà del costume cristiano: come potrebbe essa sperare di portar a termine così formidabile impresa senza una falange dì oranti e di penitenti, le suppliche e i sacrifici dei quali ogni giorno salgono a Dio? A questa falange voi vi siete incorporati colla vostra promessa di fedeltà al Cuore del Salvatore divino. Domandate e riceverete.
3. Immensa nella sua brevità, l’orazione domenicale compendia e abbraccia la universalità dei bisogni del mondo : e tutti questi bisogni il Salvatore guarda e raccomanda al suo Padre celeste nei minimi particolari, perché ognuno singolarmente è a Lui presente e gli preme come se non ve ne fossero altri sulla terra. Ecco il vostro modello. Che se la povera natura umana non vale a tanto, né lo sguardo vostro arriva a vedere nell’insieme ogni minimo bisogno, ecco l’Apostolato della Preghiera che propone al vostro zelo non soltanto gli stessi interessi generali del Cuore di Gesù, che sono i veri interessi del mondo, ma inoltre successivamente qualche interesse particolare e preciso dell’ora presente.
Guardate i vostri piccoli « biglietti mensili »! Quale ampiezza e quale valore essi hanno per chi sa usarne come si conviene e si meritano! Essi fanno passare a vicenda e ritornare al vostro sguardo gli affanni e le angosce soprannaturali o naturali, fisiche o morali, personali o sociali; vi raccomandano per turno tutti i paesi, tutte le stirpi, tutte le condizioni della vita privata o pubblica; fanno sfilare sotto i vostri occhi e davanti al vostro pensiero e al vostro cuore le opere che, nella loro varietà, si studiano di rimediare a tutti i mali, di rispondere a tutte le necessità, di soddisfare tutte le giuste e nobili aspirazioni. Tocca a voi ogni mese di fissare il vostro spirito su queste intenzioni, affine di meglio comprenderne l’importanza e l’urgenza, di conoscere con maggior perspicacia ed amore le miserie che invocano il soccorso, le dedizioni che attendono a provvedervi. Quanto atte sono queste intenzioni ad allargare gli orizzonti del vostro spirito, a elevare e nobilitare le affezioni del vostro cuore!
Così voi non vi contenterete del vostro piccolo biglietto mensile. Santamente curiosi vorrete, grazie al vostro bel « Messaggero », seguire le vicissitudini della lotta spirituale, che si combatte nel mondo fra le due città, quella dell’amore e quella dell’odio. All’odio o all’amore spetterà la vittoria e il trionfo? Quale incertezza! Quale impressionante contemplazione! Quale studio angoscioso! E quando per trenta giorni voi avrete pregato, lavorato, sofferto, la nuova intenzione, che vi si proporrà per il mese seguente, non seppellirà come scomparsa quella che vi sarà costata tanta pena e tanto amore. Allora, anzi, modellandosi progressivamente su quella di Gesù, la vostra preghiera si farà più e più universale, ma non meno precisa, non meno intensa; in quei momenti vi sentirete irresistibilmente sospinti dall’amore al sacrificio attivo che non si tranquilla nella preghiera, finché la pena e la sofferenza non abbiano quasi toccato il limite delle forze; in quei momenti, secondo la scultorea espressione di un ignoto scrittore dell’antichità cristiana, consumati dall’ardore della carità, dalla veemenza del desiderio, voi non sarete più dei preganti, ma preghiere viventi (cfr. S. Gregorii M. in I Reg. 13, 2 – Migne PL t. 79 col. 338).
Noi non possiamo formare per voi, né per Noi stessi, voto più caro; la speranza che si effettui di giorno in giorno più perfettamente, esalta il Nostro animo in voi.
In cotesta Pia Associazione dell’Apostolato della preghiera ammiriamo infatti un pacifico esercito di preganti con Noi, di milioni di fedeli, che dietro al labaro di Cristo intuonano la divina orazione domenicale, la più potente invocazione che dalla terra si elevi al trono di Dio per la sua gloria, per i nostri bisogni e per quelli del mondo intiero. Con questa orazione sale al cielo anche il vostro ricco tesoro spirituale, aggiunto alle vostre preghiere e ai vostri sacrifici, cui nei mesti, gravosi e dolorosi tempi che volgono avete offerti a conforto e sostegno Nostro; salgono a quel Dio che è Padre delle misericordie, e da cui invochiamo su tutti voi, quale espressione del riconoscente animo Nostro, quell’abbondanza di favori spirituali, che corona grazia con grazia, e sublima nell’atmosfera dello spirito anche l’Obolo presentatoCi così generosamente, per il quale vi siamo pure gratissimi. Onde con tutto il Nostro affetto paterno al benemerito Direttore generale della vostra santa e immensa Associazione, allo zelantissimo ed eloquente Direttore Nazionale per l’Italia, ai Direttori diocesani e locali, a tutti i membri qui presenti e a quelli che da lungi sono uniti e si uniscono a voi, sparsi per il mondo, Crociati piccoli e grandi, Famiglie del Sacro Cuore, Zelatori e Zelatrici di ogni Nazione e di ogni grado, impartiamo l’Apostolica Nostra Benedizione.

*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, IV,
Quarto anno di Pontificato, 2 marzo 1942 - 

Publié dans:Papa Pio XII, preghiera (sulla) |on 6 mars, 2014 |Pas de commentaires »
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