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IL CORAGGIO E LA PAURA: LE EMOZIONI DELL’ANIMA

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IL CORAGGIO E LA PAURA: LE EMOZIONI DELL’ANIMA

Educare l’anima /5

Raffaele Mantegazza

Perché non è un scherzo

sapere continuare

Francesco Guccini

C’è una scienza delle emozioni: sembrerà strano e forse inaccettabile a chi fa delle emozioni il fulcro del suo discorso pseudo-pedagogico, trattandole come misteriosi moti metafisici che sfuggono a qualsiasi classificazione e quantificazione, utilizzandole per vendere l’ultimo prodotto a base di storie commoventi e affetti strappati all’intimità, ma le emozioni sono state per almeno un secolo oggetto di studio scientifico e di analisi precisa e verificabile. Non vogliamo dire che la scienza abbia detto la parola definitiva a proposito delle emozioni, né che tutto nel campo affettivo ed emotivo sia riducibile al numero e alla misura; ma oggi non sappiamo quale posizione costituisca il pericolo più grave per il pensiero pedagogico e per le pratiche educative, se il positivismo estremista e totalizzante che vuole quantificare tutti i moti dell’animo, o lo spontaneismo da apprendisti stregoni che gioca sulle emozioni umane senza avere una minima competenza, con il risultato di scatenare gravi crisi nei soggetti in formazione e di lasciarli senza nessuna arma per risolverle. Partire dalle emozioni non significa fermarsi alle emozioni: altrimenti chiunque sapesse emozionarci potrebbe essere il nostro educatore. La psicoanalisi ci ha insegnato la lunghezza e la fatica del lavoro sulle emozioni, e lo stesso Freud aveva ben chiaro come non ci si dovesse emozionare quando si lavorava sulle emozioni, anzi come un distacco apparentemente freddo costituisse lo schermo difensivo non solo per l’analista ma anche e soprattutto per il paziente
Le emozioni sono un terreno minato: se non si è in grado di trattarle in modo rigoroso e serio, se non si possiedono gli strumenti per un reale trattamento pedagogico delle emozioni, tanto meglio lasciar perdere: perché è facile far piangere i partecipanti a un corso, facendo loro disegnare la madre o il padre, facendo loro rivivere i traumi dell’infanzia, infilando il coltello nei loro conflitti edipici o nelle loro pene matrimoniali, facendo loro raccontare il momento più brutto della loro vita: e poi? Dopo questo pastiche tra narrazione e psicoterapia, che cosa ce ne facciamo di questo diluvio emozionale? Una volta che siamo stati bene/male insieme, che abbiamo riso e pianto sulle nostre vite narrate e rievocate, che cosa ci resta? Qual è il guadagno formativo: un metodo, un concetto, una forma di analisi riproducibile sui nostri allievi, una tecnica?
Lavorare pedagogicamente sulle emozioni dell’anima significa allora portarle in una dimensione che è quella del concetto e della parola: l’educatore o l’educatrice hanno il compito di una alfabetizzazione affettiva che significa insegnare che le emozioni hanno un nome, che in quel nome è implicito il trattamento educativo delle stesse, e che imparare a distinguerle e nominarle è operazione quanto mai utile, addirittura fondamentale per una buona crescita.
A questo proposito proviamo ad applicare la ragione a due emozioni dell’anima: il coraggio e la paura, parole che portano con sé il concetto di eroismo ma che rimangono spesso in una incompiutezza semantica che permette di applicarle a tutto e al contrario di tutto. Morire da eroi, per esempio, sembra la massima espressione di coraggio: ma l’eroe muore perché si colloca su un ponte, un luogo di passaggio da un’epoca all’altra. La morte eroica rischia di essere la peggiore delle morti, quasi la morte di un ponte più che di un soggetto: non è allora l’eroe a scegliere la morte ma piuttosto la morte a scegliere l’eroe come passaggio, come apertura di nuove ere. Dunque l’eroe è paradossalmente poco individuo, poco soggetto, poco anima: «Come potrebbe divenire anima? Anima vuol dire uscire dalla chiusura di se stessi, ma come potrebbe il ‘sé’ uscire? Chi potrebbe chiamarlo? Egli è sordo. Che cosa potrebbe attrarlo fuori? Egli è cieco. Che cosa potrebbe intraprendere là fuori? Egli è muto. Vive totalmente rivolto all’interno».[1] Per l’eroe scegliere la morte non significa né fare della propria vita un testo da interpretare per le future generazioni né gettarsi oltre l’ostacolo con cuore da leone: significa soltanto non avere alternativa che, in solitudine, scegliere il proprio destino. L’eroe è ben poco coraggioso, nel senso che non sceglie: è la morte a scegliere, sono i tempi cupi ad avere bisogno di eroi: e non è detto che soprattutto oggi la morte tragica dell’eroe apra veramente a nuove epoche. Potrebbe essere una morte tragicamente inutile, una morte comicamente inutile. Per questo motivo, con buona pace della pedagogia delle Forze Armate, l’eroe non è e non può essere una figura educativa positiva, e il suo rapporto con la sua propria morte non può certo essere un paradigma utile per una educazione al morire. L’enfasi sulla morte tragica dell’eroe ci ricorda soltanto che morire da eroi significa non morire realmente la propria morte: ci ricorda soltanto che il nostro compito non è creare nuovi eroi che affrontino morti non scelte da loro, ma apprestare il terreno per l’avvento di un tempo che non avrà più bisogno di eroi.
Ma allora forse occorre educare alla paura: non educare con la paura, ma proprio educare ad avere paura, a fare in modo di non scandalizzarsi delle proprie paure, a reinterpretare la paura come dimensione tipica del mondo animale e della cultura umana. Il che significa anche educare alla resa e alla fuga, parole che l’eroismo malato degli eroi «machi» considerano disonorevoli ma che nel mondo animale rappresentano strategie di resistenza anche superiori rispetto all’attacco e all’aggressione. Il vero coraggioso oggi è allora colui o colei che non hanno paura di avere paura; il coraggio è ancora e sempre quello della conoscenza: «L’essenza dell’universo, in un primo tempo celata e chiusa, non ha forza da resistere al coraggio di chi vuol conoscerla: deve schiuderglisi dinanzi agli occhi, e mostrargli e fargli godere la sua ricchezza e profondità».[2] Ancora oggi queste parole sono un programma per ogni pedagogia che voglia avere a che fare con le emozioni e in particolare con le dimensioni del coraggio e della paura: perchè il vero coraggio oggi è saper continuare, fare i conti con le proprie paure; se riesce a portare il soggetto a un recupero del proprio senso di normalità e di equilibrio, se riesce ad educare la parte sana, ad educare l’Io dei soggetti in formazione, se riesce a insegnare a guardare in faccia la paura senza paura, l’educazione dell’anima ha segnato il primo punto contro le forze della barbarie che hanno bisogno di burattini patetici travestiti da improbabili eroi.

[1] Franz Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Genova, Marietti, 1985, pag. 81.
[2] G.W.F. Hegel, Discorso inaugurale tenuto a Heidelberg il 28 ottobre 1816.

Publié dans:pastorale, scienza e fede |on 8 mai, 2014 |Pas de commentaires »

«RIMETTERE CRISTO AL CENTRO DELLA STORIA»

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-rimettere-cristo-al-centro-della-storia-7808.htm

«RIMETTERE CRISTO AL CENTRO DELLA STORIA»

DI MASSIMO INTROVIGNE

25-11-2013

Il 24 novembre Papa Francesco ha concluso l’Anno della fede, prima di ricordare all’Angelus due anniversari: uno ucraino, alla presenza dei Patriarchi delle Chiese Orientali cattoliche, «l’80° anniversario dell’Holodomor, la « grande fame » provocata dal regime sovietico che causò milioni di vittime», e uno californiano, relativo al «Beato Junípero Serra [1713-1784], missionario francescano spagnolo, di cui ricorre il terzo centenario della nascita». Due riferimenti non banali, se si considera che l’Olocausto ucraino fu censurato dagli storici per decenni prima di essere «sdoganato» dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005), e che il beato Serra è la «bestia nera» di un certo progressismo che accusa le missioni francescane di avere sradicato la cultura – ritenuta, a torto, superiore e più «ecologica» – delle tribù indiane d’America.
La celebrazione più solenne è stata dedicata, nella festa di «Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico», alla «conclusione dell’Anno della fede, indetto dal Papa Benedetto XVI, al quale va ora il nostro pensiero pieno di affetto e di riconoscenza per questo dono che ci ha dato», che Francesco ha definito «provvidenziale iniziativa».
Perché provvidenziale? A che cosa è servito, a che cosa doveva servire l’Anno della fede? A rimettere al centro del messaggio della Chiesa una verità insieme semplice e complessa, ha detto il Papa: «la centralità di Cristo. Cristo è al centro, Cristo è il centro. Cristo centro della creazione, Cristo centro del popolo, Cristo centro della storia».
Questa centralità, ricordata dalla festa di Cristo Re, ha un forte radicamento nella Scrittura. San Paolo presenta Gesù «come il Primogenito di tutta la creazione: in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui furono create tutte le cose. Egli è il centro di tutte le cose, è il principio: Gesù Cristo, il Signore. Dio ha dato a Lui la pienezza, la totalità, perché in Lui siano riconciliate tutte le cose».
Se «Gesù è il centro della creazione», l’Anno della fede e la festa di Cristo Re ci ricordano che «l’atteggiamento richiesto al credente, se vuole essere tale, è quello di riconoscere e di accogliere nella vita questa centralità di Gesù Cristo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. E così i nostri pensieri saranno pensieri cristiani, pensieri di Cristo. Le nostre opere saranno opere cristiane, opere di Cristo, le nostre parole saranno parole cristiane, parole di Cristo». Invece, «quando si perde questo centro, perché lo si sostituisce con qualcosa d’altro, ne derivano soltanto dei danni».
Tutta la storia d’Israele è la storia della ricerca di un re saggio e giusto. «Attraverso la ricerca della figura ideale del re, quegli uomini cercavano Dio stesso: un Dio che si facesse vicino, che accettasse di accompagnarsi al cammino dell’uomo, che si facesse loro fratello». Con la venuta di Cristo, la storia trova il suo re. «Cristo, discendente del re Davide, è proprio il « fratello » intorno al quale si costituisce il popolo, che si prende cura del suo popolo, di tutti noi, a costo della sua vita. In Lui noi siamo uno; un solo popolo uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come centro, abbiamo l’identità come popolo».
La regalità di Cristo – la centralità di Cristo, che per un anno l’Anno della fede ha cercato di ricordarci ogni giorno – è insieme sociale e individuale. «Cristo è il centro della storia dell’umanità, e anche il centro della storia di ogni uomo. A Lui possiamo riferire le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di cui è intessuta la nostra vita. Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano». È capitato al buon ladrone, citato nel Vangelo della domenica, nei cui confronti «Gesù pronuncia solo la parola del perdono, non quella della condanna; e quando l’uomo trova il coraggio di chiedere questo perdono, il Signore non lascia mai cadere una simile richiesta».
«Oggi tutti noi – ha detto il Papa – possiamo pensare alla nostra storia, al nostro cammino. Ognuno di noi ha la sua storia; ognuno di noi ha anche i suoi sbagli, i suoi peccati, i suoi momenti felici e i suoi momenti bui. Ci farà bene, in questa giornata, pensare alla nostra storia, e guardare Gesù, e dal cuore ripetergli tante volte, ma con il cuore, in silenzio, ognuno di noi: « Ricordati di me, Signore, adesso che sei nel tuo Regno! Gesù, ricordati di me, perché io ho voglia di diventare buono, ho voglia di diventare buona, ma non ho forza, non posso: sono peccatore, sono peccatore. Ma ricordati di me, Gesù! Tu puoi ricordarti di me, perché Tu sei al centro, Tu sei proprio nel tuo Regno! »».
È il Vangelo della misericordia di Papa Francesco: «la grazia di Dio è sempre più abbondante della preghiera che l’ha domandata. Il Signore dona sempre di più, è tanto generoso, dona sempre di più di quanto gli si domanda: gli chiedi di ricordarsi di te, e ti porta nel suo Regno!».
Entrare nel Regno, personale e sociale, di Gesù Cristo significa metterlo al centro. Al servizio di questo progetto l’Anno della fede ci lascia due documenti: l’enciclica «Lumen fidei», che Papa Francesco ricorda quasi ogni settimana e che molti nella Chiesa hanno troppo presto dimenticato, un grande affresco del ruolo della fede nella costruzione di una civiltà dove Gesù possa regnare; e l’esortazione apostolica «Evangelii gaudium», simbolicamente consegnata alla Chiesa domenica e che sarà pubblicata martedì. Come sempre, se non si studiano i documenti difficilmente si capisce il senso degli avvenimenti ecclesiali

L’AMORE DI DIO È IN MEZZO A NOI – CAPITOLO PRIMO

http://www.murialdomilano.it/LPcap01.htm

L’AMORE DI DIO È IN MEZZO A NOI – CAPITOLO PRIMO  

La prima tappa
del percorso pastorale
(2006-2007)

FAMIGLIA ASCOLTA
LA PAROLA DI DIO

Capitolo Primo

La parola di Dio dimora in voi
Le comunità e le famiglie in ascolto

18.    La prima tappa del Percorso pastorale, come emerge dal titolo Famiglia ascolta la parola di Dio, punta sull’ascolto. Si tratta di ascoltare, anzitutto, la parola di Dio perché è questa a svelare in tutta la sua bellezza il disegno divino sulla realtà dell’amore, del matrimonio e della famiglia, in corrispondenza con i desideri più vivi e le esigenze più profonde che abitano il cuore dell’uomo e della donna.
In tal senso la parola di Dio ha la sua eco nelle parole delle famiglie, ossia nell’esperienza vissuta degli sposi, dei genitori e dei figli, delle famiglie: un’eco che prolunga la parola di Dio e insieme racchiude un’attesa più o meno cosciente, anzi una ricerca della parola colta alla sua stessa origine, dentro il mistero di Dio amore (cfr 1Giovanni 4,16).
Di fronte a questa “Parola” e a queste “parole” vogliamo metterci in ascolto.
 Ascoltare non è una strategia, ma una condizione umana e teologica fondamentale. Parlare e ascoltare non sono nell’uomo solo una capacità fra le altre: sono la facoltà che fa dell’uomo un uomo. Da solo l’uomo non esiste. Esiste solo nella relazione. E nel suo corpo c’è un organo che è sempre in esercizio, che funziona sempre: è l’orecchio. Gli antichi saggi di Israele facevano notare che l’uomo ha due orecchie e una bocca: il tempo dedicato all’ascolto dovrà essere almeno doppio di quello dedicato a parlare.
Il Dio della Bibbia è un Dio che parla (cfr Deuteronomio 4,32ss). Ma un Dio che parla richiede ascolto. In questo sta la differenza tra la preghiera pagana e quella biblica: non un parlare a Dio, ma un ascoltare Dio. «Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Dio tuo…» (Deuteronomio 6,4-5). Il punto di partenza è l’ascolto, il punto di arrivo è la carità. La regola di san Benedetto, prima regola monastica d’occidente, inizia così: «Ascolta, figlio gli insegnamenti del tuo maestro, apri docile il tuo cuore» (Prologo, 1).
 Se vogliamo allora metterci in ascolto, ci troviamo immediatamente provocati da tante domande: che cosa dice la parola di Dio e come ci raggiunge? Quali risposte possono venire dalle parole delle famiglie a riguardo dei loro problemi e delle loro attese? Quali significati ha la parola di Dio per la nostra vita? Che cosa comporta questo ascolto? Quali disposizioni esige e quali sono i suoi frutti?
Queste e altre domande possono trovare il giusto ascolto e le risposte più persuasive in un ambito ben preciso: quello di comunità e di famiglie capaci di accoglienza.

1. Chiesa e famiglie, comunità accoglienti
    e in ascolto sulla misura del cuore di Cristo
 19.    Ogni parrocchia e realtà di Chiesa e, in esse, le famiglie sono chiamate ad essere comunità di accoglienza, così che chiunque vi si avvicina si senta desiderato, amato, ben accolto e aiutato a stabilire relazioni significative con le persone. Tutti devono contribuire a creare un clima di rapporti cordiali e rispettosi. E il primo passo, la prima espressione dell’accoglienza è l’ascolto.
Come traspare da ogni pagina del vangelo, erano questi l’atteggiamento e lo stile di Gesù. Egli sta in mezzo alla gente, la incontra quotidianamente, la ascolta nelle sue richieste, la previene nelle sue esigenze. E tutto questo ha valore anche in rapporto alla famiglia nei suoi diversi componenti: genitori, figli, fratelli e sorelle, bambini e adulti, sani e malati, ecc. Mentre incontra le persone Gesù ascolta le loro domande, suscita il pentimento e diffonde il perdono, mostra i miracoli della fede e invita a servire con umiltà, guarisce dalle malattie e insegna la riconoscenza (cfr Luca 17,1-19).
È lo stesso atteggiamento e stile che la comunità cristiana e le famiglie sono chiamate a imitare e a rivivere: ogni giorno, nei riguardi di tutti.
 Gesù cammina per le strade di villaggi e città, ascolta, parla, saluta, si ferma.  Nella città di Nain, incontrando l’esperienza del lutto e del dolore, incoraggia una donna vedova che piange per la morte di suo figlio. Porta alla vita questo ragazzo e infonde la pace nel cuore di sua madre (cfr Luca 7,11-17). Anche Giairo, capo della sinagoga, ha bisogno di Gesù e lo prega di recarsi a casa sua: Gesù lo ascolta, lo segue, lo libera dalla paura, lo invita alla fede. Di fronte a due genitori che piangono, prende per mano la loro figlia e la risveglia alla vita (cfr Luca 8,50-56).
          Gesù è attento alle vicende familiari e le persone sanno che possono contare su di lui. Marta e Maria, quando il fratello Lazzaro si ammala, mandano ad avvertire Gesù che il suo amico è malato. Gesù, mai indifferente ai vissuti dolorosi di una vita familiare, ascolta e interviene. Vuole, infatti, molto bene a queste persone e per coloro che ama cambia i suoi programmi. Gesù è così capace di costruire rapporti personali autentici e profondi che va a incontrare i suoi amici nelle loro case ed è atteso: Marta gli va incontro con premura e lo accoglie con gioiosa ospitalità, Maria si siede ai suoi piedi desiderosa di ascoltare la sua parola, Lazzaro offre la sua amicizia. Ora, morto da quattro giorni, Lazzaro riceve da Gesù la pienezza della vita (cfr Giovanni 11,1-44).
          Il Signore si reca dappertutto, ma spesso sceglie la casa come luogo per annunciare il Vangelo e donare la salvezza. Nella casa di Simone, il fariseo, Gesù guarda anzitutto al sovrappiù dell’amore (cfr Luca 7,36-50); di fronte a una donna che ha peccato coglie immediatamente la tenerezza e il pentimento e non esita a dischiudere per lei il torrente della misericordia divina: « Egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; và in pace!”» (Luca 7,50).
          Gesù scruta nei cuori e prevede da lontano i desideri della gente. Crea le occasioni per stabilire incontri e colloqui: ascolta e si fa ascoltare, pone domande impegnative e difficili e offre molto di più di quanto ci si potrebbe aspettare. Gesù disse a Zaccheo: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Luca 19,9). Gesù entra con grande libertà in rapporto con la gente e non si preoccupa di un eventuale giudizio, vuole soltanto il bene delle persone e le conduce a incredibili conversioni, come è stato per Zaccheo. Ma tutto questo vale anche oggi quando una comunità e una famiglia sono capaci di trasformare le occasioni quotidiane di incontro e di ascolto in autentici miracoli della grazia. Gesù mostra in questo modo che è possibile andare incontro a tutti e che la relazione umana può essere carica di salvezza per ogni persona e per ogni famiglia. Coloro che credono nel Figlio dell’uomo possono veramente andare a cercare e salvare ciò che è perduto (cfr Luca 19,1-10).
          Gesù sta a tavola con tutti, anche con i pubblicani e i peccatori. A lui presentano tante questioni dibattute, riguardanti anche taluni problemi familiari, come la questione del divorzio (cfr Matteo 19,3-12) o quella dell’’eredità (cfr Luca 12,13). Egli, sfidando senza paura i pregiudizi sociali e le correnti religiose o culturali del proprio tempo, è particolarmente attento ai bambini, alle donne, ai poveri, agli emarginati, ai lebbrosi, agli indemoniati.
          Gesù è l’accoglienza fatta carne. Lo afferma lui stesso quando dice: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Matteo 10,40). Con queste parole egli ci introduce a cogliere la meravigliosa ricchezza dell’accoglienza; soprattutto ci fa in qualche modo penetrare nel segreto e nel mistero divino dell’accoglienza. Il Figlio vive con il Padre dall’eternità il dono della reciproca accoglienza. Per questo Gesù, parola di Dio fatta carne, diviene in mezzo all’umanità il segno luminoso dell’accoglienza che il Padre riserva a tutti e a ciascuno di noi.
          E poiché l’accoglienza si esprime nell’ascolto della parola, il Figlio è colui che in una intensità unica e del tutto singolare sta in ascolto della parola del Padre ed è obbediente alla sua volontà, come ci testimonia il vangelo quando ci riferisce del silenzio e della preghiera di Gesù lungo la notte sul monte, quando lo presenta nell’atteggiamento di chi invoca il Padre prima di compiere i miracoli della guarigione del corpo e dell’anima.  E Gesù si sente perfettamente accolto e ascoltato dal Padre: per questo lo ringrazia, come avviene prima della risurrezione dell’amico Lazzaro: «Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato» (Giovanni 11.41-42).
          In questa reciproca accoglienza il Figlio e il Padre si pone l’ascolto obbediente delle parole che sono rivolte a Gesù perché questi le faccia risuonare nel cuore degli uomini. In questo senso Gesù, prima, anzi per ascoltare meglio le parole degli uomini – il loro vissuto con tutto il peso delle sofferenze e tragedie della vita –, ascolta le parole del Padre, come lui stesso ama sottolineare nella sua missione di salvezza: «Io dico al mondo le cose che ho udito da lui (dal Padre)» (Giovanni 8,26); e ancora: «Ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre, l’ho fatto conoscere a voi» (Giovanni 15,15).
          E così questo mistero di Gesù diventa la sorgente stessa della sua missione di salvezza: egli ascolta le parole della gente, perché ascolta le parole del Padre, e queste ultime, che vengono dall’amore di Dio, sono le parole di vita eterna che egli dona al mondo bisognoso di salvezza.
 20.    Se da quanto precede emerge chiara l’esigenza dell’ascolto come espressione dell’accoglienza, ora l’atteggiamento di Gesù ci fa cogliere la densità straordinaria di cui è segnato il contenuto dell’ascolto: è l’ascolto di parole umane, talvolta solo sussurrate oppure gridate, parole di timida invocazione e di disperazione senza limiti, comunque parole che rimandano ai problemi, alle fatiche, alle sofferenze, alle tragedie delle persone e delle famiglie. E insieme rimandano all’esigenza di una parola diversa, più alta, più capace di dare ragioni di speranza. Così l’ascolto si fa vera e propria partecipazione profonda delle sofferenze e delle speranze umane, come testimonia la “compassione” del cuore di Gesù più volte ricordata dal vangelo (cfr Matteo 9,36; 14.14; 15,32; Marco 1,14; Luca 7,13; 10,33).
L’ascolto – pur così importante per ridare fiducia alla vita – non è fine a se stesso, ma costituisce un primo dono che si apre a qualcosa di più grande e di più necessario per l’uomo. Gesù dopo aver accolto nel proprio cuore le “parole” degli uomini prosegue il suo incontro personale scendendo nell’intimo segreto dei cuori umani. E così annuncia la “parola di Dio”, la “buona notizia”, il disegno dell’amore di Dio che libera e salva, che consola e dà forza. Ricordiamo qui – per semplice accenno – il suo appello alla fede in Dio e al suo amore, cui abbandonarsi pienamente, prima di compiere il miracolo della guarigione e della salvezza. Infatti, dopo aver accolto le parole di Marta e il suo grande dolore per la morte del fratello, Gesù pronuncia la parola assolutamente nuova che proclama la risurrezione e la vita eterna: «Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. Gli rispose Marta: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo? ”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”» (Giovanni 11,24-27).
 Accoglienza, dunque, è anzitutto ascolto delle parole e della Parola. Proprio su questo duplice oggetto dell’ascolto vogliamo ora sostare.

2. Alla luce del Vangelo
    e dell’esperienza umana
 21.    Un’espressione particolarmente felice e ricca della Costituzione conciliare Gaudium et spes indica il metodo secondo cui affrontare e risolvere i numerosi, gravi e spesso inediti problemi che travagliano la Chiesa e il mondo di oggi: si tratta di valutare ogni cosa sub luce Evangelii et humanae experientiae.
«Dopo aver esposto – così leggiamo nel testo conciliare – di quale dignità è insignita la persona dell’uomo e quale compito, individuale e sociale, egli è chiamato ad adempiere sulla terra, il Concilio, alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana, attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi contemporanei particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il genere umano» (n. 46). E tra questi problemi, il primo affrontato dal Vaticano II riguarda proprio la realtà della famiglia.
Ora il Vangelo, di cui ci parla la costituzione Gaudium et spes, sono sì i quattro vangeli, ma in senso più ampio è il lieto annuncio della parola di Dio che troviamo nelle Sacre Scritture, come ad esempio si esprime il salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmo 118,105). Ma in un senso più radicale, vivo e personale, il Vangelo è la parola di Dio fatta carne in Gesù. E, dunque, la vera lampada per il cammino della vita è Gesù stesso, che a tutti proclama: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni 8,12). Lui, la Parola eterna di Dio, come ha preso dimora nel grembo di Maria (cfr Giovanni 1,14), così chiede di poter abitare nel cuore di ogni uomo, secondo quanto scrive l’evangelista Giovanni ai giovani: «La parola di Dio dimora in voi» (1 Giovanni 2,14).
Quanto poi all’esperienza umana, di cui parla il Concilio, essa è riconducibile alle parole degli uomini, al loro vissuto concreto, con tutto ciò che racchiude e sprigiona.
Non ci deve sfuggire il fatto che il Concilio sollecita una lettura e una valutazione dei problemi alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana come di due realtà profondamente collegate tra loro. È in questione un legame di singolare reciprocità, perché, da un lato, le parole umane contengono una promessa cui dà pieno esaudimento la parola di Dio e perché, dall’altro lato, il dono di Dio si comunica e si trasmette attraverso i linguaggi umani. In realtà, la parola di Dio assume, purifica, esalta la ragione umana e trascende l’esperienza. È quanto dice questo splendido testo del Concilio: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, 22).
Esiste, dunque, una feconda circolarità tra il Vangelo di Gesù e l’esperienza umana che esige che ascolto della parola di Dio e ascolto delle parole delle famiglie siano come due cammini da percorrere in modo convergente e completo, dall’uno all’altro sino in fondo. Ci chiediamo pertanto quale cammino sia preferibile: partire dal Vangelo per leggere il vissuto delle famiglie o da questo vissuto per rileggere il Vangelo?

Dalle parole alla Parola
 22.    Iniziamo dall’ascolto delle parole delle famiglie: è il passo più immediato, più semplice, più comprensibile e condivisibile da tutti, praticanti o non, credenti o non. Dobbiamo avere fiducia perché queste parole rimandano, non raramente, al vissuto propriamente cristiano delle famiglie, a un vissuto di fede, di sequela, di comunione d’amore con Cristo.
Ma analoga fiducia dobbiamo avere quando ci troviamo di fronte al vissuto umano delle famiglie. In realtà le loro parole hanno dentro di sé la luce della ragione umana, che è dono grande di Dio; rimandano alla coscienza morale, che «è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (Gaudium et spes, 16). In esse ci sono il desiderio – più o meno intenso – di cercare il vero e il bene, come pure l’impegno di essere coerenti anche nelle situazioni difficili per dare concretezza alla propria maturità morale e spirituale. Vivere così significa essere in cammino e venir introdotti in una luce superiore, secondo la parola stessa di Gesù: «Chi opera la verità viene alla luce» (Giovanni 3,21).
Infine, non dimentichiamo che anche queste parole umane sono raggiunte dalla parola di Dio, che è Creatore e Padre di tutti, di Dio che penetra in tutti i cuori, anche a insaputa della persona, persino là dove apparisse qualche forma di rifiuto di Dio stesso.

Dalla Parola alle parole
 23.    La Parola è Dio stesso che parla. Parla in Gesù, il Verbo fatto carne. E così il Figlio eterno di Dio, facendosi pienamente uomo, condivide le nostre esperienze. Egli infatti «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Gaudium et spes, 22).
Ha fatto anche l’esperienza umana della famiglia, raggiunto dall’amore materno di Maria e dall’amore di Giuseppe, suo padre secondo la legge. Ha vissuto a Nazaret le vicende familiari, come la “sottomissione” in casa, il lavoro, la lettura e l’ascolto delle sacre Scritture, la pratica religiosa familiare, e ha conosciuto la povertà e l’emarginazione nella sua nascita a Betlemme. Sin da piccolo è stato ricercato a morte e ha sofferto l’esilio. Ha coltivato l’amicizia sincera e tenera con alcune famiglie.
Questa parola di Dio è un singolarissimo dono, che sprigiona per noi luce e forza: luce che ci fa vedere e valutare la realtà e il vissuto, e forza per accogliere e vivere ogni parola che viene dal Signore e ogni sapienza umana autentica. E così la Parola ci si presenta come Vangelo, grazia e promessa, dinamismo e beatitudine. E ci infonde fiducia, speranza, coraggio, gioia.
Straordinaria e consolante l’annotazione dell’evangelista: solo Gesù «sa quello che c’è in ogni uomo» (Giovanni 2,25).

 3. L’ascolto come discernimento
 24.    Che significa ascoltare? Può sembrare domanda inutile, tanto dovrebbe essere ovvio il significato dell’ascolto. Del resto le pagine precedenti l’hanno in qualche modo già indicato. Ma è proprio l’importanza centrale dell’ascolto come tratto qualificante la prima tappa del Percorso pastorale che ci spinge a leggere più in profondità la realtà e il dinamismo di questo atteggiamento del cuore e della mente.
Ci pare che il termine biblico e teologico che coglie gli aspetti più originali e pregnanti dell’ascolto sia quello del discernimento: l’ascolto, cioè, raggiunge la sua verità piena quando si configura come esercizio di discernimento.
Ancora una volta ci è di aiuto il Concilio, quando seguendo l’intuizione di papa Giovanni XXIII parla dei “segni dei tempi”: «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto…» (Gaudium et spes, 4). E ancora: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio…» (Gaudium et spes, 11).
Il discernimento comporta un duplice e inscindibile elemento: il giudizio e la scelta. È un criterio di giudizio, ossia di lettura, di interpretazione, di valutazione della realtà, degli uomini e delle cose, dei grandi avvenimenti e delle vicende quotidiane, dei valori morali e spirituali e dei problemi materiali, ecc. E tutti noi possiamo e dobbiamo coltivare simile criterio di giudizio, appellandoci alla ragione umana illuminata dalla fede, e dunque dall’esperienza umana e dal Vangelo, per riprendere di nuovo le parole del Concilio.
In particolare il cristiano, nella luce e con la forza dello Spirito, riceve il dono di prendere parte al “pensiero di Cristo”, come testimonia umile e fiero l’apostolo Paolo, lui che ha trattato con singolare profondità la questione della sapienza divina e umana: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1 Corinzi 2,16). È ancora Paolo ad ammonirci, come un giorno i cristiani di Efeso: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente… Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi» (Efesini 5,8-11. 15; cfr 1 Tessalonicesi 5,4-8).
Queste parole dell’apostolo ci introducono al secondo elemento del discernimento: il criterio di scelta. Si tratta, in forza di un giudizio credente e con l’energia della «legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù» (Romani 8,2) di scegliere e di decidersi a utilizzare responsabilmente la propria libertà, a renderla cioè operativa mediante precisi atteggiamenti, comportamenti, opere e gesti. Ed è quanto avviene là dove c’è coerenza, corrispondenza armoniosa, quasi un’inscindibile alleanza tra il giudizio e la scelta, tra il “pensiero” di Cristo e l’“agire” di Cristo, che il discepolo è chiamato a imitare e rivivere nella sua esistenza con la luce e la forza dello Spirito.
          Non ci soffermiamo ora nel rilevare quanto sia importante affrontare i più diversi problemi della vita – non ultimi quelli riguardanti l’amore, il matrimonio e la famiglia – con il discernimento razionale ed evangelico. Tutto ciò è ancora più necessario oggi considerato il nostro contesto sociale e culturale: «Siamo di fronte a una mentalità che coinvolge, spesso in modo profondo, vasto e capillare, gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani, la cui fede viene svigorita e perde la propria originalità di nuovo criterio interpretativo e operativo per l’esistenza personale, familiare e sociale. In realtà, i criteri di giudizio e di scelta assunti dagli stessi credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura ampiamente scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli del Vangelo» (Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, 88).
          La Chiesa e, in essa, le famiglie cristiane sono allora chiamate a implorare la grazia del Signore e del suo Spirito, che non solo dona la fede e la carità – i due nuovi criteri di giudizio e di scelta per il cristiano – ma anche “purifica” la ragione umana e “fortifica” la volontà, e dunque l’autentica libertà, orientandola con soavità ed energia al vero e al bene, al compimento della «volontà di Dio», di «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Romani 12,2).
          Così, identificando l’ascolto con il discernimento, lo stesso ascolto manifesta tutta la sua pregnanza di contenuto, tutta la sua concretezza operativa, tutta la sua bellezza e serietà spirituale: ascoltare le parole delle famiglie – abbiamo detto – è accoglienza, interessamento, partecipazione, aiuto al loro vissuto; così come ascoltare il Vangelo, il Vangelo vivente e personale che è Cristo Signore, è credere in Gesù, ascoltare le sue parole, seguirlo, entrare in comunione di vita, di amore e di destino con lui, camminare nel suo Spirito. Sul versante cristiano c’è dunque un intimo legame tra l’ascolto e la sequela di Cristo: l’ascolto è elemento necessario del discepolato cristiano.
          Proprio in questa direzione si muovono i due successivi capitoli del Percorso pastorale di quest’anno: il primo sul “Vangelo della famiglia”, un Vangelo da accogliere per valutare secondo il pensiero di Cristo, e il secondo sulla “missione della famiglia”, per vivere, annunciare e testimoniare agli altri questo stesso Vangelo secondo lo stile operativo di Cristo.

 4. La pratica dell’ascolto
 25.   Concludiamo questo primo capitolo con alcune indicazioni operative, che richiamano brevemente i contenuti e i tempi, le persone coinvolte e le modalità o condizioni spirituali dell’ascolto.
 I contenuti o luoghi dell’ascolto:
le parole delle famiglie e la parola di Dio
 L’esercizio dell’ascolto dovrà essere sviluppato e approfondito in rapporto a due contenuti o luoghi vitali dell’esistenza delle famiglie: l’esperienza umana (le parole) e la vita di fede (la parola di Dio).
 Il primo contenuto o luogo è la considerazione dell’esperienza concreta della vita e della realtà umana dell’amore nella vita familiare, così come si presenta nel contesto sociale e culturale del nostro tempo. Ascoltare significa raccogliere i vissuti concreti delle nostre comunità, dove le persone hanno un volto, una storia, una loro collocazione vitale. È importante in questa fase dell’ascolto cogliere le abitudini, le tendenze, i comportamenti delle persone che si incontrano ogni giorno e che vivono con noi. Significa interpretare attentamente tutto quello che si pensa, si discute, si propone – a torto o a ragione – nella società d’oggi a proposito del matrimonio e della famiglia. Così l’esperienza umana dell’amore, con tutte le sue possibilità e i suoi drammi, si incontra e si intreccia quotidianamente con la cura pastorale della Chiesa, delle nostre comunità cristiane.
          Il secondo contenuto o luogo è, invece, la considerazione di quanto affermano la parola di Dio e la sapienza cristiana sul matrimonio e sulla famiglia, così come ci viene consegnata dalla tradizione vivente della Chiesa ed è vissuta nella comunità dei credenti. L’amore umano tra l’uomo e la donna, pensato fin dal principio nel progetto originario di Dio, trova nel sacramento del matrimonio il luogo della sua pienezza. La Chiesa ha sempre accompagnato con la sua sapienza e con la sua esperienza la realtà dell’amore e della famiglia e fornisce anche oggi ai credenti quegli aiuti necessari perché il matrimonio e la famiglia raggiungano la loro pienezza e la loro fecondità.
          Per affrontare questi due contenuti della realtà umana e cristiana dell’amore, del matrimonio e della famiglia si potranno opportunamente sfruttare le non poche occasioni pastorali che vedono una certa circolarità di esperienze e di attività tra le famiglie, la comunità ecclesiale e la società civile. Innanzitutto, è buona cosa valorizzare le opportunità che nascono dalla pastorale ordinaria, vivendo questi momenti con autentica attenzione e partecipazione, condividendo comunitariamente ciò che da questi incontri emerge, predisponendo iniziative ed interventi tra loro coordinati e da attuare eventualmente anche nelle prossime tappe del Percorso pastorale.
I momenti dell’ascolto: i due tempi dell’anno
 26.   L’esercizio dell’ascolto può essere declinato in due momenti durante questo anno pastorale.
Il primo momento, dall’inizio dell’anno pastorale fino all’inizio della Quaresima, deve essere inteso come tempo di ascolto per raccogliere una vivace e ricca recensione dei racconti delle persone, in rapporto alle diverse esperienze: la relazione di coppia, l’educazione dei figli, il lavoro, il cammino affettivo dei ragazzi e dei giovani, il matrimonio e la vita familiare nel contesto ecclesiale e sociale di oggi. Il racconto e l’esperienza di molte persone faranno trasparire anche quello che viene recepito dalla parola di Dio e dalla dottrina della Chiesa a proposito del matrimonio, della realtà familiare e dei compiti della famiglia nella vita ecclesiale e sociale.
Il secondo momento si colloca nella parte successiva dell’anno pastorale, dall’inizio della Quaresima fino all’estate. In questo secondo momento – dopo che comunità e famiglia hanno cercato di accostarsi al “Vangelo del matrimonio e della famiglia” – l’ascolto deve essere inteso come una raccolta comune di prospettive e di proposte, adatte alla propria comunità e al proprio territorio, che facciano ripartire una pastorale familiare più dinamica, organica e completa, in conformità alle richieste del Vangelo e aderente alle situazioni e alle esigenze attuali.

 Le persone: i soggetti dell’ascolto
 27.  L’esercizio dell’ascolto, vissuto durante l’anno pastorale nei due momenti indicati e condotto con la guida sapiente del Consiglio pastorale, potrà utilmente avvalersi dell’apporto di idee e di esperienza di due categorie di persone.
Innanzitutto la prospettiva missionaria che caratterizza il Percorso pastorale ci indirizza verso persone o gruppi che, pur vivendo la fede, non sperimentano una particolare frequentazione della comunità cristiana. Sono persone da ricercare tra i giovani, i fidanzati, i conviventi, le famiglie, i divorziati, tra coloro che abbiano competenze relative alla famiglia, all’educazione, alla politica sociale. In questo modo, diamo la possibilità a molte persone, che comunemente non hanno l’occasione o la possibilità di intervenire, di portare alla comunità l’apporto della propria esperienza diretta di vita e di fede. Con delicatezza e coraggio sarebbe opportuno e significativo coinvolgere in questo ascolto della famiglia anche coloro che sono in ricerca o in crisi di fede o in situazioni affettive e familiari difficili e sofferte.
In secondo luogo è indispensabile ascoltare e coinvolgere in questo racconto di esperienza della vita familiare e di adesione alla Parola tutti coloro che sono in grado di osservare la realtà familiare dal punto di vista della cura pastorale della comunità, come i sacerdoti, i diaconi, le persone consacrate, il consiglio pastorale, gli operatori pastorali dei diversi settori, i catechisti, i responsabili di gruppi familiari e tutti coloro che già vivono qualche servizio nella comunità. La responsabilità e il servizio che ciascuno già esercita trova in questo cordiale e sincero confronto un luogo vero e intenso di comunione reciproca tra tutte le componenti della comunità. Comunione e missione si saldano insieme e si rafforzano reciprocamente.
 Le modalità: le condizioni spirituali dell’ascolto
 28.  Per attuare una valida pratica dell’ascolto sono necessari alcuni atteggiamenti virtuosi che aprono a un’autentica sensibilità evangelica, sia individuale sia comunitaria, con cui affrontare i vissuti della vita familiare e le indicazioni della proposta ecclesiale: quasi una spiritualità dell’ascolto.
Grazie a tali modalità interiori ed esteriori ci si rapporta e si interagisce con le altre persone: singoli o coppie di sposi, uomini o donne, giovani o adulti, persone di condizione e appartenenza sociale e culturale diverse, persone conosciute o non conosciute, presenti in modo assiduo alla comunità o solo saltuariamente…
Tra le modalità più significative per aprirci all’ascolto indichiamo la custodia del silenzio, la gioia della gratitudine, il cuore misericordioso e lo spirito di preghiera.
 In tutte le occasioni in cui quest’anno, attraverso uno scambio reciproco, ci troveremo ad ascoltare la vita delle persone, le situazioni delle famiglie e le indicazioni della parola di Dio, dobbiamo amare e custodire il silenzio. Forse potrà sembrare paradossale, ma per ascoltare gli altri occorre anzitutto ascoltare sé stessi. E ci si ascolta nel silenzio, ossia rendendoci davvero presenti a noi stessi e a ciò che facciamo, imparando a conoscerci e a dare un nome a ciò che ci abita, senza scandalizzarci del male che possiamo trovare. Abbiamo bisogno di solitudine interiore per aprirci agli altri: «Nella solitudine, tu ti vedi; e non vedi ciò che ti è esteriore. Finché guarderai altrove, non ti vedrai mai», diceva Isacco il Siro (Lettera a un fratello sull’amore della solitudine).
È necessario custodire il silenzio perché il silenzio custodisca la nostra interiorità. Scava nel profondo del nostro “io” uno spazio per farvi abitare il “tu” dell’Altro e per ascoltare la sua Parola. Un mistico siro-orientale del VII secolo, Giovanni di Dalyatha, diceva: «Fa’ tacere la tua lingua affinché il tuo cuore sia calmo, e fa’ tacere il tuo cuore affinché lo Spirito parli in lui» (Omelie sui doni dello Spirito). Nello steso tempo il silenzio scava nel profondo per farvi abitare il “tu” degli altri e ci dispone a un ascolto attento, intelligente, cordiale e saggio.
 Nell’incontro, nell’accoglienza e nell’ascolto degli altri siamo chiamati a possedere un animo riconoscente, a coltivare la gioia della gratitudine. Molto spesso la maturità di una persona o di una comunità si esprime attraverso il suo spirito di gratitudine di fronte a tanta ricchezza di grazia e di amore che il Signore non si stanca di riversare nei cuori umani e nelle vicende della storia. Siamo dunque chiamati a ringraziare Dio, il datore di ogni bene, ma anche i fratelli per il bene che compiono e per la ricchezza spirituale che in tal modo offrono agli altri. È un dono dello Spirito il renderci conto di tutto quanto abbiamo ricevuto e riceviamo: le grazie del Signore sono sempre più numerose e preziose dei limiti e delle colpe nostre e dell’umanità.
La vera gratitudine è capace di criticità, di coraggio, di innovazione, di profezia. E sa intraprendere tutto questo con intelligenza e determinazione, con perseveranza e serenità. Le nostre comunità siano comunità in cui, nonostante i veloci cambiamenti e le fatiche quotidiane, ci si rende conto del sacrificio e del dono che molti fratelli e sorelle – in ogni vocazione e stato di vita – offrono ogni giorno al Signore come culto spirituale (cfr Romani 12,1-2) nella prospettiva di edificare il Regno di Dio nella storia, di cooperare alla diffusione del Vangelo (cfr Filippesi, 1,3-8).
 Per praticare l’ascolto e per entrare in sintonia con il vissuto degli altri è necessario un cuore misericordioso, senza asprezza, senza giudizio, senza condanna, senza intolleranza. Il cuore misericordioso ama e proclama la verità, ma lo fa con amore e per amore, specie quando la verità è particolarmente esigente. Il cuore misericordioso è innanzitutto cosciente del fatto che ciascuno di noi attraversa le sue difficoltà, conosce le sue povertà, sente il peso dei propri peccati. Per questo lascia a Dio solo il giudizio insindacabile sull’agire umano (cfr 1 Corinzi 4, 3-4).
Riascoltiamo le parole di Paolo VI rivolte ai sacerdoti nel loro ministero verso gli sposi e le famiglie: «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare (cfr Giovanni 3,17), egli fu certo intransigente con il male, ma misericordioso verso le persone» (enciclica Humanae vitae, 29).
Un cuore misericordioso sa riconoscere le diversità che ci sono nella storia e nella vita delle persone e delle famiglie, sa correggere e perdonare, incoraggia sempre e valorizza anche la più piccola briciola di bene.
Un cuore misericordioso fa crescere la comunità e aiuta i suoi fratelli a vivere l’autentica carità (cfr 1 Corinzi 13,1-13), ciascuno nella propria vocazione, con umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportando a vicenda con amore e conservando l’unità per mezzo del vincolo della pace (cfr Efesini 4,1-3).
 Infine, è possibile veramente ascoltare soltanto se si coltiva un profondo spirito di preghiera. Il cammino che intraprendiamo insieme quest’anno dovrà essere accompagnato da un’abbondante preghiera personale e comunitaria.È, infatti, nel rapporto superlativamente personale e amicale con Gesù e nella preghiera comune della Chiesa che ci sarà dato di riscoprire e di apprezzare la verità e la bellezza della vita e dell’amore, di individuare i passi da compiere, di ricevere dallo Spirito la forza per superare le nostre difficoltà e per affidarci a lui, che viene in aiuto alla nostra debolezza e sostiene la nostra perseveranza (cfr Romani 8, 24-27).
La preghiera ci introduce nel cuore di Dio e crea uno stile di ascolto reciproco: a Dio noi rivolgiamo la nostra parola e lui dona a noi la sua parola. E ciò è decisivo per l’ascolto delle parole degli uomini. Infatti, solo se e nella misura in cui nella preghiera rimaniamo in ascolto della parola del Signore, potremo ricevere la grazia di ascoltare a nostra volta – e con il cuore stesso di Dio – le parole delle persone e delle famiglie.

Publié dans:biblica, pastorale |on 23 avril, 2013 |Pas de commentaires »

LEGGERE LA STORIA DI DON BOSCO CON IL CRITERIO DELLA CARITÀ PASTORALE

http://www.zenit.org/article-29279?l=italian

LEGGERE LA STORIA DI DON BOSCO CON IL CRITERIO DELLA CARITÀ PASTORALE

Giornate di Spiritualità della Famiglia Salesiana

di Eugenio Fizzotti
ROMA, mercoledì, 18 gennaio 2012 (ZENIT.org).- «Abbiamo da poco iniziato il triennio di preparazione al Bicentenario della nascita di Don Bosco. Questo primo anno ci offre l’opportunità di avvicinarci di più a lui per conoscerlo da vicino e meglio. Se non conosciamo Don Bosco e non lo studiamo, non possiamo comprendere il suo cammino spirituale e le sue scelte pastorali; non possiamo amarlo, imitarlo ed invocarlo; in particolare, ci sarà difficile inculturare oggi il suo carisma nei vari contesti e nelle differenti situazioni. Solo rafforzando la nostra identità carismatica, potremo offrire alla Chiesa e alla società un servizio ai giovani significativo e ricco di frutti. La nostra identità trova il suo riferimento immediato nel volto di Don Bosco; in lui l’identità diventa credibile e visibile. Per questo il primo passo che siamo invitati a fare nel triennio di preparazione è proprio la conoscenza della storia di Don Bosco».
Inizia così il messaggio che D. Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore dei Salesiani, ha inviato a tutti i suoi confratelli e a tutti i membri della Famiglia Salesiana (exallievi, cooperatori, Figlie di Maria Ausiliatrice, Volontarie di Don Bosco, congregazioni religiose femminili fondate da salesiani in varie parti del mondo) in vista, come prima esperienza, delle Giornate di Spiritualità che avranno luogo dal 19 al 22 gennaio 2012 a Roma presso la Casa Generalizia in Via della Pisana 1111, e che avranno come tema la bella frase evangelica: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11 e punteranno attraverso conferenze e testimonianza ad approfondire la conoscenza di Don Bosco come educatore e pastore, fondatore, guida e legislatore, assumendo a livello personale e comunitario le sue ispirazioni, le sue motivazioni e le sue scelte in modo da «coltivare un amore costante e forte verso i giovani, specialmente i più poveri, che porta a rispondere ai loro bisogni più urgenti e profondi e alle loro situazioni di difficoltà: la povertà, il lavoro minorile, lo sfruttamento sessuale, la mancanza di educazione e di formazione professionale, l’inserimento nel mondo del lavoro, la poca fiducia in se stessi, la paura davanti al futuro, lo smarrimento del senso della vita».
Essere animati dallo spirito creativo di Don Bosco consente, sottolinea Don Chávez Villanueva, di «essere vicini ai giovani come “digital immigrates”, aiutandoli a superare il gap generazionale con i loro genitori e il mondo degli adulti. Ci prendiamo cura di loro durante tutto il loro cammino di crescita e maturazione, dedicando loro il nostro tempo e le nostre energie e stando con loro, nei momenti che vanno dalla fanciullezza alla giovinezza. Ci prendiamo cura di loro, quando difficili situazioni, come la guerra, la fame, la mancanza di prospettive, li portano all’abbandono della propria casa e famiglia ed essi si trovano soli ad affrontare la vita. Ci prendiamo cura di loro, quando dopo lo studio e la qualificazione, sono ansiosamente alla ricerca di una prima occupazione di lavoro e si impegnano a inserirsi nella società, talvolta senza speranza e prospettive di riuscita. Ci prendiamo cura di loro, quando stanno costruendo il mondo dei loro affetti, la loro famiglia, soprattutto accompagnando il loro cammino di fidanzamento, i primi anni del loro matrimonio, la nascita dei figli».
Per riscoprire la storia di Don Bosco le Giornate di Spiritualità consentiranno ai partecipanti di approfondire dal punto di vista biblico, attraverso la relazione di D. Juan José Bartolomé, l’essere “figli di un sognatore e realizzatori di una profezia”, tenendo ben presente che aveva appena 9 anni il piccolo Giovanni Bosco quando fece quel sogno straordinario nel quale la Vergine Maria gli fece comprendere che era importante impegnarsi per aiutare i suoi compagni, che manifestavano comportamenti aggressivi e violenti, a diventare buoni. E in tale prospettiva troverà ampio spazio una tavola rotonda sul tema “I volti dei giovani d’oggi” nella quale D. Hubert Geleen approfondirà le povertà culturali e spirituali, una Figlia di Maria Ausiliatrice dello Sri Lanka la povertà materiale e D. Jean-Marie Petitclerc le povertà sociali e affettive.
È comprensibile, quindi, che l’iniziativa ha come obiettivo di sottolineare che «Don Bosco rimane tuttora un personaggio di notevole levatura e di alto gradimento, una figura a tutto tondo, non riconducibile a semplici formule o a titoli giornalistici, una personalità complessa, fatta di realtà ad un tempo ordinarie ed eccezionali, di progetti concreti, ideali e ipotetici, di uno stile quotidiano di vita e azione, e insieme di particolari rapporti con il soprannaturale». E studiare la storia di Don Bosco vuol dire, richiama il Rettor Maggiore dei Salesiani, «conoscerlo come Fondatore, perché lo richiede la nostra fedeltà alla istituzione cui apparteniamo, conoscerlo come Legislatore, in quanto siamo tenuti ad osservare le Costituzioni e i Regolamenti che egli direttamente o i suoi successori ci hanno dato, conoscerlo come Educatore, affinché possiamo vivere il Sistema Preventivo, preziosissimo patrimonio che egli ci ha lasciato, conoscerlo in particolare come Maestro di vita spirituale, per il fatto che alla sua spiritualità attingiamo come suoi figli e discepoli; egli infatti ci ha offerto una chiave di lettura del vangelo; la sua vita è per noi un criterio per realizzare con caratteristiche peculiari la sequela del Signore Gesù».

Publié dans:pastorale, Santi |on 18 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

« PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI » (di padre Piero Gheddo)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28936?l=italian

« PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI »

Le idee e i valori rivoluzionari portati dalla Bibbia e dal Vangelo all’umanità

di padre Piero Gheddo

ROMA, sabato, 10 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Ecco un interrogativo che ricorre fra le persone colte e la stampa di paesi non cristiani: perchè il mondo moderno è nato nell’Occidente cristiano e non, ad esempio, nell’Oriente buddhista o indù o islamico oppure nel profondo dell’Africa nera? La risposta è questa: Dio ha rivelato se stesso mandando il proprio Figlio Gesù Cristo come Messia (salvatore) e l’ha fatto nascere nel popolo ebraico, che aveva lungamente preparato ad accoglierlo. Dopo la sua morte in Croce e la sua Risurrezione, Cristo ha fondato la comunità dei suoi credenti (la Chiesa) mandandola in tutto il mondo a dare la “Buona Notizia” del Vangelo, che ha rivoluzionato la storia dell’umanità. Gli Apostoli e i loro successori hanno iniziato a diffondere la Chiesa fra i popoli del Mediterraneo, a quel tempo unificati nell’Impero romano e con un ambiente filosofico-culturale adatto, in cui la verità di Cristo poteva inculturarsi meglio che altrove, grazie alla razionalità della filosofia greca, al diritto e al senso della storia dell’impero romano.
    “La religione è la chiave della storia”
    Nel 1942 il sommo filosofo italiano, l’agnostico Benedetto Croce, pubblicava il saggio intitolato “Perché non possiamo non dirci cristiani”, che un altro filosofo, Marcello Pera (già presidente del Senato italiano), così giudica[1]: “Saggio splendido, lucido, vigoroso, sereno, composto tra dolore e speranza, che si iscrive nella letteratura della crisi della civiltà europea”. E cita dal volume di Croce questi giudizi: “Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto…. Tutte le altre rivoluzioni non sostengono il suo confronto… Le rivoluzioni che seguirono nei tempi moderni non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana…. Il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell’impulso dato da Gesù e da Paolo…. “(Esiste) un legame tra il messaggio di Gesù e la vita della libertà…. Il cristianesimo sta nel fondo  del pensiero moderno e del suo ideale etico”, tanto che si può parlare di “sostanza cristiana del liberalismo”.
     Christopher Dawson afferma che « la religione è la chiave della storia »: l’emergere e l’affermarsi nel mondo d’oggi della civiltà occidentale non trova altra spiegazione (se non vogliamo cadere nel razzismo) che nella visione messianica e ottimista della storia propria dell’ebraismo e del cristianesimo ([2]). Il biblista Alessandro Sacchi scrive: “Il concetto di una storia guidata da Dio verso un fine positivo è uno dei contributi più grandi che la Bibbia ha dato al progresso umano. Infatti, solo chi ha la speranza di un futuro migliore può impegnarsi efficacemente nelle realtà terrene per cambiarle e migliorarle. E di fatto la Bibbia, riflettendo sulla creazione alla luce dell’alleanza (fra Dio e gli uomini), afferma che Dio ha dato all’uomo il potere di soggiogare la terra e di dominare su tutti gli animali (Genesi, 1, 28). E’ ammesso da tutti ormai che la mancanza di sviluppo nel terzo mondo è dovuta in gran parte proprio all’assenza di un preciso concetto di storia” ([3]).
     E poi esamina come questi valori evangelici contribuiscono allo sviluppo dei popoli e aggiunge: “Chi è vissuto in mezzo a popoli non ancora evangelizzati([4]) si è reso conto come l’assenza di certe idee e di valori tipicamente cristiani condizioni pesantemente il loro sviluppo, non solo religioso e umano, ma anche sociale e politico. Offrire ad essi in modo fraterno e disinteressato questi valori è senza dubbio il più grande servizio che si può fare loro. E’ chiaro che la diffusione di idee cristiane non può che aprire la strada a Colui che ne è stato l’ideatore, portando così ad una progressiva cristianizzazione del mondo”.
     Alioune Diop (1910-1980, che nel 1947 fondò a Parigi « Présence Africaine »[5]) scriveva negli anni sessanta[6]: « La tradizione africana ignora il concetto stesso di storia e di progresso: noi non guardiamo avanti, ma indietro: il nostro ideale non è un mondo migliore, ma il mondo degli antenati da conservare tale e quale l’abbiamo ereditato. Le nozioni di progresso, di rivoluzione, di cambiamento, sono specifiche del genio europeo. Né la Cina né il mondo nero riescono a giustificare razionalmente i cambiamenti”.
     Un missionario Comboniano in Burundi, padre Enrico Bartolucci, conferma[7]: “Gli africani, prima che la colonizzazione li tirasse fuori dal loro isolamento, non cercavano il progresso, ma l’equilibrio, il mantenimento dello status quo. Si preoccupavano non di progredire, ma di non cambiare. Non si trattava di dominare la natura, ma di rispettarla e di adattarvisi. Voler trasformare e correggere la natura all’africano sembrava un atto di arroganza contro le forze misteriose che dominano la natura stessa”.
     Padre Silvano Zoccarato, che dal 1971al 2006 ha lavorato fra i Tupurì (nord del Camerun), scrive[8]: « Il tempo in cui si muove l’africano è più una ripetizione del passato che novità del presente. Il futuro è la fedeltà al suo passato. Culturalmente il futuro non gli appartiene ed egli non riesce a fare il passo dal tempo mitico al tempo storico che comprende passato, presente e futuro ». La Parola di Dio apre agli uomini le prospettive del futuro, cioè di un cammino in avanti dell’umanità per un mondo più vivibile per l’uomo. Ma questo cammino verso il futuro è faticoso e necessita di valori e di orientamenti che Dio stesso ha dato all’uomo con la Bibbia, il Vangelo e la persona di Gesù.
     Non è facile per l’uomo d’oggi capire queste differenze culturali-religiose, ad esempio fra cultura-religione africana e cultura-religione cristiana. Ormai siamo in un mondo “globalizzato” nel quale, con i rapidissimi mezzi comunicazione dei quali disponiamo, c’è appunto una “globalizzazione” delle culture e delle mentalità. Oggi è in atto una omologazione delle culture e dei comportamenti, ma il problema di fondo per capire “sviluppo e sottosviluppo” sta nel fatto che i popoli vivono in epoche storiche diverse: noi cristiani nel 2000 dopo Cristo, i musulmani nel 1400 dopo Maometto, l’Africa nera è stata tratta fuori dalla preistoria dalla colonizzazione poco più di un secolo fa (erano senza scrittura, in un’economia di sussistenza). Erano popoli che vivevano isolati, come gli indios dell’Amazzonia, i papua della Nuova Guinea, i tribali di India, Bangladesh e Vietnam.
     Anche se oggi tutti i popoli usano la bicicletta, il telefonino, il computer, l’aereo e la televisione, non si capisce il perché di sviluppo e sottosviluppo, se non si risale alle radici storiche dei singoli popoli, che spiegano il diverso cammino storico riguardo allo sviluppo. Ecco in breve le idee e i valori rivoluzionari portati dalla Bibbia e dal Vangelo, cioè dal cristianesimo, all’umanità, che non ci sono in altre religioni e culture.
Per chiunque volesse approfondire il tema consigliamo la lettura del libro: “Meno male che Cristo c’è” (Editrice Lindau, Torino, pagg. 330).
——————————————-
[1] MarcelloPera, “Perché dobbiamo dirci cristiani – Il liberalismo, l’Europa e l’etica”, Mondadori 2008, pagg. 49-50.
[2]) C. Dawson, « Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale », Rizzoli 1997, pagg. 19 segg.
[3]) Alessandro Sacchi, « La missione cristiana contributo indispensabile allo sviluppo dei popoli », in « Mondo e Missione », gennaio 1984, pagg. 56-61.
[4] Padre Alessandro Sacchi del Pime è stato missionario in India negli anni settanta e ottanta.
[5] ) Celebre rivista che diventò il maggior strumento di elaborazione e valorizzazione del pensiero africano moderno.
[6]) Citato da Ernesto Toaldo in “Fattori culturali e politici dello sviluppo” in “Primo corso studi terzo mondo”, Editrice Pime 1969, n. 6, pag. 7.
[7] ) E. Bartolucci,  in “Nigrizia”, Verona, ottobre 1969, pag. 12.
[8] ) S. Zoccarato, “Cosa per saggi, 100 proverbi dei Tupurì”, EMI 1988, pag. 89.

Publié dans:FILOSOFIA, pastorale |on 10 décembre, 2011 |Pas de commentaires »

EDUCARE ALL’ACCOGLIENZA A PARTIRE DALLA CUSTODIA DEL CREATO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27957?l=italian

EDUCARE ALL’ACCOGLIENZA A PARTIRE DALLA CUSTODIA DEL CREATO

di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA, giovedì, 15 settembre 2011 (ZENIT.org).- La Chiesa che è in Italia ha individuato nel primo di settembre la giornata di riflessione e preghiera circa i rapporti tra umanità e ambiente e la ha denominata “Giornata per la Salvaguardia del Creato”. Il tema di quest’anno è: “In una terra ospitale educhiamo all’accoglienza”. E’ stato predisposto dalle Commissioni Episcopali CEI per i Problemi del Lavoro e per l’Ecumenismo, un messaggio suddiviso in quattro parti: l’uomo, creatura responsabile ed ospitale; il problema dei rifugiati ambientali; educare all’accoglienza; i miti eredi di questo mondo.
Destinatari di questa presa di coscienza anzitutto sono le nostre comunità cristiane e i singoli christifideles di tutte le età, stati di vita e ceti sociali. Il creato è la dimensione spazio-temporale in cui il Creatore ha fatto l’uomo sua immagine e somiglianza (Gen 2,8-15) per custodire e, come dice il Concilio Vaticano II, per perfezionare ciò che Lui aveva chiamato ad essere. Mi rivolgo ai fedeli laici presenti ed impegnati nelle nostre comunità cristiane e a coloro che sono presenti nella ‘città terrigena’ quale sale e luce di quei valori non negoziabili che debbono contraddistinguere l’operato di un cattolico nella società.
1. L’uomo, creatura responsabile ed ospitale
E’ opportuno riflettere sull’identità della persona umana che è grande proprio perché è l’immagine di Dio e quindi, in primis, l’uomo deve dare cittadinanza a Dio nella sua coscienza e nei suoi parametri di valutazione e di azione. Il credente ha il compito di aiutare la società di oggi a riconoscere che l’uomo è realtà penultima e Dio è la sua piena realizzazione. Ed in questo, direbbe S. Agostino, l’uomo trova pace. Ogni percorso di pensiero antropologico ci presenta la persona umana come soggetto che, in virtù delle sue capacità razionali di intendere e volere, è anche responsabile dei suoi pensieri, delle sue azioni e omissioni. Questa sua responsabilità la deve espletare nei rapporti con Dio, con sé stesso e con il suo prossimo. Una responsabilità per il cristiano diversa dalla risposta di Caino: “sono forse io custode di mio fratello?” (Gen 4,9) che si fa accoglienza e generosa tutela del più debole, nella legalità e nella giustizia, premessa questa per un vero e profetico atto di carità. E’ la consapevolezza dell’appartenenza alla stessa natura umana che ci deve spingere a tutelare nel fratello/sorella in difficoltà, l’imago Dei. E’ la stessa dignità di figlio di Dio che ci dona il battesimo e la fede in Cristo Gesù che non può lasciarci indifferenti nei confronti dei diseredati e quindi offrire loro gesti concreti di speranza.
2. Il problema dei rifugiati ambientali
L’abbandono da parte di singole persone, famiglie o gruppi comunitari di adulti, giovani e bambini di territori del nostro pianeta per la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole,  l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della bio-diversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali(1), ci interpella chiedendoci anzitutto di conoscere e informare su questa nuova e drammatica forzata migrazione. Tutti possiamo fare opinione e pressione sulla comunità internazionale e sulle persone che hanno a cuore l’habitat dell’intera umanità perché, anzitutto, si intervenga concretamente “a quo” sul da farsi nell’arrestare quei fenomeni di impoverimento ambientale che hanno la loro causa nella speculazione e nella mal gestione del territorio.
3. Educare all’accoglienza a partire dalla custodia del creato
Accogliere è uno degli atteggiamenti che gli Apostoli hanno rilevato nella vita di Cristo Gesù. Infatti il Maestro e Signore accoglie i peccatori, i malati, i fanciulli, i dubbiosi e inoltre non disdegna di entrare nella casa di Zaccheo e di accogliere Nicodemo di notte. L’accoglienza è uno stile che non può mancare in una comunità cristiana. Il messaggio dei Vescovi italiani per la 6a giornata per la salvaguardia del Creato ci esorta a farci carico del Creato. Anzitutto lodando Dio per ciò che ci ha donato , sentendoci responsabili dell’intera creazione, ed infine facendo nostro lo stile della gratuità e del servizio nei confronti di ogni persona. Il tutto deve partire da una convinzione che ci viene dalla fede e cioè che è in Cristo che la solidarietà diviene reciprocità e vera fraternità. La giornata della salvaguardia del Creato può essere inoltre l’occasione per un incontro tra le varie confessioni cristiane che si pongono quale coscienza per tutta la società al fine di sensibilizzare l’intera famiglia umana a cooperare “affinché le risorse ambientali siano preservate dallo spreco, dall’inquinamento, dalla mercificazione e dall’appropriazione da parte di pochi”(2). Anche questo impegno diviene evangelizzazione e rispetto delle vestigia del Creatore e della sua sapiente attenzione per la vita.
4. I miti, eredi di questo mondo
Matteo nel riportare il discorso della Montagna ci offre un criterio di “possesso” che non appartiene alla logica della sopraffazione o dell’imposizione. Per lui coloro che possederanno la terra nella logica del regno di Dio sono i miti (Mt 5,5), cioè coloro che nella semplicità di un cuore limpido e puro sono lontani da cattiverie, speculazioni o linguaggi violenti e quindi si commuovono e si preoccupano del bene di ogni creatura e persona. Chi sa realizzare per sé la attenzione evangelica della mitezza è colui che più di ogni altro può concretamente spendersi per far comprendere il dono della creazione e il dovere di custodirla vedendo in questo un indiretto atto di amore verso Dio creatore e signore di tutte le cose.
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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo-vescovo di Trieste e Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE).

Publié dans:pastorale |on 15 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

La pastorale dei camionisti, un « piccolo tesoro nascosto »

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17384?l=italian

La pastorale dei camionisti, un « piccolo tesoro nascosto »

L’Arcivescovo Marchetto interviene in Austria sul tema

di Roberta Sciamplicotti

INNSBRUCK, lunedì, 2 marzo 2009 (ZENIT.org).- La pastorale dei camionisti può essere considerata un « piccolo tesoro nascosto » della cura pastorale e va trattata con attenzione considerando le tante sfide che devono affrontare gli autotrasportatori.

E’ quanto ha affermato questo lunedì l’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, affrontando il tema della Pastorale per i Camionisti in Europa all’Incontro promosso dall’Association Européenne des Concessionnaires d’Autoroutes à Péage (ASECAP), in svolgimento a Innsbruck (Austria) sulla sicurezza stradale nel continente europeo.

La pastorale dei camionisti, ha ricordato il presule, è stata trattata per la prima volta cinquant’anni fa da Papa Pio XII, che la definiva « una causa missionaria molto piccola con una parrocchia molto vasta ».

Il 44% dei beni in Europa, del resto, è trasportato su strada, e si pensa che per il 2010 il numero dei camion sarà aumentato del 50% rispetto al 1988. Le ultime statistiche mostrano inoltre come in più di 40.000 incidenti annui sulle strade europee i camionisti siano responsabili solo nel 4% dei casi, anche se il tasso di mortalità tra di loro è del 16%.

Per la Chiesa, ha spiegato l’Arcivescovo, « la mobilità e i trasporti possono esprimere un collegamento globale nel contesto della famiglia umana che può promuovere lo scambio e la comprensione ».

Per questo motivo, è necessario prestare una particolare attenzione a quanti lavorano in questo settore, ricordando che « soprattutto quelli che compiono lunghi viaggi affrontano una vasta gamma di sfide e problemi che richiedono un approccio pastorale distinto e specifico ».

Queste difficoltà, ha osservato, sono essenzialmente di cinque tipi: « fisiche, personali, morali, sociali e spirituali ».

Dal punto di vista fisico, il mestiere del camionista è piuttosto duro, ha ricordato il presule: « bisogna percorrere lunghe distanze. A volte a ogni tappa ci sono il carico e lo scarico della merce. Spesso c’è una stanchezza che porta ad essere esausti. C’è la mancanza di esercizio, essendo confinati nel piccolo spazio della cabina, così come c’è esposizione a fumi e a inquinamento atmosferico ».

Questa situazione « può portare a problemi a livello mentale, con stress, solitudine e monotonia che possono condurre a vari gradi di isolamento e depressione ». Allo stesso modo, « eccessivi doveri e pressioni possono portare a rabbia e tensione che possono manifestarsi in una guida aggressiva e pericolosa ».

Altri pericoli sono rappresentati dagli assalti per rubare il carico e dalla mancanza di concentrazione, manifestata recentemente dal tentativo di un gruppo di camionisti francesi di ideare un modo per guidare e guardare la televisione allo stesso tempo. A volte, purtroppo, gli autotrasportatori entrano in giri di traffico di esseri umani o di contrabbando.

Riguardo alla questione sociale, l’Arcivescovo Marchetto ha ricordato che il mestiere del camionista provoca « isolamento, separazione dagli amici, dalla famiglia e dai figli, con l’incapacità di vivere una normale vita familiare ».

« A volte questa separazione può portare gli autotrasportatori a cercare partner sessuali altrove, provocando tensioni personali e matrimoniali », ha rilevato, constatando che si può arrivare anche a cercare rifugio nella droga e/o nell’alcool. Spesso si può poi essere incapaci di condurre una vita normale « per la mancanza di coordinamento in ambienti linguistici e culturali diversi ».

Circa gli aspetti spirituali, il presule ha sottolineato come per le persone di fede ci sia « la necessità di avere accesso ai sacramenti, all’assistenza e alla preghiera ».

Da questo punto di vista, in Europa « non si naviga in acque del tutto inesplorate », anche se « molto dipende dall’eredità spirituale e culturale del Paese, dalle risorse della Chiesa e dalla particolare visione di Vescovi, pastori e laici ».

Molti Paesi, ha ricordato l’Arcivescovo, hanno già dato vita a iniziative come « cappelle (fisse o mobili) lungo le autostrade, visite a strutture di servizio pastorale, liturgie celebrate nelle aree autostradali e nei parcheggi per i camion ».

« Il processo consiste soprattutto nel non creare una ‘Chiesa della strada’, con la celebrazione della Messa (se si desidera ed è possibile) distinta e del tutto separata, ma nell’aiutare la gente sulla strada a integrarsi nella vita generale della Chiesa ».

Un altro settore dell’assistenza pastorale è quella delle famiglie che restano a casa, « importante per salvaguardare i legami matrimoniali e familiari e per creare uno spazio di accoglienza dove l’autista possa tornare, riposare e trovare nutrimento umano, spirituale e mentale ».

Se molto è stato fatto con l’avvento dei telefoni cellulari e delle risorse tecnologiche, « si potrebbe fare di più dotando i bar sulle autostrade e i parcheggi per camion di connessioni Internet e dei mezzi per parlare e vedere attraverso il web », constata.

Per questo, ha concluso l’Arcivescovo, è necessario trovare « nuovi modi di cooperazione e coordinamento, perché la strada possa essere un posto più sicuro in cui vivere e lavorare e dove la dignità di ogni persona umana sia la prima preoccupazione ».

Publié dans:pastorale |on 3 mars, 2009 |Pas de commentaires »

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