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«PERCHÉ ABBIAMO FIDUCIA NELL’UOMO» – DI PAOLO VI, 50 ANNI DALL’ELEZIONE

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«PERCHÉ ABBIAMO FIDUCIA NELL’UOMO»

DI PAOLO VI | 21 GIUGNO 2013

NEL GIORNO IN CUI RICORRONO I 50 ANNI DALL’ELEZIONE DI PAOLO VI LO RICORDIAMO CON UN BRANO DAL DISCORSO CHE TENNE A CONCLUSIONE DEL CONCILIO

Il 21 giugno 1963 – esattamente cinquant’anni fa – veniva eletto Paolo VI. Oggi vogliamo ricordare questa figura della Chiesa del Novecento riprendendo un brano dell’allocuzione che tenne il 7 dicembre 1965 durante l’ultima seduta pubblica del Concilio Vaticano II. Sono parole che ci sembrano particolarmente belle da rileggere nella stagione ecclesiale di oggi.
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Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria. Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti. È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé, e per ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio: cantare amantis est, dice S. Agostino (Serm. 336; P.L. 38, 1472). I documenti conciliari principalmente quelli sulla divina Rivelazione, sulla Liturgia, sulla Chiesa, sui Sacerdoti, sui Religiosi, sui Laici, lasciano chiaramente trasparire questa diretta e primaria intenzione religiosa, e dimostrano quanto sia limpida e fresca e ricca la vena spirituale, che il vivo contatto col Dio vivo fa erompere nel seno della Chiesa, e da lei effondere sulle aride zolle della nostra terra.

La carità
Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente fra la Chiesa e la civiltà profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni.
Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; e nessuno potrà rimproverarlo d’irreligiosità o d’infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento, quando ricordiamo che è Cristo stesso ad insegnarci essere la dilezione ai fratelli il carattere distintivo dei suoi discepoli (cfr. Io. 13, 35), e quando lasciamo risuonare ai nostri animi le parole, apostoliche: «La religione pura e immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo» (Iac. 1, 27); e ancora: «chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede»? (1 Io. 4, 20).
La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il «filius accrescens» (Gen. 49, 22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via.
L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.

Fiducia nell’uomo . . .
E che cosa ha considerato questo augusto Senato nella umanità, che esso, sotto la luce della divinità, si è messo a studiare, ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, ed il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità. Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette.
Vedete, ad esempio: gli innumerevoli linguaggi delle genti oggi esistenti sono stati ammessi a esprimere liturgicamente la parola degli uomini a Dio e la Parola di Dio agli uomini, all’uomo in quanto tale è stata riconosciuta la vocazione fondamentale ad una pienezza di diritti e ad una trascendenza di destini; le sue supreme aspirazioni all’esistenza, alla dignità della persona, alla onesta libertà, alla cultura, al rinnovamento dell’ordine sociale, alla giustizia, alla pace, sono state purificate e incoraggiate; e a tutti gli uomini è stato rivolto l’invito pastorale e missionario alla luce evangelica. Troppo brevemente noi ora parliamo delle moltissime e amplissime questioni, relative al benessere umano, delle quali il Concilio s’è occupato; né esso ha inteso risolvere tutti i problemi urgenti della vita moderna; alcuni di questi sono stati riservati all’ulteriore studio che la Chiesa intende farne, molti di essi sono stati presentati in termini molto ristretti e generali, suscettibili perciò di successivi approfondimenti e di diverse applicazioni.

. . . e dialogo
Ma una cosa giova ora notare: il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è.
E un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero ha occupato un posto centrale.
Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì.
Ma chi bene osserva questo prevalente interesse del Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma, e dovrà riconoscere che quello stesso interesse non è mai disgiunto dall’interesse religioso più autentico, sia per la carità, che unicamente lo ispira (e dove è la carità, ivi è Dio!), e sia per il collegamento, dal Concilio sempre affermato e promosso, dei valori umani e temporali, con quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni: sull’uomo e sulla terra si piega, ma al regno di Dio si solleva.

Amare l’uomo per amare Dio
La mentalità moderna, abituata a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto del valore, cioè della sua utilità, vorrà ammettere che il valore del Concilio è grande almeno per questo: che tutto è stato rivolto all’umana utilità; non si dica dunque mai inutile una religione come la cattolica, la quale, nella sua forma più cosciente e più efficace, qual è quella conciliare, tutta si dichiara in favore ed in servizio dell’uomo. La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità; in un certo senso, essa è la vita dell’umanità. È la vita, per l’interpretazione, finalmente esatta e sublime, che la nostra religione dà all’uomo (non è l’uomo, da solo, mistero a se stesso?); e la dà precisamente in virtù della sua scienza di Dio: per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio; ci basti ora, a prova di ciò, ricordare la fiammante parola di S. Caterina da Siena: «nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia» (Or. 24). È la vita, perché della vita descrive la natura ed il destino, le dà il suo vero significato. È la vita, perché della vita costituisce la legge suprema, e alla vita infonde la misteriosa energia che la fa, possiamo dire, divina.
Che se, venerati Fratelli e Figli tutti qui presenti, noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (cfr. Matth. 25, 40), il Figlio dell’uomo e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo poi ravvisare il volto del Padre celeste: «chi vede me, disse Gesù, vede anche il Padre» (Io. 14, 9), il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico; tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni? non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento ad amare l’uomo per amare Iddio? amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore. E allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio «dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere» (S. August., Solil. 1, 1, 3; P. L. 32, 870).
Così noi speriamo al termine di questo Concilio ecumenico vaticano secondo e all’inizio del rinnovamento umano e religioso, ch’esso s’è prefisso di studiare e di promuovere; così speriamo per noi, Fratelli e Padri del Concilio medesimo; così speriamo per l’umanità intera, che qui abbiamo imparato ad amare di più ed a meglio servire.

Publié dans:Papa Paolo VI |on 24 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

SANTA MESSA DELL’ASCENSIONE DEL SIGNORE – PAPA PAOLO VI 1975

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SANTA MESSA DELL’ASCENSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

8 maggio 1975

Fratelli venerati e Figli carissimi,

Fedeli alla norma liturgica, noi sospendiamo per un breve momento il sacro rito, che stiamo celebrando, e cerchiamo di fissare la nostra attenzione sul mistero che oggi mette in festa la Chiesa: il mistero dell’Ascensione di nostro Signor Gesù Cristo al cielo, dove Egli siede nella gloria alla destra del Padre. Mistero dell’Ascensione! oh! veramente mistero! mistero per ciò che si riferisce a Cristo; mistero per il modo con cui a noi è dato ancora di pensare e di avere presente la sua divina ed umana figura, e mistero per il riflesso che questo estremo e supremo destino di Cristo ha su quello dell’umanità, sulla Chiesa da lui fondata, sulla terra e su ciascuna delle nostre esistenze.
Oh! veramente mistero, sia nel senso ontologico e teologico che questo avvenimento ultimo e conclusivo della vita di Gesù sulla terra ha nel disegno divino dell’Incarnazione e della Redenzione: quale nuova rivelazione ci è data dalla sua scomparsa dalla scena sensibile e storica di questo mondo! E sia nel senso fenomenico per cui Cristo è sottratto alla nostra terrena conversazione, e misteriosamente scompare dal nostro sguardo sensibile. Ricordiamo la brevissima, ma sorprendente narrazione del fatto, quale ci è data da San Luca nel primo capitolo degli «Atti degli Apostoli», della quale abbiamo testé ascoltata la laconica, ma scultorea lettura: dopo l’ultimo saluto agli Apostoli, con la profetica promessa della missione dello Spirito Santo e della diffusione del Vangelo fra i popoli, Gesù, «mentre essi guardavano, si levò in alto e una nuvola lo nascose ai loro occhi» (Act. 1, 8-9).
Primo aspetto dell’avvenimento, il solo sperimentale: Gesù si innalza, cioè si distacca dalla terra, e scompare, si nasconde: i nostri occhi bruceranno di insonne desiderio di rivederlo, di vederlo ancora; ma fino alla sua «parusia», cioè fino alla sua ultima e apocalittica apparizione, in un mondo totalmente diverso da quello nostro presente, non lo vedremo più! la generazione degli Apostoli scomparirà, senza che la tensione della loro attesa sia soddisfatta; così per le altre generazioni successive, così per la nostra presente generazione, che ancora vive del suo ricordo e ancora aspetta la sua trionfale e finale ricomparsa, Gesù rimane invisibile. Facciamo attenzione, Fratelli e Figli! Invisibile, ma non assente! Innanzi tutto: questo distacco escatologico, cioè ultimo e definitivo, di Gesù dalla umana conversazione è già di per sé una conferma della sua divinità, e un avallo del suo disegno salvifico nella storia universale dell’umanità. Gesù, nei discorsi della notte imminente alla sua passione e alla sua morte, dichiarò: «Io vi rivedrò e il vostro cuore esulterà, e nessuno potrà rapirvi la vostra gioia . . . Io sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre» (Io. 16, 22. 28); «è un bene per voi ch’io me ne vada, perché se non vado, il Paraclito (quale annuncio!) non verrà a voi» (Ibid. 7).
Noi siamo qui in un’atmosfera, che potremmo dire surreale. Ma questa rivelazione ci introduce finalmente nel disegno supercosmico dell’economia soprannaturale: «noi aspettiamo, scriverà l’Apostolo Pietro, nuovi cieli e nuova terra» (2 Petr. 3, 13). Solo che noi, diciamo noi moderni specialmente, educati alla conoscenza scientifica del mondo, e soddisfatti e fieri della sovrabbondante ricchezza delle nostre conquiste sperimentali e culturali, non siamo facilmente predisposti ad ammettere un ordine diverso da quello che costituisce il quadro della nostra presente esplorazione; e sebbene esso ci sveli, ad ogni indagine, una ordinatrice sapienza polivalente, anzi staremmo per dire, una libera fantasia creatrice divina in ogni suo aspetto, noi siamo forse assaliti dal dubbio circa la possibilità, circa la futura realtà d’un ordine soprannaturale, e facilmente mormoriamo col servo cattivo della parabola: «tarda ormai il mio padrone a venire . . . » (Matth. 24, 28); per concludere, circa la dottrina escatologica del Vangelo: sarà vera? non manca forse di prove razionali? Dimenticando così, come dicevamo, che Gesù, – ora invisibile, e tollerante che la vicenda della natura e del tempo proceda col suo inesorabile ritmo, mentr’e il dramma della libertà umana svolge il suo gioco, docile o temerario, – Gesù non è assente, anzi Egli è ancora con noi; sì, con noi, per chi è attento a cogliere nel segno, cioè nel sacramento della sua parola (Io. 8, 25) ovvero della sua immagine riflessa nell’umanità sofferente (Matth. 25, 40), oppure nella sua Chiesa vivente e testimoniante (Cfr. Lumen Gentium, 1; Act. 9, 4), e finalmente nella realtà sacramentale e sacrificale eucaristica la sua multiforme presenza. Come, del resto, Egli, all’ultimo congedo, aveva asserito: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Matth. 28, 20).
Ma come, come vederlo, come riconoscerlo, come riascoltare la sua voce, come aprirgli il nostro cuore, se le vie naturali della nostra conversazione sono incapaci di superare l’abisso, che il mistero dell’Ascensione ha scavato fra Lui e noi? Lo sappiamo. Gesù si è nascosto, affinché noi lo cercassimo; e noi sappiamo qual è l’arte, qual è la virtù, che ci abilita a questa ricerca, anzi a questa scienza superrazionale della misteriosa presenza di Cristo fra noi. È la fede, che nel battesimo ci è infusa, e che ex auditu si determina (Cfr. S. THOMAE In IV Sent. 4, 2, 2, sol. 3), accogliendo cioè la parola di Cristo insegnata dalla Chiesa; la fede, che nel suo esercizio, come c’insegna S. Agostino, ha pure i suoi occhi, habet namque fides oculos suos (Cfr. S. AUGUSTINI Ep. 120: PL 33, 456; et En. in Ps. 146: PL 4, 1897); esercitata con amore e per amore alla divina verità, con gli «occhi del cuore», cresce nella sua certezza, approfondisce la sua visione, e diventa un’esigenza d’azione (Cfr. Gal. 3, 11).
Festa perciò della fede questa nostra dell’Ascensione; una fede che spalanca la finestra sull’oltretempo riguardo a Cristo risorto, lasciandoci intravedere qualche cosa della sua gloria immortale: e sull’oltretomba riguardo a noi morituri, ma destinati, alla fine dei nostri giorni nel tempo, alla sopravvivenza nella comunione dei Santi e alla risurrezione dell’ultimo giorno per l’eternità. La fede allora diventa speranza (Hebr. 11, 1); una speranza vittoriosa emana dal mistero dell’Ascensione, fonte ed esempio del nostro futuro destino, e che può e deve sorreggere il faticoso cammino del nostro pellegrinaggio terrestre. E la speranza, ci è assicurato, non delude: spes autem non confundit (Rom. 5, 5). Amen!

Papa Paolo VI : San Marco, il secondo evangelista (1967)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1967/documents/hf_p-vi_aud_19670425_it.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Martedì, 25 aprile 1967

San Marco: il secondo evangelista

Diletti Figli e Figlie!

La vostra visita coincide con la festa d’un santo, che Ci è molto caro: San Marco Evangelista. Perché molto caro? Perché, secondo un’antichissima testimonianza del secondo secolo, quella di Papia, riportata da Eusebio nella sua Storia della Chiesa (III, 39, 15), Marco «era stato l’interprete di Pietro». E così tutta la tradizione successiva (cf. Lagrange, Introdud. XXI, ss.), tanto che San Girolamo, nel suo libro sugli Scrittori ecclesiastici, scrive: «Marco, discepolo e interprete di Pietro, pregato dai fratelli (della comunità) di Roma, scrisse un breve Vangelo secondo quanto egli aveva ascoltato Pietro riferire» (c. 8). E che Pietro avesse particolare affezione a Marco ce lo dice, alla fine della sua prima lettera, Pietro stesso, che scrivendo da Roma ai cristiani dell’Asia Minore, verso gli anni 63-64, nomina solo Marco e gli dà il titolo di «figlio mio» (2 Petr. 5, 13); titolo che indica un’affezione di lunga data, spirituale, e forse anche fondata su qualche parentela familiare (cf. Hophan, Gli Apostoli, 314, ss.).

PROFONDA BENEVOLENZA DEI PRINCIPI DEGLI APOSTOLI
La storia. di Marco (di Giovanni, suo nome ebraico, detto Marco, nome latino; cf. Act. 12, 12) è interessantissima; s’intreccia forse con quella di Gesù, nell’episodio del ragazzo che, nella notte della cattura di Lui nell’orto degli ulivi, lo seguiva, dopo la fuga dei discepoli, coperto da un lenzuolo – per curiosità? per devozione? – ma quando coloro che avevano arrestato Gesù, fecero per afferrarlo, il ragazzo lasciò loro nelle mani il lenzuolo, e sgusciò via da loro (Marc. 14, 52). Ma soprattutto la storia di Marco si fonde con quella degli Apostoli: Paolo e Barnaba, specialmente, che egli segue a Cipro nella prima spedizione apostolica (era cugino di Barnaba), e che poi, forse stanco, forse impaurito, giunto a Perge, nella Pamfilia, egli abbandona per ritornarsene solo da sua madre, a Gerusalemme (Act. 13, 13). Paolo ne fu addolorato; tanto che non lo volle compagno, tre o quattro anni dopo, nel secondo viaggio, nonostante che Barnaba intercedesse; così che Barnaba e Marco lasciarono Paolo con Sila per navigare a Cipro (Act. 15, 37-40). Ma poi Paolo deve aver perdonato a Marco la sua prima infedeltà nella fatica apostolica, perché tre volte lo nomina amorevolmente nelle sue lettere (Philem. 24; Col. 4, 10; 2 Tim. 4, 11).
E dei rapporti fra l’apostolo Pietro e Marco, oltre a quelli accennati, poco sappiamo; ma ci basta qui far nostra la conclusione della tradizione e degli studi moderni: il Vangelo di San Marco è una riproduzione scritta della catechesi narrativa dell’apostolo Pietro a Roma; esso riflette, senza intenti letterari, ma con grande semplicità e vivezza di particolari, i racconti di S. Pietro circa le memorie di lui; la sua documentazione è principalmente, se non la sola, la parola stessa dell’Apostolo, riportata come la relazione genuina d’un testimonio oculare, che conserva di Gesù la più immediata impressione.

LA RIPRODUZIONE SCRITTA DELLA CATECHESI DI PIETRO
La figura di San Pietro, nel secondo Vangelo, quello appunto di Marco, appare con qualche particolare risalto, sebbene non mai adulata, ma meglio delineata, anche nella descrizione dei suoi falli; ma è la figura del Maestro, quella «di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marc. 1, 1), che campeggia umile e grande insieme, semplice e prodigiosa, meravigliosa, avvincente. Non è una figura idealizzata, descritta con fantasia d’artista; è una figura veduta, quella veduta da Pietro. «Raccontando la storia del Cristo, egli la viveva di nuovo. Egli udiva parlare il Signore, lo vedeva muoversi ed agire» (Huby, S. Marco, XXII).
Perciò San Marco ci ha lasciato in brevi pagine disadorne e non sempre ordinate, ma estremamente sincere e vive, l’immagine di Cristo, come San Pietro la ricordava e la portava scolpita nella semplicità fedele, umile ed entusiasta del suo cuore, realisticamente. Ecco perché Ci è caro San Marco: egli ci riporta il profilo di Cristo, nello sfondo del disegno sinottico primitivo (cf. Vannutelli), visto da San Pietro. E San Pietro, offrendoci la visione sensibile e scenica di Cristo, c’introduce alla conoscenza di Cristo quale veramente è; una conoscenza che solo la fede in qualche modo può afferrare e penetrare.

L’INSEGNAMENTO PER I FEDELI DI OGGI
Ed ecco anche perché a voi, diletti Figli e Figlie, che oggi vediamo in così grande numero ed in tanto fervore intorno alla tomba di San Pietro, raccomandiamo ciò che più preme, ciò che più vale: la conoscenza di quel Gesù, che Pietro qui a Roma, per il mondo intero, annunciò; l’adesione a quella fede in Cristo Signore, per amore del Quale egli fu apostolo e fu martire; fede che qui potete attingere, dove l’autenticità evangelica la sigilla, e dove essa si perpetua nella sua nativa e limpida veracità e nella sua coerente e secolare fecondità nel magistero della Chiesa ed è simboleggiata dalla stabilità della pietra, che da Cristo all’Apostolo fu data in nome e alla Chiesa per fondamento.
Poco altro sappiamo di San Marco; da Roma egli si recò in Egitto e fu il fondatore riconosciuto della Chiesa di Alessandria; le sue reliquie, Venezia gloriosa e devota le custodisce; ma il suo Vangelo di qua soprattutto rifulge, dove Pietro e Paolo, suoi maestri, fecero di Marco l’Evangelista contrassegnato dal simbolo del leone. Un atto di fede in Cristo, e un atto d’amore a Lui sono attesi da voi, Figli carissimi, per dare a questa Udienza il suo pieno significato ed il suo merito; ed è ciò che vi invitiamo a fare col Credo, che alla fine dell’udienza, prima di congedarvi con la Nostra Benedizione Apostolica, insieme noi canteremo.

Paolo VI, Nella speranza e nella gioia la realtà del Mistero Pasquale (Udienza 1 aprile 1970)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1970/documents/hf_p-vi_aud_19700401_it.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° aprile 1970

Nella speranza e nella gioia la realtà del Mistero Pasquale

Quanti di noi sono oggi qui riuniti, tutti siamo ancora pervasi dal ricordo, dall’emozione e dalla grazia – Dio voglia – della celebrazione del mistero pasquale. Mistero pasquale: ecco una espressione teologica moderna e felice, di cui il Concilio si è valso spesso per riassumere in essa l’opera della redenzione, compiuta dal Signore mediante il suo sacrificio e la sua risurrezione, mediante la sua estensione dal Signore agli uomini, ossia l’opera della grazia, e mediante la sua applicazione alle singole anime per via sacramentale. La celebrazione liturgica ricorda e rinnova il prodigio di questa economia redentrice, specialmente nella santa Messa (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 5). Mistero pasquale: è un’espressione assai densa di significato, che dovrà alimentare nelle nostre menti il concetto sintetico degli avvenimenti, degli insegnamenti, delle grazie e dei doveri, che si riferiscono alla storia della nostra salvezza ed alla permanente attualità, che essa conserva per ciascuno di noi.
Noi faremo bene a tributare la massima nostra considerazione a quanto si riferisce a Cristo nel mistero pasquale: è questo il tema centrale biblico, teologico, spirituale della nostra fede; esso è stato da noi meditato durante la Settimana Santa nella visione assorbente della figura divina ed umana di Gesù, come San Paolo, che non pensava di sapere altra cosa che Cristo, e questo crocifisso (Cfr. 1 Cor. 2, 2); o come S. Ignazio d’Antiochia: «È Lui che io cerco, che è morto per noi; è Lui, ch’io voglio, che è risuscitato per noi» (Rom. 6, 1), o come S. Francesco alla Verna; o come il popolo fedele nella Via Crucis, o nella Liturgia della notte santa e sempre in uno studio e in una devozione che fissano su di Lui, Gesù Cristo, tutta l’attenzione.

IL PIANO DELLA REDENZIONE
Ma il mistero pasquale esige da noi una considerazione più completa: noi non possiamo guardare al dramma personale di Gesù, quasi esso riguardasse soltanto Lui e fosse estraneo agli uomini, a noi stessi; perché il mistero pasquale non è un avvenimento isolato, ma è un avvenimento collegato col nostro destino, con la nostra salvezza. E questa ampiezza di visione, che riconosce nella vita, nella morte e nella risurrezione di Cristo l’opera della redenzione, ci obbliga a rintracciare subito l’economia, .cioè il disegno operante, della sua universalità, e specialmente della sua applicazione ad ogni singolo uomo. E questo pensiero offre la trama della nostra spiritualità dopo la celebrazione della festa di Pasqua; è essa festa di Cristo risorto, o è anche festa di noi mortali? È sua, o è anche nostra? E la riflessione si fa più intima nella comprensione del piano della redenzione, e più gioiosa se davvero la possiamo estendere non solo alla passione e alla morte del Signore, ma anche alla sua beata risurrezione. E che la risurrezione sia il complemento necessario del mistero pasquale ce lo dice San Paolo con tanti suoi insegnamenti, che una frase scultorea riassume: «Cristo è stato immolato per causa dei nostri falli ed è stato risuscitato in vista della nostra giustificazione» (Rom. 4, 25). Dice un rinomato commentatore: «La risurrezione di Gesù non è un lusso soprannaturale offerto all’ammirazione degli eletti, né una semplice ricompensa accordata ai suoi meriti, né soltanto un sostegno della nostra fede e un pegno della nostra speranza; è un complemento essenziale e una parte integrante della redenzione stessa» (PRAT, La théol. de St Paul, 11, 256).

LA NOSTRA VITA CRISTIANA
Ricostruito così nella sua integrità il mistero pasquale del Signore, un grande principio teologico s’innesta a questo punto nel quadro della nostra fede, principio a cui dovremo dedicare la valutazione più attenta e più ammirata, ed è quello della comunione, quello della solidarietà, quello della estensione, quello che costituisce propriamente la redenzione, e cioè il principio che riconosce la rappresentanza, la ricapitolazione di tutta l’umanità in Cristo, in modo che ciò che s’è compiuto in Lui può essere a noi partecipato. La sua sorte può divenire la nostra. La sua passione, la nostra. La sua risurrezione, la nostra.
Tutto sta, in questo piano di salvezza del genere umano, nella relazione vitale che noi possiamo stabilire fra Lui e noi. Avviene da sé questa relazione? Avviene in massa o singolarmente? Dio può dare alla sua misericordia ampiezze tali che trascendono il disegno di salvezza da Lui stesso stabilito; ma per noi questo disegno ci indica che la relazione salvatrice con Cristo esige una nostra, se pur minima al confronto, iniziativa personale, cioè esige la risposta della nostra libertà, della nostra fede, del nostro amore, esige alcune condizioni che rendono possibile il flusso della causalità salvatrice di Cristo. Questo aspetto del mistero pasquale ci mostra che la nostra salvezza avviene in alcune fasi successive, le quali formano la storia della nostra redenzione personale; formano la nostra vita cristiana.
Essa, come sappiamo, s’inaugura col battesimo, il sacramento della iniziazione, della rinascita; il sacramento che riproduce misticamente in ogni credente (la fede personale, ovvero la fede della Chiesa, che presenta il neofita, precede il battesimo) la morte e la risurrezione del Signore. «Ignorate, scrive ancora S. Paolo, che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella morte di Lui? Siamo stati dunque sepolti con Lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché come fu risuscitato Cristo da morte per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita» (Rom. 4, 3, 4 ss.; Col. 2, 12).

PENSARE E SENTIRE CON CRISTO
Ed ecco la seconda fase della nostra rigenerazione cristiana, alla quale è impegnato il tempo della nostra esistenza nel mondo: la vita nuova, la vita in Cristo, la vita nella grazia, ossia nello Spirito Santo effuso da Cristo in noi (Cfr. Io. 14, 26; 15, 26; 16, 7), la buona, la santa vita cristiana. Possiamo dire: la nostra? Viviamo noi, come diciamo nel canone della Messa: Per Ipsum, et cum Ipso, et in Ipso, cioè per Lui, e con Lui, e in Lui? Avvertiamo la novità, l’originalità, la serietà della vita cristiana? L’esigenza della sua mistica e morale autenticità? Ci rendiamo conto davvero che il «fare la Pasqua», l’avere cioè partecipato al mistero pasquale, domanda a noi una fedeltà, una coerenza, un perfezionamento nel nostro modo di pensare, di sentire e di vivere? Viviamo il nostro battesimo? Viviamo la comunione di Cristo, che abbiamo ricevuto nell’Eucaristia pasquale? Viviamo e vivremo la nostra Pasqua? Noi abbiamo spesso tanto diluito e svuotato il nostro specifico appellativo cristiano da svigorirlo del suo impegno e del suo splendore.
Mentre questa effettiva adesione al mistero pasquale, in fondo, è il problema più serio e più comprensivo della nostra presente esistenza; e si fa coestensivo con le vicende, i problemi, le esperienze della nostra naturale esistenza, e vi infonde, dopo la Pasqua, un sentimento di speranza e di gaudio.
Sentimento ch’è dono, è carisma, di cui il cristiano non dovrebbe mai essere privo (Cfr. Rom. 8, 24; 2 Cor. 7, 4); è il preludio dell’ultima fase del mistero pasquale, cioè della piena nostra salvezza, l’immersione completa della nostra umile vita in quella infinita di Dio, nell’al di là.
Non è sogno, non è mito, non è idealismo spirituale. È la verità, è la realtà del mistero pasquale. Ricordatelo: con la Nostra Apostolica Benedizione.

SANTA MESSA «IN COENA DOMINI» – OMELIA DI PAOLO VI

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1966/documents/hf_p-vi_hom_19660407_it.html

SANTA MESSA «IN COENA DOMINI» NELL’ARCIBASILICA LATERANENSE

OMELIA DI PAOLO VI

GIOVEDÌ SANTO, 7 APRILE 1966

Fratelli e Figli!
Signori ed Amici!

Perché siamo noi questa sera di Giovedì Santo riuniti in questa Basilica? La Nostra domanda non si riferisce ora al grande rito religioso, che stiamo celebrando, ma risale più indietro; cerca la ragione che ha dato origine in passato, e che adesso giustifica l’atto misterioso e solenne, che stiamo compiendo. Da che cosa deriva la nostra sinassi, cioè la nostra riunione ecclesiale, e quale ne è il motivo primitivo ed essenziale?

«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME»
Nessuno si stupisca per questa Nostra domanda, così semplice e di così facile risposta: nulla è più importante e nulla più fecondo di luce e di gaudio, che la rievocazione della causa iniziale della nostra celebrazione. Noi siamo qui, in questa fausta e pia ricorrenza del Giovedì Santo, per virtù d’una parola, due volte ripetuta dal Signore (cfr. 1 Cor. 11, 24-25), nell’ultima Cena, dopo che altre parole di preciso e immenso significato, quelle istitutive del sacrificio eucaristico, erano state pronunciate; e la parola che ora direttamente ci riguarda è questa: «Fate questo in memoria di Me» (Luc. 22, 19). Noi siamo riuniti questa sera per causa ed in ossequio di questa parola di Gesù Cristo; noi stiamo obbedendo ad un suo ordine, noi stiamo eseguendo una sua ultima volontà, noi stiamo rievocando, com’Egli ha voluto, la sua memoria.
È una cerimonia commemorativa la nostra. Noi vogliamo occupare il nostro spirito col ricordo di Lui, del nostro Fratello divino, del nostro sommo Maestro, del nostro unico Salvatore. La figura di Lui – oh, ne potessimo, noi così curiosi oggi delle immagini visive, averne le vere sembianze! – deve esserci davanti agli occhi dell’anima nelle forme che ci sono più care ed espressive, più umane e più ieratiche, Lui mite ed umile, Lui forte e grave, Lui, nostro Signore e nostro Dio (cfr. Io. 20, 28); dobbiamo in un certo senso, vederlo, sentirlo, ma soprattutto saperlo presente. La parola di Lui, il suo Vangelo, deve, come per incanto, salire dalla nostra subcoscienza, e risuonare tutta insieme al nostro spirito, come la ascoltassimo, come la potessimo in un atto solo tutta ricordare e comprendere: non è Lui la Parola di Dio fatto uomo, e perciò fatta nostra? E tutto l’alone immenso della profezia e della teologia, che lo circonda e lo definisce, e che a noi tanto lo avvicina e quasi di Lui c’investe e ci inebria, ed insieme ci umilia e ci abbaglia, noi lo dobbiamo contemplare questa sera, come quando ci lasciamo incantare dalla maestosa icone di Cristo sovrano, dominante dall’abside delle nostre antiche basiliche, pieno di interiorità e di potestà. Dobbiamo ricordarlo, questa sera, Lui il nostro Signore e Redentore. È un dovere di memoria, che stiamo compiendo. È la reviviscenza nei nostri spiriti della sua figura e della sua missione, che vogliamo in questo momento, più che in ogni altro, suscitare.

LA PASQUA PERENNE DEL SALVATORE
Ci facilita il compimento di questo dovere il pensare l’importanza che la memoria assume nella religione vera, positiva e rivelata, come la nostra. Essa si fonda su fatti concreti, che bisogna ricordare. Il loro ricordo forma il tessuto della fede e alimenta la vita spirituale e morale del credente. Tutto il racconto biblico si svolge sulla memoria di avvenimenti e di parole, che non devono dissolversi nel tempo, ma devono rimanere sempre presenti. Quella che noi chiamiamo oggi coscienza storica può farci comprendere qualche cosa circa la funzione della memoria nella tradizione sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Non possiamo dimenticare che la Cena stessa, durante la quale Gesù ordinò di tener viva la sua memoria mediante la rinnovazione di ciò ch’Egli aveva allora compiuto, era un rito commemorativo; era il convito pasquale, che doveva ripetersi ogni anno per trasmettere alle generazioni future il ricordo indelebile della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto: «Habebitis autem hunc diem in monumentum et celebrabitis eam solemnem Domino in generationibus vestris cultu sempiterno» (Ex. 12, 14). L’Antico Testamento si svolge lungo il filo di fedeltà al ricordo di quella prima Pasqua liberatrice. Gesù, quella sera, sostituisce all’Antico il Nuovo Testamento: «Questo è il mio Sangue. Egli dirà, del Nuovo Testamento . . .» (Matth. 26, 28); all’antica Pasqua storica e figurativa Egli collega e fa succedere la sua Pasqua, anch’essa storica, definitiva questa, ma figurativa anch’essa d’un altro ultimo avvenimento, la parusia finale: «donec veniat» (1 Cor. 11, 26): memoria risolutiva e profetica è la Cena del Signore.

LA SS.MA EUCARISTIA ALIMENTO E VITA DEI CRISTIANI
Ma come questa memoria fedele e perenne di Cristo possa rinnovarsi e di quale contenuto essa sia piena ci è pur obbligo ripensare. Quel comando di Gesù: «Fate questo» è una parola creatrice, miracolosa: è una trasmissione d’un potere, ch’Egli solo possedeva; è l’istituzione d’un sacramento, il conferimento cioè del sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione dell’organo costituente e santificante del Corpo mistico, la sacra gerarchia, resa capace di rinnovare il prodigio dell’ultima Cena.
E quale sia il prodigio dell’ultima Cena noi sappiamo. Il ricordo sarà realtà. Bisogna ripensare al momento e al modo con cui Cristo ha istituito l’Eucaristia. Essa è scaturita dal suo cuore nell’imminenza e nella chiaroveggenza della sua passione. Essa rappresenta tale passione e contiene Colui che l’ha sofferta. Gesù ha sigillato la sua presenza paziente e morente nei simboli – ormai non più altro che simboli e segni – del pane e del vino. Ha voluto essere ricordato così. Ha voluto, si può dire, sopravvivere e rimanere fra noi nel supremo suo atto d’amore, il suo sacrificio, la sua morte. Ha voluto rendersi presente, lungo il corso del tempo, fra noi nello stato simultaneo di sacerdote e di vittima, sostituendo alla sua presenza storica e sensibile quella non meno reale della presenza sacramentale, perché solo i credenti, solo i volontari della fede e dell’amore, potessero venire in comunione vitale con Lui. Gesù, sapendo di essere alla fine della sua presenza naturale sulla terra, ha fatto in modo che gli uomini non si dimenticassero di Lui. L’Eucaristia è appunto il memoriale perenne di Gesù Cristo. Celebrare l’Eucaristia vuol dire celebrare la sua memoria. Ed Egli ha voluto che questa forma singolarissima di ricordarlo, anzi di riaverlo presente, diventasse cibo, cioè alimento, cioè principio interiore d’energia e di vita, per le anime dei suoi veri seguaci.
La liturgia ben sa e bene ci insegna questa finalità del mistero eucaristico; e le dà un nome, che nel suono greco ed arcaico del vocabolo dice come sempre nei secoli, fin da principio, fin dal Vangelo così fu onorata l’Eucaristia; e cioè il nome di anàmnesi, che vuol appunto dire reminiscenza, rimembranza, e che trova il suo posto rituale immediatamente dopo la consacrazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, in connessione e quasi a sviluppo ed a commento delle parole citate dal Signore stesso: «Fate questo in memoria di me»: è a questo punto ineffabile che la liturgia della Messa aggancia nuovamente la storia nostra al Vangelo con le famose parole: «Unde et memores . . ., perciò noi ricordando . . .».

ADORARE, RINGRAZIARE, AMARE CRISTO PRESENTE TRA NOI
Perciò, Fratelli e Figli, come il grande rito vuole, un grande sforzo di memoria a noi questa sera è domandato. Dobbiamo ricordare Gesù Cristo con tutte le forze del nostro spirito. Questo è l’amore che ora gli dobbiamo. Ricorda chi ama. La nostra grande colpa è l’oblio, è la dimenticanza. È la colpa ricorrente nella vicenda biblica: mentre Dio non si dimentica mai di noi . . . . «Potrà mai una donna dimenticarsi del suo bambino, da non sentire più compassione per il figlio delle sue viscere? . . .» (Is. 49, 15), noi ci dimentichiamo così facilmente di Lui. Siamo giunti a tanto, nel nostro tempo, da credere una liberazione lo scordarci di Dio, da volere scordarci di Lui; come fosse liberazione lo scordarci del sole della nostra vita! Noi spingiamo sovente la giusta distinzione dei vari ordini sia del sapere, che dell’azione, la quale non vuole confusione fra il sacro e il profano e rivendica a ciascuno la loro relativa autonomia, fino alla negazione dell’ordine religioso, e alla diffidenza e alla resistenza nei suoi confronti, per l’errata convinzione che nel laicismo radicale sia prestigio umano e vera sapienza. Così la dimenticanza di Cristo si fa abituale anche in una società che tanto da Lui ha ricevuto e tuttora riceve; e si insinua qualche volta anche nella comunità ecclesiale: «Tutti cercano, lamenta l’Apostolo, le cose proprie, non quelle di Gesù Cristo» (Phil. 2, 21).
Dobbiamo ricordarci invece di Lui, come Lui con la moltiplicata, silenziosa, amorosa presenza eucaristica si ricorda di noi, di ciascuno di noi. E se nella quotidiana celebrazione della Messa questa memoria si riaccende e risplende nelle nostre sacre assemblee e nel foro interiore delle nostre anime, quest’oggi un’ultima dimenticanza noi dobbiamo vincere, quella che l’abitudine produce e che rende la nostra memoria appena formale e insensibile. Oggi la pienezza della memoria si ravviva nella fede alla realtà del fatto eucaristico, nella meraviglia, nella riconoscenza, nell’amore: qui è il Cristo venuto, qui è il Cristo presente, qui è il Cristo che verrà; a Lui onore e gloria, oggi e per sempre.

SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE – OMELIA DI PAOLO VI, 1969

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1969/documents/hf_p-vi_hom_19690319_it.html

SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

OMELIA DI PAOLO VI

MERCOLEDÌ 19 MARZO 1969

Fratelli e Figli carissimi!

La festa di oggi ci invita alla meditazione su S. Giuseppe, il padre legale e putativo di Gesù, nostro Signore, e dichiarato, per tale funzione ch’egli esercitò verso Cristo, durante l’infanzia e la giovinezza, protettore della Chiesa, che di Cristo continua nel tempo e riflette nella storia l’immagine e la missione.
È una meditazione che sembra, a tutta prima, mancare di materia : che cosa di lui, San Giuseppe, sappiamo noi, oltre il nome ed alcune poche vicende del periodo dell’infanzia del Signore? Nessuna parola di lui è registrata nel Vangelo; il suo linguaggio è il silenzio, è l’ascoltazione di voci angeliche che gli parlano nel sonno, è l’obbedienza pronta e generosa a lui domandata, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e più faticose, quelle che valsero a Gesù Ia qualifica di «figlio del falegname» (Matth. 13, 55); e null’altro: si direbbe la sua una vita oscura, quella d’un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza.
Eppure questa umile figura, tanto vicina a Gesù ed a Maria, la Vergine Madre di Cristo, figura così inserita nella loro vita, così collegata con Ia genealogia messianica da rappresentare la discendenza fatidica e terminale della progenie di David (Matth. 1, 20), se osservata con attenzione, si rileva così ricca di aspetti e di significati, quali la Chiesa nel culto tributato a S. Giuseppe, e quali la devozione dei fedeli a lui riconoscono, che una serie di invocazioni varie saranno a lui rivolte in forma di litania. Un celebre e moderno Santuario, eretto in suo onore, per iniziativa d’un semplice religioso laico, Fratel André della Congregazione della Santa Croce, quello appunto di Montréal, nel Canada, porrà in evidenza con diverse cappelle, dietro l’altare maggiore, dedicate tutte a S. Giuseppe, i molti titoli che Io rendono protettore dell’infanzia, protettore degli sposi, protettore della famiglia, protettore dei lavoratori, protettore delle vergini, protettore dei profughi, protettore dei morenti . . .

Se osservate con attenzione questa vita tanto modesta, ci apparirà più grande e più avventurata ed avventurosa di quanto il tenue profilo della sua figura evangelica non offra alla nostra frettolosa visione. S. Giuseppe, il Vangelo lo definisce giusto (Matth. 1, 19); e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale ed evidentemente alieno dal compiere grandi gesti. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta, per offrire così, con sacrificio totale, l’intera esistenza alle imponderabili esigenze della sorprendente venuta del Messia, a cui egli porrà il nome per sempre beatissimo di Gesù (Matth. 1, 21), e che egli riconoscerà frutto dello Spirito Santo, e solo agli effetti giuridici e domestici suo figlio. Un uomo perciò, S. Giuseppe, «impegnato», come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato.
È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande (ricordiamo l’effusione di Gesù, al capo undecimo di San Matteo: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose – le cose del regno messianico! – ai sapienti ed ai dotti, che hai rivelate ai piccoli»); qui ciò ch’è misero diventa degno della condizione sociale del Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo; qui ciò ch’è elementare risultato d’un faticoso e rudimentale lavoro artigiano serve ad addestrare all’opera umana l’operatore del cosmo e del mondo (cfr. Io. 1, 3 ; 5, 17), e a dare umile pane alla mensa di Colui che definirà Se stesso «il Pane della vita» (Io. 6, 48). Qui ciò ch’è perduto per amore di Cristo, è ritrovato (cfr. Matth. 10, 39), e chi sacrifica per lui la propria vita di questo mondo, la conserva per la vita eterna (cfr. Io. 12, 25). San Giuseppe è il tipo del Vangelo, che Gesù, lasciata la piccola officina di Nazareth, e iniziata la sua missione di profeta e di maestro, annuncerà come programma per la redenzione dell’umanità; S. Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; S. Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono «grandi cose», ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche.
E qui la meditazione sposta lo sguardo, dall’umile Santo al quadro delle nostre condizioni personali, come avviene di solito nella disciplina dell’orazione mentale; e stabilisce un accostamento, un confronto tra lui e noi; un confronto dal quale non abbiamo da gloriarci, certamente; ma dal quale possiamo trarre qualche buono incitamento; all’imitazione, come nelle nostre rispettive circostanze è possibile; alla sequela, nello spirito e nella pratica concreta di quelle virtù che nel Santo troviamo così rigorosamente delineate. Di una specialmente, della quale oggi tanto si parla, della povertà. E non ci lasceremo turbare per le difficoltà, che essa oggi, in un mondo tutto rivolto alla conquista della ricchezza economica, a noi presenta, quasi fosse contraddittoria alla linea di progresso ch’è obbligo perseguire, e paradossale e irreale in una società del benessere e del consumo. Noi ripenseremo, con S. Giuseppe povero e laborioso, e lui stesso tutto impegnato a guadagnar qualche cosa per vivere, come i beni economici siano pur degni del nostro interesse cristiano, a condizione che non siano fini a se stessi, ma mezzi per sostentare la vita rivolta ad altri beni superiori; a condizione che i beni economici non siano oggetto di avaro egoismo, bensì mezzo e fonte di provvida carità; a condizione, ancora, che essi non siano usati per esonerarci dal peso d’un personale lavoro e per autorizzarci a facile e molle godimento dei così detti piaceri della vita, ma siano invece impiegati per l’onesto e largo interesse del bene comune. La povertà laboriosa e dignitosa di questo Santo evangelico ci può essere ancora oggi ottima guida per rintracciare nel nostro mondo moderno il sentiero dei passi di Cristo, ed insieme eloquente maestra di positivo e onesto benessere, per non smarrire quel sentiero nel complicato e vertiginoso mondo economico, senza deviare, da un lato, nella conquista ambiziosa e tentatrice della ricchezza temporale, e nemmeno, dall’altro, nell’impiego ideologico e strumentale della povertà come forza d’odio sociale e di sistematica sovversione.
Esempio dunque per noi, San Giuseppe. Cercheremo d’imitarlo; e quale protettore lo invocheremo, come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sé, innanzi tutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della Redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sé sufficiente, ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Io. 15, 5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualsimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in S. Giuseppe rifulgono; ed infine protettore lo vuole la Chiesa per l’incrollabile fiducia che colui, al quale Cristo volle affidata la protezione della sua fragile infanzia umana, vorrà continuare dal Cielo la sua missione tutelare a guida e difesa del Corpo mistico di Cristo medesimo, sempre debole, sempre insidiato, sempre drammaticamente pericolante.
E poi per il mondo invocheremo S. Giuseppe, sicuri che nel, cuore, ora beato d’incommensurabile sapienza e potestà, dell’umile operaio di Nazareth si alberghi ancora e sempre una singolare e preziosa simpatia e benevolenza per l’intera umanità. Così sia.

Publié dans:Papa Paolo VI, San Giuseppe |on 18 mars, 2013 |Pas de commentaires »

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PAOLO VI PER LA QUARESIMA 1977

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/messages/lent/documents/hf_p-vi_mes_19770222_lent-1977_it.html

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PAOLO VI PER LA QUARESIMA 1977

Carissimi Figli e Figlie!

Eccoci nella Quaresima! Vogliate ascoltarci un istante! La Quaresima è un periodo favorevole, è il «tempo propizio», di cui parla la sacra Liturgia, per prepararci a celebrare degnamente il Mistero Pasquale. È un periodo certamente austero, ma fecondo ed apportatore di un rinnovamento, quale una primavera spirituale. Noi dobbiamo risvegliare la nostra coscienza; dobbiamo ravvivare il senso del dovere ed il desiderio di corrispondere, in concreto, alle esigenze di una vita cristiana autentica.
Circa dieci anni fa, la nostra Enciclica «Populorum Progressio» sullo sviluppo dei popoli fu come un «grido di angoscia, nel nome del Signore», che noi rivolgemmo alle Comunità cristiane ed a tutti gli uomini di buona volontà. Ed oggi ancora, in questo inizio del tempo liturgico quaresimale, vorremmo far risuonare quell’appello solenne. Il nostro sguardo ed il nostro cuore di Pastore universale continuano, infatti, ad essere profondamente turbati dalla folla immensa di coloro che, in tutte le società del mondo, sono abbandonati ai margini della strada, feriti nel corpo e nell’anima, spogliati della loro umana dignità, senza pane, senza voce, senza difesa, soli nella loro angoscia!
Certo, noi proviamo qualche difficoltà nel far parte agli altri di quel che abbiamo, al fine di contribuire alla scomparsa delle disuguaglianze in un mondo divenuto ingiusto. Tuttavia, le affermazioni di principio non bastano. È per questo che è necessario e salutare ricordarci che siamo semplicemente amministratori dei doni di Dio, e che «la penitenza del tempo di Quaresima non deve esser soltanto interna ed individuale, ma esterna, altresì, e sociale» (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 110).
Noi vi chiediamo di andare incontro al povero Lazzaro, che soffre la miseria, la fame. Fatevi suo prossimo, affinché egli riconosca nel vostro sguardo quello di Cristo che l’accoglie, e nelle vostre mani quelle del Signore, che distribuisce i suoi doni. E vogliate anche rispondere con generosità agli appelli, che vi saranno rivolti nelle vostre Chiese particolari, per consolare i più diseredati e per dare il vostro contributo al progresso dei popoli meno provvisti di beni.
Vi ricordiamo le parole del Signore, che l’Apostolo San Paolo ci ha fortunatamente conservato, perché veniate in aiuto dei deboli: «C’è più felicità nel dare che nel ricevere» (Act. 20. 35). E vi esortiamo tutti, Figli e Figlie carissimi, a purificare il vostro cuore, per accogliere degnamente le prossime celebrazioni pasquali ed annunciare al mondo la Buona Novella della salvezza. Con questo augurio vi benediciamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

PAULUS PP. VI

Un ritratto di Montini oltre i luoghi comuni della tristezza e della sofferenza (del Cardinale Tettamanzi, dal Corriere della Sera, Archivio)

http://archiviostorico.corriere.it/2008/giugno/23/Paolo_Papa_tentato_dalla_gioia_co_9_080623099.shtml

BIOGRAFIE IL CARDINALE TETTAMANZI RIFLETTE SUL SAGGIO DI GISELDA ADORNATO A 30 ANNI DALLA MORTE DEL PONTEFICE

dal: (23 giugno 2008) – Corriere della Sera

Un ritratto di Montini oltre i luoghi comuni della tristezza e della sofferenza

Il cardinale Albino Luciani, in un biglietto del 13 agosto 1978 indirizzato a monsignor Pasquale Macchi, segretario personale di Paolo VI, porge le condoglianze per la morte del Papa – tredici giorni prima di essere eletto suo successore – e scrive: «A Venezia, nel 1972, mi ricordo di averLe detto: « Oggi il Papa non è compreso da tanti; la storia lo metterà in luce, lui e la sua opera »». E aggiunge: «Mi sembra che già la luce su Paolo VI sia cominciata bene». Credo si possa dire oggi, a trent’ anni dalla morte, che quella «luce» intorno alla figura e al magistero del Papa sia andata sempre più ampliandosi perché, in questo periodo, è stato possibile studiare con maggiore documentazione e in una migliore prospettiva storica il suo insegnamento, la sua pastorale e la sua ricchissima spiritualità. Che è poi quanto ha voluto fare Giselda Adornato, offrendoci questa preziosa biografia, sintesi di studi di decenni sulle fonti. In essa, un pontificato che spesso è stato letto per stereotipi e paradossi viene ricostruito nella sua unitarietà e coerenza, senza nasconderne le difficoltà, ma valorizzando il mondo interiore del protagonista e il suo continuo confronto con la storia. In particolare il libro sottolinea che il Papa segue un preciso criterio: quello di verificare le risposte della Chiesa ai bisogni sempre più grandi dell’ umanità sulla misura della sua fedeltà a Cristo. Quello che sembra costituire un aspetto davvero essenziale, dal 1920, anno dell’ ordinazione di Montini, alla morte, è la sua «straordinaria tensione missionaria». L’ ardente volontà di portare Cristo al mondo nelle diverse circostanze in cui Montini viene chiamato nel suo ministero e alle quali spesso si sottomette con umiltà, perché si sentirebbe portato per altro. È quanto emerge in modo limpido e continuo dal libro di Adornato. Battista, come viene chiamato in famiglia, è un ragazzo che, mentre studia privatamente, fa quello che oggi chiameremmo l’ animatore all’ Oratorio della Pace di Brescia e fonda un periodico giovanile; in seguito, prete romano, è educatore degli universitari, e ne verrà allontanato perché vuole costruire un futuro nel rapporto Chiesa-modernità; da diplomatico vaticano – in Segreteria di Stato per trent’ anni! – cerca tutte le strade per esercitare comunque il suo ministero sacerdotale, anche nell’ affanno delle incombenze d’ ufficio; e scrive: «Il debito sempre aperto: amare gli altri». Inviato come arcivescovo nella Milano del «miracolo» economico, è instancabile missionario in tutti gli ambienti e precorre i tempi chiedendo perdono e ascolto ai «fratelli lontani». Eletto Papa, la trasmissione della fede nella sua integrità è la prima preoccupazione che ha e vive con straordinaria passione. Ebbene, la storia di questa vocazione può venire interpretata tutta, come scrive Adornato, con un appunto di pochi giorni successivo l’ elezione a pontefice: «Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la disciplina dell’ amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero» . E per questo avvicinamento agli uomini del suo tempo, Montini sceglie una modalità di evangelizzazione tratta dalla Gaudete in Domino, l’ unico documento ufficiale di un pontefice sulla gioia cristiana. Per Paolo VI la gioia è qualcosa di contagioso, che ha in sé un’ energia di espansione: per questo la gioia diventa per il cristiano un impegno apostolico e missionario nei riguardi degli altri. Già intorno al 1930 don Montini, riflettendo sulla lettera di San Paolo ai Filippesi, scrive: «Il motivo della gioia ritorna frequente, e non per semplice esortazione di formula di convenzionale cortesia, ma piuttosto come indice di un sentimento abituale che tesse anche nelle ore dolorose la psicologia dell’ Apostolo». E trent’ anni più tardi l’ arcivescovo Montini osserva: «Dove Cristo è, c’ è gioia interiore. E la gioia, anche se ci sono mille difficoltà e nemici e pericoli e, se volete, anche sofferenza di fuori, la gioia non viene meno mai». Dalla cattedra di Pietro, durante l’ udienza del 19 maggio 1965, il Papa si rivolge ai fedeli: «Vorremmo che ciascuno di voi, qui e dopo, si sentisse felice. ( ) Un cristiano può mancare di tutto; ma se è il cristiano unito a Dio nella fede e nella carità, non può mancare di gioia». È dunque una gioia dinamica, questa di Montini, che scaturisce dalla scoperta che Dio si piega sui bisogni più veri dell’ uomo. Per elevarla a gaudio, a profonda gioia spirituale, i cristiani devono poi percorrere un percorso inverso: portare gli uomini a Dio. L’ umanità, creata e amata da Dio – spiega Paolo VI – è al centro dell’ interesse della Chiesa, che non è autoreferenziale, interessata solo alla costruzione di se stessa, ma è tutta protesa verso l’ uomo e la sua salvezza: come la natura divina e quella umana di Cristo non si danno l’ una senza l’ altra, così la Chiesa e l’ umanità sono in necessaria correlazione. L’ esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, del 1975, ripete di continuo l’ equivalenza tra gioia cristiana e gioia nello Spirito Santo. Ecco l’ invito e l’ augurio di Paolo VI: «Conserviamo la dolce e confortante gioia d’ evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. ( ) Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’ angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo». Questo testo risponde alle domande che Montini si pone da sempre, usando ad esempio la metafora della barca, o della nave, sulla quale noi cristiani siamo imbarcati e che ci porta verso la salvezza Si chiede: e gli altri? Devono restare dei poveri naufraghi? La «barca» che il Papa guida incontrerà cavalloni e burrasche; lui personalmente conoscerà tante fatiche, tante delusioni, tante sofferenze. Riporterà tutto ad un esercizio di purificazione della propria fede e di ulteriore impegno per rafforzarla. Nei suoi appunti personali si vede chiaramente come, anche nei momenti più difficili, Paolo VI si propone sì «parole gravi, atteggiamento deciso e forte», ma pur sempre con «animo fiducioso e sereno», e vuole «infondere nei fratelli la certezza profetica, l’ energia, il coraggio, la letizia, la fede e la speranza e la carità in Cristo Signore». * * * GISELDA ADORNATO Paolo VI. Il coraggio della modernità SAN PAOLO PP. 368, 24 * * * L’ intervento Questo testo è una sintesi del discorso che il cardinale Tettamanzi (foto) tiene oggi a Milano (ore 17.30) al Centro Paolo VI, per commemorare Papa Montini Il saggio Nell’ occasione si presenta il libro di Giselda Adornato «Paolo VI». Intervengono F. G. Brambilla, E. Guerriero e A. Torno

Tettamanzi Dionigi

Publié dans:Cardinali, Papa Paolo VI |on 12 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

LA PRIMA VOLTA DI UN PONTEFICE IN AFRICA (…all’incontro internazionale « Paolo VI e la Chiesa in Africa »

http://www.zenit.org/article-32032?l=italian

LA PRIMA VOLTA DI UN PONTEFICE IN AFRICA

L’intervento del cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, all’incontro internazionale « Paolo VI e la Chiesa in Africa »

ROMA, martedì, 7 luglio 2012 (ZENIT.org) – «Paolo VI e la Chiesa in Africa» è stato il tema dell’incontro organizzato dall’Istituto Paolo VI di Brescia, il Centro internazionale di studi e documentazione sulla vita e il magistero del Pontefice, insieme alla University of Eastern Africa di Nairobi in Kenya che ha ospitato l’iniziativa svoltasi l’1 e il 2 agosto.
Paolo VI, recatosi in Uganda dal 31 luglio al 2 agosto 1969, è stato il primo Papa a visitare la Chiesa in Africa, impegnandosi per la sua crescita e invitando tutti i suoi componenti a partecipare a una nuova “inculturazione” della fede cristiana. Tra i presenti al convegno i cardinali Re, Turkson, Njue, Pengo, Pasinya.
Di seguito riportiamo alcuni estratti dell’intervento del cardinale prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, pubblicati da L’Osservatore Romano dell’8 agosto 2012.
***
Papa Paolo VI era molto attento all’episcopato africano. La sua stessa visita a Kampala, Uganda, nel 1969, può essere considerata una pietra miliare fondamentale nei suoi rapporti con l’episcopato africano. Il giorno stesso del suo arrivo a Kampala inaugurò il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) e fece il suo discorso memorabile ai vescovi dell’Africa, nel quale, tra le altre cose, dichiarò: «Voi Africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta».
Continuò col dire che, riguardo all’adattamento del Vangelo e della Chiesa alla cultura africana, una volta che la fede è genuinamente cattolica e immutata, «voi potete e dovete avere un cristianesimo africano». Io ho avuto la gioia di essere presente a quell’evento.
Si percepiva una potenza divina pentecostale ed elettrizzante nella cattedrale di Kampala quando il Papa fece la sua allocuzione. Il giorno seguente, il Santo Padre ordinò dodici vescovi per vari Paesi africani. Diede loro e a tutti i vescovi dell’Africa un grande incoraggiamento per andare avanti vigorosamente con la missione di evangelizzazione: «Andate avanti con metodo e coraggio nella consapevolezza del vostro grande compito: quello di costruire la Chiesa».
Durante la visita il Papa consacrò l’altare al Santuario dei ventidue martiri ugandesi, incontrò i vescovi anglicani ugandesi, indirizzò un discorso di grande forza al presidente del Paese, visitò presidenti e notabili, nonché i malati in ospedale, e parlò a sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Nel complesso, la visita papale in Uganda fu per i vescovi dell’Africa un messaggio, una pietra miliare e un segno di amore, che Paolo VI coltivò per l’Africa.
A parte alcune zone dell’Angola e dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, la maggior parte dei Paesi nell’Africa al sud del Sahara non avevano ancora celebrato cento anni di evangelizzazione nel 1963, quando il cardinale Giovanni Battista Montini divenne Papa Paolo VI.
Consapevole del ruolo chiave del ministero dei vescovi nella Chiesa, e del bisogno di vescovi autoctoni per la costruzione di chiese o diocesi particolari in Paesi di recente evangelizzazione, il Papa, attraverso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, prestò speciale attenzione alla nomina dei vescovi nelle diocesi africane. Un buon numero di essi furono nominati durante il suo pontificato.
Papa Paolo VI dimostrò anche la sua fiducia nei vescovi africani nominando sette di loro cardinali e chiamando l’arcivescovo (più tardi cardinale) Bernardin Gantin a lavorare presso la Curia Romana. L’incontro inaugurale del Secam si tenne dal 28 al 31 luglio 1969, nell’Istituto Pastorale dell’Africa Orientale, a Gaba. Il Pontefice incoraggiò, lodò e sollecitò il Secam a fare sempre di più per l’evangelizzazione in Africa.
Il suo discorso storico, il giorno dell’inaugurazione, servì da tabella di marcia e da luce guida da quel giorno in poi. Paolo VI spiegò in modo chiaro e privo di ambiguità il ministero del vescovo in Africa.
Nel rivolgersi ai vescovi dell’Africa nel suo messaggio del 1967, Africae Terrarum, comincia citando il concilio Vaticano: «A voi è affidato il servizio della comunità, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui siete pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa» (Lumen Gentium, 20).
«A voi, pertanto, spetta rendere vivo ed efficace l’incontro del Cristianesimo con l’antica tradizione africana» (Africae Terrarum, 23). «Bisogna sempre dare la priorità a iniziative volte a portare Cristo a chi ancora non lo conosce» (cfr. Africae Terrarum, 25).
In occasione dell’ordinazione di dodici vescovi a Kampala, il 1° agosto 1969, ricordò ai vescovi che essi erano apostoli, veicoli e strumenti dell’amore di Cristo per la gente. Il loro lavoro pastorale avrebbe dovuto promuovere le comunità caritatevoli che operano tra la gente e contribuire a costruire la società civile, rimanendo allo stesso tempo liberi da impegni politici e interessi temporali.
Ricevendo i membri del Secam il 26 settembre 1975, il Santo Padre ricordò il dovere del vescovo di evangelizzare. La fede è la priorità in tutto ciò che fa il vescovo. Gli attuali vescovi africani sono, in grande parte, la prima generazione di pastori a emergere dalle popolazioni dell’Africa.
I loro compiti sono di offrire alle popolazioni di Africa e Madagascar la Parola di Dio, l’insegnamento della Chiesa, le richieste della fede. Devono cercare di trovare nuove modalità, e un migliore adattamento, per integrare e perfezionare i valori culturali tradizionali delle persone, con prudenza e saggezza. Non devono avere paura.
Il fatto che la fede radicata nei rispettivi Paesi abbia in pochi decenni fatto sorgere vescovi locali, abbia nutrito molte vocazioni sacerdotali e religiose, comunità di fedeli ferventi e generosi, catechisti impegnati e perfino la testimonianza di martiri: non è tutto questo un segno di autentica cristianità?
Nella sua prima udienza generale del mercoledì, al suo ritorno in Vaticano da Kampala, il Papa, a Castel Gandolfo, il 6 agosto 1969, comunicò alla gente le sue impressioni sulla visita in Uganda e sottolineò tre punti: la Chiesa è missionaria, universale e un modello di umanità nella sua attenzione a tutta la persona umana e alla sua dignità. Per il ruolo di guida proprio di un vescovo, queste osservazioni sono preziose.
In molte occasioni, Paolo VI sottolineò ai vescovi dell’Africa l’importanza della gratitudine nei confronti dei missionari che portavano la fede ai loro popoli. I missionari vennero in Africa per «partecipare agli Africani il messaggio di pace e di redenzione affidato alla Chiesa dal suo Divino Fondatore. Per amore di Lui, essi lasciarono la patria e la famiglia e moltissimi sacrificarono la vita al bene dell’Africa” (Africae Terrarum, 24).
Il Papa incoraggiò l’unione e la comunione tra il vescovo e gli operatori apostolici nella sua diocesi, specialmente i sacerdoti, i religiosi e i capi dei fedeli laici. Parlando ai sacerdoti, ai religiosi e ai catechisti nella cattedrale di Kampala il 2 agosto 1969, esortò: «Il vescovo! Il vostro vescovo! Siategli sempre vicini, comprendete i suoi desideri e i suoi bisogni, date forma e azione alla nuova organizzazione della comunità ecclesiale, fate in modo che la sua obbedienza sia amorevole e semplice, e vedete nel vescovo il vostro pastore; anzi, vedete in lui Gesù Cristo stesso (Lumen Gentium, 21).
Il Santo Padre esortò anche alla collaborazione per la missione della Chiesa in Africa tra più diocesi più antiche in altre parti del mondo, sacerdoti fidei donum, istituti missionari e religiosi, e ausiliari laici, tutti operanti di comune accordo con il vescovo diocesano (cfr. Africae Terrarum, 26-28).
Nel suo storico discorso al Secam alla sua inaugurazione a Kampala il 31 luglio 1969, Paolo VI, nell’incoraggiare l’azione per un autentico cristianesimo africano, menzionò alcuni primi requisiti preparatori: «Occorrerà un’incubazione del “mistero” cristiano nel genio del vostro popolo, perché poi la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle altre voci della Chiesa universale. Dobbiamo noi ricordarvi, a questo proposito, quanto utile sarà per la Chiesa africana avere centri di vita contemplativa e monastica, centri di studi religiosi, centri di addestramento pastorale?».
Fornì altri dettagli nel suo discorso ai rappresentanti del Secam quando li ricevette in udienza nella Città del Vaticano il 26 settembre 1975. Per progredire è necessario che la ricerca rispetti la fede autentica e tradizionale della Chiesa.
Una volta che ciò sia garantito, è necessario promuovere gli studi sulle tradizioni culturali dei vari popoli africani e le relative impalcature filosofiche, per poter discernere elementi non in contraddizione con la religione cristiana e tutto ciò che possa arricchire la riflessione teologica. La ricerca teologica deve sempre essere fatta all’interno della comunione ecclesiale.
L’11 febbraio 1976, il Santo Padre scrisse all’arcivescovo (poi cardinale) Bernard Yago, arcivescovo di Abidjan, un messaggio di buona volontà e incoraggiamento in occasione della costituzione dell’Institut de Sciences Religieuses d’Abidjan. Era l’inizio di quella che sarebbe diventata un’università.
Durante il Sinodo dei vescovi, il 28 ottobre 1977, meno di un anno prima che lasciasse questo mondo, il Papa ricevette in udienza cinque cardinali e trentaquattro vescovi, tutti membri africani del Sinodo, che vennero a ringraziarlo nel decimo anniversario del messaggio papale, Africae Terrarum.
Nel suo discorso, il Santo Padre ripercorse l’incoraggiante crescita della Chiesa in Africa e ritornò sull’importanza dell’acculturazione: «Che cosa è in gioco in questo compito immenso? Come abbiamo scritto dieci anni fa nel nostro Messaggio all’Africa: è, dunque, vostra preoccupazione rendere vivo ed efficace l’incontro tra il cristianesimo e l’antica tradizione dell’Africa. In questo modo possiamo parlare del vero radicamento della Chiesa: è una questione di fondare o di rendere più profonda una nuova civiltà, una civiltà che sia al contempo africana e cristiana.
E affermiamo qui a voi che questo programma può essere realizzato, attraverso la grazia di Dio: che il cristianesimo può e deve essere del tutto “a casa” nelle culture africane, e che l’anima africana è destinata e preparata a ricevere la salvezza di Cristo» (Insegnamenti di Paolo VI, XV, 1977, p. 977). Perché tutto questo possa funzionare bene, il Papa ha dettato quattro condizioni: la fede deve vivificare da dentro le tradizioni e la civiltà che queste tradizioni comportano; la formazione di sacerdoti e religiosi è molto importante; la fede dovrebbe trasformare le relazioni umane, comprese quelle tra razze diverse; e i fedeli laici devono partecipare attivamente alla missione della Chiesa.
Ecco un esempio di come Paolo VI diede agli africani un buon esempio di come la Chiesa condivida «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» (Gaudium et Spes, 1). La Federazione nigeriana condusse una guerra feroce contro la sua parte orientale che si autoproclamò Repubblica del Biafra.
La guerra ha imperversato dal luglio 1967 al gennaio 1970 e ha portato alla morte di almeno un milione di persone in Biafra a causa della fame e di migliaia di persone sui fronti di guerra. Il Santo Padre fece molti appelli. La Chiesa cattolica, sotto la guida della Caritas Internationalis, organizzò un’imponente azione di sostegno. Così fecero altri cristiani. Ma ciò che merita una menzione speciale qui è l’iniziativa di Papa Paolo VI che coinvolse direttamente i vescovi di Nigeria.
Nel 1969 il Santo Padre invitò i tre arcivescovi del Paese, di Kaduna, Lagos e Onitsha, e un altro vescovo di ognuna delle loro province ecclesiastiche, a venire in Vaticano. Ciò che vi era di notevole in questo evento è che sotto la guida del Vicario di Cristo, vescovi di due fazioni in guerra si incontrarono, meditarono insieme, pregarono insieme e, senza prendere una posizione politica, fecero appello a entrambi gli schieramenti del conflitto perché deponessero le armi, si prendessero cura del popolo sofferente e si impegnassero in una riconciliazione. È stato un privilegio e una scuola di evangelizzazione per me essere stato uno di quei sei vescovi ed essere vicino al grande Pontefice che fu Papa Paolo VI.

Publié dans:Cardinali, Papa Paolo VI |on 7 août, 2012 |Pas de commentaires »

Paolo VI: Il 1° maggio cristiano auspice il grande Artigiano di Nazareth

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1965/documents/hf_p-vi_aud_19650501_it.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Festa di San Giuseppe Artigiano

Sabato, 1° maggio 1965

Il 1° maggio cristiano auspice il grande Artigiano di Nazareth

Diletti Figli e Figlie!

Se cerchiamo quali motivi spirituali dànno a questa udienza un significato particolare, è facile rilevare che tali motivi sono due: la festa del lavoro e la festa di San Giuseppe; anzi è uno solo, quello che suggerì dieci anni or sono, al Nostro Predecessore, di venerata memoria, Pio XII, di abbinare questi due titoli, che dànno al Calendimaggio il carattere d’un giorno speciale di festa, per farne, com’Egli disse, un «giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro» (Discorsi e Radiomessaggi, XVII, 76). Questo atto, che ha potuto apparire a qualcuno come un pio artificio, come uno sforzo per attribuire ad una celebrazione profana, anzi laica nel senso più radicale del termine, un qualche tardivo e compiacente riconoscimento, rivela invece, come nel campo cattolico tutti hanno notato con soddisfazione, un gesto doppiamente coerente: coerente con la tradizione del culto cristiano, il quale non soltanto per purificare ed elevare le feste pagane, più d’una di esse ha assorbito nel suo calendario e ha trasfigurato in senso cristiano, ma altresì per obbedire al suo genio profondamente teologico e profondamente umano, il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia.
E seconda coerenza: e cioè con tutta l’opera dottrinale e pastorale svolta dalla Chiesa, dai Papi specialmente, dai Vescovi e da Maestri cattolici, da un secolo in qua, per ridare al lavoro una sua nuova spiritualità, una sua animazione cristiana. E allora l’aver fatto coincidere la festa del lavoro con la festa del lavoratore S. Giuseppe, che nella scena evangelica, nella stessa famiglia terrena di Cristo, personifica il tipo umano, che Cristo medesimo scelse per qualificare la propria posizione sociale «fabri filius» (Matth. 13, 55), pone il grande, enorme, moderno problema della riconciliazione del mondo del lavoro con i valori religiosi e cristiani, e della conseguente irradiazione di dignità, di energie, di conforti, di speranze, che il Vangelo può e deve ancor oggi diffondere sulla fatica umana; anzi quasi lo dà, questo problema, per risoluto, anche se oggi pur troppo, in gran parte, risoluto non è.
Anche questo modo di agire è nel costume della Chiesa credente, la quale sovente opera «contra spem, in spem» (Rom. 4, 18), sicura che il tempo, i fatti, gli uomini le daranno ragione, perché lo Spirito di Dio anticipa alla Chiesa una sicurezza profetica, che un giorno, a bene dell’umanità, sarà vittoriosa.
E nulla diremo, in questo brevissimo momento, delle troppe cose che si offrono alla mente dalla presentazione del problema suddetto, del rapporto cioè fra vita religiosa e vita del lavoro: perché queste due supreme espressioni dell’attività umana dovrebbero essere separate fra loro? Perché in contrasto? Come fu che la loro alleanza, la loro simbiosi si ruppe? Quale lunga storia, quale diligente analisi ce ne può indicare le ragioni, i pretesti, le rovine? Forse non fu a tempo compresa la trasformazione psicologica e sociale che il passaggio dall’impiego di umili e primitivi utensili in aiuto della fatica dell’uomo all’impiego della macchina con tutte le sue nuove potentissime energie avrebbe prodotto? Non ci si avvide che nasceva una favolosa speranza dal regno della terra che avrebbe oscurato e sostituito la speranza del regno dei cieli? Non ci si accorse che la nuova forma di lavoro avrebbe risvegliato nel lavoratore la coscienza della sua alienazione, che cioè egli non operava più per sé, ma per altri, con strumenti non più propri, ma di altri, non più solo ma con altri, e che sarebbe sorta nel suo animo la brama d’una redenzione economica e temporale, che non gli lasciava più apprezzare la redenzione morale e spirituale offertagli dalla fede di Cristo, non a quella contraria, ma di quella fondamento e corona? E mancò forse (non certo nei Papi) il linguaggio, mancò il coraggio per dire al mondo del lavoro, sconvolto delle sue stesse affermazioni, qual era la via buona del suo riscatto, e quale il bisogno e il dovere di non mortificare al livello del benessere economico la sua capacità ed il suo diritto di salire insieme al livello delle supreme realtà della vita, che sono quelle dell’anima e di Dio?
Nulla diremo. Del resto sono cose che tutti ora, più o meno, conoscono, e che solo richiamiamo al vostro spirito, oggi e proprio qui, perché abbiate a ricordarle e a meditarle, alla luce che la festa di S. Giuseppe, esempio e protettore del mondo del lavoro, proietta su di noi, quando siamo memori del Vangelo e memori della meravigliosa fedeltà, con cui esso si rispecchia nelle attualissime Encicliche pontificie.
E abbiate a interessarvi di queste cose, che hanno tanta importanza nella vita moderna fino a determinarne le forme salienti ed il corso, non si sa se più travagliato o trionfale. Interessarvi per pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte. E per quanti anche del lavoro fanno argomento programmatico e permanente di lotta sociale, invece che di armoniosa e positiva cooperazione nella giustizia e nella libertà; fonte di odio sociale e di passione, invece che di amore fraterno e di esaltazione di nobili sentimenti. Ed infine perché all’interessamento di pensiero e di preghiera abbiate ad aggiungere, come possibile, quello della solidarietà e dell’operosità, affinché «la giustizia e la pace» auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro.

La Nostra Benedizione vi incoraggia e vi assicura l’aiuto del Cielo.

Publié dans:Papa Paolo VI, San Giuseppe |on 30 avril, 2012 |Pas de commentaires »
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