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FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO – GIOVANNI XXIII, 1962

http://w2.vatican.va/content/john-xxiii/it/homilies/1962/documents/hf_j-xxiii_hom_19620628_pietro-paolo.html  

FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO

CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI

ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII

Basilica Vaticana

 Giovedì, 28 giugno 1962

Le care impressioni della visita al Laterano nei secondi Vesperi di S. Giovanni — in esultanza commossa innanzi al fervore così vivo di quella folla tutta popolare e modesta, ma vibrante di sentimento filiale intorno al Papa, il suo Vescovo di Roma — sono invito continuo a letizia spirituale, per questa celebrazione dei primi Vesperi della festa di S. Pietro in Vaticano. Come è bello ed insieme edificante questo chiudersi del Testamento Antico col Precursore di Cristo e l’aprirsi del Nuovo sulle indicazioni di lui, nella luce e dell’umile pescatore di Galilea, chiamato al governo del Testamento eterno, della Chiesa universale. Sul mare del mondo verso Roma Venerabili Fratelli! quanti qui siete, e diletti figli, non vi torni discaro qualche pensiero che intendiamo esprimervi a comune edificazione. Con S. Giovanni noi eravamo a sentirne la voce profetica nel deserto, quando insisteva sul Parate viam Domini: rectas facite semitas eius [1]. Cioè: strada del Signore da preparare: vie giuste da rettificare e da percorrere, sino a raggiungere la salvezza per tutti. Questa sera, siamo invece come sul mare, nella barca di Pietro, il pescatore, dove Gesù era salito, e di là parlava alle turbe. S. Luca racconta il bell’episodio. — Finito che Gesù ebbe di parlare, disse a Simone: « Va al largo con la barca, e calate le reti per la pesca ». Gli rispose Simone: « Maestro, abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla, ma sulla tua parola calerò le reti ». Così fece infatti, e ne seguì una pescagione copiosissima [2]. Su questa pagina evangelica, Padri della Chiesa e commentatori di ogni tempo amarono trattenersi. Dai loro scritti — ricordiamo particolarmente quelli di Leone e Gregorio — scende una dottrina, la cui nota di solennità è divenuta familiare all’orecchio ed al buon gusto di quanti hanno tra mano abitualmente il Messale ed il Breviario. Distintissimo fra questi il primo, il Magno, della cui morte gloriosa abbiamo festeggiato il centenario il 15 novembre scorso. In questa vigilia ci attira in modo speciale il pensiero di un altro Pontefice, grande lui pure, Papa Innocenzo III, che questa pagina di S. Luca ha saputo felicemente riassumere sotto amabili significazioni e figure. Il mare di Galilea, su cui Gesù si posa, è il secolo, diremo meglio il mondo intero, che egli è venuto a redimere. La barca di Pietro è la Santa Chiesa, di cui Pietro, Simone il pescatore, fu fatto capo. L’ordine di Gesù a Pietro e ai suoi perchè vadano al largo e portino a più vasto ardimento la pescagione, il  Duc in altum dell’umile naviglio, è Roma, la capitale del mondo di allora, riservata a divenire, più tardi, la vera capitale, e il centro elevato e luminoso del mondo cristiano. La rete da gettarsi su le onde per la conquista delle anime è la predicazione apostolica. La Chiesa di Cristo diffusa « Ubique Terrarum»   Che spettacolo questo mare di Galilea, chiamato a rappresentare i secoli e i popoli! Aquae multae: populi multi: mare magnum totum saeculum; così lo chiama Papa Innocenzo. Mare grande e spazioso. Il libro dei Salmi lo designa bene, anche più vivacemente : pieno di pesci d’ogni genere: animalia pusilla cum magnis: illic naves pertransibunt [3]. Come il mare è turbolento e amaro, così il secolo, così il mondo degli uomini, è turbato dalle amarezze e dai contrasti: non mai pace e sicurezza; non mai riposo e tranquillità; sempre e dappertutto timore e tremore: ubique labor et dolor. L’Evangelista S. Giovanni [4] scrisse che il mondo è tutto posto sulla malignità. Il sorriso è commisto al gemito: i punti estremi del gaudio sono occupati dal lutto [5]. L’uccello è nato per il volo: l’uomo è destinato al pesante lavoro [6]. Il libro dell’Ecclesiastico è anche più incisivo : — Una continua occupazione è riservata a tutti gli uomini, un giogo preme sulle spalle di tutti i figli di Adamo. Nel mare i pesci più piccoli sono divorati dai più grandi: così nel mondo i piccoli uomini sono schiacciati dai forti e dai prepotenti [7]. Ebbene è sulla vastità di questo mondo che si stende la misericordia dell’Altissimo, a redenzione dalla schiavitù, ad elevazione delle più nobili energie; è su questo mondo che il Padre Celeste ha mandato il Figlio suo Unigenito, rivestito di umana carne, per assistere tutti i figli dell’uomo nello sforzo della loro risurrezione dalle miserie di quaggiù, e per riaccompagnarli fino alle altezze della eterna vita. È su questo mare immenso della umanità purificata dalla virtù del Sangue di Cristo, che lo stesso Verbo del Padre propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis, et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est; homo et Salvator mundi, et totius mundi per Ecclesiam Sanctam suam Rex gloriosus et immortalis per saecula. Geniale commento di Innocenzo III La Chiesa di Cristo diffusa ubique terrarum viene rappresentata nel Vangelo dalla barca di Pietro, che Gesù predilesse, da cui sovente amò parlare come Maestro dei popoli, e che in una circostanza particolarmente misteriosa e solenne — questa di cui riferisce S. Luca nel capo quinto del suo Vangelo — volle indicare agli Apostoli suoi, come il punto più elevato delle divine conquiste del suo Regno. Avete passato una notte infeconda di navigazione col nihil cepimus. Ora dico a te, o Pietro, duc in altum: al largo la barca; e a tutti i suoi: gettate le reti, come fecero in perfetta obbedienza: et concluserunt piscium multitudinem copiosam. Diletti figli! È a questo punto della lettura evangelica che papa Innocenzo III, nella festa di S. Pietro se ne esce con vigore esultante: L’altezza di questo mare, altitudo maris istius, di cui Gesù benedetto disse a S. Pietro:  duc in altum, è Roma, quae primatum et principatum super universum saeculum obtinebat et obtinet. La divina Provvidenza volle esaltare questa città : perchè come nel tempo del paganesimo trionfante essa sola aveva la dominazione sopra tutta la gentilità sparsa nel mondo, così dopo la venuta di Gesù Redentore iniziatasi la Cristianità, era degno e conveniente che la Chiesa Santa sola tenesse la dignità del magistero e del governo sopra tutti i fedeli della terra. E Papa Innocenzo prosegue a proclamare come Iddio abbia trovato e voluto consonum et dignum, che colui che era il capo e principe della Chiesa, costituisse la sede religiosa e principale, presso la città, che aveva il principato e il governo secolare. Per questo Gesù disse a Pietro Duc in altum, come a dire : Va a Roma e trasferisci te e i tuoi a quella città, e là gettate le vostre reti per la pesca. Così evidente parrà quanto il Signore abbia amato ed ami questa Sede augusta, e questa Roma meritasse il nome di sacerdotale e di regia, imperiale ed apostolica, depositaria ed in esercizio di dominio non solo sopra i corpi, ma anche di magistero sulle anime. Ben più nobile ora e degna di autorità divina che non fosse nel passato di potestà terrena. È assai toccante sentire dalle parole del grande Papa il richiamo della pia tradizione del Domine, quo vadis: e delle parole di Gesù a Pietro, tremante e fuggitivo: « Vado a Roma per farmi crocifiggere un’altra volta ». Interessante anche la differenza, secondo S. Luca, di espressioni di Gesù, che a S. Pietro parla in singolare: Duc in altum: e poi prosegue in plurale al resto degli Apostoli: Laxate retia in capturam. Il solo Pietro, come solo principe della Chiesa universale, è veduto nell’altezza della sua suprema prelatura. Non possiamo però dimenticare che anche a S. Paolo, come a lui, sarebbe stato affidato il compito di stendere in Roma la rete apostolica della sacra predicazione. Una spirituale conversazione come questa Nostra, Venerabili Fratelli e diletti figli, che introduce alla festa di S. Pietro, è naturale che si adorni come di duplice corona, che insieme conferma l’associarsi dei due grandi Apostoli, nella ammirazione e nel culto. Papa Innocenzo arriva fino alla bella comparazione di questi due grandi apostoli della Chiesa Romana, della Chiesa universale, in riferimento storico, poetico e contraddistinto ai due fondatori della Roma primitiva, cioè a Romolo e Remo, le cui due sepolture, al dire degli archeologi, giacevano quasi a parallela distanza dall’un capo all’altro della città; cioè Pietro dalla parte dove Romolo fu tumulato: e Remo dalla parte dove fu indicata la tomba di S. Paolo. Grande rispetto noi dobbiamo e amiamo rendere ai vetustissimi ricordi della Roma primitiva — come commentava allora Papa Innocenzo — ai duo fratres secundum carnem, qui urbem istam corporaliter non sine divina providentia — condiderunt, et honorabilibus iacent tumulata sepulcris. Ma è ben giusto che la nostra religiosa tenerezza si volga con particolare sentimento ai duo fratres secundum fidem, Petrus et Paulus, qui urbem istam spiritualiter fundaverunt, gloriosis basilicis tumulati.

Il Sacro Ministero della grande predicazione Notate la precisa significazione dei contrasti: duo fratres secundum carnem et corporaliter condentes: i due Santi Patroni di Roma, fratres secundum fidem: spiritualiter fundatores, gloriosis basilicis honorificentissime tumulati. Non dobbiamo dimenticare le reti dei pescatori, all’ordine di Gesù gettate nel mare e raccolte a gran fatica, a gran trionfo di apostolica obbedienza. La rete simbolica che oggi stesso, in intreccio floreale, sta sulle soglie di questa Basilica Vaticana. Come la barca di Pietro significa la Chiesa, come il mare mosso rappresenta il secolo e il mondo agitato, come Roma il centro dell’attività cattolica ed apostolica: così le reti sono figurazione del ministero della predicazione popolare. Papa Innocenzo approfitta dell’accenno per dare in sintesi istruttiva e fervorosa i caratteri sacri e peculiari della eloquenza pastorale : che è quanto dire del ministero sacro per la conquista e il nutrimento prezioso, di cui il sacerdozio cattolico deve essere distributore alle anime dei fedeli. Il provvido predicatore deve preparare i suoi saggi di istruzione popolare e anche più elaborata per qualunque classe e levatura. Saper variare di argomento, di tono, di colore : ora circa le virtù, ora circa i vizi, ora circa i premi ed ora circa i castighi, della misericordia e della giustizia, assai su questi due temi, ora con semplicità, ora con sottilità, ora secondo la storia ed ora secondo l’allegoria : presentazione di autorità, di similitudini, di ragioni, di esempi. Questi sono i fili e gli intrecci, di cui sono fatte le reti, capaci, resistenti, preziose. Queste le reti più sicure ed efficaci per convincere le anime alla chiarezza di visione della buona dottrina apostolica, per portarle al fervore, alla santificazione, alla letizia. Di queste reti si sono serviti i Beatissimi Apostoli Pietro e Paolo. Le loro Lettere ci parlano ancora dal fondo della loro età. Per questa predicazione Roma si è convertita dall’errore alla verità, dai vizi alle virtù: ed è divenuta  domina gentium, maestra del mondo.

Onore nel tempo ai beati principi degli Apostoli La venerazione, che ogni buon cattolico nutre per gli Apostoli di Cristo di tutti i tempi e di tutti i popoli, deve mantenere il suo fervore : anzi nella imminente celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, che vuole essere tutto un profluvio di celeste dottrina, aumentare di ispirazione, di pacifica e santa esaltazione. Ma di questi due primi e beati Apostoli di Roma, Pietro e Paolo, sempre in eco alla tradizione dei secoli come Padri e Patroni principali e preclarissimi, dobbiamo particolarmente studiare i grandi insegnamenti, a splendore delle intelligenze, a fiamma dei cuori. Ci piace por termine a questa effusione di sentimenti e di voti paterni con la fervente invocazione augurale del grande Pontefice Innocenzo III, uno dei più insigni e gloriosi della Chiesa e della storia: Illos patres et patronos debet specialiter et principaliter honorare Roma inclita nostra, quatenus, meritis et precibus eorum adiuta, ita nunc salubriter conservetur in terris, ut tandem feliciter coronetur in caelis. Praestante Domino nostro Iesu Christo, qui est super omnia Deus benedictus in saecula saeculorum. Amen [8].

[1] Cfr. Matth. 3, 3; Marc. 1, 3; Luc. 3, 4. [2] Cfr. Luc. 5, 1-7. [3] Ps. 103, 25-26. [4] 1 Io. 5, 19. [5] Prov. 14, 13. [6] Iob. 5, 7. [7] Cfr. Eccl. 40 e 13. [8] Innocentii III, Opera omnia, Sermo XXII, in solemnitate B. Apostolorum Petri et Pauli, Migne PL 207, col. 555, ss.

 

UN TESTIMONE DI PACE: GIOVANNI XXIII E LA « PACEM IN TERRIS »

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=165

UN TESTIMONE DI PACE: GIOVANNI XXIII E LA « PACEM IN TERRIS »

sintesi della relazione di Luigi Bettazzi
Verbania Pallanza, 18 ottobre 2003
un papa oltre le etichette

Le etichette di conservatore o progressista poco si addicono alla figura di Giovanni XXIII, attaccato per certi versi alla tradizione (recita quotidiana del rosario…), per altri versi aperto al nuovo sin dall’inizio (compagno di studi di Bonaiuti…). Il contatto con il vescovo di Bergamo Radini Tedeschi, sensibile alla questione sociale, e le successive esperienze diplomatiche in Bulgaria, in Turchia e in Francia lo aprono ai problemi delle altre confessioni cristiane (ortodossi), dei non cristiani (musulmani), degli scristianizzati e quindi sensibile alle problematiche ecumeniche e interreligose. Così pure l’interesse per la figura di san Carlo Borromeo e per le sue visite pastorali a Bergamo dove portava il concilio gli fanno percepire l’importanza dell’assemblea conciliare nel rinnovare la chiesa.
Eletto papa nel 1958, dopo cinque anni trascorsi come cardinale patriarca di Venezia, si segnala subito per la sua cultura popolana, per la sua attenzione alla gente, per l’apertura ecumenica.
Novanta giorni dopo l’elezione manifesta l’intenzione di convocare un concilio con carattere pastorale, suscitando subito perplessità e reazioni in alcuni settori della gerarchia (Siri, Ottaviani…), che ritenevano che i concili dovessero avere essenzialmente un carattere dogmatico, cioè capaci di definire con precisione verità. Al contrario un concilio pastorale si rivolge alla gente e si preoccupa non solo di definire verità astratte ma di come entrare in relazione con le persone che hanno una certa cultura e mentalità, che hanno, ad esempio, rispetto al passato, un maggior spirito critico e un maggior spirito democratico.

la « Pacem in terris » e i segni dei tempi
Anche la « Pacem in terris », promulgata nel 1963, quasi un testamento spirituale, ha questa preoccupazione e attenzione alla gente e ai segni dei tempi. Per Giovanni XXIII il termine evangelico « segni dei tempi » sta a significare le situazioni concrete, l’attenzione alla gente, al suo modo di pensare e vivere.
In questa enciclica sono indicati tre grandi segni dei tempi che influenzano il modo di accogliere la fede: la promozione della donna, la maturazione sociale e politica del mondo del lavoro, l’indipendenza dei popoli (si era ai tempi della fine del colonialismo politico).
Inoltre la situazione concreta che spinse il papa a scrivere l’enciclica fu la crisi di Cuba, quando gli statunitensi minacciarono una guerra di fronte al dispiegamento dei missili sovietici a Cuba, installati su richiesta di Castro che poco prima era riuscito a respingere l’invasione degli esuli cubani appoggiati dagli americani. L’intervento del papa, segretamente richiesto dai contendenti, sbloccò la grave crisi.
Questo episodio spinse il papa a ripensare il problema della pace nel mondo. Importanti e innovative furono le distinzioni tra grandi ideologie e movimenti storici, tra errore ed errante. La cosa più importante è guardare alle persone concrete.
Altro aspetto di novità è il fatto che per la prima volta un documento della chiesa si rivolge agli uomini di buona volontà e non solo ai vescovi, ai preti, alle suore e a tutti i cristiani. Dopo di allora tutte le encicliche sociali dei papi sono rivolte agli uomini di buona volontà.
La Costituzione conciliare sul mondo contemporaneo (la Gaudium et spes) prese ispirazione da quella enciclica. Infatti nella prima parte si parla dei valori materiali e spirituali della persona umana, dei valori individuali e collettivi. Si parla della famiglia, non della famiglia cristiana, si parla della cultura, non della cultura cristiana. Solo alla fine di ogni capitolo ci sono i motivi di fede. Per poter parlare ad ogni uomo occorre usare argomentazioni accettabili da tutti.

i quattro pilastri della pace
La « Pacem in terris » ci ha aiutato a capire che cosa è la guerra e che cosa è la pace. La pace non è solo il tacere delle armi ma si fonda su quattro grandi pilastri: la verità, la giustizia, l’amore (solidarietà), la libertà.
Non c’è pace finché non c’è verità. Per la verità (astratta) si sono fatte le guerre, anche di religione, si sono bruciati eretici… Per papa Giovanni la verità è quella dell’uomo, della persona umana in quanto persona umana, non in quanto bianco, benestante, colto, sano… Nei fatti noi abbiamo l’idea di valere più degli altri. È sufficiente pensare al conto dei morti nei recenti conflitti: tutti sanno quanti occidentali sono morti, pochi quanti sono i morti afgani, irakeni o congolesi (più di due milioni…).
Dal non riconoscimento del valore della persona umana deriva l’affondamento della giustizia: noi facciamo i nostri interessi. Il quinto dell’umanità fa i suoi interessi a spese dei quattro quinti. Perché i paesi più ricchi del mondo, il G8, devono organizzare il commercio mondiale? Non sarà che lo organizzino secondo i loro interessi?
Si pensi alla finanza. I paesi poveri per restituire un po’ di soldi dei debiti contratti risparmiano sulla salute e sull’istruzione. Come diceva Giovanni Paolo II non c’è pace senza giustizia.
La pace inoltre si fonda sulla solidarietà, che non è una virtù facoltativa, ma, soprattutto per i popoli più fortunati, un dovere di giustizia.
Ultimo pilastro della pace è la libertà. Ma la libertà di cui continuamente ci riempiamo la bocca non è « la » libertà, ma la « nostra » libertà: è la libertà della parte più fortunata del mondo, pagata con la mancanza di libertà degli altri. È la libertà della libera volpe nel libero pollaio. Non è un caso che le nazioni più forti ricorrano, per risolvere i problemi, alle soluzioni violente, alle guerre che sono – dice la « Pacem in terris » – al di fuori della ragione umana. Danno ragione infatti ai più forti, non ha chi ha eventualmente ragione.
La libertà coincide con la non violenza, che non è viltà o non far niente, ma la scelta più autenticamente umana, perché riconosce le ragioni di chi le ha, anche dei più deboli, e quindi orienta veramente verso la pace. Gandhi ha ottenuto l’indipendenza attraverso soluzioni non violente, come i cortei, le manifestazioni, gli scioperi. La non violenza richiede maggiore intelligenza e volontà.
Quando Gesù riceve uno schiaffo dal servo del Sinedrio non porge l’altra guancia: l’evangelico « porgere l’altra guancia » vuol dire allora non rispondere alla violenza con la violenza, in modo che anche l’altro smetta la violenza.
Ecco il compito che ci spetta anche come comunità cristiana: cercare i modi di risolvere i problemi senza la violenza, per essere di aiuto ad un autentico cammino di pace e di libertà per tutti.

LETTERA ENCICLICA PAENITENTIAM AGERE DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI XXIII (1.7.2962)

http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_01071962_paenitentiam_it.html

LETTERA ENCICLICA PAENITENTIAM AGERE DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI XXIII (1.7.2962)
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE SONO IN PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA NELLA QUALE SI INVITA A FARE PENITENZA
PER IL BUON ESITO DEL CONCILIO (1)

Far penitenza dei propri peccati, secondo l’esplicito insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo, costituisce per l’uomo peccatore il mezzo per ottenere il perdono e per giungere alla salvezza eterna. Appare quindi evidente quanto sia giustificato l’atteggiamento della chiesa cattolica, dispensatrice dei tesori della divina redenzione, la quale ha sempre considerato la penitenza come condizione indispensabile per il perfezionamento della vita dei suoi figli e per il suo miglior avvenire.
Per questo motivo, nella costituzione apostolica di indizione del Concilio Ecumenico Vaticano II, abbiamo voluto rivolgere ai fedeli l’invito a prepararsi degnamente al grande avvenimento non solo con la preghiera e con la pratica ordinaria delle virtù cristiane, ma altresì con la volontaria mortificazione.(2)
Approssimandosi l’apertura del concilio, Ci sembra ben naturale rinnovare con maggior insistenza la stessa esortazione, poiché il Signore, pur essendo presente nella sua chiesa «tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20), si renderà allora ancor più vicino alle menti e ai cuori degli uomini attraverso la persona dei suoi rappresentanti secondo la sua stessa parola: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16).
Il concilio ecumenico, in realtà, essendo l’adunanza dei successori degli apostoli, cui il Salvatore divino affidò il mandato di ammaestrare tutte le genti, insegnando loro a osservare tutte le cose che egli aveva comandato (cf. Mt 28,19-20), vuol significare una più alta affermazione dei diritti divini sull’umanità redenta dal sangue di Cristo, e dei doveri che avvincono gli uomini al loro Dio e Salvatore.
Orbene, se interroghiamo i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, vediamo che ogni gesto di più solenne incontro tra Dio e l’umanità – per esprimerci con linguaggio umano – è stato sempre preceduto da un più suadente richiamo alla preghiera e alla penitenza. Infatti Mosè non consegna al popolo ebraico le tavole della legge divina se non quando esso ha fatto penitenza per i peccati di idolatria e di ingratitudine (cf. Es 32,6-35; 1 Cor 10,7). I profeti esortano incessantemente il popolo d’Israele a supplicare Dio con cuore contrito, per cooperare al compimento del disegno provvidenziale che accompagna tutta la storia del popolo eletto. Commovente è fra tutte la voce del profeta Gioele, che risuona nella sacra liturgia quaresimale: «Adesso dunque, dice il Signore: Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nelle lacrime e nei sospiri. E squarciate i cuori vostri, e non le vostre vesti. Tra il vestibolo e l’altare i sacerdoti ministri del Signore giungeranno, e diranno: Perdona, o Signore, perdona al tuo popolo: e non abbandonare la tua eredità all’obbrobrio di essere dominata dalle nazioni» (Gioele 2,12-13.17).

I. La penitenza nell’insegnamento di Gesù Cristo e degli apostoli
Anziché attenuarsi, tali inviti alla penitenza si fanno più solenni con la venuta del Figlio di Dio sulla terra. Ecco, infatti, che Giovanni Battista, il precursore del Signore, dà inizio alla sua predicazione col grido: «Fate penitenza, poiché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,1). E Gesù stesso non esordisce il suo ministero con l’immediata rivelazione delle sublimi verità della fede ma con l’invito a purificare la mente e il cuore da quanto potrebbe impedire la fruttuosa accoglienza della buona novella: «Da lì in poi cominciò Gesù a predicare e a dire: Fate penitenza, poiché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Più ancora che i profeti, il Salvatore esige dai suoi ascoltatori il cambiamento totale dello spirito, nel riconoscimento sincero e integrale dei diritti di Dio: «Ecco il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21); la penitenza è forza contro le forze del male; ci insegna lo stesso Gesù Cristo: «Il regno dei cieli si acquista con la forza, ed è preda di coloro che usano violenza» (Mt 11,12).
Uguale richiamo risuona nella predicazione degli apostoli. San Pietro, infatti, così parla alle turbe dopo la pentecoste, allo scopo di disporle a ricevere anch’esse il sacramento della rigenerazione in Cristo e i doni dello Spirito Santo: «Fate penitenza, e si battezzi ciascuno di voi nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati: e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). E l’apostolo delle genti ammonisce i romani che il regno di Dio non consiste nella prepotenza e negli sfrenati godimenti dei sensi, ma nel trionfo della giustizia e della pace interiore: «Poiché il regno di Dio non è cibo e bevanda, ma giustizia, pace e gaudio nello Spirito Santo» (Rm 14,17-18).
Non si deve credere che l’invito alla penitenza sia rivolto soltanto a coloro che devono entrare a far parte per la prima volta del regno di Dio. Tutti i cristiani, in realtà, hanno il dovere e il bisogno di far violenza a se stessi, o per respingere i propri nemici spirituali, o per conservare l’innocenza battesimale, o per riacquistare la vita della grazia perduta con la trasgressione dei divini precetti. Se è vero, infatti, che tutti coloro che sono divenuti membri della chiesa col santo battesimo partecipano della bellezza che Cristo le ha conferito, secondo le parole di san Paolo: «Cristo amò la chiesa, e diede se stesso per lei, allo scopo di santificarla, mondandola con la lavanda di acqua mediante la parola di vita, per farsi comparire davanti la chiesa vestita di gloria, senza macchia e senza ruga, o altra tal cosa; ma che sia santa e immacolata» (Ef 5,26-27); è vero altresì che quanti hanno macchiato con gravi colpe la candida veste battesimale devono temere grandemente i castighi di Dio se non procurano di tornare a farsi candidi e splendenti nel sangue dell’Agnello (cf. Ap 7,14) col sacramento della penitenza e la pratica delle virtù cristiane. Anche ad essi quindi è indirizzato il severo monito dell’apostolo san Paolo: «Se uno che viola la legge di Mosè, sulla deposizione di due o tre testimoni, muore senza alcuna remissione: quanto più acerbi supplizi pensate voi, che si meriti chi avrà calpestato il Figliolo di Dio, e avrà tenuto come profano il sangue dell’alleanza, in cui fu santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito della grazia? … È cosa orrenda cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,28-30).

I. 1 Il pensiero e la prassi della Chiesa
Venerabili fratelli, la chiesa, sposa diletta del Salvatore divino, è sempre rimasta santa e immacolata in se stessa per la fede che la illumina, i sacramenti che la santificano, le leggi che la governano, i numerosi membri che l’abbelliscono col decoro di eroiche virtù. Ma vi sono anche dei figli dimentichi della loro vocazione ed elezione, che deturpano in se stessi la celestiale bellezza e non riflettono in se medesimi le divine sembianze di Gesù Cristo.
Ebbene a tutti, più che parole di rimprovero e di minaccia, Noi amiamo rivolgere la paterna esortazione a tener presente questo confortante insegnamento del concilio di Trento, eco fedelissima della dottrina cattolica: «Rivestiti di Cristo, infatti, nel battesimo (Gal 3,27), per mezzo di esso diventiamo una creatura affatto nuova ottenendo la piena e integrale remissione di tutti i peccati; a tale novità e integrità, tuttavia, non possiamo arrivare per mezzo del sacramento della penitenza, senza nostro grande dolore e fatica, essendo ciò richiesto dalla divina giustizia, di modo che la penitenza giustamente è stata chiamata dai santi padri « un certo laborioso battesimo »».(3)

I. 2 L’esempio nei precedenti Concili
Il richiamo alla penitenza, dunque, come strumento di purificazione e di spirituale rinnovamento, non deve risonare come voce nuova all’orecchio del cristiano, ma come invito di Gesù stesso, che è stato sovente ripetuto dalla chiesa attraverso la voce della sacra liturgia, dei santi padri e dei concili. Così è da secoli che la chiesa supplica Dio nel tempo di quaresima: «L’anima nostra, che si castiga frenando la carne, viva presso di te con il desiderio di possederti»,(4) e anche: «Fa’ che, mitigando gli affetti terreni, comprendiamo più facilmente le cose celesti».(5)
Non vi è quindi da meravigliarsi se i Nostri predecessori, nel preparare la celebrazione dei concili ecumenici, si siano preoccupati di esortare i fedeli alla penitenza salutare. Ci basti ricordare alcuni esempi. Innocenzo III, approssimandosi il concilio Lateranense IV, esortava i figli della chiesa con queste parole: «All’orazione si aggiunga il digiuno e l’elemosina, affinché per mezzo di queste due ali la nostra preghiera più facilmente e più celermente voli alle orecchie di Dio misericordiosissimo, ed egli ci esaudisca benevolmente nel momento opportuno».(6) Gregorio X, con una lettera indirizzata a tutti i suoi prelati e cappellani, dispose che la solenne apertura del II Concilio Ecumenico di Lione fosse preceduta da tre giorni di digiuno.(7) Pio IX infine esortò tutti i fedeli, affinché nella purificazione dell’animo da ogni macchia di colpa o reato di pena, si preparassero degnamente e in perfetta letizia alla celebrazione del concilio ecumenico Vaticano: «Poiché è cosa manifesta che le preghiere degli uomini sono più accette a Dio, se costoro si rivolgeranno a lui con cuore mondo, cioè con l’animo purificato da ogni colpa».(8)

II. Opportuni suggerimenti in preparazione al Concilio Ecumenico Vaticano II
Seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, Noi pure, venerabili fratelli, desideriamo ardentemente invitare tutto il mondo cattolico – clero e laicato – a prepararsi alla grande celebrazione conciliare con la preghiera, le buone opere e la penitenza. E poiché la preghiera pubblica è il mezzo più efficace per ottenere le grazie divine, secondo la promessa stessa di Cristo: «Dove sono due o tre adunati nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20), bisogna dunque che i fedeli tutti siano «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32) come nei primi tempi della chiesa, e impetrino da Dio con la preghiera e la penitenza che questo straordinario avvenimento produca quei frutti salutari, che sono nell’attesa di tutti; e cioè un tale ravvivamento della fede cattolica, un tale rifiorimento di carità e incremento del costume cristiano, che risvegli anche nei fratelli separati un vivo ed efficace desiderio di unità sincera e operosa, in un unico ovile sotto un solo pastore (cf. Gv 10,16).
A questo scopo esortiamo voi, venerabili fratelli, a indire in ogni parrocchia delle diocesi a ciascuno di voi affidate, nella immediata vicinanza del concilio stesso, una solenne novena in onore dello Spirito Santo per invocare sui padri del concilio l’abbondanza dei celesti lumi e delle divine grazie. A tale riguardo, vogliamo mettere a disposizione dei fedeli i beni del tesoro spirituale della chiesa, e perciò a tutti coloro che prenderanno parte alla novena suddetta verrà concessa l’indulgenza plenaria, da lucrarsi secondo le consuete condizioni.
Sarà anche opportuno indire nelle singole diocesi una funzione penitenziale propiziatoria. Questa funzione dovrà essere un fervido invito, accompagnato con un particolare corso di predicazione, ad opere di misericordia e di penitenza, con cui tutti i fedeli cerchino di propiziare Dio onnipotente e di implorare da lui quel vero rinnovamento dello spirito cristiano, che è uno degli scopi precipui del concilio. Infatti, giustamente osservava il Nostro predecessore Pio XI di venerata memoria: «La preghiera e la penitenza sono i due mezzi messi a disposizione da Dio nella nostra età per ricondurre ad esso la misera umanità qua e là errante senza guida; sono essi che tolgono via e riparano la causa prima e principale di ogni sconvolgimento, cioè la ribellione dell’uomo a Dio».(9)

II. 1 Necessità della penitenza interna ed esterna
Anzitutto è necessaria la penitenza interiore, cioè il pentimento e la purificazione dei propri peccati, che si ottiene specialmente con una buona confessione e comunione e con l’assistenza al sacrificio eucaristico. A questo genere di penitenza dovranno essere invitati tutti i fedeli durante la novena allo Spirito Santo. Sarebbero vane infatti le opere esteriori di penitenza, se non fossero accompagnate dalla mondezza interiore dell’animo e dal sincero pentimento dei propri peccati. In questo senso si deve intendere il severo monito di Gesù: «Se non farete penitenza, tutti ugualmente perirete» (Lc 13,5). Che Dio allontani questo pericolo da tutti quelli che ci furono consegnati!
Inoltre i fedeli devono essere invitati anche alla penitenza esteriore, sia per assoggettare il corpo al comando della retta ragione e della fede, sia per espiare le proprie colpe e quelle degli altri. Infatti lo stesso san Paolo, che era salito al terzo cielo e aveva raggiunto i vertici della santità, non esita ad affermare di se stesso: «Mortifico il mio corpo e lo tengo in schiavitù» (1 Cor 9,27); e altrove ammonisce: «Coloro che appartengono a Cristo, hanno crocefisso la carne con le sue voglie» (Gal 5,24). E sant’Agostino insiste sulle stesse raccomandazioni in questa maniera: «Non basta migliorare la propria condotta e cessare dal fare il male, se non si dà anche soddisfazione a Dio delle colpe commesse per mezzo del dolore della penitenza, dei gemiti dell’umiltà, del sacrificio del cuore contrito, unitamente alle elemosine».(10)
La prima penitenza esteriore che tutti dobbiamo fare è quella di accettare da Dio con animo rassegnato e fiducioso tutti i dolori e le sofferenze che incontriamo nella vita, e tutto ciò che importa fatica e molestia nell’adempimento esatto degli obblighi del nostro stato, nel nostro lavoro quotidiano e nell’esercizio delle virtù cristiane. Questa necessaria penitenza non solo vale a purificarci, a renderci propizio il Signore e a impetrare il suo aiuto per il felice e fruttuoso esito del prossimo concilio ecumenico, ma rende altresì più leggeri e quasi soavi le nostre pene, in quanto ci mette dinanzi la speranza del premio eterno: «Le sofferenze del tempo presente non possono avere proporzione alcuna con la gloria, che si dovrà manifestare in noi» (Rm 8,18).

II. 2 Cooperare alla divina redenzione
Oltre le penitenze che dobbiamo necessariamente affrontare per i dolori inevitabili di questa vita mortale, bisogna che i cristiani siano così generosi da offrire a Dio anche mortificazioni volontarie, ad imitazione del nostro divin Redentore, il quale, secondo l’espressione del principe degli apostoli: «Una volta per tutte morì per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, allo scopo di condurci a Dio, messo a morte nella carne, ma reso alla vita nello spirito» (1 Pt 3,18). «Poiché, dunque, Cristo patì nella carne, armiamoci anche noi del medesimo pensiero» (cf. 1 Pt 4,1). Siano in ciò di esempio e di incitamento anche i santi della chiesa, le cui mortificazioni inflitte al loro corpo spesso innocentissimo ci riempiono di meraviglia e quasi ci sbigottiscono. Davanti a questi campioni della santità cristiana, come non offrire al Signore qualche privazione o pena volontaria da parte anche dei fedeli, che forse hanno tante colpe da espiare? Esse sono tanto più gradite a Dio, in quanto non vengono dall’infermità naturale della nostra carne e del nostro spirito, ma sono spontaneamente e generosamente offerte al Signore in olocausto di soavità.
È noto infine che il concilio ecumenico tende a incrementare da parte nostra l’opera della redenzione, che nostro Signore Gesù Cristo, «offertosi di sua spontanea volontà» (Is 53,7), è venuto a portare fra gli uomini non solo con la rivelazione della sua celeste dottrina, ma anche con lo spargimento volontario del suo sangue prezioso. Orbene, potendo ciascuno di noi affermare con san Paolo apostolo: «Godo di quel che patisco … e do compimento a quello che rimane dei patimenti di Cristo, a pro del corpo di lui, che è la chiesa» (Col 1,24), dobbiamo dunque godere anche noi di poter offrire a Dio le nostre sofferenze «per l’edificazione del corpo di Cristo» (Ef 4,12), che è la chiesa. Ci dobbiamo sentire anzi quanto mai lieti e onorati di essere chiamati a questa partecipazione redentrice della povera umanità, troppo spesso deviata dalla retta via della verità e della virtù.
Molti, purtroppo, invece della mortificazione e del rinnegamento di sé imposti da Gesù Cristo a tutti i suoi seguaci con le parole: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Lc 9,23), cercano piuttosto sfrenatamente i piaceri terreni, e deturpano e infiacchiscono le energie più nobili dello spirito. Contro questo modo di vivere sregolato, che scatena spesso le passioni più basse e porta a grave pericolo della salvezza eterna, bisogna che i cristiani reagiscano con la fortezza dei martiri e dei santi, che sempre hanno illustrato la chiesa cattolica. In tal modo tutti potranno contribuire, secondo il loro stato particolare, alla migliore riuscita del Concilio Ecumenico Vaticano II, che deve appunto portare a un rifiorimento della vita cristiana.

II. 3 Inviti conclusivi
Dopo queste paterne esortazioni, Noi confidiamo, venerabili fratelli, che non solo voi stessi con entusiasmo le accoglierete, ma stimolerete altresì ad accoglierle i Nostri figli del clero e del laicato sparsi in tutto il mondo. Se infatti, come è nell’aspettazione di tutti, il prossimo concilio ecumenico dovrà apportare un grandissimo incremento della religione cattolica; se in esso risonerà in modo ancor più solenne la «parola del regno», di cui si parla nella parabola del seminatore (Mt 13,19); se vogliamo che per mezzo di esso il «regno di Dio» si consolidi e si estenda sempre più nel mondo: il buon esito di tutto questo dipenderà in gran parte dalle disposizioni di coloro cui saranno rivolti i suoi insegnamenti di verità, di virtù, di culto pubblico e privato verso Dio, di disciplina, di apostolato missionario.
Perciò, venerabili fratelli, adoperatevi senza indugio con ogni mezzo che è in vostro potere, affinché i cristiani affidati alle vostre cure purifichino il loro spirito con la penitenza e si accendano a maggior fervore di pietà; di modo che la «buona semente», che in quei giorni sarà più largamente e abbondantemente sparsa, non venga da essi dispersa né soffocata, ma sia accolta da tutti con animo ben disposto e perseverante, ed essi dal grande avvenimento traggano copiosi e duraturi frutti per la loro eterna salvezza.
Da ultimo, Noi pensiamo che al prossimo concilio si possono giustamente applicare le parole dell’apostolo: «Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6,2). Ma risponde ai disegni della provvidenza di Dio, che vengano distribuiti i suoi doni secondo le disposizioni d’animo di ciascuno. Pertanto coloro che vogliono essere filialmente docili a Noi che da lungo tempo Ci sforziamo di preparare i cuori dei cristiani a questo grandioso evento, diligentemente prestino attenzione anche a questo Nostro ultimo invito. Perciò dietro il Nostro e vostro esempio, venerabili fratelli, i fedeli – e in primo luogo i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i fanciulli, gli ammalati, i sofferenti – innalzino suppliche e compiano opere di penitenza, allo scopo di ottenere da Dio alla sua chiesa quell’abbondanza di lumi e di aiuti soprannaturali, di cui in quei giorni avrà speciale bisogno. Come, infatti, possiamo pensare che Dio non si muova a larghezza di celesti grazie, quando dai suoi figli riceve tale abbondanza di doni che spirano fervore di pietà e profumo di mirra?
Inoltre, tutto il popolo cristiano, in ossequio alla Nostra esortazione, dedicandosi più intensamente alla preghiera e alla pratica della mortificazione, offrirà un mirabile e commovente spettacolo di quello spirito di fede, che deve animare indistintamente ogni figlio della chiesa. Ciò non mancherà di scuotere salutarmente anche l’animo di coloro che, eccessivamente preoccupati e distratti dalle cose terrene, si sono lasciati andare alla trascuranza dei loro doveri religiosi.
Se tutto ciò si avvererà, come è nei Nostri desideri, e voi potrete muovere dalle vostre diocesi verso Roma per la celebrazione del concilio recando con voi un così ricco tesoro di beni spirituali, si potrà legittimamente sperare che sorga una nuova e più fausta era per la chiesa cattolica.
Sorretti da questa speranza, impartiamo di tutto cuore a voi, venerabili fratelli, al clero e al popolo affidati alle vostre cure, l’apostolica benedizione, pegno dei celesti favori e testimonianza della Nostra paterna benevolenza.
Roma, presso San Pietro, il 1° luglio 1962, festa del Preziosissimo Sangue di N. S. G. C., anno IV del Nostro pontificato.

GIOVANNI PP. XXIII 

Pope John XXIII, election

Pope John XXIII, election dans Papa Giovanni XXIII papa_giovanni_xxiii

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11 OTTOBRE: PAPA GIOVANNI XXIII – BEATO, PROSSIMO ALLA CANONIZZAZIONE

http://www.giovaniemissione.it/testimoni/papagiovanni23.htm#Scrittisu

11 OTTOBRE: PAPA GIOVANNI XXIII – BEATO, PROSSIMO ALLA CANONIZZAZIONE

Giovanni XXIII è la figura principale del nuovo corso della Chiesa cattolica.

Biografia

Angelo Giuseppe Roncalli nasce il 25 novembre 1881 a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo. E’ il quartogenito dei 13 figli di una modestissima famiglia di contadini mezzadri (“eravamo poveri ma contenti della nostra condizione…”). A 11 anni, Angelo entra nel seminario di Bergamo dove frequenta il ginnasio e il liceo. Continua gli studi a Roma presso il Seminario Romano dell’Appolinaire, esercita il servizio militare e diventa sacerdote nel 1904. E’ eletto segretario del Vescovo di Bergamo, mons. Radini-Tedeschi, ed inizia ad insegnare in seminario discipline storiche e teologiche. E’ cappellano militare durante la prima guerra mondiale. E’ in questi anni che esprime il suo metodo di lavoro: “Mettersi a contatto con tutti, essere presente dovunque, esporre con chiarezza la dottrina, non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà, non arrendersi alle iniziative avversarie, non accontentarsi di fare argine e tenere posizioni, ma precedere e guidare in spirito di apostolato”.
 Nel 1921 è nominato presidente del Consiglio Centrale per l’Italia della Pontificie Opere Missionarie, incarico che accresce il suo amore per le missioni estere.
Nel 1925 diventa Vescovo ed inizia una fortunata carriera nella diplomazia vaticana.
Dal ’25 al ’34 è in Bulgaria in qualità di Visitatore e Delegato Apostolico. Dal ’34 al ’44 è ad Istanbul come Delegato Apostolico di Turchia e Grecia e dal ’44 al ’52 è a Parigi come Nunzio Apostolico. In tutti questi paesi, Mons. Roncalli affronta la difficile situazione sociale, politica e religiosa con equilibrio e semplicità, riuscendo a conquistare tutti, potenti e no.
 Nel 1953 Pio XII lo nomina Cardinale e Patriarca di Venezia. Nel suo discorso di nomina a Patriarca dice ai veneziani:  » “Vengo dall’umiltà e fui educato a una povertà contenta e benedetta… La Provvidenza mi trasse dal mio villaggio nativo e mi fece percorrere le vie del mondo… preoccupato più di quello che unisce che di quello che separa e suscita contrasti”. Continua: “Raccomando alla vostra benevolenza l’uomo, che vuol essere semplicemente vostro fratello, amabile, accostevole, comprensivo”. Decide che tutti i giorni per tre ore, dalle 10 alle 13, tutti i veneziani, soprattutto i più poveri, che avessero qualcosa da dirgli, potessero liberamente andarlo a trovare nel suo palazzo. Gli piace stare con la gente, tanto che compare per le strade e i campielli e trova spesso il tempo di visitare anche gli ammalati nei vari ospedali. La gente lo ama tantissimo perché vede in lui un fratello e un padre che accoglie tutti a braccia aperte.
Il 28 ottobre 1958, dopo la morte di Pio XII, è eletto Sommo Pontefice e sceglie il nome di Giovanni (nome di suo padre, del patrono del suo paese d’origine e dell’evangelista della carità). Angelo Giuseppe ha ormai 77 anni e l’impressione generale è quella che la sua elezione sia la nomina di un papa “di transizione”, che riceva l’eredità del suo predecessore fino a che la situazione della Chiesa e del mondo cristiano, in un’incerta epoca di trasformazione, si chiarisca. Ma già dopo soli tre mesi dalla sua elezione, egli dimostra che queste non erano le sue intenzioni, annunciando la convocazione di un Concilio Ecumenico. Inizia un nuovo modo di fare il Papa, con molte sorprese:
- Abolisce molte formalità nella Santa Sede.
- Visita inaspettatamente i bambini e gli anziani in ospedale e i detenuti in carcere.
 - Annuncia a sorpresa il Concilio Vaticano II con lo scopo di aggiornare la dottrina cristiana.
- Aumenta gli stipendi dei lavoratori della Santa Sede, raddoppiando le paghe delle categorie inferiori e migliorando quelle delle categorie superiori.
- In quanto Vescovo di Roma, visita personalmente le parrocchie e le borgate della città. – E’ il primo Papa ad uscire dal Lazio, (dopo l’annessione di Roma allo stato italiano nel 1870), compiendo un pellegrinaggio in treno a Loreto e Assisi.
- Durante il suo Pontificato, nomina 37 nuovi cardinali, tra cui per la prima volta nella storia un tanzaniano, un giapponese, un filippino e un messicano.
- E’ il primo Papa ad eleggere il primo santo di colore, fra Martin de Porres.
Il 10 maggio 1963 il Papa riceve il premio internazionale Balzan per la pace per la sua intensa attività contro i conflitti.
Dopo una breve malattia, Giovanni XXIII muore il 3 giugno 1963.
 Egli fu molto amato, e lo è tuttora, per la sua personalità umana, il suo interesse verso i più deboli, il suo zelo apostolico che lo portò ad iniziative insolite, a contatto diretto con la gente.

E’ stato beatificato da Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000.

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« IL MONDO HA RICONOSCIUTO IN GIOVANNI XXIII UN PASTORE E UN PADRE »

http://www.zenit.org/it/articles/il-mondo-ha-riconosciuto-in-giovanni-xxiii-un-pastore-e-un-padre

« IL MONDO HA RICONOSCIUTO IN GIOVANNI XXIII UN PASTORE E UN PADRE »

Le parole di Papa Francesco al termine della Messa celebrata dal Vescovo di Bergamo nella Basilica Vaticana, in occasione del 50° anniversario della morte del Beato Roncalli

Citta’ del Vaticano, 04 Giugno 2013 (Zenit.org)

In occasione del 50° anniversario della morte del Beato Papa Giovanni XXIII, si è celebrata ieri pomeriggio, nella Basilica Vaticana, una Santa Messa presieduta da monsignor Francesco Beschi, Vescovo di Bergamo. Alle ore 18.15, al termine della Celebrazione Eucaristica, il Santo Padre Francesco è giunto in Basilica e, dopo aver sostato in preghiera davanti all’urna che contiene le spoglie del Beato, ha incontrato i partecipanti al Pellegrinaggio della Diocesi di Bergamo. Dopo il saluto del Vescovo Mons. Beschi, il Papa ha rivolto ai presenti il discorso che pubblichiamo di seguito:
***

Cari amici della Diocesi di Bergamo,

sono lieto di darvi il benvenuto qui, sulla tomba dell’Apostolo Pietro, in questo luogo che è casa per ogni cattolico. Saluto con affetto il vostro Vescovo, Mons. Francesco Beschi, e lo ringrazio per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Mancano alcune cose da dire, ma le dirà lui.
Esattamente cinquant’anni fa, proprio in quest’ora, il Beato Giovanni XXIII lasciava questo mondo. Chi, come me, ha una certa età, mantiene un vivo ricordo della commozione che si diffuse ovunque in quei giorni: Piazza San Pietro era diventata un santuario a cielo aperto, accogliendo giorno e notte fedeli di tutte le età e condizioni sociali, in trepidazione e preghiera per la salute del Papa.
Il mondo intero aveva riconosciuto in Papa Giovanni un pastore e un padre. Pastore perché padre. Che cosa lo aveva reso tale? Come aveva potuto arrivare al cuore di persone così diverse, persino di molti non cristiani? Per rispondere a questa domanda, possiamo richiamarci al suo motto episcopale, Oboedientia et pax: obbedienza e pace. «Queste parole – annotava Mons. Roncalli alla vigilia della sua consacrazione episcopale – sono un po’ la mia storia e la mia vita» (Giornale dell’Anima, Ritiro di preparazione per la consacrazione episcopale, 13-17 marzo 1925). Obbedienza e pace.
Vorrei partire dalla pace, perché questo è l’aspetto più evidente, quello che la gente ha percepito in Papa Giovanni: Angelo Roncalli era un uomo capace di trasmettere pace; una pace naturale, serena, cordiale; una pace che con la sua elezione al Pontificato si manifestò al mondo intero e ricevette il nome della bontà. E’ tanto bello trovare un sacerdote, un prete buono, con bontà.
E questo mi fa pensare ad una cosa che sant’Ignazio di Loyola – ma non faccio pubblicità! – diceva ai gesuiti, quando parlava delle qualità che deve avere un superiore. E diceva: deve avere questo, questo, questo, questo … un elenco lungo di qualità. Ma alla fine dice questo: « E se non ha queste virtù, almeno che abbia molta bontà ». E’ l’essenziale. E’ un padre. Un prete con bontà.
Fu questo indubbiamente un tratto distintivo della sua personalità, che gli permise di costruire ovunque solide amicizie e che risaltò in modo particolare nel suo ministero di Rappresentante del Papa, svolto per quasi tre decenni, spesso a contatto con ambienti e mondi assai lontani da quell’universo cattolico nel quale egli era nato e si era formato. Proprio in quegli ambienti egli si dimostrò un efficace tessitore di relazioni ed un valido promotore di unità, dentro e fuori la comunità ecclesiale, aperto al dialogo con i cristiani di altre Chiese, con esponenti del mondo ebraico e musulmano e con molti altri uomini di buona volontà.
In realtà, Papa Giovanni trasmetteva pace perché aveva un animo profondamente pacificato: lui si era lasciato pacificare dallo Spirito Santo. E questo animo pacificato era stato frutto di un lungo e impegnativo lavoro su se stesso, lavoro di cui ci è rimasta abbondante traccia nel Giornale dell’Anima. Lì possiamo vedere il seminarista, il sacerdote, il vescovo Roncalli alle prese con il cammino di progressiva purificazione del cuore. Lo vediamo, giorno per giorno, attento a riconoscere e mortificare i desideri che provengono dal proprio egoismo, a discernere le ispirazioni del Signore, lasciandosi guidare da saggi direttori spirituali e ispirare da maestri come san Francesco di Sales e san Carlo Borromeo. Leggendo quegli scritti assistiamo veramente al prendere forma di un’anima, sotto l’azione dello Spirito Santo che opera nella sua Chiesa, nelle anime: è stato Lui precisamente che, con queste buone predisposizioni, gli ha pacificato l’anima.
E qui veniamo alla seconda e decisiva parola: « obbedienza ». Se la pace è stata la caratteristica esteriore, l’obbedienza ha costituito per Roncalli la disposizione interiore: l’obbedienza, in realtà, è stata lo strumento per raggiungere la pace. Anzitutto essa ha avuto un senso molto semplice e concreto: svolgere nella Chiesa il servizio che i superiori gli chiedevano, senza cercare nulla per sé, senza sottrarsi a nulla di ciò che gli veniva richiesto, anche quando ciò significò lasciare la propria terra, confrontarsi con mondi a lui sconosciuti, rimanere per lunghi anni in luoghi dove la presenza di cattolici era scarsissima.
Questo lasciarsi condurre, come un bambino, ha costruito il suo percorso sacerdotale che voi conoscete bene, da segretario di Mons. Radini Tedeschi e insieme insegnante e padre spirituale nel Seminario diocesano, a Rappresentante pontificio in Bulgaria, Turchia e Grecia, Francia, a Pastore della Chiesa veneziana e infine a Vescovo di Roma. Attraverso questa obbedienza, il sacerdote e vescovo Roncalli ha però vissuto anche una fedeltà più profonda, che potremmo definire, come lui avrebbe detto, abbandono alla divina Provvidenza. Egli ha costantemente riconosciuto, nella fede, che attraverso quel percorso di vita apparentemente guidato da altri, non condotto dai propri gusti o sulla base di una propria sensibilità spirituale, Dio andava disegnando un suo progetto. Era un uomo di governo, era un conduttore. Ma un conduttore condotto, dallo Spirito Santo, per obbedienza.
Ancor più profondamente, mediante questo abbandono quotidiano alla volontà di Dio, il futuro Papa Giovanni ha vissuto una purificazione, che gli ha permesso di distaccarsi completamente da se stesso e di aderire a Cristo, lasciando così emergere quella santità che la Chiesa ha poi ufficialmente riconosciuto. «Chi perderà la propria vita per me, la salverà» ci dice Gesù (Lc 9,24). Qui sta la vera sorgente della bontà di Papa Giovanni, della pace che ha diffuso nel mondo, qui si trova la radice della sua santità: in questa sua obbedienza evangelica.
E questo è un insegnamento per ciascuno di noi, ma anche per la Chiesa del nostro tempo: se sapremo lasciarci condurre dallo Spirito Santo, se sapremo mortificare il nostro egoismo per fare spazio all’amore del Signore e alla sua volontà, allora troveremo la pace, allora sapremo essere costruttori di pace e diffonderemo pace attorno a noi. A cinquant’anni dalla sua morte, la guida sapiente e paterna di Papa Giovanni, il suo amore per la tradizione della Chiesa e la consapevolezza del suo costante bisogno di aggiornamento, l’intuizione profetica della convocazione del Concilio Vaticano II e l’offerta della propria vita per la sua buona riuscita, restano come pietre miliari nella storia della Chiesa del XX secolo e come un faro luminoso per il cammino che ci attende.
Cari bergamaschi, voi siete giustamente orgogliosi del « Papa buono », luminoso esempio della fede e delle virtù di intere generazioni di cristiani della vostra terra. Custodite il suo spirito, approfondite lo studio della sua vita e dei suoi scritti, ma, soprattutto, imitate la sua santità. Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo. Non abbiate paura dei rischi, come lui non ha avuto paura. Docilità allo Spirito, amore alla Chiesa e avanti … il Signore farà tutto. Dal Cielo Egli continui ad accompagnare con amore la vostra Chiesa, che ha tanto amato in vita, ed ottenga per lei dal Signore il dono di numerosi e santi sacerdoti, di vocazioni alla vita religiosa e missionaria, come anche alla vita familiare e all’impegno laicale nella Chiesa e nel mondo. Grazie della vostra visita a Papa Giovanni! Di cuore vi benedico tutti.

Grazie tante.

Giovanni XXIII – Discorso 11 ottobre 1962

http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/speeches/1962/documents/hf_j-xxiii_spe_19621011_luna_it.html  

SALUTO DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII
AI FEDELI PARTECIPANTI
ALLA FIACCOLATA
IN OCCASIONE DELL’APERTURA
DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II*

Giovedì. 11 ottobre 1962

Cari figliuoli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui di fatto tutto il mondo è rappresentato …
Noi chiudiamo una grande giornata di pace; sì, di pace: « Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà » [1].
… Figliuoli di Roma, voi sentite di rappresentare veramente la Roma caput mundi, così come per disegno di Provvidenza è stata chiamata ad essere: per la diffusione della verità e della pace cristiana.
In queste parole c’è la risposta al vostro omaggio …
Fratres sumus! La luce che splende sopra di noi, che è nei nostri cuori, e nelle nostre coscienze, è luce di Cristo, il quale veramente vuol dominare, con la Grazia sua, tutte le anime.
Questa mattina abbiamo goduto di una visione che neppure la Basilica di San Pietro, nei suoi quattro secoli di storia, ha mai contemplata.
Apparteniamo quindi ad un’epoca, nella quale siamo sensibili alle voci dall’alto: e perciò vogliamo essere fedeli e stare secondo l’indirizzo che il Cristo benedetto ci ha lasciato.
Ora vi do la benedizione. Accanto a me amo invitare la Madonna Santa, Immacolata, della quale oggi celebriamo eccelsa prerogativa.
Ho sentito qualcuno di voi che ha ricordato Efeso e le fiaccole accese intorno alla basilica di quella città, in occasione del III Concilio Ecumenico, nel 431. Io ho veduto, alcuni anni or sono, con i miei occhi, le memorie di quella città, che ricordano la proclamazione del Dogma della Divina Maternità di Maria.
Ebbene, invocando Lei, elevando tutti insieme lo sguardo verso Gesù, il Figlio suo, ripensando a quanto è con voi, e nelle vostre famiglie, di gioia, di pace e anche, un poco, di tribolazione, di tristezza, accogliete di buon animo questa benedizione del Padre. In questo momento lo spettacolo offertomi è tale da restare a lungo nel mio animo, come rimarrà nel vostro. Facciamo onore alla impressione di un’ora così preziosa. Siano sempre i nostri sentimenti quali adesso li esprimiamo dinanzi al Cielo e al cospetto della terra : fede, speranza, carità. Amore di Dio, amore dei fratelli; e poi, tutti insieme, sorretti dalla pace del Signore, avanti nelle opere del bene !
Tornando a casa, troverete i bambini; date loro una carezza e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specialmente nelle ore della mestizia e dell’amarezza. Infine ricordiamo tutti, specialmente, il vincolo della carità, e cantando, o sospirando, o piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, procediamo sereni e fiduciosi nel nostro cammino.

*A.A.S., vol. LIV (1962), n. 14, pp. 820-821.

[1] Cfr. Luc. 2, 14.

Publié dans:Papa Giovanni XXIII |on 12 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

Papa Giovanni XXIII (1962) Solennità di Pentecoste (oggi compio 70 anni, qualcosa da leggere con voi)

http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/homilies/1962/documents/hf_j-xxiii_hom_19620610_pentecoste_it.html

OGGI COMPIO 70 ANNI, HO CERCATO QUALCOSA DI SPECIALE, DI BELLO E COMMOVENTE INSIEME DA LEGGERE CON VOI, DA PAPA GIOVANNI XXIII
——————————————  

SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII*

Basilica Vaticana

Domenica, 10 giugno 1962

Accipietis virtutem Spiritus Sancti in vos:
et eritis mihi testes in Ierusalem
et in omni Iudea et Samaria et usque ad ultimum terrae [1].

Venerabili Fratelli e diletti figli.

L’ultimo incontro di Gesù Risorto coi suoi Apostoli e discepoli fu veramente un convito di grazie e di letizia. Le espressioni di San Luca: « convescens » « loquens de regno Dei », ne riassumono tutta la bellezza e l’incanto.
Ordine dato agli intimi suoi di non lasciare la città, ma di restare sul Sion, ad attendervi lo Spirito Santo che il Padre avrebbe inviato: quem mittet Pater in nomine meo [2]; assicurazione della testimonianza che essi avrebbero poi resa al Rabbi divino, vincitore della morte e dominatore dell’avvenire. Eritis mihi testes in Ierusalem, et in omni Iudea et Samaria et usque ad ultimum terrae [3].
Oh! che parole, che parole furono queste, dirette da Gesù ai primi confidenti dei suoi pensieri e del suo cuore. E che squarcio luminoso e pieno di colore su l’avvenire della sua Chiesa: eritis mihi testes: in tono di profezia, in tono di solennità, come di una investitura per la continuazione dell’apostolato affidato ai suoi, per l’avvento del suo regno di redenzione e di salute presso tutti i popoli, e nel corso di tutti i secoli!

Il Regno di Cristo e la storia della Chiesa
Di fatto il regno di Cristo Gesù, figlio di Dio, Verbo incarnato, signore dell’universo, è cominciato di là: di là la storia della Chiesa Cattolica ed Apostolica, una e santa, ha preso le sue mosse per quella testimonianza. Venti secoli sono trascorsi. Vicissitudini gravi e pericolose da parte della umana debolezza poterono sovente minacciare, qua e là, la consistenza di questa mirabile istituzione: difficoltà del suo incedere, prove ed incertezze per lo sbandamento di alcuni, sembrarono porre talora a grave rischio il suggello della sua unità. Ma la successione apostolica non fu spezzata mai : la tunica di Cristo rimane inconsutile, anche se non mancarono, in tempi difficili, ansietà di qualche lacerazione pericolosa.
Gli è che la parola di Gesù permane vivificatrice nella sua Chiesa. Il prodigio si rinnova in sempre benefica diffusione di grazia su ciascun fedele: talora in forma misteriosa e grandiosa sopra tutto il corpo sociale.
Diletti figliuoli, è ancora la parola assicurante di questo « eritis mihi testes » che congiunge con nota divina gli accordi con tutta la sostanza viva dei due Testamenti: la misteriosa successione del passato, del presente, dell’avvenire. Gesù, il Rabbi divino, sta nel mezzo e compone nella sua persona, nel suo insegnamento, nel suo sangue, la gloria della sua regalità.
Eritis mihi testes. Testimonianza duplice. Quella di Gesù in faccia ai suoi più intimi; sempre Dominus et Magister, nella evidenza del sublime insegnamento, nella successione dei miracoli compiuti, nel Sacrificio cruento, nella Risurrezione vittoriosa, nella profusione incessante di grazia e di amore, per l’uomo perdonato, per tutta la umanità redenta e risollevata all’altezza di una parentela divina: de Virgine natus: nobis id est mundo largitus suam Deitatem.

Duplice testimonianza di elevazione e salvezza
L’altra testimonianza è quella dei discepoli di Gesù e dei loro successori, resa allo stesso Divino Maestro lungo i secoli, alla continuazione della sua opera redentrice, da Gerusalemme sino ai confini più lontani del mondo.
Sì: eritis mihi testes, è sempre la parola, la nota sublime, che ricompone gli accordi dell’Antico con tutto il Nuovo Testamento. È ad essa che rispondono in eco, come da un poema divino ed umano, apostoli ed evangelisti, pontefici e martiri, padri e dottori della Chiesa, eroi e vergini sacre, giovinezze ed esperienze antiche e recenti, figli di ogni stirpe e di ogni colore, di ogni provenienza etnica e sociale, tutti osannanti al Cristo che aveva annunziato per os suum promissionem Patris, fecondatrice per lo Spirito Santo di ogni grazia di apostolato alla sua Chiesa usque ad consummationem saeculi.
Questa prima Pentecoste, di cui celebriamo oggi il ricordo, eccola diffondere ancora dopo venti secoli la sua luce sopra le nostre teste: accendere nei nostri cuori la stessa fiamma di cui esultarono i primi discepoli del Signore al solo annunzio dello Spirito Santo, che il Padre avrebbe mandato, rispondendo alle invocazioni salienti dal Cenacolo, unitamente a quelle di Maria, la madre di Gesù.
Sì, venerabili Fratelli e diletti figli. L’eritis mihi testes sta per trovare una novella e più solenne applicazione della promessa di Gesù ai discepoli suoi; dopo duemila anni ancora vivi, più numerosi che mai, ancora palpitanti di tenerezza e di entusiasmo apostolico intorno a Lui.
L’odierna liturgica adunanza — guardandola l’occhio si ricrea, e il cuore esulta — nella sua composizione di seniori venerabili e di giovani, avviati all’esercizio e ai compiti del ministero sacerdotale, è rappresentativa di tutto il mondo. Essa è appena immagine, il primo tocco, dello spettacolo che la grazia del Signore vuol adunare su questo colle Vaticano per 1’11 ottobre, a suscitare di qua nuovo slancio per la santificazione della Gerarchia, del clero e del popolo, per la illuminazione delle genti, a soffio vivificatore di tutte le attività umane.

Il Redentore luce di tutte le genti
Il mondo potrà dunque vedere presto coi suoi occhi cos’è il Concilio; quali meraviglie sa offrire la Santa Chiesa cattolica nella luce del suo Divino Fondatore Gesù, come Egli la volle, come la fece, e lungo i secoli continua a vivificarla, intesa alla salute di tutte le anime e di tutte le genti; irradiante splendore di celeste dottrina e tesori di grazia; e, attraverso il sacrificio, avviamento di pace quaggiù e di gloria imperitura per i secoli eterni.
Lasciate, diletti figli, che su questi rapporti della Santa Chiesa col Cristo che la sorregge, così come l’ha fondata, la Nostra parola prosegua verso qualche accenno che riesca di comune edificazione, e insieme di preparazione individuale e collettiva al grande avvenimento, la cui aspettazione è così lieta e così ansiosa.
Il Concilio Vaticano Secondo vuol riuscire, in forma spontanea e di amplissima applicazione, ad esprimere ciò che il Cristo rappresenta ancora, ed oggi rappresenta più che mai, a luce ed a saggezza; a direzione ed a incitamento; a conforto ed a merito di umana sofferenza, nella vita presente, e ad assicurazione della futura.
La testimonianza della Chiesa universale ama volgersi a Gesù, come al Dominus et Magister di tutti e di ciascuno: al Pastor bonus sempre in atto di apprestare al suo gregge nutrimento di grazia, pane spirituale, e preservazione dai pericoli: ed in fine al Sacerdos et Hostia, a richiamo ed a continuazione del suo sacrificio, per l’umanità, e per le sofferenze della vita, gravi in ogni tempo, più gravi se si debbono riconoscere causa o conseguenza di oppressione della persona umana e delle sue fondamentali e inalienabili libertà.
É in questa luce di dottrina, di sicurezza e di merito che la perfetta fedeltà del cristiano viene incoraggiata alla professione di fede sincera e di coerenza assoluta tra pensiero e azione; e viene toccato il cuore di chi anela a dignitosa condotta di vita, a difesa di comune ideali, a raggiungimento di legittime aspirazioni.
Questo triplice raggio di celeste luce, che Gesù Cristo — maestro, pastore, sacerdote — riverbera sul volto della sua Chiesa, ha una significazione che non sfugge ad alcuno; e può anzi invitare tutti a collocarsi nella giusta prospettiva per comprendere, secondo la più accreditata gerarchia dei valori, ciò che vale la vita per l’uomo, anche semplicemente uomo; ciò che vale, più che per l’uomo, per il cristiano perfetto.

Fiduciosa attesa della umanità
Con senso di fiduciosa attesa noi assistiamo oggi a nuovi fenomeni. Gli è certo che, pressoché annullate le distanze; aperte le vie alla conquista degli spazi; approfondita la ricerca scientifica ed esaltata la produzione tecnica, noi cogliamo ora nell’uomo uno stato d’animo inatteso, davvero sorprendente.
Ci pare di poter dire che l’uomo di studio e di azione di questo secolo tormentato — tormentato da due guerre mondiali e da innumerevoli altri conflitti di varia natura — non è più così baldanzoso di sé e delle sue conquiste; non si tiene così sicuro, come nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, di poter raggiungere la felicità sulla terra, e tanto meno di riuscire da solo, con il suo genio e con le sue energie, a placare le ansietà, a fugare le paure, a vincere le debolezze, che sempre minacciano di sopraffarlo.
Diciamo più compiutamente. Pressoché da tutte le manifestazioni della letteratura contemporanea, si leva come un gemito, e i potenti della terra riconoscono di non saper sollevare l’uomo; di non poterlo trasferire in quel regno di beatitudine e di prosperità, che resta sempre la sua affannosa ricerca.
La Chiesa Cattolica non ha mai detto all’umanità di volerla sottrarre alla dura legge del dolore e della morte. E non ha tentato di ingannarla, né ha prestato ad essa il pietoso farmaco dell’illusione. Ha invece continuato a dire che la vita è pellegrinaggio, ed ha insegnato ai suoi figli ad unirsi al canto di speranza, che pur echeggia nel mondo.
Ora che l’uomo, quasi sbigottito per i progressi scientifici raggiunti, finalmente consapevole che nessuna conquista gli potrà dare la felicità ; ora che si susseguono, alternandosi ed eliminandosi, quanti invano promettevano eterna giovinezza e facile prosperità, è provvidenziale e ben naturale che la Chiesa levi la sua voce solenne e suadente, ed offra a tutti gli uomini il conforto della dottrina e di quella cristiana convivenza che prepara gli splendori dell’eterna esultanza, per cui l’uomo è fatto.
Per nulla intimorita dalle difficoltà che incontrano i suoi figli e che si frappongono al servizio che essa vuol rendere alla verità, alla giustizia all’amore: sempre fedele alle consegne del suo Divin Fondatore, di Lui, dunque, ancora la Chiesa Santa vuol parlare alla umanità: di Cristo Gesù Maestro, di Lui Pastore, di Lui Vittima e sacrificio di espiazione e di redenzione.

« Dominus et magister »
Non tutti numericamente i punti del dottrinale cattolico verranno nuovamente illustrati nel prossimo Concilio: ma con particolare attenzione quelli che si riferiscono alle verità fondamentali, poste in discussione o in contrasto colle contraddizioni del pensiero moderno in derivazione degli errori di sempre, ma variamente fatti penetrare. L’uomo che scruta i penetrali della scienza e cerca il punto di contatto tra cielo e terra, sa che nessun quesito rimane insoluto dalla apostolica dottrina: che nessuna soluzione viene offerta con intendimento polemico o con presuntuosa facilità. Dall’alto la verità splende: ma attingere alla sua vetta, non importa gran fatica per alcuno, quando sia animato da volontà decisa e libero da opprimenti legami.
La Chiesa, continuando a rendere testimonianza a Gesù Cristo, non vuol togliere nulla all’uomo; non gli nega il possesso delle sue conquiste e il merito degli sforzi compiuti. Ma vuol aiutarlo a ritrovarsi, a riconoscersi; a raggiungere quella pienezza di conoscenze e di convinzioni, che è stata in ogni tempo anelito degli uomini saggi, anche al di fuori della divina rivelazione.
In questo immenso spazio di attività che le si apre dinanzi, la Chiesa abbraccia con materna sollecitudine ogni uomo, e lo vuol persuadere ad accogliere il divino messaggio cristiano, che dà sicuro orientamento alla vita individuale e sociale.
Venti Concili Ecumenici, innumerevoli concili nazionali e provinciali, e sinodi diocesani hanno recato prezioso contributo alla conoscenza di una o più verità di natura teologica o morale.
Il Concilio Vaticano Secondo si presenta alla cattolicità, all’umanità, nella fermezza del Credo apostolico conclamato da immensa assemblea, e con l’esperienza di una illustrazione dottrinale pressoché universale, in una visione d’assieme che meglio risponde all’anima del tempo moderno. E sarà una felice testimonianza questa all’insegnamento di Cristo richiamato dalla Chiesa alla singolare tradizione particolarmente del Vaticano Primo, del Tridentino, del Lateranense Quarto, gloria preclara di Papa Innocenzo III (1215): alla tradizione di tutti i Concili, che segnarono trionfo di verità penetrata e fatta penetrare con ardore nel corpo sociale.

« Christus Pastor »
Vi possiamo assicurare, diletti figli, che questo Nostro Concilio Vaticano Secondo intende e vuol essere soprattutto grande testimonianza e ricerca dei tratti caratteristici del Buon Pastore.
All’immenso gregge cristiano e cattolico mai è mancato il sostentamento che già il Divin Redentore apprestava alle folle: preghiera e liturgia, dottrina evangelica, Sacramenti e manifestazioni molteplici di pastorale attività.
La chiamata alla vita cristiana, e per essa alla vita divina, che è penetrazione di grazia, è rivolta a tutti.
Il Cristo, per il servizio dell’Apostolo Pietro e dei suoi successori e collaboratori, Vescovi e clero, è sempre in atto di sollevare gli uomini alla dignità di figli adottivi di Dio. Le sorgenti da lui aperte sono inesauribili; i modi di comunicazione con le singole anime talvolta inscrutabili.
Chi vuol orientare le brame del suo intelletto, sa di potersi riposare nella contemplazione delle verità eterne : chi ha bisogno di esprimere i sentimenti dell’animo, si effonde nella preghiera e nel canto ; chi ha veramente fame e sete di giustizia, si volge con serena fiducia ai Sacramenti, che sono segni sensibili, produttivi della grazia. Per essi tutto viene santificato: l’uomo dall’inizio al termine del terreno pellegrinaggio, ed in tutte le sue manifestazioni individuali e collettive.
La Chiesa segue i passi del Buon Pastore nel suo mistico pellegrinare di villaggio in villaggio, di casa in casa.
Essa esce dal recinto chiuso dei suoi cenacoli e, ad imitazione e testimonianza del suo divin Fondatore, percorre tutte le strade del mondo : né sa contenere il fervore della continuata Pentecoste, che la pervade e la porta a trarre il gregge ai pascoli ubertosi di vita eterna.
Questo è il compito della Chiesa, cattolica ed apostolica: radunare gli uomini che gli egoismi e la stanchezza potrebbero tenere dispersi: insegnare loro a pregare; portarli alla contrizione dei peccati e al perdono; nutrirli col Pane Eucaristico; rafforzare la unione reciproca col vincolo della carità.
La Chiesa non pretende di assistere ogni giorno alla miracolosa trasformazione operata negli apostoli e discepoli della prima Pentecoste. Ma lavora per questo e chiede incessantemente a Dio la rinnovazione del prodigio.
Essa non si meraviglia che gli uomini non comprendano subito il suo linguaggio; che siano tentati di ridurre nel piccolo schema della loro vita e dei loro interessi personali il codice perfetto della individuale salvezza e del sociale progresso; e che talora rallentino il passo. Continua ad esortare, a supplicare, a incoraggiare.
La Chiesa insegna che non vi può essere discontinuità, né frattura, tra la pratica religiosa individuale e le manifestazioni del vivere sociale.
Depositaria come è della verità, tutto vuol penetrare; e ottenere la grazia di tutto santificare nell’ambito domestico, civico, internazionale.
Uno dei motivi di grande consolazione dell’umile successore di San Pietro in questi mesi di preparazione al Concilio è la constatazione del festosissimo accoglimento che dappertutto nel mondo continua a rendere omaggio alla Enciclica « Mater et Magistra ».
Essa può ben essere considerata come un saggio ricco e prezioso di dottrina morale-pastorale: ed una eccellente introduzione a quegli ordinamenti, che sono diretti alle coscienze cristiane in materia dì economia informata ai principii di giustizia e di carità, umana ed evangelica.
La Santa Chiesa giustamente chiede ai suoi figli di non sottrarsi al grave impegno di cooperare alla instaurazione di tale convivenza di fraternità, di cui il Salvatore Divino, il Bonus Pastor animarum ha fornito insegnamenti ed esempi di incomparabile significazione.

« Christus Sacerdos et Hostia »
Diletti figli, la nostra religiosa conversazione ci ha permesso di guardare innanzi, dai fulgori di Pentecoste, verso le soglie del Convegno Conciliare del prossimo ottobre.
Lo spirito allietato dal sentirci uniti al Cristo in richiami di buono e fecondo apostolato, a cui risponde, come al passaggio di Gesù per le vie di Gerusalemme, la folla plaudente per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli, purtroppo deve volgersi ad impressioni di mestizia per altri spettacoli, da cui l’occhio non riesce a distogliere lo sguardo e il cuore si intenerisce.
Pensiamo ai nomi topografici delle parole di Gesù, in riferimento alle condizioni attuali: Gerusalemme, Giudea, Samaria, ed usque ad ultimum terrae.
La Palestina, ove risuonò la sua voce, conserva appena le tracce del suo terreno passaggio. Il suo insegnamento di là s’è sollevato; e tuttora il Libro dei due Testamenti fa risonare nel mondo il nome di paesi che a Cristo non appartennero mai o non appartengono più. Gerusalemme, la città santa delle divine promesse, e le regioni che la circondano e i territori che le sono confinanti, restano in gran parte come estranei ad un compito sacro, che ad essi era stato primieramente annunciato.

Il grande mistero, che ci strugge l’anima, è racchiuso dunque nella storia dei popoli, che accolsero e poi ripudiarono il Cristo; e di altri che gli si negarono ostinatamente; e di alcuni nei quali per legge dello Stato, mai abrogata nemmeno ora che nei consessi internazionali si proclama il rispetto di tutte le libertà, si rifiuta a Cristo ed alla sua dottrina il diritto di cittadinanza.

E che dire di quelle nazioni, ove l’apostolato s’è ridotto o si sta riducendo a lamentevole ricordo, e gli spiriti abbattuti non osano prevedere, a breve scadenza, la riuscita di un rinnovato movimento di azione pastorale, a luce delle singole anime e a direzione delle famiglie e dei popoli?
Ciò mette in chiaro il significato di un’altra verità che i discepoli di Cristo non vogliono dimenticare: che per il cristiano la vera gioia, anche quando è accompagnata da saggi propositi, trova facilmente il suo riscontro in tristezze e contraddizioni.
Sta scritto nel Libro Sacro che Gesù, al contemplare Gerusalemme dall’alto, sentì sciogliersi il cuore e gli occhi in pianto.
Quante città e nazioni, a riguardarle nelle pagine della loro storia e alla luce delle meraviglie del loro passato, meraviglie di santità ed eroismo, di pietà religiosa e di trionfo di carità, che le resero celebrate, richiamano in eco di mestizia: il Tenebrae factae sunt … Velum templi scissum est! [4] della morte di Cristo.
Voi comprendete, venerabili Fratelli e diletti figli, la significazione di dolorosa attualità che queste gravi parole conservano. E su tutto ciò, a testimonianza perfetta degli esempi di Cristo, la Chiesa cattolica estende la legge del perdono, applicata in espressione di espiazione, di misericordia, e di speranza.

La visione del Cenacolo con Maria e gli Apostoli
Si rinnova oggi la visione del Cenacolo, dove Maria pregava e attendeva lo Spirito Santo insieme con gli Apostoli e i Discepoli. È questo toccante richiamo del Libro Santo che ci porta a ricercare in tutto il mondo, e particolarmente nell’Oriente cristiano, i templi innalzati al nome ed all’onore della Madre di Dio. Siano essi aperti o chiusi al culto, quei templi racchiudono nelle pietre la supplicazione dei secoli, l’accorata preghiera dei giorni nostri, per ottenere da Dio che gli uomini continuino o riprendano a levare gli occhi al cielo; e ad attendere di là la benedizione e la consacrazione per il lavoro ed il progresso di quaggiù, nel solco, che resta aperto nei cuori, della grande tradizione antica.
Pensate, diletti figli. Il Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, parole di verità e di amore ha annunciato al mondo. E questo Cristo benedetto, che ha effuso la sua carità e dispensato i doni della grazia celeste, questo Cristo vien ridotto al silenzio dal rifiuto e dai peccati degli uomini e delle nazioni.
Questo silenzio che richiama il momento più alto del rito liturgico Eucaristico, talvolta è preghiera straziante, tal’altra è disciplina di prudenza.
La terza testimonianza del Cristo, da recare usque ad ultimum terrae, si accompagna a questo dolore che un intrecciarsi di cause molteplici, spesso estranee e avverse tra loro, rende acuto ed ineffabile.
Non occorre altra spiegazione. Siamo dunque chiamati a rendere testimonianza a Cristo, che nel sacrificio Eucaristico rinnova l’immolazione del Calvario.
Dalla celebrazione e dal successo del Concilio vuol affermarsi la devozione anche verso la Croce, verso il sacrificio cruento e mistico. Così si colloca al suo posto giusto la nostra testimonianza al Divino Maestro.
Arrivati a questo punto non Ci resta, venerabili Fratelli, che cogliere con voi la santa poesia di Pentecoste, le vibrazioni dei cuori per il prossimo Concilio e la evocazione della triplice testimonianza da rendere a Gesù Cristo.
Questi stessi sentimenti Ci piace comunicare particolarmente a voi, giovani candidati al sacerdozio e neo-ordinati, il cui cuore rispose esultante alla voce di Lui, che vi chiamava alla partecipazione del suo apostolato e del suo sacrificio.
Rappresentanti quali siete di tutte le genti, oh ! che splendore la vostra bella giovinezza offerta in olocausto a Lui, Verbo di Dio, re glorioso ed immortale dei secoli e dei popoli. Anche a voi dunque, anche a voi è rivolta la parola del Signore: eritis mihi testes.
Siate benedetti, siate ben accolti dai vostri fratelli e possiate mostrare al mondo, con la vostra stola immacolata, il titolo più alto ed espressivo della vostra consacrazione in vita ed oltre, a salvezza di tutti.
La nostra preghiera allo Spirito Santo vuol unirsi ora alla preghiera della nostra celeste Madre Maria, che ha assistito alle gioie della infanzia di Gesù e ai dolori del suo sacrificio. Di qua la supplicazione acquista valore e prende tono di entusiasmo.

Preghiera
O Santo Spirito Paraclito, perfeziona in noi l’opera iniziata da Gesù: rendi forte e continua la preghiera che facciamo in nome del mondo intero: accelera per ciascuno di noi i tempi di una profonda vita interiore: dà slancio al nostro apostolato, che vuol raggiungere tutti gli uomini e tutti i popoli, tutti redenti dal Sangue di Cristo e tutti sua eredità. Mortifica in noi la naturale presunzione, e sollevaci nelle regioni della santa umiltà, del vero timor di Dio, del generoso coraggio. Che nessun legame terreno ci impedisca di far onore alla nostra vocazione: nessun interesse, per ignavia nostra, mortifichi le esigenze della giustizia: nessun calcolo riduca gli spazi immensi della carità dentro le angustie dei piccoli egoismi. Tutto sia grande in noi: la ricerca e il culto della verità, la prontezza al sacrificio sino alla croce e alla morte; e tutto, infine, corrisponda alla estrema preghiera del Figlio al Padre celeste; e a quella effusione che di Te, o Santo Spirito di amore, il Padre e il Figlio vollero sulla Chiesa e sulle sue istituzioni, sulle singole anime e sui popoli.

Amen, amen: alleluia, alleluia.
———————–
*A.A.S., vol. LIV (1962), n. 8, pp. 437-447.
[1] Act. 1, 8.
[2] Io. 14, 26.
[3] Act. 1, 8.
[4] Luc. 23, 44, 45.

Publié dans:Papa Giovanni XXIII |on 5 mai, 2012 |Pas de commentaires »

La donna che fece incontrare il Papa e l’ebreo (Papa Giovanni XXIII)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/135q04a1.html

(L’Osservatore Romano 14-15 giugno 2010)

La donna che fece incontrare il Papa e l’ebreo

(Papa Giovanni XXIII)

Maria Vingiani e le origini della dichiarazione conciliare « Nostra aetate »

di Marco Roncalli

« Cara signorina, non vi dimentico, e il progetto di cui abbiamo parlato è sempre bene in mente. La mia intenzione è di realizzarlo all’inizio dell’anno prossimo, se siete d’accordo. Per il momento preparo una conferenza che devo tenere a Parigi, alla Sorbona, il prossimo 15 dicembre ».
Chi scrive queste righe, il 28 novembre 1959, è Jules Isaac, storico francese, ebreo la cui famiglia era stata deportata ad Auschwitz nel 1943 – sarebbe ritornato solo il figlio minore Jean-Claude – secondo il teologo Clemens Thoma « uno dei grandi visionari dell’intesa cristiano-ebraica dopo la seconda guerra mondiale », già allievo di Henri Bergson e amico di Charles Péguy, nonché autore di manuali scolastici, ma anche di libri-choc come Jésus et Israel, nel 1948, anno in cui era stato tra i fondatori della prima Amicizia ebraico-cristiana.
La destinataria, invece, è la veneziana Maria Vingiani, instancabile promotrice dell’esperienza del dialogo in Italia, pioniera sin dal 1947 del movimento ecumenico in Italia e fondatrice negli anni del concilio Vaticano II del Segretariato per le attività ecumeniche. È a lei che Jules Isaac ricorda il « progetto », insieme all’annunciata « conferenza » che doveva in qualche modo favorirlo.
Alla Sorbona il professore avrebbe rilanciato il suo appello alla coscienza cristiana e a Roma affinché il Papa prendesse atto della « necessità di raddrizzare l’insegnamento concernente Israele » e – questo il « progetto » – gli concedesse quell’incontro da lui prefigurato già all’indomani dell’elezione di Giovanni XXIII.
Jules Isaac e Maria Vingiani si erano conosciuti a Venezia il 16 settembre 1957. Lui nella laguna per motivi culturali insieme al figlio sopravvissuto alla Shoah, lei giovane assessore alle Belle Arti della « Serenissima ». Lui le aveva donato il suo Jésus et Israel – definito « il grido di una coscienza indignata » – l’aveva messa al corrente dei suoi studi sull’antisemitismo, della sua passione per la verità, e della missione che si era dato:  far conoscere Gesù agli ebrei, Israele ai cristiani. Lei gli aveva parlato dei suoi impegni culturali e religiosi, e del patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che proprio l’anno prima aveva dedicato la sua lettera pastorale per il quinto centenario della morte di san Lorenzo Giustiniani a un rilancio della conoscenza della Bibbia:  « tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento », da rendere « d’uso comune e familiare ». Sarà la stessa Vingiani, parecchi anni dopo a dire che, quando Roncalli fu eletto Papa, Jules Isaac avvertì subito che poteva riporre speranza in colui che pochi anni prima, inaugurandosi una linea diretta di navigazione Venezia-Haifa (il patriarca Roncalli lì per una benedizione, la Vingiani al varo come madrina), aveva confidato che si trattava già di una buona cosa, ma che sarebbe stata ancor meglio un’alleanza fra Roma e Gerusalemme.
Ecco allora la richiesta di un’udienza, carica di attese. Chiedendola, Jules Isaac aveva allegato anche un dossier dal titolo eloquente « Della necessità di una riforma dell’insegnamento cristiano nei confronti di Israele », che tuttavia non arrivò sulla scrivania del Papa. In ogni caso l’udienza speciale venne assicurata attraverso l’ambasciata francese e l’anziano storico preparò con cura il suo viaggio, chiedendo ragguagli a tante persone (da François Mauriac ad André Chouraqui, da padre Paul Démann a monsignor Charles-Marie de Provenchères arcivescovo di Aix en Provence, dall’ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, Guy Le Roy de la Tournelle, ad alcuni cardinali).
Se il 15 gennaio 1960 non aveva nascosto alla Vingiani « tutte le difficoltà per portare a termine l’azione » augurandosi « Spero mi sarà possibile venire a Roma (…) Sono persuaso che i nostri scambi di pensieri a Venezia non sono stati inutili e che Lei sta lavorando per abbattere le alte barriere dei pregiudizi », se il 21 maggio seguente poteva informarla con le parole « La questione è a una svolta (…) Ho comunicato all’ambasciatore de la Tournelle che sarò a Roma dall’8 giugno – all’indomani di Pentecoste – e mi dicono che l’udienza potrà essere richiesta a partire dal 10″, quando Jules Isaac fu a Roma, l’udienza parve cancellata con il pretesto dei numerosi impegni del Papa (e a sua insaputa).
E così, dopo una telefonata urgente, la Vingiani si precipitò all’hotel Commodore. Lì, trovato nella hall Jules Isaac, che, lacrime sul viso, si lamentava, prontamente lo rassicurò. Consapevole dell’importanza di questo incontro non solo per l’amico, ma anche per il Pontefice, convinta che i due dovessero parlarsi e confrontarsi, riuscì subito « per vie legittime, pur se improprie » – parole poi usate dal segretario del cardinale Bea, padre Schmidt – a rendere possibile l’udienza.
Non era il suo primo incontro con un Papa:  nel 1949, a Castel Gandolfo, ne aveva avuto uno brevissimo con Pio xii al quale aveva lasciato i dieci punti fissati dalla Conferenza di cristiani ed ebrei di Seelisberg – una base di partenza per il dialogo fra cristiani ed ebrei – che il Papa non conosceva e che promise di leggere. Era il 16 ottobre, sei anni prima era avvenuta la deportazione degli ebrei dal Ghetto nella capitale. Pio xii – raccontò Isaac – gli era parso « assai emozionato »:  nulla poi aveva più saputo.
Questa volta però l’udienza avrebbe potuto essere assai più decisiva:  Giovanni XXIII aveva già annunciato il concilio. Alle 11 un segretario d’ambasciata si recò a prendere Isaac all’hotel e ad accompagnarlo in Vaticano. Il resto è stato più volte raccontato dallo stesso Isaac. Le guardie svizzere gli resero omaggio. Gli fu comunicato che il Papa era stanco perché al solito, si era alzato presto, perché vi erano numerose udienze, e così via.
Arrivò il momento atteso. Papa Roncalli lo ricevette in piedi, Isaac si inchinò e Giovanni XXIII gli porse la mano invitandolo a sedere accanto a lui – « incarnava la semplicità », « non sembrava affaticato », « una bontà che ispirava confidenza ».
Come previsto, il Papa iniziò la conversazione, parlando del suo culto per l’Antico Testamento, i Salmi, i Profeti. Parlò del suo nome scelto pensando anche alla Francia, chiese dove fosse nato e lui lo portò sul suo terreno. Probabilmente il Papa leggeva nel suo interlocutore i versetti 1-3 del Salmo 128 – « Dalla giovinezza, molto mi hanno perseguitato – lo dica Israele – dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato, ma non hanno prevalso ». Jules Isaac ebbe tempo per esporgli i punti essenziali della sua conferenza alla Sorbona, sottolineò la necessità che il capo della Chiesa cattolica condannasse in modo solenne l’insegnamento del disprezzo e la sua essenza anticristiana, e che del tema si occupasse il concilio.
Alla fine, dopo circa mezz’ora, prima del congedo, chiese:  « Posso avere almeno un briciolo di speranza? ». E Giovanni XXIII:  « Molto più che una speranza, lei ha diritto di avere », aggiungendo:  « Sono il Capo, ma devo anche consultarmi, far studiare dagli uffici le questioni sollevate, qui non c’è una monarchia assoluta ». La consegna però era avvenuta. Il Papa l’aveva fatta sua.
Anche se i due anziani protagonisti di quell’incontro di cinquant’anni fa, morirono di lì a poco, l’udienza segnò una svolta. Sul diario papale solo un cenno all’incontro di quel 13 giugno 1960 con « il prof. Jules Isaac » definito « interessante », aggettivo che copre tante cose:  probabilmente pure il pensiero immediato di una messa a tema del dialogo ebraico-cristiano fra i lavori conciliari.
Fu lo stesso Papa Giovanni a darne incarico al cardinale Agostino Bea, biblista, conoscitore dell’ebraismo. Vi si sarebbe impegnato obbedendo anche a una vocazione personale. Da qui le origini del percorso che, fra molte difficoltà, specie da parte di cristiani-arabi e tradizionalisti, porterà alla dichiarazione conciliare Nostra aetate. Promulgata nel 1965, all’inizio del testo – com’è noto – sottolinea il valore spirituale del vincolo che unisce il popolo del Nuovo Testamento con la stirpe di Abramo. Forse non proprio il testo immaginato da Isaac per le attese particolari in realtà diluite in un documento sulle religioni, e tuttavia un documento importante. Alla base di futuri incontri inimmaginabili:  in chiesa e in sinagoga. Alla base di quel rapporto nuovo fra cristiani ed ebrei purificato da pregiudizi e stereotipi che ogni giorno dobbiamo tenere aperto.

Publié dans:Papa Giovanni XXIII |on 14 février, 2012 |Pas de commentaires »

PREGHIAMO CON PAPA GIOVANNI XXIII: IN TE LA VIA, LA VERITÀ, LA VITA

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/preghiamo_con_giovanni_xxiii_1.htm

PREGHIAMO CON PAPA GIOVANNI XXIII

IN TE LA VIA, LA VERITÀ, LA VITA

O Principe della pace,
Gesù Risorto,
guarda benigno all’umanità intera.
Essa da te solo
aspetta l’aiuto e il conforto
alle sue ferite.
Come nei giorni
del tuo passaggio terreno,
tu sempre prediligi i piccoli,
gli umili, i doloranti;
sempre vai a cercare i peccatori.
Fa’ che tutti ti invochino e ti trovino,
per avere in te
la via, la verità, la vita.

Conservaci la tua pace,
o Agnello immolato per la nostra salvezza:
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,
dona nobis pacem!
Allontana dal cuore degli uomini
ciò che può mettere in pericolo la pace,
e confermali nella verità,
nella giustizia, nell’ amore dei fratelli.

Illumina i reggitori dei popoli,
affinché, accanto alle giuste sollecitudini
per il benessere dei loro fratelli,
garantiscano e difendano
il grande tesoro della pace;
accendi le volontà di tutti
a superare le barriere che dividono,
a rinsaldare i vincoli della mutua carità,
a essere pronti a comprendere,
a compatire, a perdonare,
affinché nel tuo nome le genti si uniscano,
e trionfi nei cuori,
nelle famiglie, nel mondo
la pace, la tua pace.

Publié dans:Papa Giovanni XXIII, preghiere |on 18 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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