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GIOVANNI PAOLO II (catechesi sugli angeli)

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GIOVANNI PAOLO II (catechesi sugli angeli)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 23 luglio 1986

1. Proseguiamo oggi la nostra catechesi sugli angeli la cui esistenza, voluta da un atto dell’amore eterno di Dio, professiamo con le parole del simbolo niceno-costantinopolitano: “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”. Nella perfezione della loro natura spirituale gli angeli sono chiamati fin dall’inizio, in virtù della loro intelligenza, a conoscere la verità e ad amare il bene che conoscono nella verità in modo molto più pieno e perfetto di quanto non sia possibile all’uomo. Questo amore è l’atto di una volontà libera, per cui anche per gli angeli la libertà significa possibilità di operare una scelta a favore o contro il Bene che essi conoscono, cioè Dio stesso. Bisogna qui ripetere ciò che già abbiamo ricordato a suo tempo a proposito dell’uomo: creando gli esseri liberi, Dio volle che nel mondo si realizzasse quell’amore vero che è possibile solamente sulla base della libertà. Egli volle dunque che la creatura, costituita a immagine e somiglianza del suo Creatore, potesse nel modo più pieno possibile rendersi simile a lui, Dio, che “è amore” (1 Gv 4, 16). Creando gli spiriti puri come esseri liberi, Dio nella sua Provvidenza non poteva non prevedere anche la possibilità del peccato degli angeli. Ma proprio perché la Provvidenza è eterna sapienza che ama, Dio avrebbe saputo trarre dalla storia di questo peccato, incomparabilmente più radicale in quanto peccato di uno spirito puro, il definitivo bene di tutto il cosmo creato. 2. Di fatto, come dice chiaramente la rivelazione, il mondo degli spiriti puri appare diviso in buoni e cattivi. Ebbene, questa divisione non si è operata per creazione di Dio, ma in base alla libertà propria della natura spirituale di ciascuno di essi. Si è operata mediante la scelta che per gli esseri puramente spirituali possiede un carattere incomparabilmente più radicale di quella dell’uomo ed è irreversibile dato il grado di intuitività e di penetrazione del bene di cui è dotata la loro intelligenza. A questo riguardo si deve dire anche che gli spiriti puri sono stati sottoposti a una prova di carattere morale. Fu una scelta decisiva riguardante prima di tutto Dio stesso, un Dio conosciuto in modo più essenziale e diretto di quanto è possibile all’uomo, un Dio che a questi esseri spirituali aveva fatto dono, prima che all’uomo, di partecipare alla sua natura divina. 3. Nel caso dei puri spiriti la scelta decisiva riguardava prima di tutto Dio stesso, primo e supremo Bene, accettato o respinto in modo più essenziale e diretto di quanto possa avvenire nel raggio d’azione della libera volontà dell’uomo. Gli spiriti puri hanno una conoscenza di Dio incomparabilmente più perfetta dell’uomo, perché con la potenza del loro intelletto, non condizionato né limitato dalla mediazione della conoscenza sensibile, vedono fino in fondo la grandezza dell’Essere infinito, della prima Verità, del sommo Bene. A questa sublime capacità di conoscenza degli spiriti puri Dio offrì il mistero della sua divinità, rendendoli così partecipi, mediante la grazia, della sua infinita gloria. Proprio perché esseri di natura spirituale, vi era nel loro intelletto la capacità, il desiderio di questa elevazione soprannaturale a cui Dio li aveva chiamati, per fare di essi, ben prima dell’uomo, dei “consorti della natura divina” (cf. 2 Pt 1, 4), partecipi della vita intima di Colui che è Padre, Figlio e Spirito Santo, di Colui che nella comunione delle tre divine Persone “è Amore” (1 Gv 4, 16). Dio aveva ammesso tutti gli spiriti puri, prima e più dell’uomo, all’eterna comunione dell’amore. 4. La scelta operata sulla base della verità su Dio, conosciuta in forma superiore in base alla lucidità delle loro intelligenze, ha diviso anche il mondo dei puri spiriti in buoni e cattivi. I buoni hanno scelto Dio come Bene supremo e definitivo, conosciuto alla luce dell’intelletto illuminato dalla rivelazione. Avere scelto Dio significa che si sono rivolti a lui con tutta la forza interiore della loro libertà, forza che è amore. Dio è divenuto il totale e definitivo scopo della loro esistenza spirituale. Gli altri invece hanno voltato le spalle a Dio contro la verità della conoscenza che indicava in lui il bene totale e definitivo. Hanno scelto contro la rivelazione del mistero di Dio, contro la sua grazia che li rendeva partecipi della Trinità e dell’eterna amicizia con Dio nella comunione con lui mediante l’amore. In base alla loro libertà creata hanno operato una scelta radicale e irreversibile al pari di quella degli angeli buoni, ma diametralmente opposta: invece di un’accettazione di Dio piena di amore, gli hanno opposto un rifiuto ispirato da un falso senso di autosufficienza, di avversione e persino di odio che si è tramutato in ribellione. 5. Come comprendere una tale opposizione e ribellione a Dio in esseri dotati di così viva intelligenza e arricchiti di tanta luce? Quale può essere il motivo di tale radicale e irreversibile scelta contro Dio? Di un odio tanto profondo da poter apparire unicamente frutto di follia? I Padri della Chiesa e i teologi non esitano a parlare di “accecamento” prodotto dalla sopravvalutazione della perfezione del proprio essere, spinta fino al punto di velare la supremazia di Dio, che esigeva invece un atto di docile e obbediente sottomissione. Tutto ciò sembra espresso in modo conciso nelle parole: “Non ti servirò!” (Ger 2, 20), che manifestano il radicale e irreversibile rifiuto di prendere parte all’edificazione del regno di Dio nel mondo creato. “Satana” lo spirito ribelle, vuole il proprio regno, non quello di Dio, e si erge a primo “avversario” del Creatore, a oppositore della Provvidenza, ad antagonista della sapienza amorevole di Dio. Dalla ribellione e dal peccato di Satana, come anche da quello dell’uomo, dobbiamo concludere accogliendo la saggia esperienza della Scrittura che afferma: “L’orgoglio è causa di rovina” (Tb 4, 13).

L’ARMONIA FRA FEDE E RAGIONE NELLA SCIENZA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

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L’ARMONIA FRA FEDE E RAGIONE NELLA SCIENZA – PAPA GIOVANNI PAOLO II

di Augusto Pessina

«La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità». È questo il magnifico incipit dell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II che dopo 15 anni (14 settembre 1998) appare di attualità e profondità sorprendenti. Il successivo pontificato di Benedetto XVI ha svolto molti dei punti critici di questa enciclica e anche la Lumen Fidei ha ribadito questa armonia innata tra ragione e fede. Spesso la lettura di questo incipit della enciclica di Giovanni Paolo II è stata fatta in modo asimmetrico e riduttivo esaltando la ragione allo scopo di dare una qualche parvenza di dignità anche alla fede, comunque considerata un’ala più piccola o debole. In realtà la forza della affermazione è nel proporre una questione di metodo che riguarda la natura e la modalità stessa della conoscenza alla quale non si sottrae nemmeno quelle scientifica. La ragione è infatti sempre costretta ad aderire al dato reale “per fiducia” e questo rappresenta anche per lo scienziato il punto di partenza per la successiva verifica critica. Come dice l’enciclica «L’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza. Nel credere ,ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone» (Fiedes et Ratio n 31,32). È questa armonia, misteriosa e anche drammatica perché coinvolge la libertà, a permettere alle due ali quella sinergia che produce forza per il volo. Nessun volo è possibile con una sola ala e quando una delle due ali difetta anche il volo si fa molto difficile. Questa stessa dinamica riguarda anche la ragione e la fede cristiana intesa come riconoscimento della verità rivelata da un testimone. Anche in questo caso «…la fede chiede che il suo oggetto sia compreso con la ragione e la ragione al culmine della sua ricerca ammette come necessario ciò che la fede presenta (Fides et Ratio, n. 42)». La fede dunque, lungi dall’essere una zavorra, è in grado di «provocare la ragione ad uscire da ogni isolamento e rischiare per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa avvocato convinto e convincente della ragione (Fides et Ratio,n.56)». Per questo recita ancora l’enciclica «Quando la ragione è debole , la fede rischia di essere ridotta a mito o superstizione (Fides et Ratio,n. 48)». Il dialogo armonico tra ragione e fede è capace di valorizzare criticamente anche la ricerca scientifica che diventa in questa ottica un grande strumento per una conoscenza più profonda del mistero dell’uomo stesso come 50 anni fa scriveva la Gaudium et Spes: «il gusto per le scienze e la rigorosa fedeltà al vero nella indagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppi tecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscienza sempre più viva della responsabilità degli esperti nell’aiutare e proteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni di vita per tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazione della responsabilità personale o per la povertà culturale. (Gaudium et Spes, n.57)». Tuttavia se di fronte ai grandi passi della scienza questa dinamica suscita meraviglia, nel contempo essa pone sempre domande che riguardano il bello, il bene e il vero. Quando questa dinamica viene meno, le domande scompaiono e la ragione si confonde. Come sottolinea la Lumen Fidei, descrivendo bene un disagio esistenziale del nostro tempo «quando la luce della ragione non riesce ad illuminare il futuro l’uomo resta abbandonato all’oscurità e alla paura dell’ignoto(Lumen Fidei,n. 3)». Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica aveva messo in guarda da questo rischio quando scriveva «L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di “alienazione”, nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire (Redemptor Hominis, n.15)». Oggi questo rischio è presente in certa ricerca della cosiddetta “biomedicina” laddove la persona appare secondaria al mercato, al successo, all’affermazione del potere della tecno-scienza sulla stessa natura umana. In tale panorama questa enciclica è un grande punto di riferimento non solo per chi ha la fede, ma anche per chi ha cuore l’uso corretto e costruttivo della ragione per il bene comune.

GIOVANNI PAOLO II – IL DIALOGO CON GLI EBREI « NOSTRI FRATELLI MAGGIORI » (1999)

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IL DIALOGO CON GLI EBREI « NOSTRI FRATELLI MAGGIORI »

CATECHESI DI PAPA GIOVANNI PAOLO II DEL 28 APRILE 1999

« Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e dell’impegno perché i semi infetti dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell’uomo ». 1. Il dialogo interreligioso che la Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente incoraggia come aspetto qualificante di questo anno particolarmente dedicato a Dio Padre (cfr nn. 52-53), riguarda innanzitutto gli ebrei, i « nostri fratelli maggiori », come li ho chiamati in occasione del memorando incontro con la comunità ebraica della città di Roma il 13 aprile 1986. Riflettendo sul patrimonio spirituale che ci accomuna, il Concilio Vaticano II, specie nella Dichiarazione Nostra Aetate , ha dato un nuovo orientamento ai nostri rapporti con la religione ebraica. Occorre approfondire sempre di più quell’insegnamento e il Giubileo del Duemila potrà rappresentare una magnifica occasione di incontro, possibilmente, in luoghi significativi per le grandi religioni monoteistiche (cfr TMA, 53). È noto che purtroppo il rapporto con i fratelli ebrei è stato difficile, a partire dai primi tempi della Chiesa fino al nostro secolo. Ma in questa lunga e tormentata storia non sono mancati momenti di dialogo sereno e costruttivo. Va ricordato in proposito che la prima opera teologica con il titolo « Dialogo  » è significativamente dedicata dal filosofo e martire Giustino nel secondo secolo al suo confronto con l’ebreo Trifone. Così pure va segnalata la dimensione dialogica fortemente presente nella letteratura contemporanea neoebraica, la quale ha profondamente influenzato il pensiero filosofico-teologico del ventesimo secolo. C’è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani ed ebrei guardano assieme 2. Questo atteggiamento dialogico tra cristiani ed ebrei non esprime solo il valore generale del dialogo tra le religioni, ma anche la condivisione del lungo cammino che porta dalI’ Antico al Nuovo Testamento. C’è un lungo tratto della storia della salvezza a cui cristiani , ed ebrei guardano assieme. « A differenza delle altre religioni non cristiane – infatti – la fede ebraica è già risposta alla Rivelazione di Dio nella Antica Alleanza ». Questa storia è illuminata da una immensa schiera di persone sante, la cui vita testimonia il possesso, nella fede, delle cose sperate. La Lettera agli Ebrei mette appunto in risalto questa risposta di fede lungo il corso della storia della salvezza (cfr Eb ll). La testimonianza coraggiosa della fede dovrebbe anche oggi segnare la collaborazione di cristiani ed ebrei nel proclamare e attuare il disegno salvifico di Dio a favore dell’intera umanità. Se questo disegno è poi diversamente interpretato rispetto all’accoglienza di Cristo, ciò comporta ovviamente una divaricazione decisiva, che è all’origine del cristianesimo stesso, ma non toglie che molti elementi restino comuni. Soprattutto rimane il dovere di collaborare per promuovere una condizione umana più conforme al disegno di Dio. Il grande Giubileo, che si richiama proprio alla tradizione ebraica degli anni giubilari, addita l’urgenza di tale impegno comune per ripristinare la pace e la giustizia sociale. Riconoscendo la signoria di Dio su tutto il creato e in particolare sulla terra (cfr Lv 25), tutti i credenti sono chiamati a tradurre la loro fede in impegno concreto per proteggere la sacralità della vita umana in ogni sua forma e difendere la dignità di ogni fratello e sorella. 3. Meditando sul mistero di lsraele e sulla sua « vocazione irrevocabile », i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici. Nelle sorgenti bibliche condivise con i fratelli ebrei, trovano elementi indispensabili per vivere e approfondire la loro stessa fede. Lo si vede, ad esempio, nella Liturgia. Come Gesù, che ci viene presentato da Luca mentre nella sinagoga di Nazaret apre il libro del profeta Isaia (cfr Lc 4,16ss), così la Chiesa attinge dalla ricchezza liturgica del popolo ebraico. Essa ordina la liturgia delle ore, la liturgia della parola e perfino la struttura delle preghiere eucaristiche secondo i modelli della tradizione ebraica. Alcune grandi feste come la Pasqua e la Pentecoste evocano l’anno liturgico ebraico, e rappresentano eccellenti occasioni per ricordare nella preghiera il popolo che Dio ha scelto ed ama (cfr Rm 11,2). Oggi il dialogo implica che i cristiani siano più consapevoli di questi elementi che ci avvicinano. Come si prende atto della « alleanza mai revocata », così si deve considerare il valore intrinseco dell’Antico Testamento (cfr Dei Verbum, 3), anche se esso acquista il suo senso pieno alla luce del Nuovo Testamento e contiene promesse che si adempiono in Gesù. Non fu forse la lettura attualizzata della Sacra Scrittura ebraica fatta da Gesù ad accendere « il cuore nel petto »(Lc 24,32) ai discepoli di Emmaus, permettendo loro di riconoscere il Risorto mentre spezzava il pane ? 4. Non solo la comune storia di cristiani ed ebrei, ma particolarmente il loro dialogo deve mirare all’avvenire, diventando, per così dire, « memoria del futuro ». Il ricordo dei fatti tristi e tragici del passato può aprire la via ad un rinnovato senso di fraternità, frutto della grazia di Dio, e all’impegno perché i semi infetti dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo non mettano mai più radice nel cuore dell’uomo. Israele, popolo che edifica la sua fede sulla promessa fatta da Dio ad Abramo: « sarai padre di una moltitudine di popoli » (Gn 17,4; Rm 4,17), addita al mondo Gerusalemme quale luogo simbolico del pellegrinaggio escatologico dei popoli, uniti nella lode dell’Altissimo. Auspico che agli albori del terzo millennio il dialogo sincero tra cristiani ed ebrei contribuisca a creare una nuova civiltà, fondata sull’unico Dio santo e misericordioso, e promotrice di una umanità riconciliata nell’amore.  » Meditando sul mistero di Israele e sulla sua « vocazione irrevocabile » i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici.

GIOVANNI PAOLO II E LA SCIENZA CONTEMPORANEA

http://www.disf.org/maldame-canonizzazione-giovanni-paolo-ii

GIOVANNI PAOLO II E LA SCIENZA CONTEMPORANEA

Jean-Michel Maldamé

Institut Catholique de Toulouse Membro della Pontificia Accademia delle Scienze

Aprile 2014

Il Beato Giovanni Paolo II, che dal 27 aprile di quest’anno chiameremo San Giovanni Paolo II, è stato un papa particolarmente sensibile al tema della scienza. Vi è una sua iniziativa che mette bene in evidenza lo spirito con il quale egli ha promosso il dialogo tra scienza moderna e fede cattolica. Fin dal Concilio Vaticano II diversi Padri avevano rievocato la condanna di Galileo. Nel XIX secolo la condanna fu messa nuovamente in primo piano da alcune correnti anticlericali, fino a diventare «l’affare Galileo». Per la maggior parte dei contemporanei, il processo subito dallo scienziato pisano del 1633 era ancora l’emblema del rifiuto della modernità da parte della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II ha realizzato il desiderio dei Padri conciliari di riconoscere in modo più aperto che questa condanna era stata un errore. Nacque così l’occasione per riaffermare che la Chiesa cattolica aveva in realtà sempre stimato le scienze naturali, una stima che era stata ribadita dal Concilio Vaticano II e che si è poi sviluppata in piena fedeltà al Concilio. 1. L’atteggiamento di Giovanni Paolo II verso la scienza non fu qualcosa di circostanziale. In effetti, in varie occasioni, egli aveva elogiato il lavoro svolto nelle Università, incitandone lo sviluppo. Nella costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae (15 agosto 1990) indirizzata alle Università Cattoliche, egli precisava: «Un campo che interessa in maniera speciale l’Università cattolica è il dialogo tra pensiero cristiano e scienze moderne» (n. 46). Nei discorsi tenuti in varie università, Giovanni Paolo II si è mostrato attento a questa esigenza: l’unità dei saperi e la loro convergenza nell’amore ad una verità ricercata incessantemente. Questo desiderio di unità riposa su una convinzione teologica: l’opera del Dio unico reca la traccia della sua unità. È per questo che la diversità di saperi deve tendere all’unità. Questo proposito è presente in diversi discorsi pronunciati in ambienti universitari; l’incontro tra scienza e teologia ha una finalità: «quella dell’integrazione del sapere, in una sintesi nella quale l’insieme impressionante di conoscenze scientifiche troverebbe il suo significato nel quadro della visione integrale dell’uomo e dell’universo, dell’Ordo rerum» (Discorso ad intellettuali ed universitari ad Ibadan, Nigeria, 15 febbraio 1982). Quest’ultima espressione, classica in teologia, è il fondamento della stima di Giovanni Paolo II per le scienze naturali, che scaturisce a sua volta dalla fede in Dio creatore. 2. Non è stato compito di Giovanni Paolo II proporre una visione del mondo che unificasse i saperi; egli si rifà alla radice della ricerca scientifica e perciò elogia l’uomo di scienza che cerca la verità, una verità marcata dal sigillo della trascendenza. Lo si vede negli elogi che egli fa delle grandi figure della scienza, in particolare Gregorio Mendel e Georges Lemaître ed, in maniera più ampia, nell’enciclica Fides et ratio. In quest’ultimo documento Giovanni Paolo II non intende offrire una sintesi tra la visione secolare del mondo tracciata dalla scienza e quella della Bibbia o della Tradizione, ma parla della ricerca dell’intelligenza. Il sapiente diventato scienziato, nel senso moderno del termine, se ha rinunciato ad una proposta di saggezza integrale, non ha però rinunciato alla ricerca della verità, perché è abitato da una convinzione fondata, quella dell’intellegibilità del mondo (cfr. Fides et ratio, n. 29). Se lo scienziato gioisce nel svelare i segreti della natura, è perché egli gusta la gioia di conoscere e di custodire in sé un’apertura di spirito che sia pienamente in accordo con la Rivelazione (cfr. n. 30). In effetti «la scienza pura è un bene perché è conoscenza e quindi perfezione dell’uomo nella sua intelligenza» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979). Questo elogio è un corollario di stima per gli uomini di scienza. 3. Giovanni Paolo II ha rivolto vari discorsi agli scienziati – all’Accademia Pontificia delle Scienze, ma anche in diversi luoghi durante i suoi viaggi apostolici. In questo contesto emerge un leitmotiv: l’appello alla responsabilità. La scienza in effetti offre all’uomo dei mezzi per agire con potenza; il Papa invita dunque ad un risveglio morale. Tutti ricordiamo l’appello di Giovanni Paolo II al rispetto per la vita; ma non possiamo dimenticare anche altri punti da lui toccati, come: l’ambiente, il disarmo, in particolare la questione nucleare, le applicazioni della tecnica finalizzate allo sviluppo dei popoli. Tutto ciò fa parte di una dinamica di rispetto della natura e di riconoscimento della grandezza dell’essere umano. Questa responsabilità dello scienziato riposa sull’unità dell’opera di Dio e per questo motivo la dottrina sociale della Chiesa deve essere articolata in dialogo con il sapere moderno, chiarita e giustificata anche dalla conoscenza scientifica. 4. L’appello alla responsabilità riposa su uno degli assi maggiori del pensiero di Giovanni Paolo II: la grandezza dell’uomo fondata sulla sua creazione ad immagine e somiglianza di Dio e sull’incarnazione del Verbo. Questa grandezza dell’essere umano è uno dei temi più ricorrenti. Al CERN di Ginevra (15 giugno 1982), luogo simbolico della scienza di base, dopo aver messo in rilievo il valore del lavoro scientifico, Giovanni Paolo II insiste sulla dignità dell’uomo di cui la scienza manifesta «la grandezza e il mistero». Egli spiega: la “grandezza” della ragione di cui la scienza è una realizzazione evidente ed il “mistero” della ricerca di una verità sempre più grande rispetto alla nostra esperienza. Questa stessa stima per la scienza appare nel celebre testo indirizzato nel 1996 all’Accademia Pontificia delle Scienze, in cui si riconosce il valore della teoria scientifica dell’evoluzione. La stima per la scienza è intimamente legata all’appello a riconoscere la trascendenza dell’essere umano. Sebbene l’essere umano sia parte egli stesso nel movimento delle speciazioni, con lui si varca una soglia. Il luogo del dialogo tra scienza e fede è, per Giovanni Paolo II, soprattutto la questione antropologica, piuttosto che la cosmologia. 5. Le parole di Giovanni Paolo II sulle scienze rivelano una preoccupazione assai diffusa. Il Vangelo è per lui il fermento di un’umanità nuova, secondo il cuore di Dio. Durante la sua attività pastorale in Polonia, sia come cappellano dei giovani che come vescovo, Giovanni Paolo II ha messo in luce che la scienza stimola le energie umane; ha notato che le idee scientifiche conferivano un certo dinamismo al progetto di società che affascinava gli Europei ed ha saputo discernere tra le opzioni materialiste e l’umanesimo che è invece alla base della scienza moderna. La sua azione evangelizzatrice e le sue direttive pastorali si sono iscritte nella preoccupazione di promuovere una cultura in cui la scienza sarebbe stata non solo rispettata, ma sviluppata al servizio dell’uomo. Nel dinamismo di questa visione, in cui la fede salva la ragione quando quest’ultima tenta di trasformarsi in un assoluto, l’attenzione di Giovanni Paolo II verso la scienza non ha riguardato solo aspetti  specializzati, ma egli ha parlato volentieri di “cultura scientifica” – la nozione di cultura era per lui l’espressione della grandezza dell’uomo responsabile del suo avvenire, dell’educazione e della preoccupazione per il bene comune dell’umanità. Questo orizzonte, presente nel noto discorso del 1980 all’Unesco, è stato poi sviluppato durante gli orientamenti da lui dati ai lavori della Pontificia Accademia delle Scienze. 6. Il valore della scienza si basa sul posto privilegiato che l’uomo occupa nel panorama della natura. Questa è un’opzione metafisica. Secondo Giovanni Paolo II, la stima per la conoscenza scientifica non discende solo da una impostazione teocentrica, come accadeva ad esempio nella teologia scolastica; essa discende soprattutto da una visione antropocentrica. È nell’uomo che si trova la chiave dell’intelligibilità di tutto l’universo. Così Giovanni Paolo II inserisce il suo apprezzamento per la cultura scientifica in una prospettiva cristologica, in quella prospettiva che è stata presente fin dalla sua prima enciclica Redemptor hominis (1979). 7. Giovanni Paolo II, infine, ha voluto vedere nella scienza una dimensione cara alla tradizione cristiana: il senso della preghiera e della contemplazione. Per Giovanni Paolo II la scienza non è solamente un sapere teorico, né un’attività pratica finalizzata a generare benessere, né solo una forte spinta verso un umanesimo integrale. La conoscenza scientifica deve condurre alla contemplazione, il cui primo passo è la meraviglia di fronte all’esistenza. Questo atteggiamento è la fonte della vita di preghiera e si poggia sulla prospettiva escatologica che i cristiani celebrano al termine dell’anno liturgico, con la solennità di Cristo Re dell’universo. I sette punti elencati riposano su una visione strutturata. Innanzitutto la consapevolezza che la crisi attuale della società civile richiede un risveglio dell’intelligenza credente. Questo risveglio deve poggiarsi su convinzioni forti, che si possono esplicitare secondo un ordine che identifica sette pilastri sui quali riposa una visione cristiana del mondo. Essi sono: la verità come motore della ricerca; l’unità come orizzonte della ricerca; la cultura, fondata sull’apertura al lavoro degli altri; il rispetto per tutto ciò che è stato donato dal Creatore; il posto dell’uomo nella natura; la responsabilità umana e la preoccupazione per l’avvenire ed infine il mistero, come presenza dell’eternità nel tempo attraverso la resurrezione di Cristo.

2014 Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede

GIOVANNI PAOLO II – L’IMPEGNO PER SCONGIURARE LA CATASTROFE ECOLOGICA (LETTURA: SAL 148, 1-5).

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 17 gennaio 2001

L’IMPEGNO PER SCONGIURARE LA CATASTROFE ECOLOGICA (LETTURA: SAL 148, 1-5).   

1. Nell’inno di lode, or ora proclamato (Sal 148, 1-5), il Salmista convoca, chiamandole per nome, tutte le creature. In alto si affacciano angeli, sole, luna, stelle e cieli; sulla terra si muovono ventidue creature, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, a indicare pienezza e totalità. Il fedele è come « il pastore dell’essere », cioè colui che conduce a Dio tutti gli esseri, invitandoli a intonare un « alleluia » di lode. Il Salmo ci introduce come in un tempio cosmico che ha per abside i cieli e per navate le regioni del mondo e al cui interno canta a Dio il coro delle creature. Questa visione potrebbe essere, per un verso, la rappresentazione di un paradiso perduto e, per un altro, quella del paradiso promesso. Non per nulla l’orizzonte di un universo paradisiaco, che è posto dalla Genesi (c. 2) alle origini stesse del mondo, da Isaia (c. 11) e dall’Apocalisse (cc. 21-22) è collocato alla fine della storia. Si vede così che l’armonia dell’uomo con il suo simile, con il creato e con Dio è il progetto perseguito dal Creatore. Tale progetto è stato ed è continuamente sconvolto dal peccato umano che si ispira a un piano alternativo, raffigurato nel libro stesso della Genesi (cc. 3-11), in cui è descritto l’affermarsi di una progressiva tensione conflittuale con Dio, con il proprio simile e persino con la natura. 2. Il contrasto tra i due progetti emerge nitidamente nella vocazione a cui l’umanità, secondo la Bibbia, è chiamata e nelle conseguenze provocate dalla sua infedeltà a quella chiamata. La creatura umana riceve una missione di governo sul creato per farne brillare tutte le potenzialità. È una delega attribuita dal Re divino alle origini stesse della creazione quando l’uomo e la donna, che sono « immagine di Dio » (Gn 1,27), ricevono l’ordine di essere fecondi, moltiplicarsi, riempire la terra, soggiogarla e dominare sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (cfr Gn 1,28). San Gregorio di Nissa, uno dei tre grandi Padri cappadoci, commentava: « Dio ha fatto l’uomo in modo tale che potesse svolgere la sua funzione di re della terra… L’uomo è stato creato a immagine di colui che governa l’universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità… Egli è l’immagine viva che partecipa nella sua dignità alla perfezione del divino modello » (De hominis opificio, 4: PG 44,136). 3. Tuttavia la signoria dell’uomo non è « assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l’uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all’amore incommensurabili di Dio » (Evangelium vitae, 52). Nel linguaggio biblico « dare il nome » alle creature (cfr Gn 2,19-20) è il segno di questa missione di conoscenza e di trasformazione della realtà creata. È la missione non di un padrone assoluto e insindacabile, ma di un ministro del Regno di Dio, chiamato a continuare l’opera del Creatore, un’opera di vita e di pace. Il suo compito, definito nel Libro della Sapienza, è quello di governare « il mondo con santità e giustizia » (Sap 9,3). Purtroppo, se lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che l’umanità ha deluso l’attesa divina. Soprattutto nel nostro tempo, l’uomo ha devastato senza esitazioni pianure e valli boscose, inquinato le acque, deformato l’habitat della terra, reso irrespirabile l’aria, sconvolto i sistemi idro-geologici e atmosferici, desertificato spazi verdeggianti, compiuto forme di industrializzazione selvaggia, umiliando – per usare un’immagine di Dante Alighieri (Paradiso, XXII, 151) – quell’ »aiuola » che è la terra, nostra dimora. 4. Occorre, perciò, stimolare e sostenere la ‘conversione ecologica’, che in questi ultimi decenni ha reso l’umanità più sensibile nei confronti della catastrofe verso la quale si stava incamminando. L’uomo non più ‘ministro’ del Creatore. Ma autonomo despota, sta comprendendo di doversi finalmente arrestare davanti al baratro. « È, allora, da salutare con favore l’accresciuta attenzione alla qualità della vita e all’ecologia, che si registra soprattutto nelle società a sviluppo avanzato, nelle quali le attese delle persone non sono più concentrate tanto sui problemi della sopravvivenza quanto piuttosto sulla ricerca di un miglioramento globale delle condizioni di vita » (Evangelium vitae, 27). Non è in gioco, quindi, solo un’ecologia ‘fisica’, attenta a tutelare l’habitat dei vari esseri viventi, ma anche un’ecologia ‘umana’ che renda più dignitosa l’esistenza delle creature, proteggendone il bene radicale della vita in tutte le sue manifestazioni e preparando alle future generazioni un ambiente che si avvicini di più al progetto del Creatore. 5. In questa ritrovata armonia con la natura e con se stessi gli uomini e le donne ritornano a passeggiare nel giardino della creazione, cercando di far sì che i beni della terra siano disponibili a tutti e non solo ad alcuni privilegiati, proprio come suggeriva il Giubileo biblico (cfr Lv 25,8-13.23). In mezzo a quelle meraviglie scopriamo la voce del Creatore, trasmessa dal cielo e dalla terra, dal giorno e dalla notte: un linguaggio « senza parole di cui si oda il suono », capace di varcare tutte le frontiere (cfr Sal 19[18], 2-5). Il libro della Sapienza, riecheggiato da Paolo, celebra questa presenza di Dio nell’universo ricordando che « dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il Creatore » (Sap 13,5; cfr Rm 1,20). È ciò che canta anche la tradizione giudaica dei Chassidim: « Dovunque io vada, Tu! Dovunque io sosti, Tu…, dovunque mi giro, dovunque ammiro, solo Tu, ancora Tu, sempre Tu » (M. Buber, I racconti dei Chassidim, Milano 1979, p. 256).

 

GIOVANNI PAOLO II – UDIENZA GENERALE (CRISTO SALVATORE UNIVERSALE)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1998/documents/hf_jp-ii_aud_04021998.html

GIOVANNI PAOLO II – UDIENZA GENERALE (CRISTO SALVATORE UNIVERSALE)

Mercoledì 4 febbraio 1998   

1. Cristo si rivela in tutta la sua vicenda terrena come il Salvatore inviato dal Padre per la salvezza del mondo. Il suo stesso nome, « Gesù », manifesta questa missione. Esso infatti significa: « Dio salva ». E’ un nome che gli è conferito a seguito di una indicazione celeste: sia Maria che Giuseppe (Lc 1,31; Mt 1,21) ricevono l’ordine di chiamarlo così. Nel messaggio a Giuseppe il significato del nome viene chiarito: « Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati ». 2. Cristo definisce la sua missione di Salvatore come un servizio, la cui manifestazione più alta consisterà nel sacrificio della vita a favore degli uomini: « Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mc 10,45; Mt 20,28). Queste parole, pronunciate per contrastare la tendenza dei discepoli a cercare il primo posto nel Regno, vogliono soprattutto suscitare in essi una nuova mentalità, più conforme a quella del Maestro. Nel Libro di Daniele il personaggio descritto « come un figlio d’uomo » viene presentato circonfuso della gloria dovuta ai capi, ai quali si tributa una venerazione universale: « Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano » (Dn 7,14). Gesù contrappone a questa figura il Figlio dell’uomo che si pone al servizio di tutti. In quanto persona divina, egli avrebbe pieno diritto di essere servito. Ma dicendo di essere « venuto per servire », manifesta un aspetto sconvolgente del comportamento di Dio che, pur avendo il diritto e il potere di farsi servire, si mette « a servizio » delle sue creature. Gesù esprime in modo eloquente e commovente questa volontà di servire nel gesto dell’ultima Cena, quando lava i piedi ai discepoli: gesto simbolico che s’imprimerà definitivamente nella loro memoria come una regola di vita: « Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri » (Gv 13,14). 3. Dicendo che il Figlio dell’uomo è venuto per dare la sua vita in riscatto per molti, Gesù rimanda alla profezia del Servo sofferente, che « offre la sua anima in sacrificio espiatorio » (Is 53,10). E’ un sacrificio personale, molto diverso dai sacrifici di animali, in uso nel culto antico. E’ il dono della vita fatto « in riscatto per molti », cioè per l’immensa moltitudine umana, per « tutti ». Gesù appare così come il Salvatore universale: tutti gli esseri umani, secondo il disegno divino, vengono riscattati, liberati e salvati da lui. Dice Paolo: « Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù » (Rm 3,23-24). La salvezza è un dono che può essere ricevuto da ciascuno nella misura del libero consenso e della volontaria cooperazione. 4. Salvatore universale, Cristo è l’unico Salvatore. Pietro lo afferma chiaramente: « In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati » (At 4,12). Nello stesso tempo, Egli è proclamato anche unico mediatore tra Dio e gli uomini, come afferma la prima Lettera a Timoteo: « Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti » (2,5-6). In quanto Dio-uomo, Gesù è il mediatore perfetto, che congiunge gli uomini a Dio, procurando loro i beni della salvezza e della vita divina. Si tratta di una mediazione unica, che esclude ogni mediazione concorrente o parallela, pur essendo conciliabile con mediazioni partecipate o dipendenti (cfr Redemptoris missio, 5). Non si possono quindi ammettere, accanto a Cristo, altre fonti o vie di salvezza autonome. Pertanto nelle grandi religioni, che la Chiesa considera con rispetto e stima nella linea indicata dal Concilio Vaticano II, i cristiani riconoscono la presenza di elementi salvifici, che operano però in dipendenza dall’influsso della grazia di Cristo. Tali religioni possono così contribuire, in virtù dell’azione misteriosa dello Spirito Santo che « soffia dove vuole » (Gv 3,8), ad aiutare gli uomini nel cammino verso la felicità eterna, ma questo ruolo è anch’esso frutto dell’attività redentrice di Cristo. Anche in rapporto alle religioni, perciò, agisce misteriosamente Cristo Salvatore, che in quest’opera unisce a sé la Chiesa, costituita « come sacramento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano » (LG, 1). 5. Mi è caro concludere con una mirabile pagina del Trattato della vera devozione a Maria, di san Luigi di Montfort, che proclama la fede cristologica della Chiesa: « Gesù Cristo è l’Alfa e l’Omega, ‘il Principio e la Fine’ di ogni cosa. [...]. Egli è il solo maestro che deve istruirci, il solo Signore dal quale dipendiamo, il solo capo al quale dobbiamo essere uniti, il solo modello cui dobbiamo rassomigliare, il solo medico che ci deve guarire, il solo pastore che ci deve nutrire, la sola via che ci deve condurre, la sola verità che dobbiamo credere, la sola vita che deve vivificarci, il solo tutto che ci deve bastare in ogni cosa. [...]. Ogni fedele che non è unito a Cristo come il tralcio alla vite cade, secca e serve solo ad essere gettato nel fuoco. Se invece siamo in Gesù Cristo e Gesù Cristo in noi, non c’è più nessuna condanna da temere. Né gli angeli del cielo, né gli uomini della terra, né i demoni dell’inferno, né alcun’altra creatura potrà farci del male, perché non potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Gesù Cristo. Tutto possiamo per Cristo, con Cristo e in Cristo; possiamo rendere ogni onore e gloria al Padre nell’unità dello Spirito Santo; possiamo diventare perfetti ed essere profumo di vita eterna per il prossimo » (n. 61).

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GIOVANNI PAOLO II – « O CHIAVE DI DAVIDE…

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 dicembre 2000

1. « O chiave di Davide, che apri le porte del Regno dei cieli: vieni, e libera chi giace nelle tenebre del male ».

E’ con questa invocazione che la liturgia ci fa pregare quest’oggi, invitandoci a volgere lo sguardo a Colui che nasce per redimere l’umanità. Siamo ormai alle porte del Natale e più intensa si fa l’implorazione del popolo in attesa: « Vieni, Signore Gesù », vieni a liberare « chi giace nelle tenebre del male »! Ci apprestiamo a commemorare l’evento che è nel cuore della storia della salvezza: l’incarnazione del Figlio di Dio, venuto ad abitare in mezzo a noi per redimere ogni umana creatura con la sua morte in Croce. Nel mistero del Natale è già presente il mistero pasquale; nella notte di Betlemme intravediamo già la veglia di Pasqua. La luce che illumina la grotta ci rimanda al fulgore di Cristo risorto che vince le tenebre del sepolcro. Quest’anno, poi, è un Natale speciale, il Natale dei duemila anni di Cristo: un « compleanno » importante, che abbiamo celebrato con l’Anno giubilare, meditando sull’evento straordinario del Verbo eterno fatto uomo per la nostra salvezza. Ci disponiamo a rivivere con fede rinnovata le imminenti festività natalizie, per accoglierne in pienezza il messaggio spirituale. 2. A Natale il nostro pensiero torna naturalmente a Betlemme: « E tu, – dice il profeta Michea – Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele » (5, 1). A queste parole fanno eco quelle dell’evangelista Matteo. Ai Magi, che vogliono sapere dal re Erode « dov’è il re dei Giudei che è nato? » (Mt 2, 2), i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo comunicano quello che aveva scritto l’antico profeta su Betlemme: « da te uscirà un capo che pascerà il mio popolo, Israele » (Mt 2, 6). La Chiesa d’Oriente prega così nell’ufficio dell’órthros nella solennità del Natale: « Betlemme, preparati; canta, città di Sion; esulta, deserto che hai attirato la gioia: la stella avanza per indicare il Cristo che a Betlemme sta per nascere; una grotta accoglie colui che assolutamente nulla può contenere, ed è apprestata una mangiatoia per ricevere l’eterna vita » (stichirá idiómela, Anthologhion). 3. Betlemme, in questi giorni, diventa il luogo a cui sono rivolti gli occhi di tutti i credenti. La rappresentazione del presepe, che la tradizione popolare ha diffuso in ogni angolo della terra, ci aiuta a meglio riflettere sul messaggio che da Betlemme continua ad irradiarsi per l’intera umanità. In una misera grotta contempliamo un Dio che per amore si fa bambino. Egli dona a chi lo accoglie la gioia, ai popoli la riconciliazione e la pace. Il Grande Giubileo, che stiamo celebrando, ci invita ad aprire il cuore a Colui che dischiude per noi « le porte del Regno dei Cieli ». Prepararci a riceverlo comporta prima di ogni altra cosa un atteggiamento di preghiera intensa e fiduciosa. Il fargli spazio nel nostro cuore esige un serio impegno a convertirsi al suo amore. E’ Lui che ci libera dalle tenebre del male, e ci chiede di offrire il nostro concreto contributo perché si realizzi il suo disegno di salvezza. Il profeta Isaia lo descrive con immagini suggestive: « Allora il deserto diventerà un giardino / e il giardino sarà considerato una selva. / Nel deserto prenderà dimora il diritto, / e la giustizia regnerà nel giardino. / Effetto della giustizia sarà la pace, / frutto del diritto una perenne sicurezza » (Is 32, 15-17). Questo il dono che dobbiamo implorare con orante fiducia, questo il progetto che siamo chiamati a fare nostro con costante sollecitudine! Nel messaggio inviato ai credenti ed agli uomini di buona volontà per la prossima Giornata Mondiale della Pace, osservando che « nel cammino verso una migliore intesa tra i popoli numerose sono ancora le sfide che il mondo deve affrontare » (n. 18) ed ho perciò ricordato che « tutti devono sentire il dovere morale di operare scelte concrete e tempestive, per promuovere la causa della pace e della comprensione tra gli uomini » (ibid.). Possa il Natale ravvivare in ciascuno la volontà di farsi attivo e coraggioso costruttore della civiltà dell’Amore. E’ solo grazie all’apporto di tutti che la profezia di Michea e l’annuncio risuonato nella notte di Betlemme produrranno i loro frutti e sarà possibile vivere in pienezza il Natale cristiano.

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PAPA GIOVANNI PAOLO II – SALMO 117 (NELL’ANGOSCIA HO GRIDATO AL SIGNORE…)

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/CRISTIANESIMO/salmo117cantodigioiaedivittoriapapaGiovanniPaoloIIudienza.htm

PAPA GIOVANNI PAOLO II – SALMO 117 (NELL’ANGOSCIA HO GRIDATO AL SIGNORE…)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 5 dicembre 2001

Salmo 117/118, Canto di gioia e di vittoria Lodi Domenica 2a Settimana (Lettura: Sal 117, 1-2.19-20.22.24).

Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia.

Dica Israele che egli è buono: eterna è la sua misericordia. Lo dica la casa di Aronne: eterna è la sua misericordia. Lo dica chi teme Dio: eterna è la sua misericordia.

Nell’angoscia ho gridato al Signore, mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo. Il Signore è con me, non ho timore; che cosa può farmi l’uomo? Il Signore è con me, è mio aiuto, sfiderò i miei nemici.

E’ meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo. E’ meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti.

Tutti i popoli mi hanno circondato, ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi hanno circondato, mi hanno accerchiato, ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi hanno circondato come api, come fuoco che divampa tra le spine, ma nel nome del Signore li ho sconfitti. Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato mio aiuto.

Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. Grida di giubilo e di vittoria, nelle tende dei giusti: la destra del Signore ha fatto meraviglie, la destra del Signore si è innalzata, la destra del Signore ha fatto meraviglie. Non morirò, resterò in vita e annunzierò le opere del Signore.

Il Signore mi ha provato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte.

Apritemi le porte della giustizia: voglio entrarvi e rendere grazie al Signore. E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti.

Ti rendo grazie, perché mi hai esaudito, perché sei stato la mia salvezza. La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo; ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso.

Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa del Signore; Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare.

Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie, sei il mio Dio e ti esalto. Celebrate il Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.

1. Quando il cristiano, in sintonia con la voce orante di Israele, canta il Salmo 117 che abbiamo appena sentito risuonare, prova dentro di sé un fremito particolare. Egli trova, infatti, in questo inno di forte impronta liturgica due frasi che echeggeranno all’interno del Nuovo Testamento con una nuova tonalità. La prima è costituita dal v. 22: « La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo ». Questa frase è citata da Gesù, che la applica alla sua missione di morte e di gloria, dopo aver narrato la parabola dei vignaioli omicidi (cfr Mt 21, 42). La frase è richiamata anche da Pietro negli Atti degli Apostoli: « Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati » (At 4, 11-12). Commenta Cirillo di Gerusalemme: « Uno solo diciamo il Signore Gesù Cristo, affinché la filiazione sia unica; uno solo diciamo, perché tu non pensi che ve ne sia un altro… Infatti è chiamato pietra, non inanimata né tagliata da mani umane, ma pietra angolare, perché colui che avrà creduto in essa non rimarrà deluso » (Le Catechesi, Roma 1993, pp. 312-313). La seconda frase che il Nuovo Testamento desume dal Salmo 117 è proclamata dalla folla nel solenne ingresso messianico di Cristo in Gerusalemme: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore! » (Mt 21, 9; cfr Sal 117, 26). L’acclamazione è incorniciata da un « Osanna » che riprende l’invocazione ebraica hoshiac na’, « deh, salvaci! ». 2. Questo splendido inno biblico è collocato all’interno della piccola raccolta di Salmi, dal 112 al 117, detta lo « Hallel pasquale », cioè la lode salmica usata dal culto ebraico per la Pasqua e anche per le principali solennità dell’anno liturgico. Il filo conduttore del Salmo 117 può essere considerato il rito processionale, scandito forse da canti per il solista e per il coro, sullo sfondo della città santa e del suo tempio. Una bella antifona apre e chiude il testo: « Celebrate il Signore perché è buono, eterna è la sua misericordia » (vv. 1.29). La parola « misericordia » traduce la parola ebraica hesed, che designa la fedeltà generosa di Dio nei confronti del suo popolo alleato e amico. A cantare questa fedeltà sono coinvolte tre categorie di persone: tutto Israele, la « casa di Aronne », cioè i sacerdoti, e « chi teme Dio », una locuzione che indica i fedeli e successivamente anche i proseliti, cioè i membri delle altre nazioni desiderosi di aderire alla legge del Signore (cfr vv. 2-4). 3. La processione sembra snodarsi per le vie di Gerusalemme, perché si parla delle « tende dei giusti » (cfr v. 15). Si leva, comunque, un inno di ringraziamento (cfr vv. 5-18), il cui messaggio è essenziale: anche quando si è nell’angoscia bisogna conservare alta la fiaccola della fiducia, perché la mano potente del Signore conduce il suo fedele alla vittoria sul male e alla salvezza. Il poeta sacro usa immagini forti e vivaci: gli avversari crudeli sono paragonati ad uno sciame d’api o a un fronte di fiamme che avanza riducendo tutto in cenere (cfr v. 12). Ma la reazione del giusto, sostenuto dal Signore, è veemente; per tre volte si ripete: « Nel nome del Signore li ho sconfitti » e il verbo ebraico evidenzia un intervento distruttivo nei confronti del male (cfr vv. 10.11.12). Alla radice, infatti, c’è la destra potente di Dio, cioè la sua opera efficace, e non certo la mano debole e incerta dell’uomo. Ed è per questo che la gioia per la vittoria sul male si apre ad una professione di fede molto suggestiva: « Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza » (v. 14). 4. La processione sembra essere giunta al tempio, alle « porte della giustizia » (v. 19), cioè alla porta santa di Sion. Qui si intona un secondo canto di ringraziamento, che è aperto da un dialogo tra l’assemblea e i sacerdoti per essere ammessi al culto. « Apritemi le porte della giustizia: entrerò a rendere grazie al Signore », dice il solista a nome dell’assemblea processionale. « È questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti » (v. 20), rispondono altri, probabilmente i sacerdoti. Una volta entrati si può dar voce all’inno di gratitudine al Signore, che nel tempio si offre come « pietra » stabile e sicura su cui edificare la casa della vita (cfr Mt 7, 24-25). Una benedizione sacerdotale scende sui fedeli, che sono entrati nel tempio per esprimere la loro fede, elevare la loro preghiera e celebrare il culto. 5. L’ultima scena che si apre davanti ai nostri occhi è costituita da un rito gioioso di danze sacre, accompagnate da un festoso agitare di fronde: « Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare » (v. 27). La liturgia è gioia, incontro di festa, espressione dell’intera esistenza che loda il Signore. Il rito delle fronde fa pensare alla solennità ebraica delle Capanne, memoria del pellegrinaggio di Israele nel deserto, solennità nella quale si compiva una processione con rami di palme, mirto e salice. Questo stesso rito evocato dal Salmo si ripropone al cristiano nell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, celebrato nella liturgia della Domenica delle Palme. Cristo è osannato come « figlio di Davide » (cfr Mt 21, 9) dalla folla che, « venuta per la festa… prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! » (Gv 12, 12-13). In quella celebrazione festosa che, però, prelude all’ora della passione e morte di Gesù, si attua e comprende in senso pieno anche il simbolo della pietra angolare, proposto in apertura, acquisendo un valore glorioso e pasquale. Il Salmo 117 rincuora i cristiani a riconoscere nell’evento pasquale di Gesù « il giorno fatto dal Signore », in cui « la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo ». Col Salmo essi possono quindi cantare pieni di gratitudine: « Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza » (v. 14); « Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso » (v. 24).  

GIOVANNI PAOLO II – LA RISURREZIONE REALIZZERÀ PERFETTAMENTE LA PERSONA (1981)

 http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/26-2/GP8115.html

GIOVANNI PAOLO II -  LA RISURREZIONE REALIZZERÀ PERFETTAMENTE LA PERSONA (1981)  

mercoledì, 9 dicembre 1981  

1. “Alla risurrezione… non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo” (Mt 22,30; Mc 12,25). “Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,36).  Cerchiamo di comprendere queste parole di Cristo riguardanti la futura risurrezione, per trarne una conclusione sulla spiritualizzazione dell’uomo, differente da quella della vita terrena. Si potrebbe qui parlare anche di un perfetto sistema di forze nei rapporti reciproci tra ciò che nell’uomo è spirituale e ciò che è corporeo. L’uomo “storico”, in seguito al peccato originale, sperimenta una molteplice imperfezione di questo sistema di forze, che si manifesta nelle ben note parole di san Paolo: “Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente” (Rm 7,23).  L’uomo “escatologico” sarà libero da quella “opposizione”. Nella risurrezione il corpo tornerà alla perfetta unità ed armonia con lo spirito: l’uomo non sperimenterà più l’opposizione tra ciò che in lui è spirituale e ciò che è corporeo. La “spiritualizzazione” significa non soltanto che lo spirito dominerà il corpo, ma, direi, che esso permeerà pienamente il corpo, e che le forze dello spirito permeeranno le energie del corpo.

2. Nella vita terrena, il dominio dello spirito sul corpo – e la simultanea subordinazione del corpo allo spirito – può, come frutto di un perseverante lavoro su se stessi, esprimere una personalità spiritualmente matura; tuttavia, il fatto che le energie dello spirito riescano a dominare le forze del corpo non toglie la possibilità stessa della loro reciproca opposizione. La “spiritualizzazione”, a cui alludono i Vangeli sinottici (Mt 22,30; Mc 12,25; Lc 20,34-35) nei testi qui analizzati, si trova già fuori di tale possibilità. E dunque una spiritualizzazione perfetta, in cui viene completamente eliminata la possibilità che “un’altra legge muova guerra alla legge della… mente” (cf. Rm 7,23). Questo stato che – come è evidente – si differenzia essenzialmente (e non soltanto riguardo al grado) da ciò che sperimentiamo nella vita terrena, non significa tuttavia alcuna “disincarnazione” del corpo né, di conseguenza, una “disumanizzazione” dell’uomo. Anzi, al contrario, significa la sua perfetta “realizzazione”. Infatti, nell’essere composto, psicosomatico, che è l’uomo, la perfezione non può consistere in una reciproca opposizione dello spirito e del corpo, ma in una profonda armonia fra loro, nella salvaguardia del primato dello spirito. Nell’“altro mondo”, tale primato verrà realizzato e si manifesterà in una perfetta spontaneità, priva di alcuna opposizione da parte del corpo. Tuttavia ciò non va inteso come una definitiva “vittoria” dello spirito sul corpo. La risurrezione consisterà nella perfetta partecipazione di tutto ciò che nell’uomo è corporeo a ciò che in lui è spirituale. Al tempo stesso consisterà nella perfetta realizzazione di ciò che nell’uomo è personale.                     

3. Le parole dei Sinottici attestano che lo stato dell’uomo nell’“altro mondo” sarà non soltanto uno stato di perfetta spiritualizzazione, ma anche di fondamentale “divinizzazione” della sua umanità. I “figli della risurrezione” – come leggiamo in Luca 20,36 – non soltanto “sono uguali agli angeli”, ma anche “sono figli di Dio”. Si può trarne la conclusione che il grado della spiritualizzazione, proprio dell’uomo “escatologico”, avrà la sua fonte nel grado della sua “divinizzazione”, incomparabilmente superiore a quella raggiungibile nella vita terrena. Bisogna aggiungere che qui si tratta non soltanto di un grado diverso, ma in certo senso di un altro genere di “divinizzazione”. La partecipazione alla natura divina, la partecipazione alla vita interiore di Dio stesso, penetrazione e permeazione di ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò che è essenzialmente divino, raggiungerà allora il suo vertice, per cui la vita dello spirito umano perverrà ad una tale pienezza, che prima gli era assolutamente inaccessibile. Questa nuova spiritualizzazione sarà quindi frutto della grazia, cioè del comunicarsi di Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima, ma a tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo. Parliamo qui della “soggettività” (e non solo della “natura”), perché quella divinizzazione va intesa non soltanto come uno “stato interiore” dell’uomo (cioè: del soggetto), capace di vedere Dio “a faccia a faccia”, ma anche come una nuova formazione di tutta la soggettività personale dell’uomo a misura dell’unione con Dio nel suo mistero trinitario e dell’intimità con lui nella perfetta comunione delle persone. Questa intimità – con tutta la sua intensità soggettiva – non assorbirà la soggettività personale dell’uomo, anzi, al contrario, la farà risaltare in misura incomparabilmente maggiore e più piena.                       

4. La “divinizzazione” nell’“altro mondo”, indicata dalle parole di Cristo, apporterà allo spirito umano una tale “gamma di esperienza” della verità e dell’amore che l’uomo non avrebbe mai potuto raggiungere nella vita terrena. Quando Cristo parla della risurrezione, dimostra al tempo stesso che a questa esperienza escatologica della verità e dell’amore, unita alla visione di Dio “a faccia a faccia”, parteciperà anche, a modo suo, il corpo umano. Quando Cristo dice che coloro i quali parteciperanno alla futura risurrezione “non prenderanno moglie né marito” (Mc 12,25), le sue parole – come già prima fu osservato – affermano non soltanto la fine della storia terrena, legata al matrimonio e alla procreazione, ma sembrano anche svelare il nuovo significato del corpo. E forse possibile, in questo caso, pensare – a livello di escatologia biblica – alla scoperta del significato “sponsale” del corpo, soprattutto come significato “verginale” di essere, quanto al corpo, maschio e femmina? Per rispondere a questa domanda, che emerge dalle parole riportate dai Sinottici, conviene penetrare più a fondo nell’essenza stessa di ciò che sarà la visione beatifica dell’Essere divino, visione di Dio “a faccia a faccia” nella vita futura. Occorre anche farsi guidare da quella “gamma di esperienza” della verità e dell’amore, che oltrepassa i limiti delle possibilità conoscitive e spirituali dell’uomo nella temporalità, e di cui egli diverrà partecipe nell’“altro mondo”.                      

5. Questa “esperienza escatologica” del Dio Vivente concentrerà in sé non soltanto tutte le energie spirituali dell’uomo, ma, allo stesso tempo, svelerà a lui, in modo vivo e sperimentale, il “comunicarsi” di Dio a tutto il creato e, in particolare, all’uomo; il che è il più personale “donarsi” di Dio, nella sua stessa divinità, all’uomo: a quell’essere, che dal principio porta in sé l’immagine e somiglianza di lui. Così, dunque, nell’“altro mondo” l’oggetto della “visione” sarà quel mistero nascosto dall’eternità nel Padre, mistero che nel tempo è stato rivelato in Cristo, per compiersi incessantemente per opera dello Spirito Santo; quel mistero diverrà, se così ci si può esprimere, il contenuto dell’esperienza escatologica e la “forma” dell’intera esistenza umana nella dimensione dell’“altro mondo”. La vita eterna va intesa in senso escatologico, cioè come piena e perfetta esperienza di quella grazia (“charis”) di Dio, della quale l’uomo diviene partecipe mediante la fede durante la vita terrena, e che invece dovrà non soltanto rivelarsi a coloro i quali parteciperanno dell’“altro mondo” in tutta la sua penetrante profondità, ma esser anche sperimentata nella sua realtà beatificante.  Qui sospendiamo la nostra riflessione centrata sulle parole di Cristo relative alla futura risurrezione dei corpi. In questa “spiritualizzazione” e “divinizzazione”, a cui l’uomo parteciperà nella risurrezione, scopriamo – in una dimensione escatologica – le stesse caratteristiche che qualificavano il significato “sponsale” del corpo; le scopriamo nell’incontro col mistero del Dio vivente, che si svela mediante la visione di lui “a faccia a faccia”.  

LETTERA ENCICLICA DIVES IN MISERICORDIA DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II SULLA MISERICORDIA DIVINA – (METTO SOLO IL PRIMO CAPITOLO)

http://www.maranatha.it/Testi/GiovPaoloII/Testi6Page.htm

LETTERA ENCICLICA DIVES IN MISERICORDIA DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II SULLA MISERICORDIA DIVINA – (METTO SOLO IL PRIMO CAPITOLO)

Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,

salute e Apostolica Benedizione! 

CAPITOLO I CHI VEDE ME, VEDE IL PADRE (cfr Gv 14,9)

1. Rivelazione della misericordia «Dio ricco di misericordia» (Ef2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l’ha manifestato e fatto conoscere. (Gv1,18) (Eb1,1) Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci basta»; e Gesù così gli rispose: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto…? Chi ha visto me, ha visto il Padre». (Gv14,8) Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al termine della cena pasquale, a cui seguirono gli eventi di quei santi giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il fatto che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo». (Ef2,4) Seguendo la dottrina del Concilio Vaticano II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho dedicato l’enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all’uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un’esigenza di non minore importanza, in questi tempi critici e non facili, mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre, che è «misericordioso e Dio di ogni consolazione». Si legge infatti nella costituzione Gaudium et spes: «Cristo, che è il nuovo Adamo… svela… pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: egli lo fa «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore». Le parole citate attestano chiaramente che la manifestazione dell’uomo, nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento–non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale a Dio. L’uomo e la sua vocazione suprema si svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del suo amore. È per questo che conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell’uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce ed attese. Se è vero che ogni uomo, in un certo senso, è la via della Chiesa, come ho affermato nell’enciclica Redemptor hominis, al tempo stesso il Vangelo e tutta la tradizione ci indicano costantemente che dobbiamo percorrere questa via con ogni uomo cosi come Cristo l’ha tracciata, rivelando in se stesso il Padre e il suo amore. In Gesù Cristo ogni cammino verso l’uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel mutevole contesto dei tempi, è simultaneamente un andare incontro al Padre e al suo amore. Il Concilio Vaticano II ha confermato questa verità a misura dei nostri tempi. Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per cosi dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio. Se dunque nella fase attuale della storia della Chiesa, ci proponiamo come compito preminente di attuare la dottrina del grande Concilio, dobbiamo appunto richiamarci a questo principio con fede, con mente aperta e col cuore. Già nella citata mia enciclica ho cercato di rilevare che l’approfondimento e il multiforme arricchimento della coscienza della Chiesa, frutto del medesimo Concilio, deve aprire più ampiamente il nostro intelletto ed il nostro cuore a Cristo stesso. Oggi desidero dire che l’apertura verso Cristo, che come Redentore del mondo rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso, non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo riferimento al Padre ed al suo amore.

2. Incarnazione della misericordia Dio, che «abita una luce inaccessibile», parla nello stesso tempo all’uomo col linguaggio di tutto il cosmo: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità». Questa indiretta e imperfetta conoscenza, opera dell’intelletto che cerca Dio per mezzo delle creature attraverso il mondo visibile, non è ancora «visione del Padre». «Dio nessuno l’ha mai visto», scrive san Giovanni per dar maggior rilievo alla verità secondo cui «proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato». Questa «rivelazione» manifesta Dio nell’insondabile mistero del suo essere –uno e trino– circondato di «luce inaccessibile». Mediante questa «rivelazione» di Cristo, tuttavia, conosciamo Dio innanzitutto nel suo rapporto di amore verso l’uomo: nella sua «filantropia». È proprio qui che «le sue perfezioni invisibili» diventano in modo particolare «visibili», incomparabilmente più visibili che attraverso tutte le altre «opere da lui compiute»: esse diventano visibili in Cristo e per mezzo di Cristo, per il tramite delle sue azioni e parole e, infine, mediante la sua morte in croce e la sua risurrezione. In tal modo, in Cristo e mediante Cristo, diventa anche particolarmente visibile Dio nella sua misericordia, cioè si mette in risalto quell’attributo della divinità che già l’Antico Testamento, valendosi di diversi concetti e termini, ha definito «misericordia». Cristo conferisce a tutta la tradizione veterotestamentaria della misericordia divina un significato definitivo. Non soltanto parla di essa e la spiega con l’uso di similitudini e di parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifca. Egli stesso è, in un certo senso, la misericordia. Per chi la vede in lui –e in lui la trova– Dio diventa particolarmente «visibile» quale Padre «ricco di misericordia». La mentalità contemporanea, forse più di quella dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo, il quale, grazie all’enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella storia, è diventato padrone ed ha soggiogato e dominato la terra. Tale dominio sulla terra, inteso talvolta unilateralmente e superfìcialmente, sembra che non lasci spazio alla misericordia. A questo proposito possiamo, tuttavia, rifarci con profitto all’immagine «della condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo» qual è delineata all’inizio della Costituzione Gaudium et spes. Vi leggiamo, tra l’altro, le seguenti frasi: «Stando cosi le cose, il mondo si presenta oggi potente e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell’odio. Inoltre, l’uomo si rende conto che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli». La situazione del mondo contemporaneo manifesta non soltanto trasformazioni tali da far sperare in un futuro migliore dell’uomo sulla terra, ma rivela pure molteplici minacce che oltrepassano di molto quelle finora conosciute. Senza cessare di denunciare tali minacce in diverse circostanze (come negli interventi all’ONU, all’UNESCO, alla FAO ed altrove), la Chiesa deve esaminarle, al tempo stesso, alla luce della verità ricevuta da Dio. Rivelata in Cristo, la verità intorno a Dio «Padre delle misericordie» ci consente di «vederlo» particolarmente vicino all’uomo, soprattutto quando questi soffre, quando viene minacciato nel nucleo stesso della sua esistenza e della sua dignità. Ed è per questo che, nell’odierna situazione della Chiesa e del mondo, molti uomini e molti ambienti guidati da un vivo senso di fede si rivolgono, direi, quasi spontaneamente alla misericordia di Dio. Essi sono spinti certamente a farlo da Cristo stesso, il quale mediante il suo Spirito opera nell’intimo dei cuori umani. Rivelato da lui, infatti, il mistero di Dio «Padre delle misericordie» diventa, nel contesto delle odierne minacce contro l’uomo, quasi un singolare appello che s’indirizza alla Chiesa. Nella presente enciclica desidero accogliere questo appello; desidero attingere all’eterno ed insieme, per la sua semplicità e profondità, incomparabile linguaggio della rivelazione e della fede, per esprimere proprio con esso ancora una volta dinanzi a Dio ed agli uomini le grandi preoccupazioni del nostro tempo. Infatti, la rivelazione e la fede ci insegnano non tanto a meditare in astratto il mistero di Dio come «Padre delle misericordie», ma a ricorrere a questa stessa misericordia nel nome di Cristo e in unione con lui. Cristo non ha forse detto che il nostro Padre, il quale «vede nel segreto», attende, si direbbe, continuamente che noi, richiamandoci a lui in ogni necessità, scrutiamo sempre il suo mistero: il mistero del Padre e del suo amore? Desidero quindi che queste considerazioni rendano più vicino a tutti tale mistero e diventino, nello stesso tempo, un vibrante appello della Chiesa per la misericordia di cui l’uomo e il mondo contemporaneo hanno tanto bisogno. E ne hanno bisogno anche se sovente non lo sanno.  

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