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Giovanni Paolo II: Amore sponsale e alleanza nella tradizione dei profeti (udienza 22 settembre 1982)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1982/documents/hf_jp-ii_aud_19820922_it.html

UDIENZA GENERALE

22 settembre 1982   

Amore sponsale e alleanza nella tradizione dei profeti 

1. La lettera agli Efesini, attraverso il paragone del rapporto tra Cristo e la Chiesa con il rapporto sponsale dei coniugi, fa riferimento alla tradizione dei profeti dell’Antico Testamento. Per illustrarlo, citiamo il seguente testo di Isaia: «Non temere, perché non dovrai più arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più disonorata; / anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. / Poiché tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, / il Signore ti ha richiamata. / Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un breve istante ti ho abbandonata / ma ti riprenderò con immenso amore. / In un impeto di collera / ti ho nascosto per un poco il mio volto; / ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, / dice il tuo redentore, il Signore. / Ora è per me come ai giorni di Noè, / quando giurai che non avrei più riversato / le acque di Noè sulla terra; / così ora giuro di non più adirarmi con te / e di non farti più minacce. / Anche se i monti si spostassero / e i colli vacillassero, / non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace; / dice il Signore che ti usa misericordia» (54,4-10). 2. Il testo di Isaia non contiene in questo caso i rimproveri fatti ad Israele come a sposa infedele, che echeggiano con tanta forza negli altri testi, in particolare di Osea o di Ezechiele. Grazie a ciò, diventa più trasparente il contenuto essenziale dell’analogia biblica: l’amore di Dio-Jahvè verso Israele-popolo eletto è espresso come l’amore dell’uomo-sposo verso la donna eletta per essergli moglie attraverso il patto coniugale. In tal modo Isaia spiega gli avvenimenti che compongono il corso della storia di Israele, risalendo al mistero nascosto quasi nel cuore stesso di Dio. In certo senso, egli ci conduce nella medesima direzione, in cui ci condurrà, dopo molti secoli, l’Autore della lettera agli Efesini, il quale – basandosi sulla redenzione già compiuta in Cristo – svelerà molto più pienamente la profondità dello stesso mistero. 3. Il testo del profeta ha tutto il colorito della tradizione e della mentalità degli uomini dell’Antico Testamento. Il profeta, parlando a nome di Dio e quasi con le sue parole, si rivolge ad Israele come sposo alla sposa da lui eletta. Queste parole traboccano di un autentico ardore d’amore e nello stesso tempo pongono in rilievo tutta la specificità sia della situazione sia della mentalità proprie di quell’epoca. Esse sottolineano che la scelta da parte dell’uomo toglie alla donna il «disonore», che, secondo l’opinione della società, sembrava connesso allo stato nubile sia originario (la verginità), sia secondario (la vedovanza), sia infine quello derivato dal ripudio della moglie non amata (cfr. Dt 24,1) o eventualmente della moglie infedele. Tuttavia, il testo citato non fa menzione dell’infedeltà; rileva invece il motivo di «amore misericordioso», indicando con ciò non soltanto l’indole sociale del matrimonio nell’Antica Alleanza, ma anche il carattere stesso del dono, che è l’amore di Dio verso Israele-sposa: dono, che proviene interamente dall’iniziativa di Dio. In altre parole: indicando la dimensione della grazia, che dal principio è contenuta in quell’amore. Questa è forse la più forte «dichiarazione di amore» da parte di Dio, collegata con il solenne giuramento di fedeltà per sempre. 4. L’analogia dell’amore che unisce i coniugi è in questo brano fortemente rilevata. Isaia dice: «…tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra» (54,5). Così, dunque, in quel testo lo stesso Dio, in tutta la sua maestà di Creatore e Signore della creazione, viene esplicitamente chiamato «sposo» del popolo eletto. Questo «sposo» parla del suo grande «affetto», che non si «allontanerà» da Israele-sposa, ma costituirà un fondamento stabile dell’«alleanza di pace» con lui. Così il motivo dell’amore sponsale e del matrimonio viene collegato con il motivo dell’alleanza. Inoltre il «Signore degli eserciti» chiama se stesso non soltanto «creatore», ma anche «redentore». Il testo ha un contenuto teologico di ricchezza straordinaria. 5. Confrontando il testo di Isaia con la lettera agli Efesini e costatando la continuità riguardo all’analogia dell’amore sponsale e del matrimonio, dobbiamo rilevare al tempo stesso una certa diversità di ottica teologica. L’Autore della lettera già nel primo capitolo parla del mistero dell’amore e dell’elezione, con cui «Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» abbraccia gli uomini nel suo Figlio, soprattutto come di un mistero «nascosto nella mente di Dio». Questo è il mistero dell’amore paterno, mistero dell’elezione alla santità («per essere santi e immacolati al suo cospetto»: Ef 1,4) e dell’adozione a figli in Cristo («predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo»: v. 6). In tale contesto, la deduzione dell’analogia circa il matrimonio, che abbiamo trovato in Isaia («tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome»: 54,5), sembra essere uno scorcio facente parte della prospettiva teologica. La prima dimensione dell’amore e dell’elezione, come mistero da secoli nascosto in Dio, è una dimensione paterna e non «coniugale». Secondo la lettera agli Efesini, la prima nota caratteristica di quel mistero resta connessa con la paternità stessa di Dio, messa particolarmente in rilievo dai profeti (cfr. Os 11,1-4; Is 63,8-9; 64,7; Ml 1,6). 6. L’analogia dell’amore sponsale e del matrimonio appare soltanto quando il «Creatore» e il «Santo di Israele» del testo di Isaia si manifesta come «Redentore». Isaia dice: «Tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele» (54,5). Già in questo testo è possibile, in certo senso, leggere il parallelismo tra lo «sposo» e il «Redentore». Passando alla lettera agli Efesini, dobbiamo osservare che questo pensiero vi è appunto pienamente sviluppato. La figura del Redentore si delinea già nel I capitolo come propria di colui che è il primo «Figlio diletto» del Padre (1,6), diletto dall’eternità: di colui, nel quale noi tutti siamo stati «da secoli» amati dal Padre. E’ il Figlio della stessa sostanza del Padre, «nel quale abbiamo la remissione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia» (1,7). Lo stesso Figlio, come Cristo (ossia come Messia), «ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (5,25).

Questa splendida formulazione della lettera agli Efesini riassume in sé e insieme mette in rilievo gli elementi del Canto sul Servo di Jahvè e del Canto di Sion (cfr., ex. gr., Is 42,1; 53,8-12; 54,8).

E così la donazione di se stesso per la Chiesa equivale al compimento dell’opera della redenzione. In tal modo, il «creatore, Signore degli eserciti» del testo di Isaia diviene il «Santo di Israele», del «nuovo Israele», quale Redentore. Nella lettera agli Efesini la prospettiva teologica del testo profetico è conservata ed insieme approfondita e trasformata. Vi entrano nuovi momenti rivelati: il momento trinitario, cristologico e infine escatologico. 7. Così dunque san Paolo, scrivendo la lettera al Popolo di Dio della Nuova Alleanza e precisamente alla Chiesa di Efeso, non ripeterà più: «Tuo sposo è il tuo creatore», ma mostrerà in che modo il «Redentore», che è il Figlio primogenito e da secoli «diletto del Padre», rivela contemporaneamente il suo amore salvifico, che consiste nella donazione di se stesso per la Chiesa, come amore sponsale con cui egli sposa la Chiesa e la fa proprio Corpo. Così l’analogia dei testi profetici dell’Antico Testamento (nel caso, soprattutto del libro di Isaia) rimane nella lettera agli Efesini conservata e nello stesso tempo evidentemente trasformata. All’analogia corrisponde il mistero, che attraverso essa viene espresso e in certo senso spiegato. Nel testo di Isaia questo mistero è appena delineato, quasi «socchiuso»; nella lettera agli Efesini, invece, è pienamente svelato (s’intende, senza cessare di esser mistero). Nella lettera agli Efesini è esplicitamente distinta la dimensione eterna del mistero in quanto nascosto in Dio («Padre del Signore nostro Gesù Cristo») e la dimensione della sua realizzazione storica, secondo la sua dimensione cristologica e insieme ecclesiologica. L’analogia del matrimonio si riferisce soprattutto alla seconda dimensione. Anche nei profeti (in Isaia) l’analogia del matrimonio si riferiva direttamente ad una dimensione storica: era collegata con la storia del popolo eletto dell’Antica Alleanza, con la storia di Israele; invece, la dimensione cristologica ed ecclesiologica, nell’attuazione veterotestamentaria del mistero, si trovava solo come in embrione: fu soltanto preannunziata.

Nondimeno è chiaro che il testo di Isaia ci aiuta a comprendere meglio la lettera agli Efesini e la grande analogia dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa.

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 26 mars, 2010 |Pas de commentaires »

19 Marzo San Giuseppe (solennità): Esortazione Apostolica « redemptoris Custos » Giovanni Paolo II

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_15081989_redemptoris-custos_it.html

ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTORIS CUSTOS
DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
SULLA FIGURA E LA MISSIONE DI SAN GIUSEPPE
NELLA VITA DI CRISTO E DELLA CHIESA

Ai Vescovi
ai sacerdoti e ai diaconi
ai religiosi e alle religiose
a tutti i fedeli

INTRODUZIONE

1. Chiamato ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24).

Ispirandosi al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Irenaei, «Adversus haereses», IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello.

Nel centenario della pubblicazione dell’epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182) e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham», die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale, perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e l’amore al Redentore, che egli esemplarmente servì.

In tal modo l’intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare» all’economia della salvezza (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all’identità del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d’Egitto per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr. v. g., S. Bernardi, «Super « Missus est » Hom.», II, 16: «S. Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «l. c.» 179).

Ritengo, infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l’umanità, di ritrovare continuamente la propria identità nell’ambito di tale disegno redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell’Incarnazione.

Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun’altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l’eterno Padre «ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).

I

IL QUADRO EVANGELICO

Il matrimonio con Maria

2. «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).

In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa.

L’evangelista Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l’origine della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l’Annunciazione della nascita di Gesù: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le parole dell’angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32).

L’Evangelista aveva poco prima affermato che, al momento dell’Annunciazione, Maria era «promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste «nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata» con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei sin dall’Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo.

A questo punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il contenuto dell’Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che deve partorire e porta in sé il mistero della maternità.

3. In queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all’inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: « Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati »» (Mt 1,20-21).

Esiste una stretta analogia tra l’«Annunciazione» del testo di Matteo e quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che – secondo la promessa divina – adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù – Yehossua’, che significa: Dio salva.

Il messaggero si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret, a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria.

«Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva per mezzo del suo messaggero.

II

IL DEPOSITARIO DEL MISTERO DI DIO

4. Quando Maria, poco dopo l’Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che si ricollegavano al saluto dell’angelo nell’Annunciazione, Elisabetta disse: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Queste parole sono state il pensiero-guida dell’enciclica «Redemptoris Mater», con la quale ho inteso approfondire l’insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma: «La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium», 58), «andando innanzi» (cfr. «Lumen Gentium», 63) a tutti coloro che mediante la fede seguono Cristo.

Ora, all’inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all’«annuncio» dell’angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).

Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell’Annunciazione. Il Concilio insegna: «A Dio che rivela è dovuta « l’obbedienza della fede », per la quale l’uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il « pieno ossequio dell’intelletto e della volontà » e assentendo volontariamente alla rivelazione da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca l’essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret.

5. Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio» (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo che dall’Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l’adozione a figli» (cfr. Gal 4,4-5). «Piacque a Dio – insegna il Concilio – nella sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2).

Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria – ed anche in relazione a Maria – egli partecipa a questa fase culminante dell’autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria – soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste – andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium», 63).

6. La via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima, cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella – ritornato Cristo al Padre – si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità. Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il primo depositario. L’Incarnazione e la Redenzione costituiscono un’unità organica ed indissolubile, in cui l’«economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe, stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione, fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei Sommi Pontefici e dei martiri (cfr. S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus, die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]).

Il servizio della paternità

7. Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. E’ per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe – una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione (cfr. Rm 8,28s) – passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia.

Gli evangelisti, pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità (cfr. Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (cfr. Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5).

Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe. «Perché – si chiede santo Agostino – non lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (…) La Scrittura afferma, per mezzo dell’autorità angelica, che egli era il marito. Non temere, dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino, benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l’origine della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l’autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine, anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall’unione coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51», 10, 16: PL 38, 342).

Il Figlio di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL 34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà, il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la fedeltà, perché non c’è nessun adulterio; il sacramento, perché non c’è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia», I, 11, 13: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL 44, 810).

Analizzando la natura del matrimonio, sia sant’Agostino che san Tommaso la collocano costantemente nell’«indivisibile unione degli animi», nell’«unione dei cuori», nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8: PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34, 1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l’umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà» il «dono sponsale di sé» nell’accogliere ed esprimere un tale amore (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431). «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all’inizio dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita» (Pauli VI, «Allocutio ad Motum « Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta», XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 313-317).

Quanti insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l’essenza ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall’amore» e «la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio», 17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica» («Familiaris Consortio», 49; cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l’esempio di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85).

8. San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente «ministro della salvezza» (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110).

La liturgia, ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum», Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178).

Poiché non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell’amore naturale, tutta quell’affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere» (Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958] 174).

Con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l’amore corrispondente, quell’amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15).

Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l’umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella «condiscendenza» inerente all’economia dell’Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito. La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero…» e il riferimento dell’avvenimento descritto a un testo dell’antico testamento tendono a sottolineare l’unità e la continuità del progetto, che raggiunge in Cristo il suo compimento.

Con l’Incarnazione le «promesse» e le «figure» dell’antico testamento divengono «realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l’umile serva del Signore, preparata dall’eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere «l’ordinatore della nascita del Signore» (Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l’incarico di provvedere all’inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta «privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla sua custodia.

Il censimento

9. Recandosi a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità, Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (cfr. Gv 1,45) nell’anagrafe dell’impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese l’appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo fatto storico, tutt’altro che marginale: «Poiché il primo censimento di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato, tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui, fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l’impero nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87, 194 et 196).

La nascita a Betlemme

10. Quale depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo», Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7).

Giuseppe fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti, primo annuncio di quella «spoliazione» (cfr. Fil 2,5-8), a cui Cristo liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu testimone dell’adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù dopo che l’angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (cfr. Lc 2,15-16); più tardi fu anche testimone dell’omaggio dei magi, venuti dall’Oriente (cfr. Mt 2,11).

La circoncisione

11. Essendo la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo rito (cfr. Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù.

Il principio secondo il quale i riti dell’antico testamento sono l’ombra della realtà (cfr. Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti, anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento». L’alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (cfr. Gen 17,13), raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (cfr. 2Cor 1,20).

L’imposizione del nome

12. In occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù. Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (cfr. At 4,12); ed a Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»: «E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui missione di salvatore.

La presentazione di Gesù al tempio

13. Questo rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio.

Il riscatto dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe. Nel primogenito era rappresentato il popolo dell’alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero «prezzo» del riscatto (cfr. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie» il rito dell’antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli un soggetto da riscattare, ma l’autore stesso del riscatto.

L’Evangelista rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone, indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione» (cfr. Lc 2,30-34).

La fuga in Egitto

14. Dopo la presentazione al tempio l’evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).

Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: « Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo »» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall’Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l’avvertimento, «prese con sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: « Dall’Egitto ho chiamato mio figlio »» (Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).

In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l’Egitto. Come Israele aveva preso la via dell’esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l’antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza.

La permanenza di Gesù al tempio

15. Dal momento dell’Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo senso nell’intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l’ambito della sua dimora fu la santa Famiglia di Nazaret – una delle tante famiglie di questa cittadina della Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta», durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni.

Gesù partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe. Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero» (Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49-50).

Udì questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre». Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,… non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio».

Il sostentamento e l’educazione di Gesù a Nazaret

16. La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc 2,52) avvenne nell’ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l’alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre.

Nel sacrifico eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282).

Da parte sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe.

III

L’UOMO GIUSTO – LO SPOSO

17. Nel corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria, rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell’Annunciazione, mentre Giuseppe – come è già stato detto – al momento della sua «annunciazione» non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne l’inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19).

Bisogna saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle più importanti testimonianze circa l’uomo e la sua vocazione. Nel corso delle generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

18. L’uomo «giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L’Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo… chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l’immagine dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell’intimo il desiderio di far dono totale di sè esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell’Annunciazione Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat».

Il fatto di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il Figlio dell’Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell’uomo».

Rivolgendosi a Giuseppe con le parole dell’angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò che era avvenuto prima – le sue nozze con Maria – era avvenuto per volontà di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (cfr. Lc 1,27).

19. Nelle parole dell’«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l’ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione. Quest’uomo «giusto» che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore.

«Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»: da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l’amore di Dio, che è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5), forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche – ed in modo del tutto singolare – l’amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell’esclusivo abbandono, dell’alleanza delle persone e dell’autentica comunione sull’esempio del mistero trinitario.

«Giuseppe… prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un’altra vicinanza sponsale. La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell’unione e del contatto tra le persone – dell’uomo e della donna – provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbidiente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la fonte dell’amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore più grande di quello che «l’uomo giusto» poteva attendersi a misura del proprio cuore umano.

20. Nella liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta, infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’alleanza di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è comunione di amore tra Dio e gli uomini.

Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l’esclusiva appartenenza a Dio.

D’altra parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù. «E’ certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta» IX [190] 177s).

21. Un tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima nella povertà di Betlemme, poi nell’esilio in Egitto e, successivamente, nella dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell’Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme – così come nella Incarnazione – a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio – vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l’autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E’ contenuta in ciò una conseguenza dell’unione ipostatica: umanità assunta nell’unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe.

In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io… ti cercavamo». Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell’Incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall’inizio accettò mediante «l’obbedienza della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all’uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità.

IV

IL LAVORO ESPRESSIONE DELL’AMORE

22. Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l’intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l’Evangelista dopo l’episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l’obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell’ordine della salvezza e della santità è l’esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione.

23. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell’uomo» che «trasforma la natura» e rende l’uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9).

L’importanza del lavoro nella vita dell’uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt; cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane» die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11 mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS 47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960: AAS 52 [1960] 398).

24. Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono « grandi cose », ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

V

IL PRIMATO DELLA VITA INTERIORE

25. Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E’ un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale.

26. Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l’esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2).

27. La comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero dell’Incarnazione proprio sotto l’aspetto dell’umanità di Cristo, strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1).

Tra queste azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non omettono di sottolineare l’importanza del contatto fisico con Gesù in ordine alle guarigioni (cfr., ex. gr., Mc 1,41) e l’influsso da lui esercitato su Giovanni il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno (cfr. Lc 1,41-44).

La testimonianza apostolica non ha trascurato – come si è visto – la narrazione della nascita di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (cfr. Pii XII, «Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s).

Poiché l’amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull’amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l’amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull’amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell’amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore.

Inoltre, l’apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo la nota distinzione tra l’amore della verità («caritas veritatis») e l’esigenza dell’amore («necessitas caritatis») (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato sia l’amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall’umanità di Cristo, sia l’esigenza dell’amore, cioè l’amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità.

VI

PATRONO DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO

28. In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell’eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s).

Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall’essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù… Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia… E’ dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).

29. Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove – come ho scritto nell’esortazione apostolica « Christifideles Laici » – la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall’alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall’intercessione e dall’esempio dei suoi santi.

30. Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell’insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.

Come è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l’attegiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell’assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all’inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il modello dell’obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio.

Paolo VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Gv 15,5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

31. La Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all’opera di salvezza, di donarle la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo incarnato e di camminare sull’esempio e per l’intercessione del santo, davanti a Dio nelle vie della santità e della giustizia (cfr. «Missale Romanum», Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B. M. V.»; Post communio «in Missa votiva S. Ioseph»).

Già cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L’epistola enciclica «Quamquam Pluries» si richiamava a quell’«amore paterno» che Giuseppe «portava al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia», raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue». Da allora la Chiesa – come ho ricordato all’inizio – implora la protezione di san Giuseppe – «per quel sacro vincolo di carità che lo strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.

Ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi, o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi…, assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre…; e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» (cfr. «Oratio ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam Pluries »» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890] 183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni uomo.

32. Auspico vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di innalzare a lui. E’ certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo millennio cristiano.

Il Concilio Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio», a quell’«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro. Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta», pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l’«economia della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all’apostolato.

L’uomo giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell’antica alleanza, è stato anche introdotto nell’«inizio» della nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi la «pienezza del tempo» ch’è propria del mistero ineffabile della Incarnazione del Verbo.

Che san Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 agosto – solennità dell’Assunzione della beata Vergine Maria – dell’anno 1989, undecimo di pontificato.

GIOVANNI PAOLO II

Giovanni Paolo II, L’uomo, immagine di Dio, è un essere spirituale e corporeo, 16 aprile 1986

dal sito:

http://www.disf.org/Documentazione/05-1-860416-CatMer_ita.asp

Giovanni Paolo II, L’uomo, immagine di Dio, è un essere spirituale e corporeo, 16 aprile 1986

1. Spirito e corpo, persona. 2. La dimensione dello spirito. 3. Unità che contiene una dualità. 4. Anche nella Bibbia. 5. L’anima, “forma” del corpo. 6. Anche il corpo partecipa alla dignità della persona. 7. L’ipotesi dell’evoluzionismo e l’anima creata direttamente da Dio. 8. L’uomo trascende l’universo.

1. L’uomo creato a immagine di Dio è un essere insieme corporale e spirituale, un essere cioè che, per un aspetto, è legato al mondo esteriore e per l’altro lo trascende. In quanto spirito, oltre che corpo, egli è persona. Questa verità sull’uomo è oggetto della nostra fede, così come lo è la verità biblica circa la sua costituzione a «immagine e somiglianza» di Dio; ed è verità costantemente presentata, nel corso dei secoli, dal magistero della Chiesa.

La verità circa l’uomo non cessa di essere nella storia oggetto di analisi intellettuale, nell’ambito sia della filosofia che di numerose altre scienze umane: in una parola, oggetto dell’antropologia.

2. Che l’uomo sia spirito incarnato, se si vuole, corpo informato da uno spirito immortale, lo si ricava già in qualche modo dalla descrizione della creazione contenuta nel libro della Genesi e in particolare dal racconto «jahvista», che fa uso, per così dire, di una «messa in scena» e di immagini antropomorfiche. Leggiamo che «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). Il seguito del testo biblico ci permette di comprendere chiaramente che l’uomo, creato in questo modo, si distingue dall’intero mondo visibile, e in particolare dal mondo degli animali. L’«alito di vita» ha reso l’uomo capace di conoscere questi esseri, di imporre loro il nome e riconoscersi diverso da loro (cf. Gen 2,18-20). Benché nella descrizione «jahvista» non si parli dell’«anima», tuttavia è facile dedurne che la vita donata all’uomo nell’atto della creazione è di natura tale da trascendere la semplice dimensione corporale (quella propria degli animali). Essa attinge, al di là della materialità, la dimensione dello spirito, nella quale sta il fondamento essenziale di quell’«immagine di Dio», che Genesi 1,27 vede nell’uomo.

3. L’uomo è una unità: è qualcuno che è uno con se stesso. Ma in questa unità è contenuta una dualità. La Sacra Scrittura presenta sia l’unità (la persona) che la dualità (l’anima e il corpo). Si pensi al libro del Siracide che dice ad esempio: «Il Signore creò l’uomo dalla terra e ad essa lo fa ritornare di nuovo» e più oltre: «Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro (agli uomini) perché ragionassero. Li riempì di dottrina e d’intelligenza e indicò loro anche il bene e il male» (17,1.5-6).

Particolarmente significativo è, da questo punto di vista, il Salmo 8 (vv. 5-7) che esalta il capolavoro umano, rivolgendosi a Dio con le seguenti parole: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani. Tutto hai posto sotto i suoi piedi».

4. Si sottolinea spesso che la tradizione biblica mette in rilievo soprattutto l’unità personale dell’uomo, servendosi del termine «corpo» per designare l’uomo intero [1] . L’osservazione è esatta. Ma ciò non toglie che nella tradizione biblica sia pure presente, a volte in modo molto chiaro, la dualità dell’uomo. Questa tradizione si riflette nelle parole di Cristo: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna» (Mt 10,28).

5. Le fonti bibliche autorizzano a vedere l’uomo come unità personale e insieme come dualità di anima e di corpo: concetto che ha trovato espressione nell’intera Tradizione e nell’insegnamento della Chiesa. Questo insegnamento ha recepito non soltanto le fonti bibliche, ma anche le interpretazioni teologiche che di esse sono state date sviluppando le analisi condotte da certe scuole (Aristotele) della filosofia greca.

E stato un lento lavorio di riflessione, culminato principalmente sotto l’influsso di san Tommaso d’Aquino – nei pronunciamenti del Concilio di Vienne (1312), dove l’anima è chiamata «forma» del corpo: «forma corporis humani per se et essentialiter» [2] . La «forma», come fattore che determina la sostanza dell’essere «uomo», è di natura spirituale. E tale «forma» spirituale, l’anima, è immortale. E quanto in seguito, ha ricordato autorevolmente il Concilio Lateranense V (1513): l’anima è immortale, diversamente dal corpo che è sottomesso alla morte (cf. Ivi, 1440). La scuola tomista sottolinea contemporaneamente che, in virtù dell’unione sostanziale del corpo e dell’anima, quest’ultima, anche dopo la morte, non cessa di «aspirare» a unirsi al corpo. Il che trova conferma nella verità rivelata circa la risurrezione del corpo.

6. Benché la terminologia filosofica, utilizzata per esprimere unità e la complessità (dualità) dell’uomo, sia talvolta oggetto di critica, è fuor di dubbio che la dottrina sull’unità della persona umana e insieme sulla dualità spirituale-corporale dell’uomo è pienamente radicata nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. E nonostante si esprima spesso la convinzione che l’uomo è «immagine di Dio» grazie all’anima, non è assente, nella dottrina tradizionale, la persuasione che anche il corpo partecipi, a suo modo, alla dignità dell’«immagine di Dio», così come partecipa alla dignità della persona.

7. Nei tempi moderni una difficoltà particolare contro la dottrina rivelata circa la creazione dell’uomo, quale essere composto di anima e corpo, è stata sollevata dalla teoria dell’evoluzione. Molti cultori delle scienze naturali che, con metodi loro propri, studiano il problema dell’inizio della vita umana sulla terra, sostengono – contro altri loro colleghi – l’esistenza non soltanto di un legame dell’uomo con l’insieme della natura, ma anche la derivazione delle specie animali superiori. Questo problema, che sin dal secolo scorso, ha occupato gli scienziati, coinvolge vasti strati dell’opinione pubblica. La risposta del magistero è stata offerta dall’enciclica «Humani generis» di Pio XII nell’anno 1950. In essa leggiamo: «Il magistero della Chiesa non ha nulla in contrario a che la dottrina dell’«evoluzionismo», in quanto esso indaga circa l’origine del corpo umano derivante da una Materia preesistente e viva – la fede cattolica infatti ci obbliga a tenere fermo che le anime sono state create immediatamente da Dio – sia oggetto di investigazione e discussione da parte degli esperti…» [3] .

Si può dunque dire che, dal punto di vista della dottrina della fede, non si vedono difficoltà nello spiegare l’origine dell’uomo, in quanto corpo, mediante l’ipotesi dell’evoluzionismo. Bisogna tuttavia aggiungere che l’ipotesi propone soltanto una probabilità, non una certezza scientifica. La dottrina della fede invece afferma invariabilmente che l’anima spirituale dell’uomo è creata direttamente da Dio. E cioè possibile secondo l’ipotesi accennata, che il corpo umano, seguendo l’ordine impresso dal Creatore nelle energie della vita, sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri viventi antecedenti. L’anima umana, però, da cui dipende in definitiva l’umanità dell’uomo, essendo spirituale, non può essere emersa dalla materia.

8. Una bella sintesi della creazione sopra esposta si trova nel Concilio Vaticano II: «Unità di anima e di corpo – vi si dice – l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice». E più avanti: «L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura… Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo» (GS 14). Ecco, dunque, come la stessa verità circa l’unità e la dualità (la complessità) della natura umana può essere espressa con un linguaggio più vicino alla mentalità contemporanea.

_________________________________

[1] cf. Sal 145,21; Gv 3,1; Is 66,23; Gv 1,14.

[2] Denzinger-Schönmetzer, 902.

[3] Denzinger-Schönmetzer, 38

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 9 mars, 2010 |Pas de commentaires »

IMMACOLATA CONCEZIONE, 8 DICEMBRE 1981 – PREGHIERA DI GIOVANNI PAOLO II NELLA BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1981/december/documents/hf_jp-ii_spe_19811208_preghiera-basilica-liberiana_it.html

SOLENNITÀ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE

PREGHIERA DI GIOVANNI PAOLO II
NELLA BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE

Roma, 8 dicembre 1981  

O Tu, che più di ogni altro essere umano sei stata affidata allo Spirito Santo, aiuta la Chiesa del tuo Figlio a perseverare nello stesso affidamento, perché possa riversare su tutti gli uomini gli ineffabili beni della Redenzione e della santificazione, per la liberazione dell’intera creazione (cf. Rm 8,21).

O Tu, che sei stata con la Chiesa agli inizi della sua missione, intercedi per essa affinché, andando in tutto il mondo, ammaestri continuamente tutte le Nazioni ed annunzi il Vangelo ad ogni creatura. La parola della Verità Divina e lo Spirito dell’Amore trovino accesso nei cuori degli uomini, i quali senza questa Verità e senza questo Amore non possono davvero vivere la pienezza della vita.

O Tu, che nel modo più pieno hai conosciuto la forza dello Spirito Santo, quando ti è stato concesso di concepire nel tuo seno verginale e di dare alla luce il Verbo Eterno, ottieni alla Chiesa che possa continuamente far rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo i figli e le figlie di tutta la famiglia umana, senza alcuna distinzione di lingua, di razza, di cultura, dando loro in tal modo il “potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

O Tu, che sei così profondamente e maternamente legata alla Chiesa, precedendo sulle vie della fede, della speranza e della carità tutto il Popolo di Dio, abbraccia tutti gli uomini che sono in cammino, pellegrini attraverso la vita temporale verso gli eterni destini, con quell’amore che lo stesso Redentore divino, tuo Figlio, ha riversato nel tuo cuore dall’alto della croce. Sii la Madre di tutte le nostre vie terrene, perfino quando esse diventano tortuose, affinché tutti ci troviamo, alla fine, in quella grande Comunità che il tuo Figlio ha chiamato Ovile, offrendo per essa la sua vita come Buon Pastore.

O Tu, che sei la prima Serva dell’unità del Corpo di Cristo, aiutaci, aiuta tutti i fedeli, che risentono così dolorosamente il dramma delle divisioni del cristianesimo, a ricercare con costanza la via dell’unità perfetta del Corpo di Cristo, mediante la fedeltà incondizionata allo Spirito di Verità e di Amore, che è stato a loro dato a prezzo della Croce e della Morte del tuo Figlio.

O Tu, che sempre hai desiderato di servire! Tu che servi come Madre tutta la famiglia dei figli di Dio, ottieni alla Chiesa che, arricchita dallo Spirito Santo con la pienezza dei doni gerarchici e carismatici, prosegua con costanza verso il futuro per la via di quel rinnovamento che proviene da ciò che dice lo Spirito Santo e che ha trovato espressione nell’insegnamento del Vaticano II, assumendo in tale opera di rinnovamento tutto ciò che è vero e buono, senza lasciarsi ingannare né in una direzione né nell’altra, ma discernendo assiduamente tra i segni dei tempi ciò che serve all’avvento del Regno di Dio.

O Madre degli uomini e dei popoli, Tu conosci tutte le loro sofferenze e le loro speranze Tu senti maternamente tutte le lotte tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre che scuotono il mondo: accogli il nostro grido rivolto nello Spirito Santo direttamente al tuo cuore ed abbraccia con l’amore della Madre e della Serva del Signore i popoli che questo abbraccio più aspettano, e insieme i popoli il cui affidamento tu pure attendi in modo particolare. Prendi sotto la tua protezione materna l’intera famiglia umana che, con affettuoso trasporto, a te, o Madre, noi affidiamo.

S’avvicini per tutti il tempo della pace e della libertà, il tempo della verità, della giustizia e della speranza.

O Tu, che mediante il mistero della tua particolare santità, libera da ogni macchia sin dal momento del tuo concepimento, risenti in modo particolarmente profondo che “tutta la creazione geme e soffre… nelle doglie del parto” (Rm 8,22), mentre, “sottomessa alla caducità”, “nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione” (Rm 8,20-21), contribuisci, senza sosta, alla “rivelazione dei figli di Dio”, che “la creazione stessa attende con impazienza” (Rm 8,19), per entrare nella libertà della loro gioia (cf. Rm 8,21).

O Madre di Gesù, glorificata ormai in Cielo nel corpo e nell’anima, quale immagine e inizio della Chiesa, che dovrà avere il suo compimento nell’età futura qui sulla terra, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cf. 2Pt 3,10) non cessare di brillare innanzi al popolo pellegrinante di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione (cf. Lumen Gentium, 68).

Spirito Santo Dio, che con il Padre e il Figlio sei adorato e glorificato! Accetta queste parole di umile affidamento indirizzate a te nel cuore di Maria di Nazaret, tua Sposa e Madre del Redentore, che anche la Chiesa chiama sua Madre, perché sin dal cenacolo della Pentecoste da Lei apprende la propria vocazione materna! Accetta queste parole della Chiesa pellegrinante, pronunciate tra le fatiche e le gioie, tra le paure e le speranze, parole che sono espressione di affidamento umile e fiducioso, parole con cui la Chiesa affidata a te, Spirito del Padre e del Figlio, nel cenacolo della Pentecoste per sempre, non cessa di ripetere insieme con te al suo Sposo divino: Vieni!

“Lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù “Vieni”” (cf. Ap 22,17). “Così la Chiesa universale si presenta come un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Lumen Gentium, 4).

Così noi oggi ripetiamo: “Vieni”, confidando nella tua materna intercessione, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.  

Publié dans:Maria Vergine, Papa Giovanni Paolo II |on 24 février, 2010 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II, udienza del 24 ottobre 2001: Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20011024_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 24 ottobre 2001

« Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -
Lodi Venerdì 1a Settimana (Lettura: Sal 50,3-5.11-12.19)

1. Abbiamo ascoltato il Miserere, una delle preghiere più celebri del Salterio, il più intenso e ripetuto Salmo penitenziale, il canto del peccato e del perdono, la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia. La Liturgia delle Ore ce lo fa ripetere alle Lodi di ogni venerdì. Da secoli e secoli sale al cielo da tanti cuori di fedeli ebrei e cristiani come un sospiro di pentimento e di speranza rivolto a Dio misericordioso.

La tradizione giudaica ha posto il Salmo sulle labbra di Davide sollecitato alla penitenza dalle parole severe del profeta Natan (cfr vv. 1-2; 2Sam 11-12), che gli rimproverava l’adulterio compiuto con Betsabea e l’uccisione del marito di lei Uria. Il Salmo, tuttavia, si arricchisce nei secoli successivi, con la preghiera di tanti altri peccatori, che recuperano i temi del « cuore nuovo » e dello « Spirito » di Dio infuso nell’uomo redento, secondo l’insegnamento dei profeti Geremia ed Ezechiele (cfr v. 12; Ger 31,31-34; Ez 11,19; 36, 24-28).

2. Due sono gli orizzonti che il Salmo 50 delinea. C’è innanzitutto la regione tenebrosa del peccato (cfr vv. 3-11), in cui è situato l’uomo fin dall’inizio della sua esistenza: « Ecco, nella colpa sono stato generato, peccatore mi ha concepito mia madre » (v. 7). Anche se questa dichiarazione non può essere assunta come una formulazione esplicita della dottrina del peccato originale quale è stata delineata dalla teologia cristiana, è indubbio che essa vi corrisponde: esprime infatti la dimensione profonda dell’innata debolezza morale dell’uomo. Il Salmo appare in questa prima parte come un’analisi del peccato, condotta davanti a Dio. Tre sono i termini ebraici usati per definire questa triste realtà, che proviene dalla libertà umana male impiegata.

3. Il primo vocabolo, hattá, significa letteralmente un « mancare il bersaglio »: il peccato è un’aberrazione che ci conduce lontano da Dio, meta fondamentale delle nostre relazioni, e per conseguenza anche dal prossimo.

Il secondo termine ebraico è ‘awôn, che rinvia all’immagine del « torcere », del « curvare ». Il peccato è, quindi, una deviazione tortuosa dalla retta via; è l’inversione, la distorsione, la deformazione del bene e del male, nel senso dichiarato da Isaia: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is 5,20). Proprio per questo motivo nella Bibbia la conversione è indicata come un « ritornare » (in ebraico shûb) sulla retta via, compiendo una correzione di rotta.

La terza parola con cui il Salmista parla del peccato è peshá. Essa esprime la ribellione del suddito nei confronti del sovrano, e quindi un’aperta sfida rivolta a Dio e al suo progetto per la storia umana.

4. Se l’uomo, però, confessa il suo peccato, la giustizia salvifica di Dio è pronta a purificarlo radicalmente. È così che si passa nella seconda regione spirituale del Salmo, quella luminosa della grazia (cfr vv. 12-19). Attraverso la confessione delle colpe si apre, infatti, per l’orante un orizzonte di luce in cui Dio è all’opera. Il Signore non agisce solo negativamente, eliminando il peccato, ma ricrea l’umanità peccatrice attraverso il suo Spirito vivificante: infonde nell’uomo un « cuore » nuovo e puro, cioè una coscienza rinnovata, e gli apre la possibilità di una fede limpida e di un culto gradito a Dio.

Origene parla a tal proposito di una terapia divina, che il Signore compie attraverso la sua parola e mediante l’opera guaritrice di Cristo: « Come per il corpo Dio predispose i rimedi dalle erbe terapeutiche sapientemente mescolate, così anche per l’anima preparò medicine con le parole che infuse, spargendole nelle divine Scritture… Dio diede anche un’altra attività medica di cui è archiatra il Salvatore il quale dice di sé: ‘Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati’. Lui era il medico per eccellenza capace di curare ogni debolezza, ogni infermità » (Omelie sui Salmi, Firenze 1991, pp. 247-249).

5. La ricchezza del Salmo 50 meriterebbe un’esegesi accurata di ogni sua parte. È ciò che faremo quando tornerà a risuonare nei vari venerdì delle Lodi. Lo sguardo d’insieme, che ora abbiamo rivolto a questa grande supplica biblica, ci rivela già alcune componenti fondamentali di una spiritualità che deve riverberarsi nell’esistenza quotidiana dei fedeli. C’è innanzitutto un senso vivissimo del peccato, percepito come una scelta libera, connotata negativamente a livello morale e teologale: « Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto » (v. 6).

C’è poi nel Salmo un senso altrettanto vivo della possibilità di conversione: il peccatore, sinceramente pentito, (cfr v. 5), si presenta in tutta la sua miseria e nudità a Dio, supplicandolo di non respingerlo dalla sua presenza (cfr v. 13).

C’è, infine, nel Miserere, una radicata convinzione del perdono divino che « cancella, lava, monda » il peccatore (cfr vv. 3-4) e giunge perfino a trasformarlo in una nuova creatura che ha spirito, lingua, labbra, cuore trasfigurati (cfr vv. 14-19). « Anche se i nostri peccati – affermava santa Faustina Kowalska – fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio… Ogni cosa ha inizio nella tua misericordia e nella tua misericordia finisce » (M. Winowska, L’icona dell’Amore misericordioso. Il messaggio di suor Faustina, Roma 1981, p. 271).

Giovanni Paolo II: 1. “Santo, santo, santo il Signore / Dio dell’universo. / I cieli e la terra sono pieni della tua gloria” (“Liturgia della Messa”). (11.12.1985)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1985/documents/hf_jp-ii_aud_19851211_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 11 dicembre 1985

1. “Santo, santo, santo il Signore / Dio dell’universo. / I cieli e la terra sono pieni della tua gloria” (“Liturgia della Messa”).

Ogni giorno la Chiesa confessa la santità di Dio. Lo fa specialmente nella liturgia della Messa, dopo il prefazio, quando inizia la preghiera eucaristica. Ripetendo tre volte la parola “santo”, il Popolo di Dio indirizza la propria lode al Dio Uno e Trino, di cui confessa la suprema trascendenza e inarrivabile perfezione.

Le parole della liturgia eucaristica provengono dal Libro di Isaia, dove è descritta la teofania, nella quale il profeta è ammesso a contemplare, per annunziarla al popolo, la maestà della gloria di Dio:

“. . . vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato . . . Attorno a lui stavano dei serafini . . . Proclamavano l’uno all’altro: Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6, 1-3).

La santità di Dio connota anche la sua gloria (“kabod Jahvè”) la quale inabita l’intimo mistero della sua divinità e, al tempo stesso, si irradia su tutta la creazione.

2. L’Apocalisse l’ultimo libro del Nuovo Testamento, che riprende molti elementi dell’Antico, ripropone anche il “Trisagio” di Isaia, completato con gli elementi di un’altra teofania, attinti dal profeta Ezechiele (Ez 1, 26). In tale contesto dunque sentiamo nuovamente proclamare:

“Santo, santo, santo il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e che viene” (Ap 4, 8).

3. Nell’Antico Testamento all’espressione “santo” corrisponde la parola ebraica “qados”, nella cui etimologia è contenuta da un lato l’idea di “separazione”, e dall’altro l’idea di luce: “essere acceso, essere luminoso”. Perciò le teofanie dell’Antico Testamento contengono in sé l’elemento del fuoco, come la teofania di Mosè (Es 3, 2), e quella del Sinai (Dt 4, 12), e anche del bagliore, come la visione di Ezechiele (Ez 1, 27-28), la citata visione di Isaia (Is 6, 1-3) e quella di Abacuc (Ab 3, 4). Nei libri greci del Nuovo Testamento all’espressione “santo” corrisponde la parola “hagios”.

Alla luce dell’etimologia veterotestamentaria diventa chiara anche la seguente frase della Lettera agli Ebrei: “. . . Il nostro Dio è un fuoco divoratore” (Eb 12, 29; cf. Dt 4, 24), come pure la parola di San Giovanni sul Giordano, riguardante il Messia: “. . . egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Mt 3, 11). Si sa pure che nella discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, avvenuta nel cenacolo di Gerusalemme, apparvero “lingue come di fuoco” (At 2, 3).

4. Se i moderni cultori della filosofia della religione (per esempio Rudolph Otto) vedono nell’esperienza che l’uomo fa della santità di Dio le componenti del “fascinosum” e del “tremendum”, ciò trova riscontro sia nell’etimologia, ora ricordata, del termine veterotestamentario, sia nelle teofanie bibliche, nelle quali compare l’elemento del fuoco. Il fuoco simboleggia da un lato lo splendore, l’irradiazione della gloria di Dio (“fascinosum”), dall’altro il calore che brucia e che allontana, in un certo senso, lo spavento che suscita la sua santità (“tremendum”), Il “qados” dell’Antico Testamento include sia il “fascinosum” che attrae sia il “tremendum” che respinge, indicando “la separazione”, e dunque l’inaccessibilità.

5. Già più volte nei precedenti incontri di questo ciclo di catechesi, ci siamo richiamati alla teofania del Libro dell’Esodo. Mosè nel deserto, ai piedi del monte Oreb, vede un “roveto che arde ma non si consuma” (cf. Es 3, 2), e quando si avvicina a quel roveto ode la voce: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa” (Es 3, 5). Queste parole mettono in risalto la santità di Dio, che dal roveto ardente rivela a Mosè il suo Nome (“Io sono colui che Sono”) e con questo Nome lo manda a liberare Israele dalla terra egiziana. Vi è in questa manifestazione l’elemento del “tremendum”; la santità di Dio rimane inaccessibile all’uomo (“non avvicinarti”). Caratteristiche simili possiede anche l’intera descrizione dell’alleanza stretta sul monte Sinai (Es 19-20).

6. In seguito, particolarmente nell’insegnamento dei Profeti, questo tratto della santità di Dio, inaccessibile per l’uomo, cede in favore della sua vicinanza, della sua accessibilità, della sua condiscendenza.

Leggiamo in Isaia:

“Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, / che ha una sede eterna e il cui nome è santo. / In luogo eccelso e santo io dimoro, / ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, / per ravvivare lo spirito degli umili / e rianimare il cuore degli oppressi” (Is 57, 15).

Similmente in Osea:

“. . . sono Dio e non uomo; / sono il Santo in mezzo a te / e non verrò nella mia ira” (Os 11, 9).

7. La testimonianza massima della sua vicinanza Dio l’ha data inviando sulla terra il suo Verbo, la seconda Persona della Trinità Santissima, che ha preso un corpo come il nostro ed è venuto ad abitare fra noi.

Grati per questa condiscendenza di Dio, che ha voluto avvicinarsi a noi, non limitandosi a parlarci per mezzo dei profeti, ma rivolgendosi a noi nella persona stessa del Figlio suo unigenito, ripetiamo con fede umile e gioiosa: “Tu solus Sanctus . . .”; “Tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo, con lo Spirito Santo nella gloria di Dio Padre. Amen”.

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 6 février, 2010 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II: 1. Tra i doni più grandi, che San Paolo indica ai Corinzi come permanenti, vi è la speranza (cf. 1 Cor 12, 31).

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1991/documents/hf_jp-ii_aud_19910703_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 3 luglio 1991
 

1. Tra i doni più grandi, che San Paolo indica ai Corinzi come permanenti, vi è la speranza (cf. 1 Cor 12, 31).

Essa ha un ruolo fondamentale nella vita cristiana, come l’hanno la fede e la carità, benché “di tutte più grande sia la carità!” (cf. 1 Cor 13, 13). È chiaro che la speranza non va intesa nel senso restrittivo di dono particolare o straordinario, concesso ad alcuni per il bene della comunità, ma come dono dello Spirito Santo offerto ad ogni uomo, che nella fede si apre a Cristo. A questo dono va prestata una particolare attenzione, specialmente nel nostro tempo, nel quale molti uomini – anche non pochi cristiani – si dibattono tra l’illusione e il mito di una infinita capacità di autoredenzione e realizzazione di sé, e la tentazione del pessimismo nell’esperienza delle frequenti delusioni e sconfitte.

La speranza cristiana, pur includendo il moto psicologico dell’animo che tende al bene arduo, tuttavia si colloca al livello soprannaturale delle virtù derivate dalla grazia (cf. S. Thomae, Summa theologiae, III, q. 7, a. 2), come dono che Dio fa al credente, in ordine alla vita eterna. È, dunque, una virtù tipica dell’“homo viator”, dell’uomo pellegrino, che – anche se conosce Dio e la vocazione eterna per mezzo della fede – non è ancora giunto alla visione. La speranza in certo modo lo fa “passare al di là del velo”, come dice la Lettera agli Ebrei (cf. Eb 6, 19).

2. Essenziale, perciò, in questa virtù è la dimensione escatologica. Nella Pentecoste lo Spirito Santo è venuto a compiere le promesse incluse nell’annuncio della salvezza, come leggiamo negli Atti degli Apostoli: “Gesù, innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso” (At 2, 33). Ma questo compimento della promessa si proietta su tutta la storia, fino agli ultimi tempi. Per coloro che posseggono la fede nella parola di Dio risonata in Cristo e predicata dagli Apostoli, l’escatologia ha cominciato a realizzarsi, anzi può dirsi già realizzata nel suo aspetto fondamentale: la presenza dello Spirito Santo nella storia umana, che dall’evento della Pentecoste prende significato e slancio vitale in ordine alla meta divina di ogni uomo e dell’umanità intera. Mentre la speranza dell’Antico Testamento aveva come fondamento la promessa della perenne presenza e provvidenza di Dio, che si sarebbe manifestata nel Messia, nel Nuovo Testamento la speranza, per la grazia dello Spirito Santo che ne è all’origine, comporta già un possesso anticipativo della futura gloria.

In questa prospettiva San Paolo afferma che il dono dello Spirito Santo è come una caparra della felicità futura: “Avete ricevuto – egli scrive agli Efesini – il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria” (Ef 1, 13-14; cf.4, 30; 2 Cor 1, 22).

Si può dire che nella vita cristiana sulla terra vi è come una iniziazione alla piena partecipazione alla gloria di Dio: ed è lo Spirito Santo a costituire la garanzia del raggiungimento della pienezza della vita eterna, quando per effetto della redenzione saranno vinti anche tutti i resti del peccato, come il dolore e la morte. Così la speranza cristiana è non solo una garanzia, ma un anticipo della realtà futura.

3. La speranza accesa nel cristiano dallo Spirito Santo ha anche una dimensione che si direbbe cosmica, includente la terra e il cielo, lo sperimentabile e l’inaccessibile, il noto e l’ignoto. “La creazione stessa – scrive San Paolo – attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (cf. Rm 8, 19-23). Il cristiano, consapevole della vocazione dell’uomo e della destinazione dell’universo, coglie il senso di quella gestazione universale e scopre che si tratta della divina adozione per tutti gli uomini, chiamati a partecipare alla gloria di Dio che si riflette su tutto il creato. Di questa adozione il cristiano sa di possedere già le primizie nello Spirito Santo, e perciò guarda con serena speranza al destino del mondo, pur tra le tribolazioni del tempo.

Illuminato dalla fede, egli capisce il significato e quasi sperimenta la verità del brano successivo della Lettera ai Romani, dove l’Apostolo ci assicura che “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente chiedere, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio. Del resto noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8, 26-28).

4. Come si vede, è nel sacrario dell’anima che vive, prega e opera lo Spirito Santo, il quale ci fa entrare sempre più nella prospettiva del fine ultimo, Dio, conformando tutta la nostra vita al suo piano salvifico. Perciò egli stesso ci fa pregare pregando in noi, con sentimenti e parole di figli di Dio (cf. Rm 8, 15.26-27; Gal 4, 6; Ef 6, 18), in intimo collegamento spirituale ed escatologico col Cristo che siede alla destra di Dio, dove intercede per noi (cf. Rm 8, 34; Eb 7, 25; 1 Gv 2, 1). Così egli ci salva dalle illusioni e dalle false vie di salvezza, mentre, muovendo il cuore verso lo scopo autentico della vita, ci libera dal pessimismo e dal nichilismo, tentazioni particolarmente insidiose per chi non parta da premesse di fede o almeno di sincera ricerca di Dio.

Occorre aggiungere che anche il corpo è coinvolto in questa dimensione di speranza, data dallo Spirito Santo alla persona umana. Ce lo dice ancora San Paolo: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 11; cf.2 Cor 5, 5). Per ora contentiamoci di aver fatto presente questo aspetto della speranza nella sua dimensione antropologica e personale, ma anche in quella cosmica ed escatologica, sulla quale dovremo ritornare nelle catechesi che, se a Dio piacerà, dedicheremo a suo tempo a questi articoli affascinanti e fondamentali del Credo cristiano: la risurrezione dei morti e la vita eterna dell’uomo intero, anima e corpo.

5. Un’ultima annotazione: l’itinerario terreno della vita ha un termine che, se raggiunto nell’amicizia con Dio, coincide col primo momento della vita beata. Anche se l’anima dovesse in quel passaggio al Cielo subire la purificazione dalle ultime scorie mediante il purgatorio, essa è già piena di luce, di certezza, di gioia, perché sa di appartenere per sempre al suo Dio. A quel punto culminante l’anima è condotta dallo Spirito Santo, autore e datore non solo della “prima grazia” giustificante e della grazia santificante lungo tutta la vita terrena, ma anche della grazia glorificante in “hora mortis”. È la grazia della perseveranza finale, secondo la dottrina del Concilio di Orange (cf. Denz.-S. 183,199) e del Concilio di Trento (cf. Denz.-S. 806,809,832), fondata sull’insegnamento dell’Apostolo, secondo il quale appartiene a Dio concedere “il volere e l’operare” il bene (Fil 2,13), e l’uomo deve pregare per ottenere la grazia di fare il bene sino alla fine (cf. Rm 14, 4; 1 Cor 10, 12; Mt 10, 22; 24,13).

6. Le parole dell’apostolo Paolo ci insegnano a vedere nel dono della Terza Persona divina la garanzia del compimento della nostra aspirazione alla salvezza: “La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5). E perciò: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”. La risposta è decisa: nulla “potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 35.39). Pertanto l’auspicio di Paolo è che abbondiamo “nella speranza per virtù dello Spirito Santo” (Rm 15, 13). Radica qui l’ottimismo cristiano: ottimismo sul destino del mondo, sulla possibilità di salvezza dell’uomo in tutti i tempi, anche nei più difficili e duri, sullo sviluppo della storia verso la glorificazione perfetta di Cristo (“Egli mi glorificherà”: Gv 16, 14), e la partecipazione piena dei credenti alla gloria dei figli di Dio.

Con questa prospettiva il cristiano può tener levato il capo e associarsi all’invocazione che secondo l’Apocalisse è il sospiro più profondo, suscitato nella storia dallo Spirito Santo: “Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!” (Ap 22, 17). Ed ecco l’invito finale dell’Apocalisse e del Nuovo Testamento: “Chi ascolta, ripeta: Vieni! Chi ha sete, venga, chi vuole, attinga gratuitamente l’acqua della vita . . . Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22, 17.20).

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II, San Paolo |on 1 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II ai partecipanti della Fondazione « Don Carlo Gnocchi »

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2002/november/documents/hf_jp-ii_spe_20021130_don-carlo-gnocchi_it.html

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO

DELLA FONDAZIONE « DON CARLO GNOCCHI »

Sabato, 30 novembre 2002
 

Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. È per me motivo di grande gioia accogliervi quest’oggi nel contesto delle celebrazioni per il centenario della nascita di don Carlo Gnocchi, e del cinquantesimo della Fondazione sgorgata dal suo cuore di insigne « prete educatore e imprenditore della carità », come ebbe a definirlo il Cardinale Carlo Maria Martini, aprendo nel 1987 il processo di beatificazione. Grazie per la vostra visita, che mi offre l’occasione di manifestare sincero apprezzamento per il benemerito servizio che rendete a quanti si trovano in difficoltà.

Vi saluto tutti con affetto: ospiti, dirigenti, operatori, volontari, ex allievi ed amici della grande famiglia spirituale di don Carlo Gnocchi, senza dimenticare l’Associazione Nazionale Alpini e l’Associazione Nazionale Donatori Organi, particolarmente legate alla figura e all’opera di questo zelante sacerdote. Saluto i rappresentanti degli Istituti religiosi maschili e femminili voluti da don Gnocchi e il Presidente della Fondazione, Mons. Angelo Bazzari, che ringrazio per i devoti sentimenti che ha voluto esprimere a nome vostro. Saluto la giovane ospite del Centro di Milano, che si è fatta interprete di tutti gli ospiti della Fondazione. Un deferente pensiero rivolgo al Sindaco di Milano e alle altre autorità civili e militari, che hanno voluto essere presenti a questo incontro.

2. Il servo di Dio don Carlo Gnocchi, « padre dei mutilatini », fu educatore di giovani sin dall’inizio del suo ministero sacerdotale. Conobbe gli orrori della seconda guerra mondiale quale cappellano volontario prima sul fronte greco-albanese e, in seguito, con gli alpini della Divisione « Tridentina », nella campagna di Russia. Si prodigò con eroica carità verso i feriti e i moribondi, e maturò il disegno di una grande opera destinata ai poveri, agli orfani e agli sventurati.

Nacque così la Fondazione Pro Juventute, attraverso la quale egli moltiplicò iniziative sociali ed apostoliche a favore dei tanti orfani di guerra e piccoli mutilati per lo scoppio di ordigni bellici. La sua generosità si spinse oltre la morte, sopravvenuta il 28 febbraio del 1956, mediante il dono delle sue cornee a due ragazzi non vedenti. Fu un gesto precorritore, se si considera che in Italia il trapianto d’organi non era ancora regolato da provvedimenti legislativi.

3. Carissimi Fratelli e Sorelle! Le celebrazioni giubilari vi hanno permesso durante quest’anno di approfondire ancor più le ragioni del vostro impegno nella società e nella Chiesa. Dalla riabilitazione e integrazione sociale dei mutilatini di guerra siete oggi passati a gestire diversificate attività a favore di ragazzi, adulti e anziani non autosufficienti. Rispondendo, inoltre, ai nuovi bisogni emergenti nella società, avete aperto le vostre case a malati oncologici terminali. Non avete al tempo stesso trascurato di investire nella ricerca scientifica, curando la formazione professionale per disabili attraverso scuole e corsi in varie regioni d’Italia.

4. « Restaurare la persona umana » è il principio che continua ad ispirarvi, in fedeltà allo spirito di don Carlo Gnocchi. Egli era convinto che non basta assistere il malato; occorre « restaurarlo », promuovendolo attraverso pertinenti terapie atte a fargli recuperare la fiducia in se stesso. Se ciò esige un aggiornamento tecnico e professionale, domanda ancor più un costante supporto umano e soprattutto spirituale. « Condividere la sofferenza – amava ripetere questo insigne pedagogo sociale – è il primo passo terapeutico; il resto lo fa l’amore ».

E fu proprio l’amore il segreto di tutta la sua vita. In ogni sofferente vedeva Cristo crocifisso, tanto più se si trattava di individui fragili, piccoli, indifesi. Comprese che la luce capace di dar senso al dolore innocente dei bambini viene dal mistero della Croce. Ogni mutilatino era per lui « una piccola reliquia della redenzione cristiana e un segnale che anticipa la gloria pasquale ».

5. Carissimi Fratelli e Sorelle! Continuate a seguire le orme di questo indimenticabile maestro di vita. Come lui, siate buoni samaritani per quanti bussano alla porta delle vostre case. Il suo messaggio rappresenta oggi una singolare profezia di solidarietà e di pace. Servendo infatti gli ultimi e i piccoli in modo disinteressato, si contribuisce a costruire un mondo più accogliente e solidale.

Quasi tutti i vostri centri di ricupero e riabilitativi sono dedicati alla Vergine. Sia Lei – la Madre della speranza, a cui don Gnocchi si rivolgeva con filiale devozione – a sostenervi e a guidarvi verso nuovi traguardi di bene.

Io vi assicuro la mia preghiera, mentre di cuore benedico voi qui presenti e quanti compongono la grande famiglia della « Fondazione don Carlo Gnocchi ».

Publié dans:Beati, Papa Giovanni Paolo II |on 25 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II PER LA CANONIZZAZIONE DI MASSIMILIANO MARIA KOLBE

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1982/documents/hf_jp-ii_hom_19821010_canonizzazione-kolbe_it.html

CANONIZZAZIONE DI MASSIMILIANO MARIA KOLBE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Piazza San Pietro, 10 ottobre 1982 

1. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Da oggi la Chiesa desidera chiamare “santo” un uomo al quale è stato concesso di adempiere in maniera assolutamente letterale le suddette parole del Redentore.

Ecco infatti, verso la fine di luglio del 1941, quando per ordine del capo del campo si fecero mettere in fila i prigionieri destinati a morire di fame, quest’uomo, Massimiliano Maria Kolbe, si presentò spontaneamente, dichiarandosi pronto ad andare alla morte in sostituzione di uno di loro.

Questa disponibilità fu accolta, e al padre Massimiliano, dopo oltre due settimane di tormenti a causa della fame, fu infine tolta la vita con un’iniezione mortale, il 14 agosto 1941.

Tutto questo successe nel campo di concentramento di Auschwitz, dove furono messi a morte durante l’ultima guerra circa 4.000.000 di persone, tra cui anche la Serva di Dio Edith Stein (la carmelitana suor Teresa Benedetta della Croce), la cui causa di Beatificazione è in corso presso la competente Congregazione. La disobbedienza contro Dio, Creatore della vita, il quale ha detto “non uccidere”, ha causato in questo luogo l’immensa ecatombe di tanti innocenti.

Contemporaneamente dunque, la nostra epoca è rimasta così orribilmente contrassegnata dallo sterminio dell’uomo innocente.

2. Padre Massimiliamo Kolbe, essendo lui stesso un prigioniero del campo di concentramento, ha rivendicato, nel luogo della morte, il diritto alla vita di un uomo innocente, uno dei 4.000.000.

Quest’uomo (Franciszek Gajowniczek) vive ancora ed è presente tra noi. Padre Kolbe ne ha rivendicato il diritto alla vita, dichiarando la disponibilità di andare alla morte al suo posto, perché era un padre di famiglia e la sua vita era necessaria ai suoi cari. Padre Massimiliano Maria Kolbe ha riaffermato così il diritto esclusivo del Creatore alla vita dell’uomo innocente e ha reso testimonianza a Cristo e all’amore. Scrive infatti l’apostolo Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16).

Dando la sua vita per un fratello, padre Massimiliano, che la Chiesa già sin dal 1971 venera come “beato”, in modo particolare si è reso simile a Cristo.

3. Noi, dunque, che oggi, domenica 10 ottobre, siamo riuniti davanti alla Basilica di san Pietro in Roma, desideriamo esprimere il valore speciale che ha agli occhi di Dio la morte per martirio del padre Massimiliano Kolbe:
“Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli” (Sal 115 [116],15), così abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale. Veramente è preziosa ed inestimabile! Mediante la morte, che Cristo ha subìto sulla Croce, si è compiuta la redenzione del mondo, poiché questa morte ha il valore dell’amore supremo. Mediante la morte, subìta dal padre Massimiliano Kolbe, un limpido segno di tale amore si è rinnovato nel nostro secolo, che in grado tanto alto e in molteplici modi è minacciato dal peccato e dalla morte.

Ecco che, in questa solenne liturgia della canonizzazione, sembra presentarsi tra noi quel “martire dell’amore” di Oswiecim (come lo chiamò Paolo VI) e dire:
“Io sono il tuo servo, Signore, / io sono tuo servo, figlio della tua ancella; / hai spezzato le mie catene” (Sal 115 [116],16).

E, quasi raccogliendo in uno il sacrificio di tutta la sua vita, lui, sacerdote e figlio spirituale di san Francesco, sembra dire:
“Che cosa renderò al Signore / per quanto mi ha dato? / Alzerò il calice della salvezza / e invocherò il nome del Signore” (Sal 115 [116],12s).

Sono, queste, parole di gratitudine. La morte subìta per amore, al posto del fratello, è un atto eroico dell’uomo, mediante il quale, insieme al nuovo Santo, glorifichiamo Dio. Da lui infatti proviene la Grazia di tale eroismo, di questo martirio.

4. Glorifichiamo dunque oggi la grande opera di Dio nell’uomo. Di fronte a tutti noi, qui riuniti, padre Massimiliano Kolbe alza il suo “calice della salvezza”, nel quale è racchiuso il sacrificio di tutta la sua vita, sigillata con la morte di martire “per un fratello”.

A questo definitivo sacrificio Massimiliano si preparò seguendo Cristo sin dai primi anni della sua vita in Polonia. Da quegli anni proviene l’arcano sogno di due corone: una bianca e una rossa, fra le quali il nostro santo non sceglie, ma le accetta entrambe. Sin dagli anni della giovinezza, infatti, lo permeava un grande amore verso Cristo e il desiderio del martirio.

Quest’amore e questo desiderio l’accompagnarono sulla via della vocazione francescana e sacerdotale, alla quale si preparava sia in Polonia che a Roma. Quest’amore e questo desiderio lo seguirono attraverso tutti i luoghi del servizio sacerdotale e francescano in Polonia, ed anche del servizio missionario nel Giappone.

5. L’ispirazione di tutta la sua vita fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio. Nel mistero dell’Immacolata Concezione si svelava davanti agli occhi della sua anima quel mondo meraviglioso e soprannaturale della Grazia di Dio offerta all’uomo. La fede e le opere di tutta la vita di padre Massimiliano indicano che egli concepiva la sua collaborazione con la Grazia divina come una milizia sotto il segno dell’Immacolata Concezione. La caratteristica mariana è particolarmente espressiva nella vita e nella santità di padre Kolbe. Con questo contrassegno è stato marcato anche tutto il suo apostolato, sia nella patria come nelle missioni. Sia in Polonia come nel Giappone furono centro di quest’apostolato le speciali città dell’Immacolata (“Niepokalanow” polacco, “Mugenzai no Sono” giapponese).

6. Che cosa è successo nel Bunker della fame nel campo di concentramento ad Oswiecim (Auschwitz), il 14 agosto del 1941?

A questo risponde l’odierna liturgia: ecco “Dio ha provato” Massimiliano Maria “e lo ha trovato degno di sé” (cf. Sap 3,5). L’ha provato “come oro nel crogiuolo / e l’ha gradito come un olocausto” (cf. Sap 3,6).

Anche se “agli occhi degli uomini subì castighi”, tuttavia “la sua speranza è piena di immortalità” poiché “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, / nessun tormento le toccherà”. E quando, umanamente parlando, li raggiungono il tormento e la morte, quando “agli occhi degli uomini parve che morissero…”, quando “la loro dipartita da noi fu ritenuta una sciagura…”, “essi sono nella pace”: essi provano la vita e la gloria “nelle mani di Dio” (cf. Sap 3,1-4).

Tale vita è frutto della morte a somiglianza della morte di Cristo. La gloria è la partecipazione alla sua risurrezione.

Che cosa dunque successe nel Bunker della fame, il giorno 14 agosto 1941?

Si compirono le parole rivolte da Cristo agli Apostoli, perché “andassero e portassero frutto e il loro frutto rimanesse” (cf. Gv 15,16).

In modo mirabile perdura nella Chiesa e nel mondo il frutto della morte eroica di Massimiliano Kolbe!

7. A quanto successe nel campo di “Auschwitz” guardavano gli uomini. E anche se ai loro occhi doveva sembrare che “morisse” un compagno del loro tormento, anche se umanamente potevano considerare “la sua dipartita” come “una rovina”, tuttavia nella loro coscienza questa non era solamente “la morte”.

Massimiliano non morì, ma “diede la vita… per il fratello”.

V’era in questa morte, terribile dal punto di vista umano, tutta la definitiva grandezza dell’atto umano e della scelta umana: egli da sé si offrì alla morte per amore.

E in questa sua morte umana c’era la trasparente testimonianza data a Cristo:
la testimonianza data in Cristo alla dignità dell’uomo, alla santità della sua vita e alla forza salvifica della morte, nella quale si manifesta la potenza dell’amore.

Proprio per questo la morte di Massimiliano Kolbe divenne un segno di vittoria. È stata questa la vittoria riportata su tutto il sistema del disprezzo e dell’odio verso l’uomo e verso ciò che è divino nell’uomo, vittoria simile a quella che ha riportato il nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario.

“Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando” (Gv 15,14)

8. La Chiesa accetta questo segno di vittoria, riportata mediante la forza della Redenzione di Cristo, con venerazione e con gratitudine. Cerca di leggerne l’eloquenza con tutta umiltà ed amore.

Come sempre, quando proclama la santità dei suoi figli e delle sue figlie, così anche in questo caso, essa cerca di agire con tutta la precisione e la responsabilità dovute, penetrando in tutti gli aspetti della vita e della morte del Servo di Dio.

Tuttavia la Chiesa deve, al tempo stesso, stare attenta, leggendo il segno della santità dato da Dio nel suo Servo terreno, di non lasciar sfuggire la sua piena eloquenza e il suo significato definitivo.

E perciò, nel giudicare la causa del beato Massimiliano Kolbe si dovettero – già dopo la beatificazione – prendere in considerazione molteplici voci del Popolo di Dio, e soprattutto dei nostri fratelli nell’Episcopato, sia della Polonia come pure della Germania, che chiedevano di proclamare Massimiliano Kolbe santo “come martire”.

Di fronte all’eloquenza della vita e della morte del beato Massimiliano, non si può non riconoscere ciò che pare costituisca il principale ed essenziale contenuto del segno dato da Dio alla Chiesa e al mondo nella sua morte.

Non costituisce questa morte affrontata spontaneamente, per amore all’uomo, un particolare compimento delle parole di Cristo?

Non rende essa Massimiliano particolarmente simile a Cristo, Modello di tutti i Martiri, che dà la propria vita sulla Croce per i fratelli?

Non possiede proprio una tale morte una particolare, penetrante eloquenza per la nostra epoca?

Non costituisce essa una testimonianza particolarmente autentica della Chiesa nel mondo contemporaneo?

9. E perciò, in virtù della mia apostolica autorità ho decretato che Massimiliano Maria Kolbe, il quale, in seguito alla Beatificazione, era venerato come Confessore, venga d’ora in poi venerato “anche come Martire”!

“Preziosa agli occhi del Signore / è la morte dei suoi fedeli”!

Amen.

Giovanni Paolo II, Udienza 2001: « Il Signore, re dell’universo »

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20010905_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 5 settembre 2001

« Il Signore, re dell’universo »
(Lettura: Sal 46,2-5.7-8.10)

1. « Il Signore, l’Altissimo, è re grande su tutta la terra! ». Questa acclamazione iniziale è ripetuta in tonalità diverse all’interno del Salmo 46, che abbiamo ora ascoltato. Esso si configura come un inno al Signore sovrano dell’universo e della storia: « Dio è re di tutta la terra… Dio regna sui popoli » (vv. 8-9).

Questo inno al Signore, re del mondo e dell’umanità, come altre composizioni simili presenti nel Salterio (cfr Sal 92; 95-98), suppone un’atmosfera celebrativa liturgica. Siamo, perciò, nel cuore spirituale della lode d’Israele, che sale al cielo partendo dal tempio, il luogo nel quale il Dio infinito ed eterno si svela e incontra il suo popolo.

2. Seguiremo questo canto di lode gioiosa nei suoi momenti fondamentali, simili a due onde che avanzano verso la spiaggia del mare. Differiscono nel modo di considerare la relazione tra Israele e le nazioni. Nella prima parte del Salmo, la relazione è di dominazione: Dio « ci ha assoggettati i popoli, ha messo le nazioni sotto i nostri piedi » (v. 4); nella seconda parte, invece, la relazione è di associazione: « I capi dei popoli si sono raccolti con il popolo dei Dio di Abramo » (v. 10). Si nota quindi un bel progresso.

Nella prima parte (cfr vv. 2-6) si dice: « Applaudite, popoli tutti, acclamate Dio con voci di gioia! » (v. 2). Il centro di questo applauso festoso è la figura grandiosa del Signore supremo, al quale si attribuiscono tre titoli gloriosi: « altissimo, grande e terribile » (v. 3). Essi esaltano la trascendenza divina, il primato assoluto nell’essere, l’onnipotenza. Anche il Cristo risorto esclamerà: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra » (Mt 28,18).

3. All’interno della signoria universale di Dio su tutti i popoli della terra (cfr v. 4) l’orante evidenzia la sua presenza particolare in Israele, il popolo dell’elezione divina, « il prediletto », l’eredità più preziosa e cara al Signore (cfr v. 5). Israele si sente, quindi, oggetto di un amore particolare di Dio, che si è manifestato con la vittoria riportata sulle nazioni ostili. Durante la battaglia, la presenza dell’arca dell’alleanza presso le truppe di Israele assicurava loro l’aiuto di Dio; dopo la vittoria, l’arca risaliva sul monte Sion (cfr Sal 67,19) e tutti proclamavano: « Ascende Dio tra le acclamazioni, il Signore al suono di tromba » (Sal 46,6).

4. Il secondo momento del Salmo (cfr vv. 7-10) è aperto da un’altra onda di lode e di canto festoso: « Cantate inni a Dio, cantate inni; cantate inni al nostro re, cantate inni… cantate inni con arte! » (vv. 7-8). Anche ora si inneggia al Signore assiso in trono nella pienezza della sua regalità (cfr v. 9). Questo seggio regale è definito « santo », perché è inavvicinabile da parte dell’uomo limitato e peccatore. Ma trono celeste è anche l’arca dell’alleanza presente nell’area più sacra del tempio di Sion. In tal modo il Dio lontano e trascendente, santo e infinito, si rende vicino alle sue creature, adattandosi allo spazio e al tempo (cfr 1Re 8,27.30).

5. Il Salmo finisce con una nota sorprendente per la sua apertura universalistica: « I capi dei popoli si sono raccolti con il popolo del Dio di Abramo » (v. 10). Si risale ad Abramo, il patriarca che è alla radice non solo di Israele ma anche di altre nazioni. Al popolo eletto che da lui discende, è affidata la missione di far convergere verso il Signore tutte le genti e tutte le culture, perché Egli è Dio di tutta l’umanità. Da oriente ad occidente si raduneranno allora a Sion per incontrare questo re di pace e di amore, di unità e di fratellanza (cfr Mt 8,11). Come sperava il profeta Isaia, i popoli tra loro ostili riceveranno l’invito a gettare a terra le armi e a vivere insieme sotto l’unica sovranità divina, sotto un governo retto dalla giustizia e dalla pace (Is 2,2-5). Gli occhi di tutti saranno fissi sulla nuova Gerusalemme ove il Signore « ascende » per svelarsi nella gloria della sua divinità. Sarà « una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti… gridavano a gran voce: La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello » (Ap 7,9.10).

6. La Lettera agli Efesini vede la realizzazione di questa profezia nel mistero di Cristo redentore quando afferma, rivolta ai cristiani non provenienti dal giudaismo: « Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita,… eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia » (Ef 2,11-14).

In Cristo dunque, la regalità di Dio, cantata dal nostro Salmo, si è realizzata sulla terra nei confronti di tutti i popoli. Così commenta questo mistero un’omelia anonima dell’VIII secolo: « Fino alla venuta del Messia, speranza delle nazioni, i popoli gentili non hanno adorato Dio e non hanno conosciuto chi Egli è. E finché il Messia non li ha riscattati, Dio non ha regnato sulle nazioni per mezzo della loro obbedienza e del loro culto. Adesso invece Dio, con la sua Parola e il suo Spirito, regna su di loro, perché le ha salvate dall’inganno e se li è fatti amici » (Palestinese anonimo, Omelia arabo-cristiana dell’VIII secolo, Roma 1994, p. 100).

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 12 août, 2009 |Pas de commentaires »
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