Archive pour la catégorie 'Papa Giovanni Paolo II'

SANTA MESSA IN CENA DOMINI – OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II (1998)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1998/documents/hf_jp-ii_hom_09041998_cenadomini_it.html

SANTA MESSA IN CENA DOMINI
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Giovedì Santo, 9 aprile 1998  

1. « Verbum caro, panem verum / Verbo carnem efficit… ».

« La parola del Signore / pane e vino trasformò: / pane in carne, vino in sangue, / in memoria consacrò. / Non i sensi, ma la fede prova questa verità ».

Queste poetiche espressioni di san Tommaso d’Aquino riassumono bene l’odierna Liturgia vespertina « in Cena Domini », e ci aiutano ad entrare nel cuore del mistero che celebriamo. Leggiamo nel Vangelo: « Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13,1). Oggi è il giorno nel quale ricordiamo l’istituzione dell’Eucaristia, dono dell’amore e sorgente inesauribile di amore. In essa è scritto e radicato il nuovo comandamento: « Mandatum novum do vobis… »: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri » (Gv 13,34).
2. L’amore raggiunge il suo vertice nel dono che la persona fa di se stessa, senza riserve, a Dio ed ai fratelli. Lavando i piedi agli Apostoli, il Maestro propone loro un atteggiamento di servizio: « Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri » (Gv 13,13-14). Con questo gesto, Gesù rivela un tratto caratteristico della sua missione: « Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). Vero discepolo di Cristo è, pertanto, solamente colui che «prende parte» alla sua vicenda, rendendosi come Lui sollecito nel servizio agli altri anche con sacrificio personale. Il servizio, infatti, cioè la cura delle necessità del prossimo, costituisce l’essenza di ogni potere ben ordinato: regnare significa servire. Il ministero sacerdotale, di cui oggi celebriamo e veneriamo l’istituzione, presuppone un atteggiamento di umile disponibilità, soprattutto verso i più bisognosi. Solo in questa luce possiamo cogliere appieno l’evento dell’ultima Cena, che stiamo commemorando.
3. Il Giovedì Santo è qualificato dalla Liturgia come «l’eucaristico oggi», giorno in cui « Gesù Cristo nostro Signore affidò ai suoi discepoli il mistero del suo Corpo e del suo Sangue, perché lo celebrassero in sua memoria » (Canone romano per il Giovedì Santo). Prima di essere immolato sulla Croce il Venerdì Santo, Egli istituì il Sacramento che perpetua questa sua offerta in tutti i tempi. In ogni Santa Messa, la Chiesa fa memoria di quell’evento storico decisivo. Con viva trepidazione il sacerdote si china all’altare sopra i doni eucaristici, per pronunciare le medesime parole dette da Cristo « nella notte in cui fu tradito ». Egli ripete sul pane: « Questo è il mio corpo, che è (dato) per voi » (1 Cor 11,24), e poi sul calice del vino: « Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue » (1 Cor 11,25). Da quel Giovedì Santo di quasi duemila anni or sono fino a questa sera, Giovedì Santo del 1998, la Chiesa vive mediante l’Eucaristia, si lascia plasmare dall’Eucaristia, e continua a celebrarla in attesa del ritorno del suo Signore.
Facciamo nostro, questa sera, l’invito di sant’Agostino: O Chiesa amatissima « manduca vitam, bibe vitam: habebis vitam, et integra est vita! »: « mangia la vita, bevi la vita: avrai la vita ed essa resterà intatta! » (Sermo CXXXI, I, 1).
4. « Pange, lingua, gloriosi / Corporis mysterium / Sanguinisque pretiosi… « . Adoriamo questo «mysterium fidei», di cui si nutre la Chiesa incessantemente. Si ridesti nei nostri cuori il senso vivo e trepido del sommo dono che è per noi l’Eucaristia.
E si ridesti la gratitudine, legata al riconoscimento del fatto che non vi è nulla in noi che non ci sia stato donato dal Padre di ogni misericordia (cfr 2 Cor 1,3). L’Eucaristia, il grande «mistero della fede», rimane innanzitutto e soprattutto un dono, qualcosa che abbiamo «ricevuto». Lo ribadisce san Paolo, introducendo il racconto dell’ultima Cena con queste parole: « Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso » (1 Cor 11,23). La Chiesa l’ha ricevuto da Cristo e nel celebrare questo sacramento rende grazie al Padre celeste per quanto Egli in Gesù, suo Figlio, ha fatto per noi.
Accogliamo ad ogni celebrazione eucaristica questo dono sempre nuovo; lasciamo che il suo potere divino pervada i nostri cuori e li renda capaci di annunciare la morte del Signore nell’attesa della sua venuta. «Mysterium fidei» canta il sacerdote dopo la consacrazione; ed i fedeli rispondono: « Mortem tuam annuntiamus, Domine… « : « Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta ». La somma della fede pasquale della Chiesa è contenuta nell’Eucaristia.
Anche questa sera rendiamo grazie al Signore che ha istituito questo grande Sacramento. Noi lo celebriamo e lo riceviamo per trovare in esso la forza di avanzare sulla strada dell’esistenza attendendo il giorno del Signore. Allora saremo introdotti anche noi nella dimora dove Cristo, Sommo Sacerdote, è entrato mediante il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue.
5. « Ave, verum corpus, natum de Maria Virgine »: « Ave, vero corpo, nato da Maria Vergine », così prega quest’oggi la Chiesa. In questa « attesa della sua venuta », ci accompagni Maria, dalla quale Gesù ha preso il corpo, lo stesso corpo che questa sera condividiamo fraternamente nel banchetto eucaristico.

« Esto nobis praegustatum mortis in examine »: « Ci sia dato di pregustarti nel momento decisivo della morte « . Sì, prendici per mano, o Gesù eucaristico, in quell’ora suprema che ci introdurrà nella luce della tua eternità: « O Iesu dulcis! O Iesu pie! O Iesu, fili Mariae! »  

Pasqua 2005, Giovanni Paolo II, Messaggio Urbi et Orbi

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/urbi/documents/hf_jp-ii_mes_20050327_easter-urbi_it.html

MESSAGGIO URBI ET ORBI

DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II     

Dal Vaticano, 27 Marzo 2005, Pasqua di Risurrezione.

1. Mane nobiscum, Domine!
Resta con noi, Signore! (cfr Lc 24, 29).
Con queste parole i discepoli di Emmaus
invitarono il misterioso Viandante
a restare con loro, mentre volgeva al tramonto
quel primo giorno dopo il sabato
in cui l’incredibile era accaduto.
Secondo la promessa, Cristo era risorto;
ma essi non lo sapevano ancora.
Tuttavia le parole del Viandante lungo la strada
avevano progressivamente riscaldato il loro cuore.
Per questo lo avevano invitato: “Resta con noi”.
Seduti poi intorno alla tavola della cena,
lo avevano riconosciuto allo “spezzare del pane”.
E subito Egli era sparito.
Dinanzi a loro era rimasto il pane spezzato,
e nel loro cuore la dolcezza di quelle sue parole.

2. Fratelli e Sorelle carissimi,
la Parola e il Pane dell’Eucaristia,
mistero e dono della Pasqua,
restano nei secoli come memoria perenne
della passione, morte e risurrezione di Cristo!
Anche noi oggi, Pasqua di Risurrezione,
con tutti i cristiani del mondo ripetiamo:
Gesù, crocifisso e risorto, rimani con noi!
Resta con noi, amico fedele e sicuro sostegno
dell’umanità in cammino sulle strade del tempo!
Tu, Parola vivente del Padre,
infondi fiducia e speranza in quanti cercano
il senso vero della loro esistenza.
Tu, Pane di vita eterna, nutri l’uomo
affamato di verità, di libertà, di giustizia e di pace.

3. Rimani con noi, Parola vivente del Padre,
ed insegnaci parole e gesti di pace:
pace per la terra consacrata dal tuo sangue
e intrisa del sangue di tante vittime innocenti;
pace per i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa,
dove pure tanto sangue continua ad essere versato;
pace per tutta l’umanità, su cui sempre incombe
il pericolo di guerre fratricide.
Rimani con noi, Pane di vita eterna,
spezzato e distribuito ai commensali:
dà anche a noi la forza di una solidarietà generosa
verso le moltitudini che, ancor oggi,
soffrono e muoiono di miseria e di fame,
decimate da epidemie letali
o prostrate da immani catastrofi naturali.
Per la forza della tua Risurrezione
siano anch’esse rese partecipi di una vita nuova.

4. Anche noi, uomini e donne del terzo millennio,
abbiamo bisogno di Te, Signore risorto!
Rimani con noi ora e fino alla fine dei tempi.
Fa’ che il progresso materiale dei popoli
non offuschi mai i valori spirituali
che sono l’anima della loro civiltà.
Sostienici, Ti preghiamo, nel nostro cammino.
In Te noi crediamo, in Te speriamo,
perché Tu solo hai parole di vita eterna (cfr Gv 6, 68).
Mane nobiscum, Domine! Alleluia!

Buona Pasqua a tutti!

preghiera per la quaresima – Giovanni Paolo II

dal sito:

http://www.parrocchia-cambiano.it/riflessioni_preghiere_12.php

preghiera per la quaresima

(Giovanni Paolo II)

Noi ti adoriamo, Cristo Gesù.
Ci mettiamo in ginocchio
e non troviamo parole sufficienti
per esprimere quel che proviamo
davanti alla tua morte in croce.
Noi desideriamo, o Cristo,
gridare oggi verso la tua misericordia
più grande di ogni forza e potenza
alla quale possa appoggiarsi l’uomo.
La potenza del tuo amore
si dimostri ancora una volta più grande
del male che ci minaccia.
Si dimostri più grande dei molteplici peccati
che si arrogano in forma sempre più assoluta
la cittadinanza nella vita degli uomini.

Mercoledì, 19 marzo 2003 – Solennità di San Giuseppe (Giovanni Paolo II)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2003/documents/hf_jp-ii_aud_20030319_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 marzo 2003

Solennità di San Giuseppe,

Sposo della B.V. Maria, Patrono della Chiesa universale

1. Celebriamo quest’oggi la solennità di San Giuseppe, Sposo di Maria (Mt 1,24; Lc 1,27). La liturgia ce lo addita come « padre » di Gesù (Lc 2,27.33.41.43.48), pronto a realizzare i disegni divini, anche quando sfuggono all’umana comprensione. Attraverso di lui, « figlio di David » (Mt 1,20; Lc 1,27), si sono compiute le Scritture e il Verbo Eterno si è fatto uomo, per opera dello Spirito Santo, nel seno della Vergine Maria. San Giuseppe viene definito nel Vangelo « uomo giusto » (Mt 1,19), ed è per tutti i credenti modello di vita nella fede.
2. La parola « giusto » evoca la sua rettitudine morale, il sincero attaccamento alla pratica della legge e l’atteggiamento di totale apertura alla volontà del Padre celeste. Anche nei momenti difficili e talora drammatici, l’umile carpentiere di Nazaret mai arroga per sé il diritto di porre in discussione il progetto di Dio. Attende la chiamata dall’Alto e in silenzio rispetta il mistero, lasciandosi guidare dal Signore. Una volta ricevuto il compito, lo esegue con docile responsabilità: ascolta sollecitamente l’angelo quando si tratta di prendere come sposa la Vergine di Nazaret (cfr Mt 1, 18-25), nella fuga in Egitto (cfr Mt 2, 13-15) e nel ritorno in Israele (cfr ibid. 2, 19-23). In pochi ma significativi tratti gli evangelisti lo descrivono come custode premuroso di Gesù, sposo attento e fedele, che esercita l’autorità familiare in un costante atteggiamento di servizio. Null’altro di lui ci raccontano le Sacre Scritture, ma in questo silenzio è racchiuso lo stile stesso della sua missione: una esistenza vissuta nel grigiore della quotidianità, ma con una sicura fede nella Provvidenza.
3. Ogni giorno san Giuseppe dovette provvedere alle necessità della famiglia con il duro lavoro manuale. Per questo giustamente la Chiesa lo addita come patrono dei lavoratori.
L’odierna solennità costituisce pertanto un’occasione propizia per riflettere anche sull’importanza del lavoro nell’esistenza dell’uomo, nella famiglia e nella comunità.
L’uomo è soggetto e protagonista del lavoro e, alla luce di questa verità, si può ben percepire il nesso fondamentale esistente tra persona, lavoro e società. L’attività umana – ricorda il Concilio Vaticano II – deriva dall’uomo ed è ordinata all’uomo. Secondo il disegno e la volontà di Dio, essa deve servire al vero bene dell’umanità e permettere « all’uomo come singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione » (cfr Gaudium et spes, 35).
Per portare a compimento questo compito, va coltivata una « provata spiritualità del lavoro umano » ancorata, con salde radici, al « Vangelo del lavoro » e i credenti sono chiamati a proclamare e testimoniare il significato cristiano del lavoro nelle loro diverse attività occupazionali (cfr Laborem exercens, 26).
4. San Giuseppe, santo così grande e così umile, sia esempio a cui i lavoratori cristiani si ispirano, invocandolo in ogni circostanza. Al provvido custode della Santa Famiglia di Nazaret vorrei quest’oggi affidare i giovani che si preparano alla futura professione, i disoccupati e coloro che soffrono i disagi delle ristrettezze occupazionali, le famiglie e l’intero mondo del lavoro con le attese e le sfide, i problemi e le prospettive che lo contrassegnano.
San Giuseppe, patrono universale della Chiesa, vegli sull’intera Comunità ecclesiale e, uomo di pace qual era, ottenga per l’intera umanità, specialmente per i popoli minacciati in queste ore dalla guerra, il prezioso dono della concordia e della pace.

GIOVANNI PAOLO II (il mistero della libertà)

dal sito:

http://www.novena.it/angeli/catechesi_05.htm

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE – Mercoledì, 13 agosto 1986

1. Continuando l’argomento delle precedenti catechesi dedicate all’articolo della fede riguardante gli angeli, creature di Dio, ci addentriamo oggi ad esplorare il mistero della libertà che alcuni di essi hanno indirizzato contro Dio e il suo piano di salvezza nei confronti degli uomini.
Come testimonia l’evangelista Luca, nel momento in cui i discepoli tornavano dal Maestro pieni di gioia per i frutti raccolti nel loro tirocinio missionario, Gesù pronuncia una frase che fa pensare: « Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore » (Lc 10, 18). Con queste parole il Signore afferma che l’annuncio del regno di Dio è sempre una vittoria sul diavolo, ma nello stesso tempo rivela anche che l’edificazione del Regno è continuamente esposta alle insidie dello spirito del male. Interessarsene, come intendiamo fare con la catechesi di oggi, vuol dire prepararsi alla condizione di lotta che è propria della vita della Chiesa in questo tempo ultimo della storia della salvezza (così come afferma l’Apocalisse). (cf. Ap 12, 7) D’altra parte, ciò permette di chiarire la retta fede della Chiesa di fronte a chi la stravolge esagerando l’importanza del diavolo, o di chi ne nega o ne minimizza la potenza malefica.
Le precedenti catechesi sugli angeli ci hanno preparati a comprendere la verità che la Sacra Scrittura ha rivelato e che la Tradizione della Chiesa ha trasmesso su satana, cioè sull’angelo caduto, lo spirito maligno, detto anche diavolo o demonio.
2. Questa « caduta », che presenta il carattere del rifiuto di Dio con il conseguente stato di « dannazione », consiste nella libera scelta di quegli spiriti creati, che hanno radicalmente e irrevocabilmente rifiutato Dio e il suo regno, usurpando i suoi diritti sovrani e tentando di sovvertire l’economia della salvezza e lo stesso ordinamento dell’intero creato. Un riflesso di questo atteggiamento lo si ritrova nelle parole del tentatore ai progenitori: « diventerete come Dio » o « come dèi » (cf. Gen 3, 5). Così lo spirito maligno tenta di trapiantare nell’uomo l’atteggiamento di rivalità, di insubordinazione e di opposizione a Dio, che è diventato quasi la motivazione di tutta la sua esistenza.
3. Nell’Antico Testamento la narrazione della caduta dell’uomo, riportata nel libro della Genesi, contiene un riferimento all’atteggiamento di antagonismo che satana vuole comunicare all’uomo per portarlo alla trasgressione. (cf. Gen 3, 5) Anche nel libro di Giobbe (cf. Gb 1, 11; 2, 5. 7) leggiamo che satana cerca di far nascere la ribellione nell’uomo che soffre. Nel libro della Sapienza (cf. Sap 2, 24) satana è presentato come l’artefice della morte, che è entrata nella storia dell’uomo assieme al peccato.
4. La Chiesa, nel Concilio Lateranense IV (1215), insegna che il diavolo (o satana) e gli altri demoni « sono stati creati buoni da Dio ma sono diventati cattivi per loro propria volontà ». Infatti leggiamo nella Lettera di san Giuda: « . . . gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la loro dimora, il Signore li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno » (Gd 6). Similmente nella seconda Lettera di san Pietro si parla di « angeli che avevano peccato » e che Dio « non risparmiò, ma . . . precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio » (2 Pt 2, 4). È chiaro che se Dio « non perdona » il peccato degli angeli lo fa perché essi rimangono nel loro peccato, perché sono eternamente « nelle catene » di quella scelta che hanno operato all’inizio, respingendo Dio, contro la verità del Bene supremo e definitivo che è Dio stesso. In questo senso scrive san Giovanni che « il diavolo è peccatore fin dal principio . . . » (1 Gv 3, 8). E « sin dal principio » egli è stato omicida e « non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui » (Gv 8, 4)
5. Questi testi ci aiutano a capire la natura e la dimensione del peccato di satana, consistente nel rifiuto della verità su Dio, conosciuto alla luce dell’intelligenza e della rivelazione come Bene infinito, Amore e Santità sussistente. Il peccato è stato tanto maggiore quanto maggiore era la perfezione spirituale e la perspicacia conoscitiva dell’intelletto angelico, quanto maggiore la sua libertà e la sua vicinanza a Dio. Respingendo la verità conosciuta su Dio con un atto della propria libera volontà, satana diventa « menzognero » cosmico e « padre della menzogna » (Gv 8, 4). Per questo egli vive nella radicale e irreversibile negazione di Dio e cerca di imporre alla creazione, agli altri esseri creati a immagine di Dio, e in particolare agli uomini, la sua tragica « menzogna sul Bene » che è Dio. Nel Libro della Genesi troviamo una descrizione precisa di tale menzogna e falsificazione della verità su Dio, che satana (sotto forma di serpente) tenta di trasmettere ai primi rappresentanti del genere umano: Dio sarebbe geloso delle sue prerogative e imporrebbe perciò delle limitazioni all’uomo (cf. Gen 3, 5). Satana invita l’uomo a liberarsi dell’imposizione di questo giogo, rendendosi « come Dio ».
6. In questa condizione di menzogna esistenziale satana diventa – secondo san Giovanni – anche « omicida », cioè distruttore della vita soprannaturale che Dio sin dall’inizio aveva innestato in lui e nelle creature, fatte a « immagine di Dio »: gli altri puri spiriti e gli uomini; satana vuol distruggere la vita secondo la verità, la vita nella pienezza del bene, la soprannaturale vita di grazia e di amore. L’autore del Libro della Sapienza scrive: « . . . la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono » (Sap 2, 24). E nel Vangelo Gesù Cristo ammonisce: « Temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna » (Mt 10, 28).
7. Come effetto del peccato dei progenitori questo angelo caduto ha conquistato in certa misura il dominio sull’uomo. Questa è la dottrina costantemente confessata e annunziata dalla Chiesa, e che il Concilio di Trento ha confermato nel trattato sul peccato originale (cf. DS 1511): essa trova drammatica espressione nella liturgia del Battesimo, quando al catecumeno viene richiesto di rinunziare al demonio e alle sue seduzioni.
Di questo influsso sull’uomo e sulle disposizioni del suo spirito (e del corpo), troviamo varie indicazioni nella Sacra Scrittura, nella quale satana è chiamato « il principe di questo mondo » (cf. Gv 12, 31; 14, 30; 16, 11), e persino il Dio « di questo mondo » (2 Cor 4, 4). Troviamo molti altri nomi che descrivono i suoi nefasti rapporti con l’uomo: « Beelzebul » o « Belial », « spirito immondo », « tentatore », « maligno » e infine « anticristo » (1 Gv 4, 3). Viene paragonato a un « leone » (1 Pt 5, 8), a un « drago » (nell’Apocalisse) e a un « serpente » (Gen 3). Molto frequentemente per designarlo viene usato il nome « diavolo » dal greco « diaballein » (da cui « diabolos »), che vuol dire: causare la distruzione, dividere, calunniare, ingannare. E a dire il vero tutto questo avviene fin dall’inizio per opera dello spirito maligno che è presentato dalla Sacra Scrittura come una persona pur asserendo che non è solo: « siamo in molti », gridano i diavoli a Gesù nella regione dei Geraseni (Mc 5, 9); « il diavolo e i suoi angeli », dice Gesù nella descrizione del futuro giudizio (cf. Mt 25, 41).
8. Secondo la Sacra Scrittura, e specialmente il Nuovo Testamento, il dominio e l’influsso di satana e degli altri spiriti maligni abbraccia tutto il mondo. Pensiamo alla parabola di Cristo sul campo (che è il mondo), sul buon seme e su quello non buono che il diavolo semina in mezzo al grano cercando di strappare dai cuori quel bene che in essi è stato « seminato » (cf. Mt 13, 38-39). Pensiamo alle numerose esortazioni alla vigilanza (cf. Mt 26, 41; 1 Pt 5, 8), alla preghiera e al digiuno (cf. Mt 17, 21). Pensiamo a quella forte affermazione del Signore: « Questa specie di demoni in nessun altro modo si può scacciare se non con la preghiera » (Mc 9, 29). L’azione di satana consiste prima di tutto nel tentare gli uomini al male, influendo sulla loro immaginazione e sulle loro facoltà superiori per volgerle in direzione contraria alla legge di Dio. Satana mette alla prova persino Gesù (cf. Lc 4, 3-13), nel tentativo estremo di contrastare le esigenze dell’economia della salvezza così come Dio l’ha preordinata.
Non è escluso che in certi casi lo spirito maligno si spinga anche ad esercitare il suo influsso non solo sulle cose materiali, ma anche sul corpo dell’uomo, per cui si parla di « possessioni diaboliche » (cf. Mc 5, 2-9). Non è sempre facile discernere ciò che di preternaturale avviene in questi casi, né la Chiesa accondiscende o asseconda facilmente la tendenza ad attribuire molti fatti a interventi diretti del demonio; ma in linea di principio non si può negare che nella sua volontà di nuocere e di condurre al male, satana possa giungere a questa estrema manifestazione della sua superiorità.
9. Dobbiamo infine aggiungere che le impressionanti parole dell’apostolo Giovanni: « Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno » (1 Gv 5, 19), alludono anche alla presenza di satana nella storia dell’umanità, una presenza che si acuisce man mano che l’uomo e la società si allontanano da Dio. L’influsso dello spirito maligno può « celarsi » in modo più profondo ed efficace: farsi ignorare corrisponde ai suoi « interessi ». L’abilità di satana nel mondo è quella di indurre gli uomini a negare la sua esistenza in nome del razionalismo e di ogni altro sistema di pensiero che cerca tutte le scappatoie pur di non ammetterne l’opera. Ciò non significa però l’eliminazione della libera volontà e della responsabilità dell’uomo e nemmeno la frustrazione dell’azione salvifica di Cristo. Si tratta piuttosto di un conflitto tra le forze oscure del male e quelle della redenzione. Sono eloquenti, a questo proposito, le parole che Gesù rivolse a Pietro all’inizio della passione: « . . . Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te perché non venga meno la tua fede » (Lc 22, 31).
Per questo comprendiamo come Gesù nella preghiera che ci ha insegnato, il « Padre nostro », che è la preghiera del regno di Dio, termina quasi bruscamente, a differenza di tante altre preghiere del suo tempo, richiamandoci alla nostra condizione di esposti alle insidie del Male-Maligno. Il cristiano, appellandosi al Padre con lo spirito di Gesù e invocando il suo regno, grida con la forza della fede: fa’ che non soccombiamo alla tentazione, liberaci dal Male, dal Maligno. Fa’, o Signore, che non cadiamo nell’infedeltà a cui ci seduce colui che è stato infedele fin dall’inizio.

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 12 mars, 2011 |Pas de commentaires »

PER GIOVANNI PAOLO II IL PRIMO COMPITO DI UN PAPA È PREGARE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25723?l=italian

PER GIOVANNI PAOLO II IL PRIMO COMPITO DI UN PAPA È PREGARE

Parla il postulatore della causa di beatificazione di Karol Woityla

di Chiara Santomiero

ROMA, venerdì, 25 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “Una conferma della totale trasparenza della sua vita come uomo e come sacerdote”: ha sintetizzato così mons. Slawomir Oder, postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, il processo canonico che ha verificato le virtù eroiche del venerabile servo di Dio Karol Woityla aprendo la strada alla beatificazione del 1° maggio prossimo.
L’occasione è stata una conferenza svoltasi questo venerdì a Roma all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. “Non vi fu – ha proseguito Oder – un Woityla pubblico e uno privato: l’opinione che il mondo aveva maturato nei suoi riguardi negli oltre 26 anni del suo pontificato, si è dimostrata vera”.
Di conseguenza “la sua simpatia, il fervore della preghiera, la spontaneità del raccontarsi, la capacità di intessere rapporti, non erano semplici attributi di un’immagine mediatica, ma costituivano la reale essenza della sua persona”. Piuttosto il “vero tesoro” del processo è “la conferma certa della fonte della sua coerenza, energia, entusiasmo, profondità e naturalezza” che è “l’incontro con Dio, il suo essere innamorato di Cristo e sentirsi amato da Lui”.
“Cercano di capirmi dal di fuori – aveva confidato una volta Woityla – ma io posso essere compreso solo dal di dentro”. Da qui “quell’autentico dono e gusto e gioia della preghiera” a cui Woityla “è rimasto sempre fedele, fino alle ore della sua agonia”. Una preghiera che costituiva “l’aria che respirava, l’acqua che beveva, il cibo che lo nutriva”. Come risulta da più testimonianze, per Giovanni Paolo II “il primo compito del Papa verso la Chiesa e il mondo è quello di pregare”
“Il percorso mistico di Woityla – ha spiegato Oder – si è profilato come un progressivo fare di se stesso un anawim, il ‘povero d’Israele’ che non ha altra speranza e altro punto di riferimento se non Dio”. “E’ dalla preghiera – ha aggiunto Oder – che nasceva la fecondità del suo agire”. Non per niente, ai collaboratori che invitati a suggerire delle soluzioni a particolari problemi ammettevano di non averle ancora trovate, era solito ripetere: “Si troveranno quando avremo pregato di più”. Dalla preghiera nasceva anche “la capacità di dire la verità senza paura poiché chi è solo davanti a Dio non ha paura degli uomini”.
Una straordinaria libertà interiore che si esprimeva, innanzitutto, nel rapporto con i beni materiali. “Anche da Papa – ha affermato Oder – egli è stato uomo di radicale povertà”. “Commuove – ha raccontato il sacerdote polacco – la testimonianza delle persone a lui vicine a Cracovia che per fargli rinnovare il guardaroba dovevano ricorrere allo stratagemma di lavare i nuovi indumenti più volte in modo da farli sembrare usati perché sapevano che altrimenti li avrebbe subito donati a una persona bisognosa”.
Tuttavia, uno degli aspetti più toccanti della sua scelta di povertà, secondo Oder è “aver lasciato la parola poetica per accogliere il Verbo”, superando, con la scelta del sacerdozio, “l’attrazione che esercitava su di lui un’altra vocazione, quella per il teatro”.
La libertà interiore si esercitava anche nei confronti degli altri e se “sapeva ascoltare e accettare la critica, prediligendo la collaborazione” tuttavia “non rinunciava a prendere posizioni difficili e scomode” per timore “delle reazioni delle autorità ostili alla Chiesa negli anni in Polonia” o per “l’incomprensione dell’opinione pubblica predominante negli anni del suo Pontificato”. Il suo obiettivo, infatti non era “il proprio successo o una sua autonoma realizzazione” ma “annunciare la verità del Vangelo e difendere la verità sull’uomo”. Da questa libertà che si fonda sul rapporto con Dio “nasce il grido ‘Non abbiate paura’, inizio e cifra del suo pontificato”.
Forse proprio la ricerca di vicinanza ad ogni uomo “nel desiderio di essere solidale con le sue gioie e i suoi dolori, di cercare e di vivere la verità dell’essere uomo” ha reso Woityla “così caro e amato dal popolo di Dio”. Si è verificato, secondo Oder “un fenomeno singolare: Woityla che ha perso ben presto la sua famiglia naturale, aveva un forte senso della famiglia, sapeva donare il calore umano”.
Come attestano le lettere che continuano ad arrivare all’ufficio del postulatore e in cui ci si rivolge a Giovanni Paolo II come “il nostro Papa, Lolek, Karol, zio, nonno, padre”. Un fenomeno che non è limitato ai cattolici: “in un incontro occasionale – ha raccontato Oder – una donna ebrea mi disse di aver perso il padre due volte; la prima quando le era morto il padre naturale e la seconda con la morte di Giovanni Paolo II”.
Un altro tratto essenziale della personalità di Woityla non va dimenticato: “la presenza della croce nella sua vita, portata con dignità e, alla fine, in un silenzio che parlava più della parola” rivendicando “il diritto all’esistenza che la società dell’effimero nasconde con vergogna”. “Milioni di persone nel mondo – ha ricordato Oder – conservano nella memoria l’immagine trasmessa dalla tv, del Papa di spalle nella sua cappella privata, abbracciato alla croce durante la celebrazione del Venerdì santo”.
“Sono convinto – ha affermato Oder – che celebrare il processo sia stato utile”. Lungi dall’essere “il burocratico esame di un’esistenza” ha, invece, “consentito di restituire intensità e vigore agli aspetti già noti della vicenda umana di Papa Woityla insieme agli episodi inediti offerti alla condivisione comune”. Se “scopo della Chiesa, come affermava Woityla, è portare il più grande numero di persone alla santità”, il popolo dei devoti “non ha dubbi – ha concluso Oder – sulla singolarità del suo esempio, spinto fino all’estremo sacrificio
”.

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 26 février, 2011 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II: (sull’amore sponsale, udienza 18.12.1991)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1991/documents/hf_jp-ii_aud_19911218_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

(PAOLO: SULL’AMORE SPONSALE)

Mercoledì, 18 dicembre 1991
 
1. Scrive San Paolo agli Efesini: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Come si vede, l’analogia dell’amore sponsale, ereditata dai profeti dell’Antica Alleanza, riapparsa nella predicazione di Giovanni Battista, ripresa da Gesù e passata nei vangeli, è riproposta dall’apostolo Paolo. Il Battista e i Vangeli presentano il Cristo come Sposo: lo abbiamo visto nella catechesi precedente. Sposo del nuovo Popolo di Dio, che è la Chiesa. Sulla bocca di Gesù e del suo Precursore l’analogia ricevuta dall’Antica Alleanza era usata per annunciare che era venuto il tempo della sua reale attuazione. Furono gli eventi pasquali a darle pienezza di significato. Proprio in riferimento a tali eventi l’Apostolo può scrivere nella lettera egli Efesini che “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. In queste parole vi è l’eco dei profeti che nell’Antica Alleanza avevano usato l’analogia per parlare dell’amore sponsale di Dio per il popolo eletto, Israele; vi è almeno implicitamente il riferimento all’applicazione che Gesù ne aveva fatto a se stesso, presentandosi quale Sposo, come doveva essere stato detto dagli Apostoli alle prime comunità, nelle quali nacquero i Vangeli; vi è un approfondimento della dimensione salvifica dell’amore di Cristo Gesù, che è nello stesso tempo sponsale e redentivo: “Cristo ha dato se stesso per la Chiesa”, ricorda l’Apostolo.
2. Ciò risulta con evidenza anche maggiore se si considera che la lettera agli Efesini mette in diretta relazione l’amore sponsale di Cristo per la Chiesa e il sacramento che unisce come sposi l’uomo e la donna, consacrandone l’amore. Leggiamo infatti: “E voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola [riferimento al Battesimo], al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27). Poco più oltre nella lettera, l’Apostolo stesso sottolinea il grande mistero dell’unione sponsale perché la mette “in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32). Il significato essenziale del suo discorso è che nel matrimonio e nell’amore sponsale cristiano si riflette l’amore sponsale del Redentore per la sua Chiesa: amore redentivo, carico di potenza salvifica, operante nel mistero della grazia con cui il Cristo partecipa la vita nuova alle membra del suo Corpo.
3. È per questo che nello svolgimento del suo discorso l’Apostolo ricorre al passo del Genesi che, parlando dell’unione dell’uomo con la donna, dice: “I due formeranno una carne sola” (Ef 5, 31; Gen 2, 24). Ispirandosi a questa affermazione, l’Apostolo scrive: “I mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; ma al contrario (ognuno) la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa” (Ef 5, 28-29).
Si può dire che nel pensiero di Paolo l’amore sponsale rientra in una legge di uguaglianza che l’uomo e la donna attuano in Gesù Cristo (cf. 1 Cor 7, 4). Tuttavia quando l’Apostolo constata: “Il marito . . . è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo Corpo” (Ef 5, 23), l’uguaglianza, la parità interumana viene superata, perché c’è un ordine nell’amore. L’amore del marito per la moglie è partecipazione dell’amore di Cristo per la Chiesa. Orbene Cristo, Sposo della Chiesa, è stato primo nell’amore, perché ha attuato la salvezza (cf. Rm 5, 6; 1 Gv 4, 19). Quindi egli è allo stesso tempo “Capo” della Chiesa, suo “Corpo”, che egli salva, nutre e cura con ineffabile amore.
Questo rapporto tra Capo e Corpo non annulla la reciprocità sponsale, ma la rafforza. È proprio la precedenza del Redentore nei riguardi dei redenti (e dunque della Chiesa) che rende possibile tale reciprocità sponsale, in forza della grazia che il Cristo stesso elargisce. Questa è l’essenza del mistero della Chiesa come Sposa di Cristo-Redentore, verità ripetutamente testimoniata e insegnata da San Paolo.
4. L’Apostolo non è un testimone distaccato e disinteressato, come se parlasse o scrivesse a titolo accademico o notarile. Nelle sue lettere si rivela profondamente coinvolto nell’impegno di inculcare questa verità. Come scrive ai Corinzi: “Io provo… per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11, 2). In questo testo Paolo presenta se stesso come l’amico dello Sposo, la cui ardente preoccupazione è di favorire la perfetta fedeltà della sposa all’unione coniugale. Difatti prosegue: “Temo . . . che, come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo” (2 Cor 11, 3). Questa è la gelosia dell’Apostolo!
5. Anche nella prima lettera ai Corinzi leggiamo la stessa verità della lettera agli Efesini e della seconda lettera ai Corinzi stessi, su citate. Scrive infatti l’Apostolo: “Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta: Non sia mai!” (1 Cor 6, 15). Anche qui è facile avvertire quasi un’eco dei profeti dell’Antica Alleanza che accusavano il popolo di prostituzione, specialmente per le sue cadute nell’idolatria. A differenza dei profeti che parlavano di “prostituzione” in senso metaforico, per stigmatizzare qualsiasi grave colpa d’infedeltà alla legge di Dio, Paolo parla effettivamente di rapporti sessuali con prostitute e li dichiara assolutamente incompatibili con l’essere cristiani. Non è pensabile prendere membra di Cristo e farne membra di una prostituta. Paolo precisa poi un punto importante: mentre la relazione di un uomo con una prostituta si attua solo al livello della carne e provoca quindi un divorzio tra carne e spirito, l’unione con Cristo si attua al livello dello spirito e corrisponde quindi a tutte le esigenze dell’amore autentico: “O non sapete, scrive l’Apostolo, che chi si unisce alla prostituta forma con essa un solo corpo? I due saranno, è detto, una sola carne. Invece chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1 Cor 6, 16-17). Come si vede l’analogia usata dai profeti per condannare con tanta passione la profanazione, il tradimento dell’amore sponsale di Israele col suo Dio, serve qui all’Apostolo per mettere in risalto l’unione con Cristo, che è l’essenza della Nuova Alleanza, e per precisarne le esigenze per la condotta cristiana: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”.
6. Occorreva l’“esperienza” della Pasqua di Cristo, occorreva l’“esperienza” della Pentecoste, per attribuire un tale significato all’analogia dell’amore sponsale, ereditata dai profeti. Paolo conosceva quella duplice esperienza della comunità primitiva, che aveva ricevuto dai discepoli non solo l’istruzione, ma la comunicazione viva di quel mistero. Egli aveva rivissuto e approfondito quella esperienza, e ora, a sua volta, se ne faceva apostolo con i fedeli di Corinto, di Efeso e di tutte le Chiese a cui scriveva. Era una traduzione sublime della sua esperienza della sponsalità di Cristo e della Chiesa: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19).
7. Concludiamo anche noi con questa constatazione di fede, che ci fa desiderare la bella esperienza: la Chiesa è la Sposa di Cristo. Come Sposa appartiene a Lui in virtù dello Spirito Santo che, attingendo “alle sorgenti della salvezza” (Is 12, 3), santifica la Chiesa e le permette di rispondere con l’amore all’amore.

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Giovanni Paolo II (sulla preghiera) Udienza 1991

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1991/documents/hf_jp-ii_aud_19910417_it.html

GIOVANNI PAOLO II

(sulla preghiera)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 17 aprile 1991

1. La prima e più eccellente forma di vita interiore è la preghiera. I dottori e maestri di spirito ne sono così convinti che spesso presentano la vita interiore come vita d’orazione. Di questa vita, il principale autore è lo Spirito Santo, come lo era già in Cristo. Leggiamo infatti nel Vangelo di Luca: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”” (Lc 10, 21). È una preghiera di lode e di ringraziamento che, secondo l’evangelista, scaturisce da quella esultanza di Gesù “nello Spirito Santo”.
Sappiamo che durante la sua attività messianica il Maestro molte volte si ritirava nella solitudine per pregare, e che passava in preghiera notti intere (cf. Lc 6, 12). Per questa preghiera preferiva quei luoghi deserti che predispongono al colloquio con Dio, così rispondente al bisogno e all’inclinazione di ogni spirito sensibile al mistero della divina trascendenza (cf. Mc 1, 35; Lc 5, 16). Analogamente facevano Mosè ed Elia, come ci risulta dall’Antico Testamento (cf. Es 34,28; 1 Re 19, 8). Il libro del profeta Osea ci fa capire che vi è una particolare ispirazione alla preghiera nei luoghi deserti; Dio, infatti, “conduce nel deserto per parlare al cuore” dell’uomo (cf. Os 2, 16).
2. Anche nella nostra vita, come in quella di Gesù, lo Spirito Santo si rivela Spirito di preghiera. Ce lo dice in modo eloquente l’apostolo Paolo in un passo della lettera ai Galati, che abbiamo già citato in precedenza: “. .  . che voi siete figli di Dio, ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). In qualche modo, dunque, lo Spirito Santo trasferisce nei nostri cuori la preghiera del Figlio, che rivolge quel grido al Padre. Perciò anche nella nostra preghiera si esprime l’“adozione a figli”, che ci è concessa in Cristo e per Cristo (cf. Rm 8, 15). La preghiera professa la nostra fede consapevole nella verità che “siamo figli” e “eredi di Dio”, “coeredi di Cristo”. La preghiera ci permette di vivere di questa realtà soprannaturale grazie all’azione dello Spirito Santo che l’“attesta al nostro spirito” (Rm 8, 16-17).
3. I seguaci di Cristo già dagli inizi della Chiesa sono vissuti in questa stessa fede, espressa anche nell’ora della morte. Conosciamo la preghiera di Stefano, il primo martire, un uomo “pieno di Spirito Santo”, il quale durante la lapidazione diede prova della sua particolare unione con Cristo esclamando, come il suo Maestro crocifisso, in riferimento ai suoi uccisori: “Signore, non imputar loro questo peccato!”. E poi, sempre in orazione, fissando la gloria di Cristo elevato “alla destra di Dio”, gridò: “Signore Gesù, accogli il mio spirito” (At 7, 55-60). Questa preghiera era un frutto dell’azione dello Spirito Santo nel cuore del martire.
Anche negli Atti del martirio di altri confessori di Cristo, si ritrova la stessa ispirazione interiore della preghiera. In quelle pagine si esprime la coscienza cristiana formata alla scuola del Vangelo e delle Lettere degli Apostoli, e diventata coscienza della Chiesa stessa.
4. In realtà, soprattutto nell’insegnamento di San Paolo, lo Spirito Santo appare come l’autore della preghiera cristiana. Anzitutto perché sprona alla preghiera. È lui che genera il bisogno e il desiderio di ottemperare a quel “Vegliate e pregate” raccomandato da Cristo, specialmente nell’ora della tentazione, perché “lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mt 26, 41). Un’eco di questa esortazione sembra risonare nella esortazione della Lettera agli Efesini: “Pregate . . . incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilate a questo scopo con ogni perseveranza . . . perché mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo” (Ef 6, 18-19). Paolo si riconosce nella condizione degli uomini che hanno bisogno di preghiera per resistere alla tentazione e non cadere vittime della loro umana debolezza, e per far fronte alla missione a cui sono chiamati. Egli ha sempre presente e in qualche momento sente in modo quasi drammatico la consegna che gli è stata data, di essere nel mondo, specialmente in mezzo ai pagani, il testimone di Cristo e del Vangelo. E sa che ciò che è chiamato a fare e a dire è anche e soprattutto opera dello Spirito di verità, del quale Gesù ha detto: “prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16, 14). Trattandosi di una “cosa di Cristo” che lo Spirito Santo prende per “glorificarlo” mediante l’annuncio missionario, è solo con l’entrare nel circuito di quel rapporto tra Cristo e il suo Spirito, nel mistero dell’unità col Padre, che l’uomo può svolgere una simile missione: la via d’ingresso in tale comunione è la preghiera, suscitata in noi dallo Spirito.
5. Con parole particolarmente penetranti, nella lettera ai Romani l’Apostolo mostra come “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rm 8, 26). Simili gemiti Paolo ascolta salire in qualche modo dall’intimo stesso della creazione, la quale, “attendendo la rivelazione dei figli di Dio”, con la speranza di “essere liberata dalla schiavitù della corruzione, geme e soffre quasi nelle doglie del parto” (Rm 8, 19.21-22). E su questo scenario, storico e spirituale, opera lo Spirito Santo: “Colui che scruta i cuori (Dio) sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché Egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8, 27).
Siamo alla radice più intima e profonda della preghiera. Paolo ce la addita e ci fa dunque comprendere che lo Spirito Santo non soltanto ci sprona alla preghiera, ma Egli stesso prega in noi!
6. Lo Spirito Santo è all’origine della preghiera che rispecchia nel modo più perfetto la relazione intercorrente tra le divine Persone della Trinità: la preghiera di glorificazione e di azione di grazie, con cui si onora il Padre, e con Lui il Figlio e lo Spirito Santo. Questa preghiera era sulla bocca degli Apostoli nel giorno della Pentecoste, quando “annunziavano le grandi opere di Dio” (At 2, 11). Lo stesso avvenne nella casa del centurione Cornelio, quando, durante il discorso di Pietro, i presenti ricevettero “il dono dello Spirito Santo” e “glorificavano Dio” (cf. At 10, 45-47).
San Paolo interpreta questa prima esperienza cristiana, diventata patrimonio comune nella Chiesa delle origini, quando nella Lettera ai Colossesi, dopo aver auspicato che “la parola di Cristo . . . dimori in voi con tutta la sua ricchezza” (Col 3, 16), esorta i cristiani a permanere nella preghiera, “cantando a Dio di cuore e con gratitudine”, ammaestrando e ammonendo se stessi con “salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3, 16). E chiede loro che questo stile di vita orante venga trasferito in tutto “quello che si fa in parole ed opere”: “Tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di Lui grazie a Dio Padre” (Col 3, 17). Analoga raccomandazione nella Lettera agli Efesini: “Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni . . . cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo” (Ef 5, 18-20).
Risalta qui la dimensione trinitaria della preghiera cristiana, secondo l’insegnamento e l’esortazione dell’Apostolo. Si vede altresì come, secondo l’Apostolo, è lo Spirito Santo che sprona a tale preghiera e la forma nel cuore dell’uomo. La “vita di orazione” dei Santi, dei mistici, delle scuole e correnti di spiritualità, che si è sviluppata nei secoli cristiani, è sulla linea dell’esperienza delle comunità primitive. Su tale linea si mantiene la liturgia della Chiesa, come appare, ad esempio, nel Gloria in excelsis Deo, quando diciamo: “Ti rendiamo grazie, per la tua gloria immensa”; così nel Te Deum, nel quale lodiamo Dio e lo confessiamo Signore. Nei Prefazi, poi, ritorna l’invariabile invito: “Rendiamo grazie al Signore Nostro Dio”, e i fedeli sono invitati a dare la risposta di assenso e di partecipazione: “È cosa buona e giusta”. Come è bello, peraltro, ripetere con la Chiesa orante, alla fine di ogni Salmo e in tante altre occasioni, la breve, densa e splendida dossologia del Gloria Patri: “Gloria al Padre, e al Figlio e allo Spirito Santo . . .”.
7. La glorificazione di Dio Uno e Trino, sotto l’azione dello Spirito Santo che prega in noi e per noi, avviene principalmente nel cuore, ma si traduce anche nelle lodi vocali per un bisogno di espressione personale e di associazione comunitaria nel celebrare le meraviglie di Dio. L’anima che ama Dio esprime se stessa nelle parole e facilmente anche nel canto, come sempre è avvenuto nella Chiesa, fin dalle prime comunità cristiane. Sant’Agostino c’informa che “Sant’Ambrogio introdusse il canto nella Chiesa di Milano” (cf. Sant’Agostino, Confessioni, 9, cap. 7: PL 32,770), e ricorda di aver pianto ascoltando “gli inni e i cantici soavemente echeggianti della tua Chiesa, tocco da commozione profonda” (cf. Ivi, 9, cap. 6: PL 32,769). Anche il suono può essere di aiuto nella lode a Dio, quando gli strumenti servono a “trasportare in alto (rapere in celsitudinem) gli affetti umani” (San Tommaso, Expositio in Psalmos, 32,2). Così si spiega il valore dei canti e dei suoni nella liturgia della Chiesa, in quanto “servono a eccitare l’affetto verso Dio . . . (anche) con le varie modulazioni dei suoni . . .” (San Tommaso, Summa theologiae, II-II, q. 92, a. 2; Sant’Agostino, Confessioni, 10, cap. 22: PL 32,800). Se le norme liturgiche vengono osservate, si può sperimentare anche oggi ciò che Sant’Agostino ricordava in quell’altro passo delle sue Confessioni: “Quali voci, o mio Dio, levai a te nel leggere i salmi di Davide, cantici di fede, musica di pietà . . . Quali voci levavo a Te nel leggere quei salmi! Come mi infiammavo d’amore per Te e di desiderio di recitarli, se avessi potuto, in faccia a tutta la terra . . .” (Sant’Agostino, Confessioni, 9, cap. 4, n. 8). Tutto ciò avviene quando, sia le anime singole sia la comunità, assecondano l’azione intima dello Spirito Santo.

Giovanni Paolo II: Abramo Padre di tutti i viventi

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/2000/documents/hf_jp-ii_hom_20000223_abraham_it.html

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

NELLA CELEBRAZIONE IN RICORDO DI ABRAMO, « PADRE DI TUTTI I CREDENTI »

23 febbraio 2000

1. « Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese… In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abràm: Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate » (Gn 15, 7. 18)
Prima che Mosè udisse sul monte Sinai le note parole di Jahvé: « Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù » (Es 20, 2), il Patriarca Abramo aveva già sentito queste altre parole: « Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei ». Dobbiamo, pertanto, dirigerci col pensiero verso tale luogo importante nella storia del Popolo di Dio, per cercarvi i primordi dell’alleanza di Dio con l’uomo. Ecco perché, in quest’anno del Grande Giubileo, mentre risaliamo col cuore agli inizi dell’alleanza di Dio con l’umanità, il nostro sguardo si volge verso Abramo, verso il luogo dove egli avvertì la chiamata di Dio e ad essa rispose con l’obbedienza della fede. Insieme con noi, anche gli ebrei e i musulmani guardano alla figura di Abramo come ad un modello di incondizionata sottomissione al volere di Dio (cfr Nostra aetate, 3).
L’autore della Lettera agli Ebrei scrive: « Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava » (11, 8). Ecco: Abramo, nominato dall’Apostolo « nostro Padre nella fede » (cfr Rm 4,11-16), credette a Dio, si fidò di Lui che lo chiamava. Credette alla promessa. Dio disse ad Abramo: « Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra » (Gn 12, 1-3). Stiamo forse parlando del tracciato di una delle molteplici migrazioni tipiche di un’epoca in cui la pastorizia era una fondamentale forma di vita economica? E’ probabile. Sicuramente, però, non si trattò solo di questo. Nella vicenda di Abramo, da cui prese inizio la storia della salvezza, possiamo già percepire un altro significato della chiamata e della promessa. La terra, verso la quale si avvia l’uomo guidato dalla voce di Dio, non appartiene esclusivamente alla geografia di questo mondo. Abramo, il credente che accoglie l’invito di Dio, è colui che si muove nella direzione di una terra promessa che non è di quaggiù.
2. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei: « Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una tua discendenza che porterà il tuo nome » (11,17-18). Ecco l’apogeo della fede di Abramo. Abramo viene messo alla prova da quel Dio nel quale aveva riposto la sua fiducia, da quel Dio dal quale aveva ricevuto la promessa concernente il lontano futuro: « In Isacco avrai una tua discendenza che porterà il tuo nome » (Eb 11, 18). E’ chiamato, però, ad offrire in sacrificio a Dio proprio quell’Isacco, il suo unico figlio, a cui era legata ogni sua speranza, conforme del resto alla divina promessa. Come potrà compiersi la promessa che Dio gli ha fatto di una numerosa discendenza, se Isacco, l’unico figlio, dovrà essere offerto in sacrificio?
Mediante la fede, Abramo esce vittorioso da questa prova, una prova drammatica che metteva in questione direttamente la sua fede. « Egli pensava infatti – scrive l’Autore della Lettera agli Ebrei – che Dio è capace di far risorgere dai morti » (11, 19). In quell’istante umanamente tragico, in cui era ormai pronto ad infliggere il colpo mortale a suo figlio, Abramo non cessò di credere. Anzi, la sua fede nella promessa di Dio raggiunse il culmine. Pensava: « Dio è capace di far risorgere dai morti ». Così pensava questo padre provato, umanamente parlando, oltre ogni misura. E la sua fede, il suo totale abbandono in Dio, non lo deluse. Sta scritto: « per questo lo riebbe » (Eb 11, 19). Riebbe Isacco, poiché credette a Dio fino in fondo e incondizionatamente.
L’Autore della Lettera sembra esprimere qui qualcosa di più: tutta l’esperienza di Abramo gli appare un’analogia dell’evento salvifico della morte e della risurrezione di Cristo. Quest’uomo, posto all’origine della nostra fede, fa parte dell’eterno disegno divino. Secondo una tradizione, il luogo dove Abramo fu sul punto di sacrificare il proprio figlio, è lo stesso sul quale un altro padre, l’eterno Padre, avrebbe accettato l’offerta del suo Figlio unigenito, Gesù Cristo. Il sacrificio di Abramo appare così come annuncio profetico del sacrificio di Cristo. « Dio infatti – scrive san Giovanni – ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (3, 16). Il Patriarca Abramo, nostro padre nella fede, senza saperlo introduce in un certo qual senso tutti i credenti nel disegno eterno di Dio, nel quale si realizza la redenzione del mondo.
3. Un giorno Cristo affermò: « In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono » (Gv 8, 58), e queste parole destarono lo stupore degli ascoltatori che obiettarono: « Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo? » (Gv 8, 57). Chi reagiva così, ragionava in modo meramente umano, e per questo non accettò quanto Cristo diceva. « Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere? » (Gv 8, 53). Ad essi Gesù replicò: « Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò » (Gv 8, 56). La vocazione di Abramo appare completamente orientata verso il giorno di cui parla Cristo. Qui non reggono i calcoli umani; occorre applicare la misura di Dio. Solo allora possiamo comprendere il giusto significato dell’obbedienza di Abramo, che « ebbe fede sperando contro ogni speranza » (Rm 4, 18). Sperò di diventare padre di numerose nazioni, ed oggi sicuramente gioisce con noi perché la promessa di Dio si compie lungo i secoli, di generazione in generazione.
L’aver creduto, sperando contro ogni speranza, « gli fu accreditato come giustizia » (Rm 4, 22), non soltanto in considerazione di lui, ma anche di noi tutti, suoi discendenti nella fede. Noi « crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore » (Rm 4, 24), messo a morte per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cfr Rm 4, 25). Questo, Abramo non lo sapeva; mediante l’obbedienza della fede, egli tuttavia si dirigeva verso il compimento di tutte le promesse divine, animato dalla speranza che esse si sarebbero realizzate. Ed esiste forse promessa più grande di quella compiutasi nel mistero pasquale di Cristo? Davvero, nella fede di Abramo Dio onnipotente ha stretto un’alleanza eterna con il genere umano, e definitivo compimento di essa è Gesù Cristo. Il Figlio unigenito del Padre, della sua stessa sostanza, si è fatto Uomo per introdurci, mediante l’umiliazione della Croce e la gloria della risurrezione, nella terra di salvezza che Dio, ricco di misericordia, ha promesso all’umanità sin dall’inizio.
4. Modello insuperabile del popolo redento, in cammino verso il compimento di questa universale promessa, è Maria, « colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore » (Lc 1,45).
Figlia di Abramo secondo la fede oltre che secondo la carne, Maria ne condivise in prima persona l’esperienza. Anche Lei, come Abramo, accettò l’immolazione del Figlio, ma mentre ad Abramo il sacrificio effettivo di Isacco non fu richiesto, Cristo bevve il calice della sofferenza sino all’ultima goccia. E Maria partecipò personalmente alla prova del Figlio, credendo e sperando ritta accanto alla croce (cfr Gv 19,25).
Era l’epilogo di una lunga attesa. Formata nella meditazione delle pagine profetiche, Maria presagiva ciò che l’attendeva e nell’esaltare la misericordia di Dio, fedele al suo popolo di generazione in generazione, esprimeva la propria adesione al suo disegno di salvezza; esprimeva in particolare il suo « sì » all’evento centrale di quel disegno, il sacrificio di quel Bimbo che portava in grembo. Come Abramo, accettava il sacrificio del Figlio.
Noi oggi uniamo la nostra voce alla sua, e con Lei, la Vergine Figlia di Sion, proclamiamo che Iddio si è ricordato della sua misericordia, « come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo ed alla sua discendenza, per sempre » (Lc 1,55).

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 9 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II, Messaggio Urbi et Orbi Natale 2001: « Christus est pax nostra »,

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/urbi/documents/hf_jp-ii_mes_20011225_urbi_it.html

MESSAGGIO URBI ET ORBI

(Giovanni Paolo II)

NATALE 2001

1.     « Christus est pax nostra »,
« Cristo è la nostra pace,
colui che ha fatto dei due un popolo solo » (Ef 2,14).

All’alba del nuovo millennio
iniziato con tante speranze,
ma ora minacciato da nubi tenebrose
di violenza e di guerra,
la parola dell’apostolo Paolo,
che ascoltiamo in questo Natale,
è un raggio di luce possente,
un grido di fiducia e di ottimismo.

Il Bimbo divino nato a Betlemme
reca in dono nelle sue piccole mani
il segreto della pace per l’umanità.
Egli è il Principe della pace!
Ecco il lieto annuncio, risonato quella notte a Betlemme,
e che voglio ripetere al mondo
in questo giorno benedetto

« Vi annuncio una grande gioia,
che sarà di tutto il popolo:
oggi vi è nato nella città di Davide
un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc 2,10-11).
Quest’oggi la Chiesa fa eco agli angeli,
e rilancia il loro straordinario messaggio,
che sorprese per primi i pastori
sulle alture di Betlemme.
2.     « Christus est pax nostra! »
Cristo, « il bambino avvolto in fasce,
che giace in una mangiatoia » (Lc 2,12),
proprio Lui è la nostra pace.
Un inerme Neonato nell’umiltà di una grotta
restituisce dignità a ogni vita che nasce,
dona speranza a chi giace nel dubbio e nello sconforto.
Egli è venuto per guarire i feriti della vita
e per ridare senso persino alla morte.
In quel Bambino, mite e indifeso,
che vagisce in una grotta fredda e nuda,
Dio ha distrutto il peccato,
e ha posto il germoglio di un’umanità nuova,
chiamata a portare a compimento
l’originario progetto della creazione
e a trascenderlo con la grazia della redenzione.
3.     « Christus est pax nostra! »
Uomini e donne del terzo millennio,
voi che avete fame di giustizia e di pace,
accogliete il messaggio di Natale,
che si diffonde oggi nel mondo!
Gesù è nato per rinsaldare i legami
tra gli uomini e i popoli,
per renderli tutti, in se stesso, fratelli.
E’ venuto per abbattere « il muro di separazione
che era frammezzo, cioè l’inimicizia » (Ef 2,14),
e per fare dell’umanità un’unica famiglia.
Sì, con certezza possiamo ripetere:
Oggi col Verbo incarnato è nata la pace!
Pace da implorare,
perché Dio solo ne è autore e garante.
Pace da costruire
in un mondo dove popoli e nazioni,
provati da tante e diverse difficoltà,
sperano in un’umanità
non solo globalizzata da interessi economici,
ma dallo sforzo costante
di una più giusta e solidale convivenza.
4.     Accorriamo come i pastori a Betlemme,
sostiamo adoranti nella grotta,
fissando lo sguardo sul neonato Redentore.
In Lui possiamo riconoscere i tratti
di ogni piccolo essere umano che viene alla luce,
a qualunque razza e nazione appartenga:
è il piccolo palestinese e il piccolo israeliano;
è il bimbo statunitense ed è quello afghano;
è il figlio dell’hutu e il figlio del tutsi…
è il bimbo qualunque, che per Cristo è qualcuno.
Oggi il mio pensiero va a tutti i bambini del mondo:
tanti, troppi sono i bambini
che nascono condannati a patire senza colpa
le conseguenze di disumani conflitti.
Salviamo i bambini,
per salvare la speranza dell’umanità!
Ce lo chiede oggi con forza
quel Bimbo nato a Betlemme,
il Dio che si è fatto uomo,
per restituirci il diritto a sperare.
5.     Imploriamo dal Cristo il dono della pace
per quanti sono provati da antichi e nuovi conflitti.
Ogni giorno porto nel cuore
i drammatici problemi della Terra Santa;
ogni giorno penso con apprensione
a quanti muoiono di freddo e di fame;
ogni giorno mi giunge accorato
il grido di chi, in tante parti del mondo,
invoca una più equa distribuzione delle risorse
e un’occupazione dignitosamente retribuita per tutti.
Che nessuno cessi di sperare
nella potenza dell’amore di Dio!
Cristo sia luce e sostegno
di chi crede ed opera, talora controcorrente,
per l’incontro, il dialogo, la cooperazione
tra le culture e le religioni.
Cristo guidi nella pace i passi
di chi instancabilmente si adopera
per il progresso della scienza e della tecnica.
Non si usino mai questi grandi doni di Dio
contro il rispetto e la promozione della dignità umana.
Mai si ponga il nome santo di Dio
a suggello dell’odio!
Mai se ne faccia ragione di intolleranza e di violenza!
Il volto dolce del Bambino di Betlemme
ricordi a tutti che abbiamo un unico Padre.
6.     « Christus est pax nostra! »
Fratelli e Sorelle che mi ascoltate,
aprite il cuore a questo messaggio di pace,
apritelo a Cristo, Figlio della Vergine Maria,
a Colui che si è fatto « nostra pace »!
Apritelo a Colui che nulla ci toglie
se non il peccato,
e ci dona in cambio pienezza
di umanità e di gioia.
E Tu, adorato Bambino di Betlemme,
reca la pace in ogni famiglia e città,
in ogni nazione e continente.
Vieni, Dio fatto uomo!
Vieni ad essere il cuore del mondo rinnovato dall’amore!
Vieni dove maggiormente in pericolo
sono le sorti dell’umanità!
Vieni, e non tardare!
Tu sei « la nostra pace » (Ef 2,14)!

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