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PAPA FRANCESCO – CONTEMPLARE GESÙ MITE E SOFFERENTE (2013)

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

CONTEMPLARE GESÙ MITE E SOFFERENTE

Giovedì, 12 settembre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 209, Ven. 13/09/2013)

Non è facile per i cristiani vivere secondo i principi e le virtù ispirati da Gesù. «Non è facile, ma — ha detto Papa Francesco durante la messa celebrata giovedì mattina, 12 settembre, nella cappella di Santa Marta — è possibile»: basta «contemplare Gesù sofferente e l’umanità sofferente» e vivere «una vita nascosta in Dio con Gesù».
La riflessione del Santo Padre è stata ispirata dalla ricorrenza della memoria liturgica del nome di Maria. «Oggi — ha esordito — festeggiamo l’onomastico della Madonna. Il santo nome di Maria. Una volta questa festa si chiamava il dolce nome di Maria e oggi nella preghiera abbiamo chiesto la grazia di sperimentare la forza e la dolcezza di Maria. Poi è cambiato, ma nella preghiera è rimasta questa dolcezza del suo nome. Abbiamo bisogno oggi della dolcezza della Madonna per capire queste cose che Gesù ci chiede. È un elenco non facile da vivere: amate i nemici, fate del bene, prestate senza sperare nulla, a chi ti percuote sulla guancia offri anche l’altra, a chi ti strappa il mantello non rifiutare anche la tunica. Sono cose forti. Ma tutto questo, a suo modo, è stato vissuto dalla Madonna: la grazia della mansuetudine, la grazia della mitezza».
«L’apostolo Paolo — ha proseguito — insiste sullo stesso tema: “Fratelli, scelti da Dio, santi e amati. Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri” se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato così fate anche voi (Colossesi 3, 12-17)». Certo, ha notato il Pontefice, ci viene chiesto molto e per questo la prima domanda che sorge spontanea è: «Ma come posso fare questo? Come mi preparo per fare questo? Cosa devo studiare per fare questo?». La risposta per il Papa è chiara: «Noi, con il nostro sforzo, non possiamo farlo. Soltanto una grazia può farlo in noi. Il nostro sforzo aiuterà; è necessario ma non sufficiente».
«L’apostolo Paolo In questi giorni — ha proseguito il Pontefice — ci ha parlato spesso di Gesù. Gesù come la totalità del cristiano, Gesù come il centro del cristiano, Gesù come la speranza del cristiano, perché è lo sposo della Chiesa e porta speranza per andare avanti; Gesù come vincitore sul peccato, sulla morte. Gesù vince ed è andato in cielo con la sua vittoria». A questo proposito l’apostolo ci insegna qualcosa, «ci dice: “Fratelli, se siete risorti con Cristo cercate le cose di lassù dove è Cristo trionfatore; è là, seduto alla destra di Dio. Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra… Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”».
È questa «la strada per fare quello che il Signore ci chiede: nascondere la nostra vita con Cristo in Dio» ha ripetuto il Papa. E ciò deve rinnovarsi in ognuno dei nostri atteggiamenti quotidiani, poiché, ha spiegato il Vescovo di Roma, solo se abbiamo il cuore e la mente rivolti al Signore, «trionfatore sul peccato e sulla morte», possiamo fare quello che egli ci chiede.
Mitezza, umiltà, bontà, tenerezza, mansuetudine, magnanimità sono tutte virtù che servono per seguire la strada indicata da Cristo. Riceverle è «una grazia. Una grazia — ha specificato il Santo Padre — che viene dalla contemplazione di Gesù». Non a caso, ha ricordato ancora, i nostri padri e le nostre madri spirituali ci hanno insegnato quanto sia importante guardare alla passione del Signore.«Solo contemplando l’umanità sofferente di Gesù — ha ripetuto il Pontefice — possiamo diventare miti, umili, teneri così come lui. Non c’è altra strada». Certo, dovremo fare lo sforzo di «cercare Gesù; di pensare alla sua passione, a quanto ha sofferto; di pensare al suo silenzio mite». Questo, ha ribadito, sarà il nostro sforzo; poi «al resto ci pensa lui, e farà tutto quello che manca. Ma tu devi fare questo: nascondere la tua vita in Dio con Cristo».
Dunque per essere buoni cristiani è necessario contemplare sempre l’umanità di Gesù e l’umanità sofferente. «Per rendere testimonianza? Contempla Gesù. Per perdonare? Contempla Gesù sofferente. Per non odiare il prossimo? Contempla Gesù sofferente. Per non chiacchierare contro il prossimo? Contempla Gesù sofferente. Non c’è altra strada» ha ripetuto il Papa ricordando poi che queste virtù sono le stesse del Padre, «che è buono, mite e magnanimo, che ci perdona sempre», e le stesse della Madonna nostra madre. Non è facile ma è possibile. «Affidiamoci alla Madonna. E quando oggi — ha concluso — le diamo gli auguri per il suo onomastico, chiediamole che ci dia la grazia di sperimentare la sua dolcezza».

IL MARTIRIO NON APPARTIENE SOLO AL PASSATO – PAPA FRANCESCO

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IL MARTIRIO NON APPARTIENE SOLO AL PASSATO – PAPA FRANCESCO

· MESSA A SANTA MARTA · 04 MARZO 2014

La persecuzione dei cristiani non è un fatto che appartiene al passato, agli albori del cristianesimo. È una triste realtà dei nostri giorni. Anzi, «ci sono più martiri oggi che nei primi tempi della Chiesa». Ne è convinto Papa Francesco e lo ha ribadito questa mattina, martedì 4 marzo, durante la messa celebrata a Santa Marta, chiedendo di riflettere sulla testimonianza di questi fratelli e di queste sorelle nella fede. Ma, ha ricordato il Papa, Gesù ci aveva avvertito: seguirlo significa godere della sua generosità ma anche «subire persecuzioni nel suo nome», come scrive Marco nel passo del Vangelo proposto dalla liturgia (10, 28-31).
«Gesù — ha esordito il Pontefice — aveva finito di parlare del pericolo delle ricchezze, di quanto era difficile che un ricco entrasse nel regno dei cieli. E Pietro gli fa questa domanda: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Quale sarà il nostro guadagno?”. Gesù è generoso e comincia a dire a Pietro: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madri o padri o campi per causa mia e per causa del Vangelo che non riceva già ora in questo tempo cento volte, e fratelli e sorelle e madri e figli e campi…”».
Forse, ha proseguito il Pontefice, Pietro pensava: «Questa è una bella attività commerciale, andare dietro Gesù ci fa guadagnare tanto, cento volte tanto». Ma Gesù «aggiunge tre paroline: “insieme a persecuzioni”. E poi avrà la vita eterna». In sostanza intende: «Sì, voi avete lasciato tutto e riceverete qui nella terra tante cose, ma con la persecuzione». È «come — ha commentato il Santo Padre — un’insalata con l’olio della persecuzione. Questo è il guadagno del cristiano e questa è la strada di chi vuole andare dietro Gesù. Perché è la strada che ha fatto lui: lui è stato perseguitato».
È la strada dell’abbassamento, la stessa che — ha ricordato il vescovo di Roma — san Paolo indica ai Filippesi quando dice che Gesù, facendosi uomo, si abbassò sino alla morte di croce. «Questa è proprio la tonalità della vita cristiana», che è anche gioia. Infatti «seguire Gesù è una gioia. Nelle beatitudini Gesù dice: beati voi quando vi insulteranno, quando sarete perseguitati a causa del mio nome»
Dunque la persecuzione, ha precisato il Pontefice, è una delle beatitudini. Tanto che «i discepoli, subito dopo la venuta dello Spirito Santo, hanno cominciato a predicare e sono cominciate le persecuzioni. Pietro è andato in carcere, Stefano ha testimoniato con la morte, così come Gesù, con falsi testimoni. E poi ci sono stati ancora tanti altri testimoni, sino al giorno d’oggi. La croce è sempre sulla strada cristiana».
Certo, ha continuato Papa Francesco, noi potremo avere tanti religiosi, tante religiose, «tante madri, tanti padri, tanti fratelli nella Chiesa, nella comunità cristiana. E questo — ha fatto notare — è bello. Ma avremo anche la persecuzione, perché il mondo non tollera la divinità di Cristo, non tollera l’annuncio del Vangelo, non tollera le beatitudini». Proprio da qui scaturisce la persecuzione, che passa anche attraverso le parole, le calunnie. Così avveniva ai cristiani dei primi secoli, che subivano le diffamazioni e pativano il carcere.
«Ma noi — ha osservato il Santo Padre — dimentichiamo facilmente. Pensiamo ai tanti cristiani che sessant’anni fa erano rinchiusi nei campi, nelle prigioni dei nazisti, dei comunisti: tanti, solo perchè erano cristiani». E questo è ciò che accade «anche oggi», ha lamentato, nonostante la nostra convinzione di aver raggiunto un grado di civiltà diversa e una cultura più matura.
«Io vi dico — ha affermato il Papa — che oggi ci sono più martiri che nei primi tempi della Chiesa. Tanti fratelli e sorelle nostre che offrono la loro testimonianza di Gesù e sono perseguitati. Sono condannati perchè posseggono una Bibbia. Non possono portare il segno della croce». Questa è «la strada di Gesù. Ma è una strada gioiosa perchè mai il Signore ci mette alla prova più di quello che noi possiamo sopportare».
Certamente «la vita cristiana non è un vantaggio commerciale», ha puntualizzato il Pontefice. È semplicemente «seguire Gesù. Quando seguiamo Gesù succede questo. Pensiamo se noi abbiamo dentro di noi la voglia di essere coraggiosi nella testimonianza di Gesù». E, ha aggiunto, «pensiamo anche — ci farà bene — ai tanti fratelli e sorelle che oggi non possono pregare insieme perché sono perseguitati, non possono avere il libro del Vangelo o una Bibbia perchè sono perseguitati. Pensiamo a questi fratelli e sorelle che non possono andare a messa perchè è vietato. Quante volte giunge un prete di nascosto fra loro e fanno finta di essere a tavola a prendere un tè e celebrano la messa di nascosto. Questo succede oggi». Da qui l’invito conclusivo: «Pensiamo: sono disposto a portare la croce come Gesù? A sopportare persecuzioni per dare testimonianza a Gesù come fanno questi fratelli e sorelle che oggi sono umiliati e perseguitati? Questo pensiero ci farà bene a tutti».

PAPA FRANCESCO – MEDITAZIONE MATTUTINA: CHIESA DI MARTIRI

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

CHIESA DI MARTIRI

Martedì, 21 aprile 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.091, 22/04/2015)

«Oggi la Chiesa è Chiesa di martiri». E tra questi ci sono «i nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; quel ragazzino bruciato vivo dai compagni perché cristiano; quei migranti che in alto mare sono buttati in mare perché cristiani; quegli etiopi, assassinati perché cristiani». Richiamando la storia del protomartire santo Stefano, Papa Francesco, nella messa celebrata martedì 21 aprile nella cappella della Casa Santa Marta, ha ricordato i tanti martiri di oggi: anche quelli di cui non conosciamo i nomi, che soffrono nelle carceri o vengono calunniati e perseguitati «da tanti sinedri moderni» o, ancora, vivono ogni giorno «la fedeltà nella propria famiglia».
Il Pontefice ha iniziato l’omelia indicando proprio ciò che accomuna tutti i martiri: sono coloro, ha spiegato, «che nella storia della Chiesa hanno dato testimonianza di Gesù» senza avere «bisogno di altri pani: per loro era sufficiente soltanto Gesù, perché avevano fede in Gesù». E «oggi — ha sottolineato — la Chiesa ci fa riflettere e ci propone, nella liturgia della parola, il primo martire cristiano», santo Stefano appunto, del quale parlano gli Atti degli apostoli (7, 51-8, 1).
«Quest’uomo non aveva fame, non aveva bisogno di andare al negoziato, ai compromessi con altri pani, per sopravvivere» ha affermato il Papa. E con questo stile «dà testimonianza di Gesù» fino al martirio. Già «ieri — ha ricordato riferendosi alla liturgia della parola del giorno precedente — la Chiesa ha incominciato a parlare di lui: alcuni della sinagoga, i “liberti”, si alzarono a discutere con Stefano ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo spirito con cui egli parlava». Infatti, ha spiegato, «Stefano era pieno dello Spirito Santo e parlava con la saggezza dello Spirito: era forte». E così queste persone «istigarono alcuni perché dicessero di averlo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio, e dare falsa testimonianza». Con queste accuse «sollevarono il popolo, gli anziani, gli scribi: gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio».
«È curioso» — ha fatto notare il Papa — come «la storia di Stefano» segua «gli stessi passi di quella di Gesù», e cioè lo schema dei «falsi testimoni» per «sollevare il popolo e portarlo a giudizio. E oggi abbiamo sentito come finisce questa storia, perché Stefano nel sinedrio spiega la dottrina di Gesù, fa una lunga spiegazione». In realtà i suoi accusatori «non volevano ascoltare, avevano il cuore chiuso». Così «alla fine Stefano, con la forza dello Spirito, dice loro la verità: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie”, cioè pagani, “non avete il cuore e le orecchie della fede in Dio”». Con quel «siete pagani, incirconcisi» Stefano proprio «vuol dire quello». E aggiunge: «Voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo».
«Una delle caratteristiche della testardaggine davanti alla parola di Dio» è costituita, appunto, dalle «resistenze allo Spirito Santo», ha spiegato il Papa, ripetendo le parole di Stefano: voi siete «come i vostri padri. Quali dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato?». Stefano, dunque, «ricorda tanti profeti che sono stati perseguitati e uccisi per essere stati fedeli alla parola di Dio». Poi «quando lui confessa la sua visione di Gesù, quello che Dio gli fa vedere in quel momento, lui, pieno di Spirito Santo, loro si scandalizzano e gridano a gran voce, fanno uno strepito, si turano le orecchie». E questo è un «bel segno», ha commentato il Papa, perché «non volevano ascoltare». E così «si scagliano tutti insieme contro di lui, lo trascinano fuori dalla città e si mettono a lapidarlo».
E questa è sempre «la storia dei martiri», anche «quelli dell’Antico Testamento, dei quali parlava Stefano nel sinedrio». La questione è che la «parola di Dio dispiace sempre a certi cuori; la parola di Dio dà fastidio quando tu hai il cuore duro, quando tu hai il cuore pagano, perché la parola di Dio ti interpella ad andare avanti, cercando e sfamandoti con quel pane del quale parlava Gesù».
«Nella storia della rivelazione» ha affermato Francesco, ci sono «tanti martiri che sono stati uccisi per fedeltà alla parola di Dio, alla verità di Dio». Così «il martirio di Stefano assomiglia tanto al sacrificio di Gesù». E mentre lo lapidavano Stefano pregava dicendo: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». Come non ricordare che Gesù aveva detto sulla croce: «Padre, nelle tue mani lascio il mio spirito»?. E, ancora, gli Atti degli apostoli ci raccontano che Stefano «poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”». Di nuovo, Gesù aveva detto: «Perdona loro, Signore, Padre: non sanno cosa fanno». Qui c’è tutta «quella magnanimità cristiana del perdono, della preghiera per i nemici».
Ma «questi che perseguitavano i profeti, questi che hanno perseguitato e ucciso Stefano e tanti martiri, questi — Gesù lo aveva detto — credevano di dare gloria a Dio, credevano che» così facendo «erano fedeli alla dottrina di Dio». E, ha affermato il Papa, «oggi io vorrei ricordare che la storia della Chiesa, la vera storia della Chiesa, è la storia dei santi e dei martiri: i martiri perseguitati» e tanti anche «uccisi da quelli che credevano di dare gloria a Dio, da quelli che credevano di avere la verità: cuore corrotto, ma la verità».
Anche «in questi giorni quanti “Stefano” ci sono nel mondo!» ha esclamato il Papa. E ha di fatto richiamato storie recenti di persecuzione: «Pensiamo ai nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; pensiamo a quel ragazzino bruciato vivo dai compagni perché cristiano; pensiamo a quei migranti che in alto mare sono buttati in mare dagli altri perché cristiani; pensiamo — l’altro ieri — quegli etiopi, assassinati perché cristiani». E ancora, ha aggiunto, «tanti altri che noi non conosciamo, che soffrono nelle carceri perché cristiani».
Oggi, ha affermato Francesco, «la Chiesa è Chiesa di martiri: loro soffrono, loro danno la vita e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza». E «ci sono anche i martiri nascosti, quegli uomini e quelle donne fedeli alla forza dello Spirito Santo, alla voce dello Spirito, che fanno strade, che cercano strade nuove per aiutare i fratelli e amare meglio Dio». E per questa ragione «vengono sospettati, calunniati, perseguitati da tanti sinedri moderni che si credono padroni della verità». Oggi, ha detto il Pontefice, ci sono «tanti martiri nascosti» e tra loro ce ne sono numerosi «che per essere fedeli nella loro famiglia soffrono tanto per fedeltà».
«La nostra Chiesa è Chiesa di martiri» ha ribadito Francesco prima di proseguire la celebrazione, durante la quale, ha detto, «verrà da noi il “primo martire”, il primo che ha dato testimonianza e, più, salvezza a tutti noi». Dunque, ha esortato il Papa, «uniamoci a Gesù nell’Eucaristia, e uniamoci a tanti fratelli e sorelle che soffrono il martirio della persecuzione, della calunnia e dell’uccisione per essere fedeli all’unico pane che sazia, cioè a Gesù».

PAPA FRANCESCO – PAROLE CHIAVE

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PAPA FRANCESCO – PAROLE CHIAVE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 11 giugno 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.131, 12/06/2015)

In cammino verso Dio e verso gli altri, nel servizio e nella povertà. Così si potrebbe sintetizzare la meditazione di Papa Francesco nel corso della messa celebrata a Santa Marta giovedì 11 giugno. Nel commentare il brano di Matteo (10, 7-13) nel quale «Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare il vangelo, la nuova notizia, il vangelo di salvezza», il Pontefice ha infatti sottolineato come si possano estrapolare «tre parole chiave per capire bene quello che Gesù vuole dai suoi discepoli» e «da tutti noi che seguiamo lui». Le tre parole sono: «cammino, servizio e gratuità».
Innanzitutto Gesù invia «a un cammino». Un cammino che, beninteso, non è una semplice «passeggiata». Quello di Gesù, ha spiegato Francesco, «è un invio con un messaggio: annunciare il vangelo, uscire per portare la salvezza, il vangelo della salvezza». E questo è «il compito che Gesù dà ai suoi discepoli». Perciò chi «rimane fermo e non esce, non dà quello che ha ricevuto nel battesimo agli altri, non è un vero discepolo di Gesù». Infatti «gli manca la missionarietà», gli manca «l’uscire da se stesso per portare qualcosa di bene agli altri».
C’è poi, ha approfondito il Papa, anche un altro «percorso del discepolo di Gesù», ovvero «il percorso interiore», quello del «discepolo che cerca il Signore tutti i giorni, nella preghiera, nella meditazione». E non è secondario, ha sottolineato Francesco: «Anche quel percorso il discepolo deve farlo perché se non cerca sempre Dio, il vangelo che porta agli altri sarà un vangelo debole, annacquato, senza forza».
Quindi c’è un «doppio cammino che Gesù vuole dai suoi discepoli». Questo racchiude la «prima parola» messa in evidenza dal Vangelo di oggi: «camminare, cammino».
C’è poi la seconda: «servizio». Ed è strettamente legata alla prima. Occorre infatti, ha detto il Papa, «camminare per servire gli altri». Si legge nel vangelo: «Strada facendo predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Qui si ritrova il «dovere del discepolo: servire». A tale riguardo il Pontefice è stato molto chiaro: «Un discepolo che non serve agli altri non è cristiano».
Punto di riferimento di ogni discepolo deve essere ciò che «Gesù ha predicato in quelle due colonne del cristianesimo: le beatitudini e poi il “protocollo” sul quale noi saremo giudicati», cioè quello indicato da Matteo al capitolo 25. Questa deve essere la «cornice» del «servizio evangelico». Non ci sono scappatoie: «Se — ha detto il Papa — un discepolo non cammina per servire, non serve per camminare. Se la sua vita non è per il servizio, non serve per vivere, come cristiano».
Proprio su questo aspetto si trova, in molti, la «tentazione dell’egoismo». C’è infatti chi dice: «Sì, io sono cristiano, per me sono in pace, mi confesso, vado a messa, compio i comandamenti». Ma, ha obiettato il Pontefice, il servizio agli altri dov’è? Dov’è «il servizio a Gesù nell’ammalato, nel carcerato, nell’affamato, nel nudo»? Eppure proprio questo è ciò «che Gesù ci ha detto che dobbiamo fare perché lui è lì». Ecco quindi la seconda parola chiave: il «servizio a Cristo negli altri».
C’è conseguenzialità anche nella «terza parola di questo brano», che è «gratuità». Camminare, nel servizio, nella gratuità. Si legge infatti: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Un particolare fondamentale, tanto da spingere il Signore a chiarirlo bene, nel caso «i discepoli non avessero capito». Egli spiega loro: «Non procuratevi oro, né argento, né denaro nelle vostre cinture, né sacca di viaggio, né due tuniche». Vale a dire, ha puntualizzato Francesco, che «il cammino del servizio è gratuito perché noi abbiamo ricevuto la salvezza gratuitamente», Nessuno di noi «ha comprato la salvezza, nessuno di noi l’ha meritata»: l’abbiamo per «pura grazia del Padre in Gesù Cristo, nel sacrificio di Gesù Cristo».
Perciò, ha detto il Papa, «è triste quando si trovano cristiani che dimenticano questa parola di Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”». Ed è triste quando a dimenticarsi della gratuità sono «comunità cristiane», «parrocchie», «congregazioni religiose» o «diocesi». Quando ciò accade, ha messo in guardia il Pontefice, è perché dietro «c’è l’inganno» di presumere «che la salvezza viene dalle ricchezze, dal potere umano».
Papa Francesco ha quindi riassunto così la sua riflessione: «Tre parole. Cammino, ma cammino come un invio per annunciare. Servizio: la vita del cristiano non è per se stesso, è per gli altri, come è stata la vita di Gesù». E in terzo luogo, «gratuità». Così, ha detto, potremo riporre la nostra speranza in Gesù, il quale «ci invia così una speranza che non delude mai». Invece, «quando la speranza è nella propria comodità nel cammino o la speranza è nell’egoismo di cercare le cose per sé» e non per servire gli altri, oppure «quando la speranza è nelle ricchezze o nelle piccole sicurezze mondane, tutto questo crolla. Il Signore stesso lo fa crollare».
Da qui l’invito finale del Pontefice a proseguire la celebrazione eucaristica: «Facciamo questo cammino verso Dio con Gesù sull’altare, pe poi camminare verso gli altri nel servizio e nella povertà, soltanto con la ricchezza dello Spirito Santo che lo stesso Gesù ci ha dato».

 

PAPA FRANCESCO, MEDITAZIONE MATTUTINA: L’ULTIMA PAROLA

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

L’ULTIMA PAROLA

Martedì, 9 giugno 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.129, 10/06/2015)

L’«identità cristiana» trova la sua forza nella testimonianza e non conosce ambiguità: per questo il cristianesimo non può essere «annacquato», non può nascondere il suo essere «scandaloso» e trasformato in una «bella idea» per chi ha sempre bisogno di «novità». E attenzione anche alla tentazione della mondanità, propria di chi «allarga la coscienza» così tanto da farci entrare dentro tutto. Lo ha affermato il Papa nella messa celebrata martedì mattina, 9 giugno, nella cappella della Casa Santa Marta, ricordando che «l’ultima parola di Dio si chiama “Gesù” e niente di più».
«La liturgia di oggi ci parla dell’identità cristiana» ha fatto notare Francesco, proponendo subito la questione centrale: «Qual è questa identità cristiana?». Riferendosi alla prima lettura odierna (2 Corinzi, 1, 18-22), il Papa ha ricordato che «Paolo comincia raccontando ai Corinzi le cose che hanno vissuto, alcune persecuzioni», e «la testimonianza che hanno dato di Gesù Cristo». E, in pratica, scrive loro: «Io mi vanto di questo — cioè io mi vanto della mia identità cristiana — che è andata così. E Dio è testimone che la nostra parola verso di voi è “sì”, cioè noi vi parliamo dell’identità nostra, quale sia».
«Per arrivare a questa identità cristiana — ha spiegato Francesco — nostro Padre, Dio, ci ha fatto fare un lungo cammino di storia, secoli e secoli, con figure allegoriche, con promesse, alleanze e così fino al momento della pienezza dei tempi, quando inviò suo Figlio nato da una donna». Si tratta, dunque, di «un lungo cammino». E, ha affermato il Papa, «anche noi dobbiamo fare nella nostra vita un lungo cammino, perché questa identità cristiana sia forte e dia testimonianza». Un cammino, ha precisato, «che possiamo definire dalla ambiguità alla vera identità».
Dunque, nella lettera ai Corinzi l’apostolo scrive che «la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”, ambigua». Infatti, aggiunge Paolo, «il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, non fu “sì” e “no”: in Lui vi fu il “sì”». Ecco, allora, ha detto il Pontefice che «la nostra identità è proprio nell’imitare, nel seguire questo Cristo Gesù, che è il “sì” di Dio verso di noi». E «questa è la nostra vita: andare tutti i giorni per rinforzare questa identità e darne testimonianza, passo passo, ma sempre verso il “sì”, non con ambiguità».
«È vero», ha poi riconosciuto il Pontefice, «c’è il peccato e il peccato ci fa cadere, ma noi abbiamo la forza del Signore per alzarci e andare avanti con la nostra identità». Ma, ha aggiunto, «io direi anche che il peccato è parte della nostra identità: siamo peccatori, ma peccatori con la fede in Gesù Cristo». Infatti «non è soltanto una fede di conoscenza» ma «è una fede che è un dono di Dio e che è entrata in noi da Dio». Così, ha spiegato il Papa, «è Dio stesso che ci conferma in Cristo. E ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo, ci ha dato la caparra, il pegno dello Spirito nei nostri cuori». Sì, ha ribadito Francesco, «è Dio che ci dà questo dono dell’identità» e «il problema è essere fedele a quest’identità cristiana e lasciare che lo Spirito Santo, che è proprio la garanzia, il pegno nel nostro cuore, ci porti avanti nella vita».
«Siamo persone che non andiamo dietro a una filosofia» ha affermato ancora il Pontefice perché «abbiamo un dono, che è la nostra identità: siamo unti, abbiamo impresso in noi il sigillo e abbiamo dentro di noi la garanzia, la garanzia dello Spirito». E «il Cielo incomincia qui, è un’identità bella che si fa vedere nella testimonianza». Per questo, ha aggiunto, «Gesù ci parla della testimonianza come il linguaggio della nostra identità cristiana» quando dice: «Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il sapore, con che cosa si renderà salato?». Il riferimento è al passo evangelico di Matteo proposto oggi dalla liturgia (5, 13-16).
Certo, ha proseguito il Papa, «l’identità cristiana, perché siamo peccatori, è anche tentata, viene tentata — le tentazioni vengono sempre — e può andare indietro, può indebolirsi e può perdersi». Ma come può avvenire questo? «Io penso — ha suggerito il Pontefice — che si può andare indietro per due strade principalmente».
La prima, ha spiegato, è «quella del passare dalla testimonianza alle idee» e cioè «annacquare la testimonianza». Come a dire: «Eh sì, sono cristiano, il cristianesimo è questo, una bella idea, io prego Dio». Ma «così dal Cristo concreto, perché l’identità cristiana è concreta — lo leggiamo nelle Beatitudini; questa concretezza è anche nel capitolo 25 di Matteo — passiamo a questa religione un po’ soft, sull’aria e sulla strada degli gnostici». Dietro, invece, «c’è lo scandalo: questa identità cristiana è scandalosa». Di conseguenza «la tentazione è dire “no, no”, senza scandalo; la croce è uno scandalo; che Dio si sia fatto uomo» è «un altro scandalo» e si lascia da parte; cerchiamo cioè Dio «con queste spiritualità cristiane un po’ eteree, ariose». Tanto che, ha affermato il Papa, «ci sono degli gnostici moderni e ti propongono questo, questo: no, l’ultima parola di Dio è Gesù Cristo, non ce n’è un’altra!».
«Su questa strada», ha proseguito Francesco, ci sono anche «quelli che sempre hanno bisogno di novità dell’identità cristiana: hanno dimenticato che sono stati scelti, unti, che hanno la garanzia dello Spirito, e cercano: “Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna ci manderà alle 4 del pomeriggio?”. Per esempio, no? E vivono di questo». Ma «questa non è identità cristiana. l’ultima parola di Dio si chiama “Gesù” e niente di più».
«Un’altra strada per andare indietro dall’identità cristiana è la mondanità», ha proseguito il Papa. E cioè «allargare tanto la coscienza che lì c’entra tutto: “Sì, noi siamo cristiani, ma questo sì…”, non solo moralmente, ma anche umanamente». Perché «la mondanità è umana, e così il sale perde il sapore». Ecco perché, ha spiegato il Papa, «vediamo comunità cristiane, anche cristiani, che si dicono cristiani, ma non possono e non sanno dare testimonianza di Gesù Cristo». E «così l’identità va indietro, indietro e si perde» ed è «questo nominalismo mondano che noi vediamo tutti i giorni».
«Nella storia di salvezza — ha detto il Francesco — Dio, con la sua pazienza di Padre, ci ha portato dall’ambiguità alla certezza, alla concretezza dell’incarnazione e la morte redentrice del suo Figlio: questa è la nostra identità». E «Paolo si vanta di questo: Gesù Cristo, fatto uomo; Dio, il Figlio di Dio, fatto uomo e morto per obbedienza». Sì, ha rimarcato il Pontefice, Paolo «si vanta di questo» e «questa è l’identità ed è lì la testimonianza». È «una grazia che dobbiamo chiedere al Signore: sempre ci dia questo regalo, questo dono di un’identità che non cerca di adattarsi alle cose che le farebbero perdere il sapore del sale».
Prima di continuare la celebrazione eucaristica, Francesco non ha mancato di sottolineare che è anch’essa «uno “scandalo”». Anzi, ha concluso: «Io mi permetto di dire “un doppio scandalo”». Primo, ha spiegato, «perché è lo “scandalo” della croce: Gesù che dà la sua vita per noi, il Figlio di Dio». E poi «lo “scandalo” che noi cristiani celebriamo la memoria della morte del Signore e sappiamo che qui si rinnova questa memoria». Così proprio la celebrazione eucaristica «è una testimonianza della nostra identità cristiana».

 

PAPA FRANCESCO – L’ALBERO DELLA CROCE

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

L’ALBERO DELLA CROCE

Sabato, 14 settembre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 211, Dom. 15/09/2013)

Storia dell’uomo e storia di Dio si intrecciano nella croce. Una storia essenzialmente di amore. È un mistero immenso, che da soli non possiamo comprendere. Come «assaggiare quel miele di aloe, quella dolcezza amara del sacrificio di Gesù?». Papa Francesco ne ha indicato il modo, questa mattina, sabato 14 settembre, festa dell’esaltazione della santa croce, durante la messa celebrata nella cappella di Santa Marta.
Commentando le letture del giorno, tratte dalla lettera ai Filippesi (2, 6-11) e dal Vangelo di Giovanni (3, 13-17), il Pontefice ha detto che è possibile comprendere «un pochino» il mistero della croce «in ginocchio, nella preghiera», ma anche con «le lacrime». Anzi sono proprio le lacrime quelle che «ci avvicinano a questo mistero». Infatti, «senza piangere», soprattutto senza «piangere nel cuore, mai capiremo questo mistero». È il «pianto del pentito, il pianto del fratello e della sorella che guarda tante miserie umane e le guarda anche in Gesù, in ginocchio e piangendo». E, soprattutto, ha evidenziato il Papa, «mai soli!». Per entrare in questo mistero che «non è un labirinto, ma gli assomiglia un po’» abbiamo sempre «bisogno della Madre, della mano della mamma». Maria, ha aggiunto, «ci faccia sentire quanto grande e quanto umile è questo mistero, quanto dolce come il miele e quanto amaro come l’aloe».
I padri della Chiesa, ha ricordato il Papa, «comparavano sempre l’albero del Paradiso a quello del peccato. L’albero che dà il frutto della scienza, del bene, del male, della conoscenza, con l’albero della croce». Il primo albero «aveva fatto tanto male», mentre l’albero della croce «ci porta alla salvezza, alla salute, perdona quel male». Questo è «il percorso della storia dell’uomo». Un cammino che permette di «trovare Gesù Cristo Redentore, che dà la sua vita per amore». Un amore che si manifesta nell’economia della salvezza, come ha ricordato il Santo Padre, secondo le parole dell’evangelista Giovanni. Dio infatti, ha detto il Pontefice, «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui». E come ci ha salvato? «con quest’albero della croce». Dall’altro albero, sono iniziati «l’autosufficienza, l’orgoglio e la superbia di volere conoscere tutto secondo la nostra mentalità, secondo i nostri criteri, anche secondo quella presunzione di essere e diventare gli unici giudici del mondo». Questa, ha detto, «è la storia dell’uomo». Sull’albero della croce, invece, c’è la storia di Dio, che «ha voluto assumere la nostra storia e camminare con noi». È proprio nella prima lettura che l’apostolo Paolo «riassume in poche parole tutta la storia di Dio: Gesù Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio di essere come Dio». Ma, ha spiegato, «svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini». Cristo, infatti, «umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e una morte di croce». È questo «il percorso della storia di Dio». E perché lo fa? Si è chiesto il vescovo di Roma. La risposta si trova nelle parole di Gesù a Nicodemo: «Dio, infatti, ha amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Dio, ha concluso «fa questo percorso per amore, non c’è altra spiegazione».

PAPA FRANCESCO: QUANDO DIO PIANGE (meditazione Sanctae Marthae, 2014)

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

QUANDO DIO PIANGE

Martedì, 4 febbraio 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.028, Merc. 05/02/2014)

Ogni buon padre «ha bisogno del figlio: lo aspetta, lo cerca, la ama, lo perdona, lo vuole vicino a sé, tanto vicino come la gallina vuole i suoi pulcini». Lo ha detto Papa Francesco all’omelia della messa celebrata martedì mattina, 4 febbraio, nella cappella della Casa Santa Marta.
Nel commentare le letture della liturgia il Pontefice ha infatti affrontato il tema della paternità, ricollegandolo alle due figure principali descritte nel vangelo di Marco (5, 21-43) e nel secondo libro di Samuele (18, 9-10.14.24-25.30; 19, 1-4): ovvero Giàiro, uno dei capi della sinagoga al tempo di Gesù, «che va a chiedere la salute per sua figlia», e Davide, «che soffre per la guerra che suo figlio gli stava facendo». Due vicende che, secondo il vescovo di Roma, mostrano come ogni padre abbia «un’unzione che viene dal figlio: non può capire se stesso senza il figlio».
Soffermandosi dapprima sul re d’Israele, il Papa ha ricordato che nonostante il figlio Assalonne fosse diventato suo nemico, Davide «aspettava notizie della guerra. Era seduto tra le due porte del palazzo e guardava». E sebbene tutti fossero sicuri che attendesse «notizie di una bella vittoria», in realtà «aspettava un’altra cosa: aspettava il figlio. Gli interessava il figlio. Era re, era a capo del Paese, ma» soprattutto «era padre». E così, «quando è arrivata la notizia della fine del suo figlio», Davide «fu scosso da un tremito, salì al piano di sopra della porta e pianse: “Figlio mio Assalonne! Figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!”».
Questo — ha commentato Papa Francesco — «è il cuore di un padre, che non rinnega mai suo figlio», anche se «è un brigante o un nemico», e piange per lui. In proposito il Pontefice ha fatto notare come nella Bibbia, Davide pianga due volte per i figli: in questa circostanza e in quella in cui stava per morire il figlio dell’adulterio: «Anche quella volta ha fatto digiuno e penitenza per salvare la vita del figlio», perché «era padre».
Ritornando poi alla descrizione del brano biblico, il vescovo di Roma ha messo in luce un altro elemento della scena: il silenzio. «I soldati sono tornati dalla battaglia in città in silenzio» — ha fatto notare — mentre quando Davide era giovane, al suo rientro in città dopo aver ucciso il Filisteo, tutte le donne erano uscite dalle case per «lodarlo, in festa; perché così rientravano i soldati dopo una vittoria». Invece, in occasione della morte di Assalonne, «la vittoria è stata nascosta, perché il re piangeva»; infatti «più che re e vincitore» Davide era soprattutto «un padre addolorato».
Quanto al personaggio evangelico, il capo della sinagoga, Papa Francesco ha evidenziato come si trattasse di una «persona importante», che però «davanti alla malattia della figlia» non ha vergogna di gettarsi ai piedi di Gesù e di implorarlo: «La mia figlioletta sta morendo, vieni a imporle le mani perché sia salvata e viva!». Quest’uomo non riflette sulle conseguenze del suo gesto. Non si ferma a pensare che se Cristo «invece di un profeta fosse uno stregone», rischierebbe una figuraccia. Essendo «padre — ha detto il Pontefice — non pensa: rischia, si butta e chiede». E anche in questa scena, quando i protagonisti entrano in casa trovano pianti e grida. «C’erano persone che urlavano forte perché era il loro lavoro: lavoravano così, andando a piangere nelle case dei defunti». Ma il loro «non era il pianto di un padre».
Ecco allora il collegamento tra le due figure di padri. Per loro la priorità sono i figli. E ciò «fa pensare alla prima cosa che diciamo di Dio nel Credo: “Credo in Dio padre”. Fa pensare alla paternità di Dio. Dio è così con noi». Qualcuno potrebbe osservare: «Ma padre, Dio non piange!». Obiezione alla quale il Papa ha risposto: «Ma come no! Ricordiamo Gesù quando ha pianto guardando Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli!”, come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali». Dunque «Dio piange; Gesù ha pianto per noi». E in quel pianto c’è la rappresentazione del pianto del padre, «che ci vuole tutti con sé nei momenti difficili».
Il Pontefice ha anche ricordato che nella Bibbia ci sono almeno «due momenti brutti in cui il padre risponde» al pianto del figlio. Il primo è l’episodio di Isacco che viene condotto da Abramo sul morte per essere offerto in olocausto: egli si accorge «che portavano il legno e il fuoco, ma non la pecorella per il sacrificio». Perciò «aveva angoscia nel cuore. E cosa dice? “Padre”. E subito la risposta: “Eccomi figlio”». Il secondo è quello di «Gesù nell’Orto degli Ulivi, con quell’angoscia nel cuore: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice”. E gli angeli sono venuti a dargli forza. Così è il nostro Dio: è padre».
Non solo: l’immagine di Davide che aspetta notizie seduto fra le due porte del palazzo fa venire in mente la parabola del capitolo 15 del vangelo di Luca, quella del padre che aspettava il figlio prodigo, «andatosene con tutti i soldi, con tutta l’eredità. Come sappiamo che lo aspettava?» si è domandato Papa Francesco. Perché — è la riposta che ci danno le scritture — «lo ha visto da lontano. E perché tutti i giorni saliva ad aspettare» che il figlio tornasse. In quel padre misericordioso, infatti, c’è «il nostro Dio», che «è padre». Da qui l’auspicio che la paternità fisica dei padri di famiglia e la paternità spirituale dei consacrati, dei sacerdoti, dei vescovi, siano sempre come quelle dei due protagonisti delle letture: «due uomini, che sono padri».
In conclusione il Pontefice ha invitato a meditare su queste due «icone» — Davide che piange e il capo della sinagoga che si getta davanti a Gesù senza vergogna, senza timore di rendersi ridicolo, perché «in gioco c’erano i loro figli» — e ha chiesto ai fedeli di rinnovare la professione di fede, dicendo «Credo in Dio Padre» e domandando allo Spirito Santo di insegnarci a dire «Abba, Padre». Perché, ha concluso, «è una grazia poter dire a Dio: Padre, con il cuore».

PAPA FRANCESCO: LA SPERANZA, QUESTA SCONOSCIUTA

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

LA SPERANZA, QUESTA SCONOSCIUTA

Martedì, 29 ottobre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 249, Merc. 30/10/2013)

La speranza è la più umile delle tre virtù teologali, perché nella vita si nasconde. Tuttavia essa ci trasforma in profondità, così come «una donna incinta è donna» ma è come se si trasformasse perché diventa mamma. Della speranza Papa Francesco ha parlato questa mattina, martedì 29 ottobre, durante la messa celebrata a Santa Marta riflettendo sull’atteggiamento dei cristiani in attesa della rivelazione del Figlio di Dio.
A questo atteggiamento è legata la speranza, una virtù, ha detto all’inizio dell’omelia, che si è rivelata più forte delle sofferenze, così come scrive san Paolo nella lettera ai romani (8, 18-25). «Paolo — ha notato il Pontefice — si riferisce alle sofferenze del tempo presente, e dice che non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi». L’apostolo parla di «ardente aspettativa», una tensione verso la rivelazione che riguarda tutto il creato. «Questa tensione è la speranza — ha detto ancora — e vivere nella speranza è vivere in questa tensione», nell’attesa della rivelazione del Figlio di Dio, quando cioè tutta la creazione, «e anche ognuno di noi», sarà liberata dalla schiavitù «per entrare nella gloria dei figli di Dio».
«Paolo — ha poi proseguito — ci parla della speranza. Anche nel capitolo precedente della lettera ai romani aveva parlato della speranza. Ci aveva detto che la speranza non delude, è sicura». Tuttavia essa non è facile da capire; e sperare non vuol dire essere ottimisti. Dunque «la speranza non è ottimismo, non è quella capacità di guardare alle cose con buon animo e andare avanti», e non è neppure semplicemente un atteggiamento positivo, come quello di certe «persone luminose, positive». Questa, ha detto il Santo Padre «è una cosa buona, ma non è la speranza».
Si dice, ha spiegato il Santo Padre, che sia «la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita. La fede si vede, si sente, si sa cosa è; la carità si fa, si sa cosa è. Ma cos’è la speranza?». La risposta del Pontefice è stata chiara: «Per avvicinarci un po’ possiamo dire per prima cosa che è un rischio. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio. Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti» i quali, quando furono liberati dalla schiavitù, dissero: «ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia».
Ecco, ha spiegato, questo è quanto avverrà quando ci sarà la rivelazione del Figlio di Dio. «Avere speranza significa proprio questo: essere in tensione verso questa rivelazione, verso questa gioia che riempirà la nostra bocca di sorriso». E ha esclamato: «È bella questa immagine!». Poi ha raccontato che «i primi cristiani la dipingevano come un’ancora. La speranza era un’ancora»; un’ancora fissata nella riva dell’aldilà. La nostra vita è come camminare sulla corda verso quell’ancora. «Ma dove siamo ancorati noi?» si è domandato il vescovo di Roma. «Siamo ancorati proprio là, sulla riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari, i nostri clericalismi, i nostri atteggiamenti ecclesiastici — non ecclesiali, eh? —. Siamo ancorati là dove tutto è comodo e sicuro? Questa non è la speranza».
Paolo, ha aggiunto Papa Francesco, «cerca poi un’altra icona della speranza, quella del parto. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione, e anche noi con la creazione, “geme e soffre le doglie del parto fino a oggi”. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo — pensate alla donna che partorisce — gemiamo interiormente aspettando. Siamo in attesa. Questo è un parto». La speranza, ha aggiunto, si pone in questa dinamica del dare la vita. Non è una cosa visibile anche per chi vive «nella primizia dello Spirito». Ma sappiamo che «lo Spirito lavora. Il Vangelo — ha precisato il Papa riferendosi al brano di Luca (13, 18-21) — dice qualcosa su questo. Lo Spirito lavora in noi. Lavora come se fosse un granello di senape, piccolino ma dentro è pieno di vita e di forza e va avanti sino all’albero. Lo Spirito lavora come il lievito che è capace di lievitare tutta la farina. Così lavora lo Spirito».
La speranza «è una grazia da chiedere»; infatti «una cosa è vivere nella speranza, perché nella speranza siamo salvati, e un’altra cosa è vivere come buoni cristiani e non di più; vivere in attesa della rivelazione, o vivere bene con i comandamenti»; essere ancorati sulla riva del mondo futuro «o parcheggiati nella laguna artificiale».
Per spiegare meglio il concetto il Pontefice ha indicato come è cambiato l’atteggiamento di Maria, «una ragazza giovane», quando ha saputo di essere mamma: «Va’ e aiuta e canta quel cantico di lode». Perché, ha spiegato Papa Francesco, «quando una donna è incinta, è donna» ma è come se si trasformasse nel profondo perché ora «è mamma». E la speranza è qualcosa di simile: «cambia il nostro atteggiamento». Per questo, ha aggiunto, «chiediamo la grazia di essere uomini e donne di speranza».
Alla conclusione, rivolgendosi a un gruppo di sacerdoti messicani che celebravano il venticinquesimo anniversario del loro sacerdozio, il Papa, indicando l’immagine mariana che gli avevano portato in dono, ha detto: «Guardate alla vostra Madre, figura della speranza dell’America. Guardate, è dipinta incinta. È la Madonna d’America, è la Madonna della speranza. Chiedete a lei la grazia affinché gli anni a venire siano per voi anni di speranza», la grazia «di vivere come preti di speranza» che donano speranza.

PAPA FRANCESCO : ISTRUZIONI PER QUANDO È BUIO

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

ISTRUZIONI PER QUANDO È BUIO

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.027, Lun.-Mart. 03-04/02/2014)

Nei momenti difficili della vita non si deve «negoziare Dio» usando gli altri per salvare se stessi: l’atteggiamento giusto è fare penitenza, riconoscendo i propri peccati e affidandosi al Signore, senza cedere alla tentazione di «farsi giustizia con le proprie mani». Nella messa celebrata lunedì mattina, 3 febbraio, nella cappella della Casa Santa Marta, Papa Francesco ha riproposto la testimonianza del re Davide, «santo e peccatore», nel «momento buio» della fuga da Gerusalemme per il tradimento del figlio Assalonne. Al termine della celebrazione, nel giorno della memoria liturgica di san Biagio, due sacerdoti hanno impartito al Papa e a tutti i presenti la tradizionale benedizione con due candele poste sulla gola in forma di croce.
Per la sua meditazione il Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele (15, 13-14.30; 16, 5-13a). «Abbiamo sentito — ha detto — la storia di quel momento tanto triste di Davide, quando lui è dovuto fuggire perché suo figlio ha tradito». Sono eloquenti le parole di Davide, che chiama Assalonne «il figlio uscito dalle mie viscere». Siamo davanti a «un grande tradimento»: anche la maggioranza del popolo si schiera «con il figlio contro il re». Si legge infatti nella Scrittura: «Il cuore degli Israeliti è con Assalonne». Davvero per Davide è «come se questo figlio fosse morto».
Ma che cosa fa Davide davanti al tradimento del figlio? Il Papa ne ha indicato «tre atteggiamenti». Innanzitutto, ha spiegato, «Davide, uomo di governo, prende la realtà come è. Sa che questa guerra sarà molto forte, sa che ci saranno tanti morti del popolo», perché c’è «una parte del popolo contro l’altra». E con realismo compie «la scelta di non far morire il suo popolo». Certo, avrebbe potuto «lottare in Gerusalemme contro le forze di suo figlio. Ma ha detto: no, non voglio che Gerusalemme sia distrutta!». E si è opposto anche ai suoi che volevano portare via l’arca, ordinando loro di lasciarla al suo posto: «L’arca di Dio rimanga in città!». Tutto questo mostra «il primo atteggiamento» di Davide, che «per difendersi non usa né Dio né il suo popolo», perché per entrambi nutre un «amore tanto grande».
«Nei momenti brutti della vita — ha notato il Pontefice — accade che, forse, nella disperazione uno cerca di difendersi come può», anche «usando Dio e la gente». Invece Davide ci mostra come suo «primo atteggiamento» proprio «quello di non usare Dio e il suo popolo».
Il secondo è un «atteggiamento penitenziale», che Davide assume mentre fugge da Gerusalemme. Si legge nel passo del libro di Samuele: «Saliva piangendo» sulla montagna «e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi». Ma, ha commentato il Papa, «pensate cosa significa salire il monte a piedi scalzi!». Lo stesso faceva la gente che era con lui: «Aveva il capo coperto e, salendo, piangeva».
Si tratta di «un cammino penitenziale». Forse, ha proseguito il Pontefice, Davide in quel momento «nel suo cuore» pensava a «tante cose brutte» e ai «tanti peccati che aveva fatto». E probabilmente diceva a se stesso: «Ma io non sono innocente! Non è giusto che mio figlio mi faccia questo, ma io non sono santo!». Con questo spirito Davide «sceglie la penitenza: piange, fa penitenza». E la sua «salita al monte», ha notato ancora il Papa, «ci fa pensare alla salita di Gesù. Anche lui addolorato a piedi scalzi, con la sua croce, saliva il monte».
Davide, dunque, vive un «atteggiamento penitenziale». Quando a noi invece, ha detto il Papa, «accade una cosa del genere nella nostra vita, sempre cerchiamo — è un istinto che abbiamo — di giustificarci». Al contrario, «Davide non si giustifica. È realista. Cerca di salvare l’arca di Dio, il suo popolo. E fa penitenza» salendo il monte. Per questa ragione «è un grande: un grande peccatore e un grande santo». Certo, ha aggiunto il Santo Padre, «come vadano insieme queste due cose» soltanto «Dio lo sa. Ma questa è la verità!».
Lungo il suo cammino penitenziale il re incontra un uomo di nome Simei, che «gettava sassi» contro di lui e contro quanti lo accompagnavano. È «un nemico» che malediceva e «diceva parolacce» all’indirizzo di Davide. Così Abisài, «uno degli amici di Davide», propone al re di catturarlo e di ucciderlo: «Questo è un cane morto» gli dice con il linguaggio del suo tempo per rimarcare come Simei fosse «una persona cattiva». Ma Davide glielo impedisce e «invece di scegliere la vendetta contro tanti insulti, sceglie di affidarsi a Dio». Si legge infatti nel passo biblico: «Ecco, il figlio uscito dalle mie viscere cerca di togliermi la vita: e allora, questo Beniaminita — questo Simei — lasciatelo maledire, poiché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi». Ecco il terzo atteggiamento: Davide «si affida al Signore».
Proprio «questi tre atteggiamenti di Davide nel momento del buio, nel momento della prova, possono aiutare tutti noi» quando ci troviamo in situazioni difficili. Non si deve «negoziare la nostra appartenenza». Poi, ha ripetuto il Pontefice, bisogna «accettare la penitenza», comprendere le ragioni per cui si ha «bisogno di fare penitenza», e così saper «piangere sui nostri sbagli, sui nostri peccati». Infine, non si deve cercare di farsi giustizia con le proprie mani ma bisogna «affidarsi a Dio».
Papa Francesco ha concluso l’omelia invitando a invocare Davide, che noi «veneriamo come santo», chiedendogli di insegnarci a vivere «questi atteggiamenti nei momenti brutti della vita». Perché ciascuno possa essere «un uomo che ama Dio, ama il suo popolo e non lo negozia; un uomo che si sa peccatore e fa penitenza; un uomo che è sicuro del suo Dio e si affida a lui». 

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 10 février, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO: UN DIO CHE RICONCILIA (SANCATAE MARTHAE)

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Un Dio che riconcilia

Venerdì, 23 gennaio 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.018, Sab. 24/01/2015)

La confessione non è un «giudizio» né una «tintoria» che smacchia i peccati, ma l’incontro con un Padre che perdona sempre, perdona tutto, dimentica le colpe del passato e poi fa anche festa. Ed è proprio la concretezza dell’abbraccio di riconciliazione di Dio che il Papa ha riproposto nella messa di venerdì mattina, 23 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta. Alla celebrazione erano presenti anche rappresentanti della comunità filippina residente a Roma, che si sono stretti attorno a Francesco anche per rivivere la gioia del recente viaggio pastorale.
«Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo e ha affidato a noi la parola di riconciliazione» (cfr. 2 Corinzi, 5, 19): ecco il punto di partenza scelto da Francesco per la sua meditazione. «È bello questo lavoro di Dio: riconciliare» ha rimarcato il Papa, mettendo subito in evidenza che Dio affida «anche a noi questo compito» e cioè «compiere la riconciliazione, riconciliare sempre».
Non c’è dubbio, ha fatto notare, che «il cristiano è uomo o donna di riconciliazione, non di divisione». Del resto «il padre della divisione è il diavolo». È Dio stesso, poi, a fare «questo esempio di riconciliare il mondo, la gente». Il riferimento è a «ciò che abbiamo sentito nella prima lettura», tratta dalla lettera agli Ebrei (8, 6-13), in particolare a «quella promessa tanto bella: “Io farò una nuova alleanza”». Una questione decisiva tanto che, ha detto il vescovo di Roma, «cinque volte in questo brano si parla dell’alleanza». Difatti «è Dio che riconcilia, realizzando un nuovo rapporto con noi, una nuova alleanza». E «per questo invia Gesù; il Dio che riconcilia è il Dio che perdona».
Il brano della lettera agli Ebrei, ha proseguito Francesco, «finisce con quella bella promessa: “E non mi ricorderò più dei loro peccati”». È «il Dio che perdona: il nostro Dio perdona, riconcilia, fa la nuova alleanza e perdona». Ma «come perdona Dio? Prima di tutto, Dio perdona sempre! Non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma lui non si stanca di perdonare». Tanto che «quando Pietro chiese a Gesù: quante volte io devo perdonare, sette volte?», la risposta ricevuta fu eloquente: «Non sette volte ma settanta volte sette» (cfr. Matteo, 18, 21-22). Cioè «sempre», perché proprio «così perdona Dio: sempre». Dunque «se tu hai vissuto una vita con tanti peccati, tante cose brutte, ma alla fine, pentito, chiedi perdono, ti perdona subito. Lui perdona sempre».
Invece, ha riconosciuto Papa Francesco, «noi non abbiamo questa certezza nel cuore e tante volte dubitiamo» chiedendo se «Dio perdonerà». In realtà, ha ricordato, «bisogna soltanto pentirsi e chiedere perdono: niente di più! Non si deve pagare niente! Cristo ha pagato per noi e lui perdona sempre».
«Un’altra cosa» importante che il Pontefice ha voluto riaffermare è non solo che Dio «perdona sempre», ma anche che perdona «tutto: non c’è peccato che lui non perdoni». Magari, ha spiegato, qualcuno potrebbe dire: «io non vado a confessarmi perché ne ho fatte tante di cose brutte, tante di quelle cose, per cui non avrò perdono…». Invece «non è vero», ha ribadito Francesco, perché Dio «se tu vai pentito, perdona tutto». E «tante volte non ti lascia parlare: tu incominci a chiedere perdono e lui ti fa sentire quella gioia del perdono prima che tu abbia finito di dire tutto». Proprio «come è successo con quel figlio che, dopo aver sprecato tutti i soldi dell’eredità, con una vita immorale», poi «si è pentito» e ha preparato il discorso per presentarsi davanti a suo padre. Però «quando è arrivato il padre non lo ha lasciato parlare, lo ha abbracciato: perché lui perdona tutto. Lo ha abbracciato».
Poi «c’è un’altra cosa che fa Dio quando perdona: fa festa». E «questa — ha precisato il Pontefice — non è un’immagine, lo dice Gesù: “Ci sarà festa nel cielo quando un peccatore viene dal Padre”». Perciò veramente «Dio fa festa». Così «quando noi sentiamo il nostro cuore appesantito dai peccati, possiamo dire: andiamo dal Signore a dargli gioia perché mi perdoni e faccia festa». Dio «fa così: fa festa sempre perché riconcilia».
Proseguendo la meditazione sulla lettera agli Ebrei, il Papa ha riproposto le parole conclusive. Che, ha spiegato, suggeriscono «una cosa bella sul modo di perdonare di Dio: Dio dimentica». Con altre parole la Scrittura dice anche: «I tuoi peccati li butterò nel mare e se sono rossi come il sangue, tu diventerai bianco come un agnellino» (cfr. Michea, 7,19; Isaia, 1. 18).
Dio, dunque, «si dimentica». E così «se qualcuno di noi va dal Signore» e dice: «Ti ricordi, io in quell’anno ho fatto quella brutta cosa?», lui risponde: «No, no, no. Non ricordo». Perché «una volta che lui perdona non ricorda, dimentica», mentre noi «tante volte con gli altri portiamo avanti un “conto corrente”: questo una volta ha fatto questo, una volta ha fatto quest’altro…». Invece «Dio, no: perdona e dimentica». Ma — si è chiesto Francesco — «se lui dimentica, chi sono io per ricordare i peccati degli altri?». Il Padre dunque «dimentica, perdona sempre, perdona tutto, fa festa quando perdona e dimentica, perché vuole riconciliare, vuole incontrarsi con noi».
Alla luce di questa riflessione il Papa ha ricordato che «quando uno di noi — un sacerdote, un vescovo — va a confessare, deve pensare sempre: sono disposto a perdonare tutto? Sono disposto a perdonare sempre? Sono disposto a rallegrarmi e a fare festa? Sono disposto a dimenticarmi dei peccati di quella persona?». Così «se tu non sei disposto, meglio che quel giorno non vai in confessionale: che vada un altro, perché tu non hai il cuore di Dio per perdonare». Infatti, «nella confessione, è vero, c’è un giudizio, perché il sacerdote giudica» dicendo: «hai fatto male qui, hai fatto…». Però, ha spiegato il Papa, «è più che un giudizio: è un incontro, un incontro con il Dio buono che sempre perdona, che tutto perdona, che sa fare festa quando perdona e che dimentica i tuoi peccati quando ti perdona». E «noi sacerdoti dobbiamo avere questo atteggiamento: far incontrare». Invece «tante volte le confessioni sembrano una pratica, una formalità», dove tutto appare «meccanico», ma così, si è chiesto il Pontefice, dov’è «l’incontro con il Signore che riconcilia, ti abbraccia e fa festa? Questo è il nostro Dio, tanto buono».
È importante, ha messo in evidenza il Pontefice, «anche insegnare a confessarsi bene, in modo che imparino i nostri bimbi, i nostri ragazzi», e ricordino che «andare a confessarsi non è andare in tintoria perché ti tolgano una macchia»: confessarsi «è andare a incontrare il Padre che riconcilia, che perdona e che fa festa».
In conclusione Francesco ha invitato a «pensare a questa alleanza che il Signore fa ogni volta che noi chiediamo perdono». E a pensare anche «al nostro Padre che sempre riconcilia: il Dio che ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione». L’auspicio, ha detto ancora il Papa, è che «il Signore ci dia la grazia di essere contenti oggi di avere un Padre che perdona sempre, che perdona tutto, che fa festa quando perdona e che si dimentica della nostra storia di peccato!».

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