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SOLENNITÀ DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO, RE DELL’UNIVERSO – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

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SANTA MESSA A CONCLUSIONE DELL’ANNO DELLA FEDE

NELLA SOLENNITÀ DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO, RE DELL’UNIVERSO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro

Domenica, 24 novembre 2013

La solennità odierna di Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico, segna anche la conclusione dell’Anno della Fede, indetto dal Papa Benedetto XVI, al quale va ora il nostro pensiero pieno di affetto e di riconoscenza per questo dono che ci ha dato. Con tale provvidenziale iniziativa, egli ci ha offerto l’opportunità di riscoprire la bellezza di quel cammino di fede che ha avuto inizio nel giorno del nostro Battesimo, che ci ha resi figli di Dio e fratelli nella Chiesa. Un cammino che ha come meta finale l’incontro pieno con Dio, e durante il quale lo Spirito Santo ci purifica, ci eleva, ci santifica, per farci entrare nella felicità a cui anela il nostro cuore.
Desidero anche rivolgere un cordiale e fraterno saluto ai Patriarchi e agli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali Cattoliche, qui presenti. Lo scambio della pace, che compirò con loro, vuole significare anzitutto la riconoscenza del Vescovo di Roma per queste Comunità, che hanno confessato il nome di Cristo con una esemplare fedeltà, spesso pagata a caro prezzo.
Allo stesso modo, per loro tramite, con questo gesto intendo raggiungere tutti i cristiani che vivono nella Terra Santa, in Siria e in tutto l’Oriente, al fine di ottenere per tutti il dono della pace e della concordia.
Le Letture bibliche che sono state proclamate hanno come filo conduttore la centralità di Cristo. Cristo è al centro, Cristo è il centro. Cristo centro della creazione, Cristo centro del popolo, Cristo centro della storia.
1. L’Apostolo Paolo ci offre una visione molto profonda della centralità di Gesù. Ce lo presenta come il Primogenito di tutta la creazione: in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui furono create tutte le cose. Egli è il centro di tutte le cose, è il principio: Gesù Cristo, il Signore. Dio ha dato a Lui la pienezza, la totalità, perché in Lui siano riconciliate tutte le cose (cfr 1,12-20). Signore della creazione, Signore della riconciliazione.
Questa immagine ci fa capire che Gesù è il centro della creazione; e pertanto l’atteggiamento richiesto al credente, se vuole essere tale, è quello di riconoscere e di accogliere nella vita questa centralità di Gesù Cristo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. E così i nostri pensieri saranno pensieri cristiani, pensieri di Cristo. Le nostre opere saranno opere cristiane, opere di Cristo, le nostre parole saranno parole cristiane, parole di Cristo. Invece, quando si perde questo centro, perché lo si sostituisce con qualcosa d’altro, ne derivano soltanto dei danni, per l’ambiente attorno a noi e per l’uomo stesso.
2. Oltre ad essere centro della creazione e centro della riconciliazione, Cristo è centro del popolo di Dio. E proprio oggi è qui, al centro di noi. Adesso è qui nella Parola, e sarà qui sull’altare, vivo, presente, in mezzo a noi, il suo popolo. E’ quanto ci viene mostrato nella prima Lettura, dove si racconta del giorno in cui le tribù d’Israele vennero a cercare Davide e davanti al Signore lo unsero re sopra Israele (cfr 2 Sam 5,1-3). Attraverso la ricerca della figura ideale del re, quegli uomini cercavano Dio stesso: un Dio che si facesse vicino, che accettasse di accompagnarsi al cammino dell’uomo, che si facesse loro fratello.
Cristo, discendente del re Davide, è proprio il “fratello” intorno al quale si costituisce il popolo, che si prende cura del suo popolo, di tutti noi, a costo della sua vita. In Lui noi siamo uno; un solo popolo uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come centro, abbiamo l’identità come popolo.
3. E, infine, Cristo è il centro della storia dell’umanità, e anche il centro della storia di ogni uomo. A Lui possiamo riferire le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di cui è intessuta la nostra vita. Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano, e ci dà speranza, come avviene per il buon ladrone nel Vangelo di oggi.
Mentre tutti gli altri si rivolgono a Gesù con disprezzo – “Se tu sei il Cristo, il Re Messia, salva te stesso scendendo dal patibolo!” – quell’uomo, che ha sbagliato nella vita, alla fine si aggrappa pentito a Gesù crocifisso implorando: «Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). E Gesù gli promette: «Oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43): il suo Regno. Gesù pronuncia solo la parola del perdono, non quella della condanna; e quando l’uomo trova il coraggio di chiedere questo perdono, il Signore non lascia mai cadere una simile richiesta. Oggi tutti noi possiamo pensare alla nostra storia, al nostro cammino. Ognuno di noi ha la sua storia; ognuno di noi ha anche i suoi sbagli, i suoi peccati, i suoi momenti felici e i suoi momenti bui. Ci farà bene, in questa giornata, pensare alla nostra storia, e guardare Gesù, e dal cuore ripetergli tante volte, ma con il cuore, in silenzio, ognuno di noi: “Ricordati di me, Signore, adesso che sei nel tuo Regno! Gesù, ricordati di me, perché io ho voglia di diventare buono, ho voglia di diventare buona, ma non ho forza, non posso: sono peccatore, sono peccatore. Ma ricordati di me, Gesù! Tu puoi ricordarti di me, perché Tu sei al centro, Tu sei proprio nel tuo Regno!”. Che bello! Facciamolo oggi tutti, ognuno nel suo cuore, tante volte. “Ricordati di me, Signore, Tu che sei al centro, Tu che sei nel tuo Regno!”.
La promessa di Gesù al buon ladrone ci dà una grande speranza: ci dice che la grazia di Dio è sempre più abbondante della preghiera che l’ha domandata. Il Signore dona sempre di più, è tanto generoso, dona sempre di più di quanto gli si domanda: gli chiedi di ricordarsi di te, e ti porta nel suo Regno! Gesù è proprio il centro dei nostri desideri di gioia e di salvezza. Andiamo tutti insieme su questa strada!

 

PAPA FRANCESCO – DIO DELLE SORPRESE

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PAPA FRANCESCO – DIO DELLE SORPRESE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Lunedì, 13 ottobre 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.234, Mar. 14/10/2014)

«Un cuore che ami la legge, perché la legge è di Dio», ma «che ami anche le sorprese di Dio», perché la sua «legge santa non è fine a se stessa»: è un cammino, «è una pedagogia che ci porta a Gesù Cristo». È quanto Papa Francesco ha invitato a chiedere al Signore nella preghiera, durante la messa celebrata stamattina, lunedì 13 ottobre, nella cappella di Santa Marta.
All’omelia il Pontefice si è soffermato soprattutto sul brano del Vangelo di Luca (11, 29-32) in cui Gesù apostrofa le folle che si accalcavano per ascoltarlo come «una generazione malvagia» perché «cerca un segno». Secondo il vescovo di Roma «è evidente che Gesù parla ai dottori della legge», che «parecchie volte nel Vangelo» gli chiedono «un segno». Essi, infatti, «non vedevano tanti segni di Gesù». Ma proprio per questo «Gesù li rimprovera» in diverse occasioni: «Voi siete incapaci di vedere i segni dei tempi», dice loro nel Vangelo di Matteo ricorrendo all’immagine dell’albero del fico: «Quando il suo ramo diventa tenero e germogliano le foglie è vicina l’estate; e voi non capite i segni dei tempi».
Papa Francesco ha esortato dunque a interrogarsi sul motivo per cui i dottori della legge non capivano i segni dei tempi, invocando un segno straordinario. E ha proposto alcune risposte: la prima è «perché erano chiusi. Erano chiusi nel loro sistema, avevano sistemato la legge benissimo, un capolavoro. Tutti gli ebrei sapevano che cosa si poteva fare, che cosa non si poteva fare, fino a dove si poteva andare. Era tutto sistemato». Ma Gesù li spiazza facendo «cose strane», come «andare con i peccatori, mangiare con i pubblicani». E questo ai dottori della legge «non piaceva, era pericoloso; era in pericolo la dottrina, che loro, i teologi, avevano fatto nei secoli».
In proposito il vescovo di Roma ha riconosciuto che si trattava di una legge «fatta per amore, per essere fedeli a Dio», ma era divenuta ormai un sistema normativo chiuso. Essi «semplicemente avevano dimenticato la storia. Avevano dimenticato che Dio è il Dio della legge», ma è anche «il Dio delle sorprese. E anche al suo popolo, Dio ha riservato sorprese tante volte»: basti pensare a «come li ha salvati» nel mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto, ha ricordato il Papa.
Nonostante ciò, comunque, essi «non capivano che Dio è sempre nuovo; mai rinnega se stesso, mai dice che quello che aveva detto era sbagliato, mai; ma sorprende sempre. E loro non capivano e si chiudevano in quel sistema fatto con tanta buona volontà; e chiedevano» a Gesù di dar loro «un segno», continuando a non capire invece «i tanti segni che faceva Gesù» e rimanendo in un atteggiamento di totale «chiusura».
La seconda risposta all’interrogativo iniziale, ha fatto notare il Pontefice, va ricondotta al fatto che essi «avevano dimenticato che erano un popolo in cammino. E quando quando uno è in cammino trova sempre cose nuove, cose che non conosce. E queste cose dovevano assumerle in un cuore fedele al Signore, nella legge». Ma, anche in questo caso, «un cammino non è assoluto in se stesso, è il cammino verso un punto: verso la manifestazione definitiva del Signore». Del resto, tutta «la vita è un cammino verso la pienezza di Gesù Cristo, quando verrà la seconda volta. È un cammino verso Gesù, che tornerà nella gloria, come avevano detto gli angeli agli apostoli il giorno dell’ascensione».
Insomma, ha ribadito Papa Francesco ripetendo le parole del brano evangelico, «questa generazione cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona»: ovvero — ha chiarito — «il segno della risurrezione, della gloria, di quella escatologia verso la quale andiamo in cammino». Però molti dei suoi contemporanei «erano chiusi in se stessi, non aperti al Dio delle sorprese»; erano uomini e donne che «non conoscevano il cammino e nemmeno questa escatologia, al punto tale che quando in Sinedrio, il sacerdote domanda a Gesù: “Ma di’, tu sei il Figlio dell’uomo?” e Gesù dice: “Sì, e vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza, venire sulle nubi del cielo”, questi si stracciarono le vesti, si scandalizzarono. “Ha bestemmiato! Bestemmia!”, gridavano». Il segno che Gesù dà per loro era una bestemmia.
Per questo motivo, ha spiegato il Papa, Gesù li definisce «generazione malvagia», in quanto «non hanno capito che la legge che loro custodivano e amavano era una pedagogia verso Gesù Cristo». Infatti «se la legge non porta a Gesù Cristo, non ci avvicina a Gesù Cristo, è morta». E per questo Gesù rimprovera i membri di quella generazione «di essere chiusi, di non essere capaci di conoscere i segni dei tempi, di non essere aperti al Dio delle sorprese, di non essere in cammino verso quel trionfo finale del Signore», al punto «che quando lui lo esplicita, essi credono che sia una bestemmia».
Da qui la consegna finale a riflettere su questo tema, a interrogarsi sui due aspetti, chiedendosi: «Io sono attaccato alle mie cose, alle mie idee, chiuso? O sono aperto al Dio delle sorprese?». E ancora: «Sono una persona ferma o una persona che cammina?». E in definitiva, ha concluso, «io credo in Gesù Cristo e in quello che ha fatto», cioè «è morto, risorto… credo che il cammino vada avanti verso la maturità, verso la manifestazione di gloria del Signore? Io sono capace di capire i segni dei tempi ed essere fedele alla voce del Signore che si manifesta in essi?».

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 14 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – Servi liberi

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PAPA FRANCESCO – Servi liberi

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 8 novembre 2016

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.257, 09/11/2016)

Servo ma libero, figlio e non schiavo: è questo l’aspetto dell’identità del cristiano approfondito da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta nella mattina di martedì 8 novembre.
Punto di partenza della riflessione è stato il brano del Vangelo di Luca (17, 7-10) nel quale Gesù afferma: «Siamo servi inutili». Ma cosa significa questa espressione?
Per aiutare la comprensione, il Pontefice ha attinto da un altro elemento della liturgia quotidiana, la preghiera della colletta, nella quale, ha ricordato, «abbiamo pregato chiedendo tre grazie», ovvero: «Allontana, Signore, ogni ostacolo nel nostro cammino verso di te, perché nella serenità del corpo e dello spirito possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio». Un’orazione nella quale sono riassunti i passi necessari per raggiungere la giusta dimensione del servizio, che è quella di essere «servi inutili».
Innanzitutto, ha detto il Papa, «la prima cosa che abbiamo chiesto è che il Signore allontani gli ostacoli, per servirlo bene, per servirlo liberamente, come figli». Dei tanti ostacoli che un cristiano può trovare sul suo cammino e che «impediscono di diventare servi», se ne possono ricordare almeno due. Uno è, sicuramente, «la voglia di potere». Una difficoltà comune, che si incontra facilmente nella vita quotidiana: quante volte, ha esemplificato Francesco, «forse a casa nostra» c’è chi dice: «Qui comando io!», o quante volte, anche «senza dirlo», abbiamo fatto sentire agli altri questa nostra «voglia di potere»? Invece Gesù «ci ha insegnato che colui che comanda diventi come colui che serve» e che «se uno vuole essere il primo, sia il servitore di tutti». Gesù, cioè, «capovolge i valori della mondanità, del mondo».
Ecco perché la voglia di potere «non è la strada per diventare un servo del Signore, anzi: è un ostacolo, uno di questi ostacoli che abbiamo pregato il Signore di allontanare da noi».
C’è poi un altro ostacolo, che si può riscontrare «anche nella vita della Chiesa», ed è «la slealtà». Lo incontriamo «quando qualcuno vuol servire il Signore ma anche serve altre cose che non sono il Signore». Eppure, ha ricordato il Pontefice, Gesù «ci ha detto che nessun servo può avere due padroni: o serve Dio o serve il denaro». E la slealtà, ha sottolineato, «non è lo stesso di essere peccatore». Infatti «tutti siamo peccatori, e ci pentiamo di questo», ma essere sleali è «come fare il doppio gioco». E questo «è un ostacolo». Quindi, «quello che ha voglia di potere e quello che è sleale, difficilmente può servire, diventare servo libero del Signore».
Proseguendo lungo il filo della meditazione, il Papa è passato alla seconda parte della colletta. Dopo aver chiesto al Signore di allontare gli ostacoli, la preghiera prosegue: «… perché — seconda domanda — nella serenità del corpo e dello spirito» possiamo dedicarci al servizio. La seconda parola chiave è, quindi, «serenità», cioè «servire il Signore in pace». Ha infatti spiegato Francesco: «Gli ostacoli — sia la voglia di potere, sia la slealtà — tolgono la pace e ti portano a quel prurito del cuore di non essere in pace, sempre ansioso, male… senza pace». Un’insoddisfazione «che ci porta a vivere in quella tensione della vanità mondana, vivere per apparire». Così si vede tanta gente che «vive soltanto per essere in vetrina, per apparire, perché dicano: “Ah, che buono che è…”, per la fama, fama mondana». Ma così «non si può servire il Signore». Ecco dunque che «chiediamo al Signore di togliere gli ostacoli perché nella serenità, sia del corpo sia dello spirito» — e qui passiamo al terzo elemento — possiamo «dedicarci liberamente al suo servizio».
È «libertà» la terza parola chiave. Perché, ha detto il Papa, «il servizio di Dio è libero: noi siamo figli, non schiavi. E servire Dio in pace, con serenità, quando lui stesso ha tolto da noi gli ostacoli che tolgono la pace e la serenità, è servirlo con libertà». Non a caso, ha aggiunto, «quando noi serviamo il Signore con libertà, sentiamo quella pace ancora più profonda». Ed è come risentire la voce del Signore che dice: «Vieni, vieni, vieni, servo buono e fedele!». Per far questo, però, «abbiamo bisogno della sua grazia: da soli, non possiamo». Ma, ha precisato il Pontefice, non è che quando «noi arriviamo a questo stato di servizio libero, di figli, con il Padre, possiamo dire: “Siamo buoni servitori del Signore”». Piuttosto va detto semplicemente «servi inutili». Espressione che vuole indicare «l’inutilità del nostro lavoro: da soli, non possiamo». Perciò, ha spiegato Papa Francesco, dobbiamo soltanto «chiedere e fare spazio» affinché Dio «ci trasformi in servi liberi, in figli, non in schiavi».
Da qui la preghiera conclusiva: «Che il Signore ci aiuti ad aprire il cuore e a lasciare lavorare lo Spirito Santo, perché tolga da noi questi ostacoli, soprattutto la voglia di potere che fa tanto male, e la slealtà, la doppia faccia», e ancora «ci dia questa serenità, questa pace per poterlo servire come figlio libero che alla fine, con tanto amore» dice al Signore: «Padre, grazie, ma tu sai: sono un servo inutile».

PAPA FRANCESCO – 34. ACCOGLIERE LO STRANIERO E VESTIRE CHI È NUDO (26.10.16)

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PAPA FRANCESCO – 34. ACCOGLIERE LO STRANIERO E VESTIRE CHI È NUDO (26.10.16)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 26 ottobre 2016

34. Accogliere lo straniero e Vestire chi è nudo

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo nella riflessione sulle opere di misericordia corporale, che il Signore Gesù ci ha consegnato per mantenere sempre viva e dinamica la nostra fede. Queste opere, infatti, rendono evidente che i cristiani non sono stanchi e pigri nell’attesa dell’incontro finale con il Signore, ma ogni giorno gli vanno incontro, riconoscendo il suo volto in quello di tante persone che chiedono aiuto. Oggi ci soffermiamo su questa parola di Gesù: «Ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito» (Mt 25,35-36). Nei nostri tempi è quanto mai attuale l’opera che riguarda i forestieri. La crisi economica, i conflitti armati e i cambiamenti climatici spingono tante persone a emigrare. Tuttavia, le migrazioni non sono un fenomeno nuovo, ma appartengono alla storia dell’umanità. È mancanza di memoria storica pensare che esse siano proprie solo dei nostri anni.
La Bibbia ci offre tanti esempi concreti di migrazione. Basti pensare ad Abramo. La chiamata di Dio lo spinge a lasciare il suo Paese per andare in un altro: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). E così è stato anche per il popolo di Israele, che dall’Egitto, dove era schiavo, andò marciando per quarant’anni nel deserto fino a quando giunse alla terra promessa da Dio. La stessa Santa Famiglia – Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù – fu costretta ad emigrare per sfuggire alla minaccia di Erode: «Giuseppe si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15). La storia dell’umanità è storia di migrazioni: ad ogni latitudine, non c’è popolo che non abbia conosciuto il fenomeno migratorio.
Nel corso dei secoli abbiamo assistito in proposito a grandi espressioni di solidarietà, anche se non sono mancate tensioni sociali. Oggi, il contesto di crisi economica favorisce purtroppo l’emergere di atteggiamenti di chiusura e di non accoglienza. In alcune parti del mondo sorgono muri e barriere. Sembra a volte che l’opera silenziosa di molti uomini e donne che, in diversi modi, si prodigano per aiutare e assistere i profughi e i migranti sia oscurata dal rumore di altri che danno voce a un istintivo egoismo. Ma la chiusura non è una soluzione, anzi, finisce per favorire i traffici criminali. L’unica via di soluzione è quella della solidarietà. Solidarietà con il migrante, solidarietà con il forestiero …
L’impegno dei cristiani in questo campo è urgente oggi come in passato. Per guardare solo al secolo scorso, ricordiamo la stupenda figura di santa Francesca Cabrini, che dedicò la sua vita insieme alle sue compagne ai migranti verso gli Stati Uniti d’America. Anche oggi abbiamo bisogno di queste testimonianze perché la misericordia possa raggiungere tanti che sono nel bisogno. È un impegno che coinvolge tutti, nessuno escluso. Le diocesi, le parrocchie, gli istituti di vita consacrata, le associazioni e i movimenti, come i singoli cristiani, tutti siamo chiamati ad accogliere i fratelli e le sorelle che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla violenza e da condizioni di vita disumane. Tutti insieme siamo una grande forza di sostegno per quanti hanno perso patria, famiglia, lavoro e dignità. Alcuni giorni fa, è successa una storia piccolina, di città. C’era un rifugiato che cercava una strada e una signora gli si avvicinò e gli disse: “Ma, lei cerca qualcosa?”. Era senza scarpe, quel rifugiato. E lui ha detto: “Io vorrei andare a San Pietro per entrare nella Porta Santa”. E la signora pensò: “Ma, non ha le scarpe, come farà a camminare?”. E chiama un taxi. Ma quel migrante, quel rifugiato puzzava e l’autista del taxi quasi non voleva che salisse, ma alla fine l’ha lasciato salire sul taxi. E la signora, accanto a lui, gli domandò un po’ della sua storia di rifugiato e di migrante, nel percorso del viaggio: dieci minuti per arrivare fino a qui. Quest’uomo raccontò la sua storia di dolore, di guerra, di fame e perché era fuggito dalla sua Patria per migrare qui. Quando sono arrivati, la signora apre la borsa per pagare il tassista e il tassista, che all’inizio non voleva che questo migrante salisse perché puzzava, ha detto alla signora: “No, signora, sono io che devo pagare lei perché lei mi ha fatto sentire una storia che mi ha cambiato il cuore”. Questa signora sapeva cosa era il dolore di un migrante, perché aveva il sangue armeno e conosceva la sofferenza del suo popolo. Quando noi facciamo una cosa del genere, all’inizio ci rifiutiamo perché ci dà un po’ di incomodità, “ma … puzza …”. Ma alla fine, la storia ci profuma l’anima e ci fa cambiare. Pensate a questa storia e pensiamo che cosa possiamo fare per i rifugiati.
E l’altra cosa è vestire chi è nudo: che cosa vuol dire se non restituire dignità a chi l’ha perduta? Certamente dando dei vestiti a chi ne è privo; ma pensiamo anche alle donne vittime della tratta gettate sulle strade, o agli altri, troppi modi di usare il corpo umano come merce, persino dei minori. E così pure non avere un lavoro, una casa, un salario giusto è una forma di nudità, o essere discriminati per la razza, o per la fede, sono tutte forme di “nudità”, di fronte alle quali come cristiani siamo chiamati ad essere attenti, vigilanti e pronti ad agire.
Cari fratelli e sorelle, non cadiamo nella trappola di rinchiuderci in noi stessi, indifferenti alle necessità dei fratelli e preoccupati solo dei nostri interessi. È proprio nella misura in cui ci apriamo agli altri che la vita diventa feconda, le società riacquistano la pace e le persone recuperano la loro piena dignità. E non dimenticatevi di quella signora, non dimenticate quel migrante che puzzava e non dimenticate l’autista al quale il migrante aveva cambiato l’anima.

PAPA FRANCESCO – CRISTO È LA PORTA DEL REGNO

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PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

CRISTO È LA PORTA DEL REGNO

Arrampicatori, ladri o briganti sono quelli che tentano di entrare da un’altra via

Lunedì, 22 aprile 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 94, Lun. – Mart.  22-23/04/2013)

C’è solo una porta per entrare nel Regno di Dio. E quella porta è Gesù. Chiunque tenti di entrarvi attraverso un’altra via è «un ladro» o «un brigante»; oppure è «un arrampicatore che pensa solo al suo vantaggio», alla sua gloria, e ruba la gloria a Dio. Papa Francesco, durante la messa celebrata questa mattina, lunedì 22 aprile, nella cappella della Domus Sanctae Marthae, è tornato a proporre Gesù come centro della vicenda umana e a ricordare che la nostra non è una religione «da negozio». Ad ascoltarlo c’erano un gruppo di tecnici della Radio Vaticana e il personale della Sala Stampa della Santa Sede accompagnato dai padri Federico Lombardi e Ciro Benedettini, rispettivamente direttore e vicedirettore, che hanno concelebrato, e da Angelo Scelzo, vicedirettore per gli accrediti giornalistici. Commentando le letture della liturgia del giorno, tratte dagli Atti degli apostoli (11, 1-18) e dal vangelo di Giovanni (10, 1-10), il Pontefice ha ricordato che in esse «viene ripetuto il verbo “entrare”. Prima, quando Pietro viene a Gerusalemme è rimproverato: “Sei entrato in casa dei pagani”. Poi, Pietro racconta la storia, racconta come lui è entrato. E Gesù è molto esplicito, in questo: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, non è il pastore”». Per entrare nel regno di Dio, nella comunità cristiana, nella Chiesa, «la porta — ha spiegato il Papa — la vera porta, l’unica porta è Gesù. Noi dobbiamo entrare da quella porta. E Gesù è esplicito: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta — che Lui dice ‘sono io’ — ma vi sale dall’altra parte, è un ladro o un brigante”, uno che vuole fare profitto per se stesso». Questo, ha notato, accade «anche nelle comunità cristiane. Ci sono questi arrampicatori, no?, che cercano il loro. E coscientemente o incoscientemente fanno finta di entrare; ma sono ladri e briganti. Perché? Perché rubano la gloria a Gesù, vogliono la propria gloria. E questo è quello che Gesù diceva ai farisei: “Voi girate la gloria uno all’altro…”. Una religione un po’ da negozio, no? “Io do la gloria a te e tu dai la gloria a me”. Ma questi non sono entrati dalla porta vera. La porta è Gesù, e chi non entra da questa porta si sbaglia». Ma come capire che la porta vera è Gesù? «Prendi le Beatitudini e fa quello che dicono le Beatitudini» è stata la risposta del Pontefice. In questo modo «sei umile, sei povero, sei mite, sei giusto»; e quando qualcuno fa un’altra proposta, «non ascoltarla: la porta sempre è Gesù e chi entra da quella porta non si sbaglia». Gesù «non solo è la porta: è il cammino, è la strada. Ci sono tanti sentieri, forse più vantaggiosi per arrivare», ma sono ingannevoli «non sono veri: sono falsi. Soltanto Gesù è la strada. Qualcuno di voi dirà: “Padre, lei è fondamentalista?!”. No. Semplicemente questo ha detto Gesù: “Io sono la porta”, “io sono il cammino” per darci la vita. Semplicemente. È una porta bella, una porta d’amore, è una porta che non ci inganna, non è falsa. Sempre dice la verità. Ma con tenerezza, con amore.» Purtroppo, ha notato il Santo Padre, l’uomo continua a essere tentato ancora oggi da ciò che è stato all’origine il peccato originale, cioè dalla «voglia di avere la chiave di interpretazione di tutto, la chiave e il potere di fare la nostra strada, qualsiasi essa sia, di trovare la nostra porta, qualsiasi essa sia. E quella è la prima tentazione: “Conoscerai tutto”. A volte abbiamo la tentazione di voler essere troppo padroni di noi stessi e non umili figli e servi del Signore. E questa è la tentazione di cercare altre porte o altre finestre per entrare nel regno di Dio». Dove invece «si entra soltanto da quella porta che si chiama Gesù», da quella porta che ci conduce su «una strada che si chiama Gesù e ci porta alla vita che si chiama Gesù. Tutti coloro che fanno un’altra cosa — dice il Signore — che salgono per entrare dalla finestra, sono “ladri e briganti”. È semplice, il Signore. Non parla difficile: lui è semplice». In conclusione il Papa ha invitato i presenti a pregare per ottenere «la grazia di bussare sempre a quella porta» che a volte è chiusa; noi siamo tristi, desolati e «abbiamo problemi a bussare, a bussare a quella porta». Il Pontefice ha invitato a pregare proprio per trovare la forza per «non andare a cercare altre porte che sembrano più facili, più confortevoli, più alla portata di mano», e andare invece a cercare «sempre quella: Gesù. E Gesù non delude mai, Gesù non inganna, Gesù non è un ladro, non è un brigante. Ha dato la sua vita per me. Ciascuno di noi deve dire questo: “Tu che hai dato la vita per me, per favore, apri, perché io possa entrare”. Chiediamo questa grazia. Bussare sempre a quella porta e dire al Signore: “Apri, Signore, ché voglio entrare per questa porta. Voglio entrare da questa porta, non da quell’altra”».

 

PAPA FRANCESCO – IL GIORNO DEL SÌ

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PAPA FRANCESCO – IL GIORNO DEL SÌ

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Il giorno del sì

Lunedì, 4 aprile 2016

«Sì»: per il cristiano non c’è altra risposta alla chiamata di Dio. E soprattutto non ci deve essere mai l’atteggiamento di chi fa finta di non capire e si gira dall’altra parte. È proprio nella solennità del’Annunciazione del Signore, lunedì mattina 4 aprile, che il Papa ha invitato a vivere una vera e propria «festa del sì», celebrando la messa nella cappella della Casa Santa Marta. E un «sì» convinto stamani lo hanno pronunciato i sacerdoti che hanno concelebrato con Francesco nel giorno del loro cinquantesimo anniversario di ordinazione. E anche le religiose vincenziane che lavorano a Santa Marta che hanno rinnovato i voti. «È tutta una storia che finisce e incomincia in questa solennità che oggi celebriamo: la storia dell’uomo, quando esce dal paradiso» ha voluto subito far notare il Papa all’inizio dell’omelia. Dopo il peccato, infatti, il Signore comanda all’uomo di camminare e riempire la terra: «Sii fecondo e vai avanti». Ma «il Signore era attento a quello che faceva l’uomo». Tanto che «alcune volte, quando l’uomo sbagliò, Lui punì l’uomo: pensiamo a Babele o al diluvio». Così Dio sempre «guardava cosa faceva l’uomo: a un certo punto, questo Dio che guardava e custodiva l’uomo, decise di fare un popolo e chiama nostro padre Abramo: “Esci dalla tua terra, dalla tua casa”». E Abramo «obbedì, ha detto “sì”» al Signore «ed è partito dalla sua terra senza sapere dove sarebbe andato». È «il primo “sì” del popolo di Dio». E proprio «con Abramo, Dio — che guardava il popolo — incominciò a “camminare con”. E camminò con Abramo: “Cammina nella mia presenza” gli ha detto».

Dio, ha spiegato il Papa, «fece poi lo stesso con Mosè, al quale a ottant’anni disse: “Fa’ questo”. E Mosè a ottant’anni — è anziano — dice “sì!”. E va a liberare il popolo».

Ma Dio, ha affermato ancora il Pontefice, «fece lo stesso con i profeti»: pensiamo per esempio a Isaia che, quando il Signore gli dice di andare a dire le cose al popolo, risponde di avere «le labbra impure». Ma «il Signore purifica le labbra di Isaia e Isaia dice “sì!”». E anche con Geremia, ha ricordato il Papa, avviene lo stesso: «Signore, io non so parlare, sono un ragazzino!» è la prima risposta del profeta. Ma Dio gli comanda di andare comunque e lui risponde «sì!». Sono «tanti, tanti» quelli «che hanno detto “sì”», è davvero una «umanità di uomini e donne anziani che hanno detto “sì” alla speranza del Signore». E nell’omelia Francesco ha voluto ricordare anche Simeone e Anna. «Oggi — ha spiegato — il Vangelo ci dice la fine di questa catena di “sì” e l’inizio di un altro “sì” che incomincia a crescere: il “sì” di Maria». Proprio «questo “sì” fa che Dio — ha affermato il Pontefice — non solo guardi come va l’uomo, non solo cammini con il suo popolo, ma che si faccia uno di noi e prenda la nostra carne». Infatti «il “sì” di Maria apre la porta al “sì” di Gesù: “Io vengo per fare la tua volontà”». E «questo “sì” che va con Gesù durante tutta la vita, fino alla croce: “Allontana da me questo calice, Padre, ma sia fatta la tua volontà”». È «in Gesù Cristo che, come dice Paolo ai corinzi, vi è il “sì” di Dio: Lui è il “sì”». «È una bella giornata — ha rimarcato il Papa — per ringraziare il Signore di averci insegnato questa strada del “sì”, ma anche per pensare alla nostra vita». Oltrettutto «alcuni di voi — ha detto rivolgendosi direttamente ai sacerdoti presenti alla messa — celebrano il cinquantesimo di sacerdozio: bella giornata per pensare ai “sì” della vostra vita». Ma «tutti noi, durante ogni giorno, dobbiamo dire “sì” o “no”, e pensare se sempre diciamo “sì” o tante volte ci nascondiamo, con la testa bassa, come Adamo e Eva, per non dire “no”» facendo finta di non capire «quello che Dio chiede». «Oggi è la festa del “sì”» ha rilanciato Francesco. Infatti «nel “sì” di Maria c’è il “sì” di tutta la storia della salvezza e incomincia lì l’ultimo “sì” dell’uomo e di Dio: lì Dio ricrea, come all’inizio con un “sì” ha fatto il mondo e l’uomo, quella bella creazione: con questo “sì” io vengo per fare la tua volontà e più meravigliosamente ricrea il mondo, ricrea tutti noi». È «il “sì” di Dio che ci santifica, che ci fa andare avanti in Gesù Cristo». Ecco perché oggi è la giornata giusta «per ringraziare il Signore e per domandarci: io sono uomo o donna del “sì” o sono uomo o donna del “no”? O sono uomo o donna che guardo un po’ dall’altra parte, per non rispondere?». Il Papa ha quindi espresso la speranza «che il Signore ci dia la grazia di entrare in questa strada di uomini e donne che hanno saputo dire il “sì”». E dopo aver avuto un pensiero per i sacerdoti, Francesco ha concluso rivolgendosi alle religiose della comunità di Santa Marta: «In questo momento, in silenzio, le suore che sono in questa Casa rinnoveranno i voti: lo fanno ogni anno, perché San Vincenzo era intelligente e sapeva che la missione che affidava loro era molto difficile, e per questo ha voluto che ogni anno rinnovassero i voti. Noi in silenzio accompagniamo la rinnovazione».

 

PAPA FRANCESCO – PORTE APERTE ALLA CONSOLAZIONE (10.6.2013)

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PAPA FRANCESCO – PORTE APERTE ALLA CONSOLAZIONE

(non ci sono udienze, il Papa è in ritiro per la Quaresima)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Lunedì, 10 giugno 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 132, Lun.10 – Mart.11/06/2013)

Perché ci sono persone che hanno il cuore chiuso alla salvezza? È su questo interrogativo che Papa Francesco ha incentrato l’omelia della messa di oggi, lunedì 10 giugno, nella cappella della Domus Sanctae Marthae, concelebrata, tra gli altri, dal cardinale Stanis?aw Ry?ko, presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, presenti responsabili e dipendenti del dicastero. Una domanda che trova una risposta e una spiegazione nella paura, perché — ha spiegato il Pontefice — la salvezza ci fa paura. È un’attrazione che scatena i timori più nascosti nel nostro cuore. «Abbiamo bisogno» della salvezza, ma al tempo stesso ne «abbiamo paura», perché, ha detto il Santo Padre, «quando il Signore viene per salvarci, dobbiamo dare tutto» e a quel punto «comanda lui; e di questo abbiamo paura». Gli uomini infatti vogliono «comandare», vogliono essere «i padroni» di loro stessi. E così «la salvezza non arriva, la consolazione dello Spirito non arriva». Nella liturgia del giorno il brano del vangelo di Matteo (5, 1-12) sulle Beatitudini ha offerto al Papa l’occasione per una riflessione sul rapporto tra salvezza e libertà. Solo la salvezza che arriva con la consolazione dello Spirito, ha affermato, ci rende liberi: è «la libertà che nasce dallo Spirito Santo che ci salva, che ci consola, che ci dà vita». Ma per comprendere pienamente le beatitudini e cosa significhi «essere poveri, essere miti, essere misericordiosi» — tutte cose che «non sembra» ci «portino al successo» — occorre custodire «il cuore aperto» e aver «gustato bene quella consolazione dello Spirito Santo che è salvezza». Le Beatitudini, del resto, sono «la legge di quelli che sono stati salvati» e hanno aperto il cuore alla salvezza. «Questa — ha aggiunto — è la legge dei liberi, con quella libertà dello Spirito Santo». Possiamo «regolare la vita, sistemarla su un elenco di comandamenti o di procedimenti», ma è un’operazione meramente umana, ha avvertito Papa Francesco. «È una cosa limitata e alla fine non ci porta alla salvezza», poiché solo un «cuore aperto» può farlo. In proposito il Vangelo narra che, vedendo le folle, Gesù salì sul monte. «Tra le folle — ha notato il Santo Padre — c’erano tanti che avevano bisogno di salvezza. Era il popolo di Dio che seguiva Giovanni Battista prima, poi il Signore», proprio perché bisognoso di salvezza. Ma c’erano anche altri che «andavano là per esaminare questa dottrina nuova e poi litigare con Gesù. Non avevano il cuore aperto, avevano il cuore chiuso nelle loro cose». Si chiedevano cosa Gesù volesse cambiare, ma «siccome avevano il cuore chiuso, il Signore non poteva cambiarlo»; e purtroppo «avevano il cuore chiuso» ha aggiunto Papa Francesco. Perciò il Pontefice ha invitato a chiedere al Signore «la grazia di seguirlo»; ma non con la libertà dei farisei e dei sadducei, che diventarono ipocriti perché volevano «seguirlo solo con la libertà umana». L’ipocrisia è proprio questo: «Non lasciare che lo Spirito cambi il cuore con la sua salvezza. La libertà che ci dà lo Spirito è anche una sorta di schiavitù, una schiavitù al Signore che ci fa liberi. È un’altra libertà». Invece, la nostra libertà è «una schiavitù: non al Signore, ma allo spirito del mondo». Da qui l’invocazione del Papa, che ha chiesto «la grazia di aprire il nostro cuore alla consolazione dello Spirito Santo, perché questa consolazione, che è la salvezza, ci faccia capire bene» i nuovi comandamenti contenuti nel Vangelo delle beatitudini. Non a caso l’inizio della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (1, 1-7) nella liturgia del giorno parla per ben «nove volte di consolazione». Sembra un po’ esagerato, ha commentato il Papa. E sottolineando che Paolo «ha bisogno di sette versetti per dire questa parola: consolazione», si è chiesto: «Perché insiste in questo? Cosa è questa consolazione?». La lettera dell’apostolo è rivolta a cristiani «giovani nella fede», a quanti «hanno incominciato da poco la strada di Gesù». Paolo «insiste su ciò. Nella strada di Gesù il Padre ci offre la consolazione». Questi cristiani «non erano tutti perseguitati. Erano persone normali che avevano la loro famiglia, il loro lavoro, ma avevano trovato Gesù. E questo è un cambiamento di vita tale che era necessaria una forza speciale di Dio, dello Spirito Santo; e questa forza è la consolazione». Cosa significa consolazione? Per Papa Francesco essa «è la presenza di Dio nel nostro cuore. Ma perché il Signore sia nel nostro cuore è necessario aprire la porta». La conversione di questi pagani a cui scrive Paolo è consistita proprio nell’«aprire la porta al Signore». E per questo hanno avuto «la consolazione dello Spirito Santo». La salvezza è infatti «vivere nella consolazione dello Spirito Santo, non vivere nella consolazione dello spirito del mondo. Quello non è salvezza, è peccato». Al contrario, la salvezza è «andare avanti e aprire il cuore perché venga questa consolazione dello Spirito Santo». L’uomo corre spesso il rischio di cercare di «negoziare», di prendere quello che ci fa comodo, «un po’ di qua e un po’ di là». È come «fare una macedonia: un po’ di Spirito Santo e un po’ dello spirito del mondo». Ma con Dio non vi sono mezze misure: o si sceglie «una cosa o l’altra». Infatti, ha rimarcato il Pontefice, il «Signore lo dice chiaro: non si possono servire due padroni. O si serve il Signore o si serve lo spirito del mondo. Non si può mischiare tutto».  Questa nuova legge che «il Signore ci porta, queste nuove Beatitudini si capiscono soltanto se uno ha il cuore aperto. Si capiscono dalla consolazione dello Spirito Santo. Non si possono capire con l’intelligenza umana o con lo spirito del mondo». Dobbiamo essere aperti alla salvezza, altrimenti «non si possono capire. Sono i nuovi comandamenti, ma se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo sembreranno sciocchezze».

 

PAPA FRANCESCO – UNA LUCE MITE, UMILE E PIENA D’AMORE

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PAPA FRANCESCO – UNA LUCE MITE, UMILE E PIENA D’AMORE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Una luce mite, umile e piena d’amore

Martedì, 3 settembre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 201, Merc. 4/09/2013)

L’umiltà, la mitezza, l’amore, l’esperienza della croce sono i mezzi attraverso i quali il Signore sconfigge il male. E la luce che Gesù ha portato nel mondo vince la cecità dell’uomo, spesso abbagliato dalla falsa luce del mondo, più potente ma ingannevole. Sta a noi saper discernere quale luce viene da Dio. È questo il senso della riflessione proposta da Papa Francesco durante la messa celebrata questa mattina, martedì 3 settembre, nella cappella della Domus Sanctae Marthae. Commentando la prima lettura, il Santo Padre si è soffermato sulla «bella parola» che san Paolo rivolge ai Tessalonicesi: «Voi fratelli non siete nelle tenebre… siete tutti figli della luce e figli del giorno, non della notte. Noi non apparteniamo alla notte né alle tenebre» (1 Ts 5,1-6, 9-11). È chiaro, ha spiegato il Papa, quello che vuole dire l’apostolo: «l’identità cristiana è identità della luce, non delle tenebre». E Gesù ha portato questa luce nel mondo. «San Giovanni — ha precisato Papa Francesco — nel primo capitolo del suo Vangelo ci dice “la luce è venuta nel mondo”, lui, Gesù». Una luce che «non è stata ben voluta dal mondo», ma che tuttavia «ci salva dalle tenebre, dalle tenebre del peccato». Oggi, ha proseguito il Pontefice, si pensa che sia possibile ottenere questa luce che squarcia le tenebre attraverso tanti ritrovati scientifici e altre invenzioni dell’uomo, grazie ai quali «si può conoscere tutto, si può avere scienza di tutto». Ma «la luce di Gesù — ha avvertito Papa Francesco — è un’altra cosa. Non è una luce di ignoranza, no, no! È una luce di sapienza, di saggezza; ma è un’altra cosa. La luce che ci offre il mondo è una luce artificiale. Forse forte, più forte di quella di Gesù, eh?. Forte come un fuoco di artificio, come un flash della fotografia. Invece la luce di Gesù è una luce mite, è una luce tranquilla, è una luce di pace. È come la luce della notte di Natale: senza pretese. È così: si offre e dà pace. La luce di Gesù non fa spettacolo; è una luce che viene nel cuore. È vero che il diavolo, e questo lo dice san Paolo, tante volte viene travestito da angelo di luce. A lui piace imitare la luce di Gesù. Si fa buono e ci parla così, tranquillamente, come ha parlato a Gesù dopo il digiuno nel deserto: “se tu sei il figlio di Dio fa’ questo miracolo, buttati giù dal tempio” fa’ lo spettacolo! E lo dice in una maniera tranquilla» e perciò ingannevole. Per questo Papa Francesco ha raccomandato di «chiedere tanto al Signore la saggezza del discernimento per riconoscere quando è Gesù che ci dà la luce e quando è proprio il demonio travestito da angelo di luce. Quanti credono di vivere nella luce ma sono nelle tenebre e non se ne accorgono!». Ma com’è la luce che ci offre Gesù? «Possiamo riconoscerla — ha spiegato il Santo Padre — perché è una luce umile. Non è una luce che si impone, è umile. È una luce mite, con la forza della mitezza; è una luce che parla al cuore ed è anche una luce che offre la croce. Se noi, nella nostra luce interiore, siamo uomini miti sentiamo la voce di Gesù nel cuore e guardiamo senza paura alla croce nella luce di Gesù». Ma se, al contrario, ci lasciamo abbagliare da una luce che ci fa sentire sicuri, orgogliosi e ci porta a guardare gli altri dall’alto, a sdegnarli con superbia, certamente non ci troviamo in presenza della «luce di Gesù». È invece «luce del diavolo travestito da Gesù — ha detto il Vescovo di Roma — da angelo di luce. Dobbiamo distinguere sempre: dove è Gesù c’è sempre umiltà, mitezza, amore e croce. Mai troveremo infatti Gesù senza umiltà, senza mitezza, senza amore e senza la croce. Lui ha fatto per primo questa strada di luce. Dobbiamo andare dietro a lui senza paura», perché «Gesù ha la forza e l’autorità per darci questa luce». Una forza descritta nel brano del Vangelo della liturgia odierna, nel quale Luca narra l’episodio della cacciata, a Cafarnao, del demonio dall’uomo posseduto (cfr. Lc 4, 16-30). «La gente — ha sottolineato il Papa commentando la lettura — era presa dal timore e, dice il Vangelo, si domandava: “che parola è mai questa che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?”. Gesù non ha bisogno di un esercito per scacciare via i demoni, non ha bisogno della superbia, non ha bisogno della forza, dell’orgoglio». Qual è questa parola «che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?», si è chiesto il Pontefice. «È una parola — è stata la sua risposta — umile, mite, con tanto amore». È una parola che ci accompagna nei momenti di sofferenza, che ci avvicinano alla croce di Gesù. «Chiediamo al Signore — è stata l’esortazione conclusiva di Papa Francesco — che ci dia oggi la grazia della sua luce e ci insegni a distinguere quando la luce è la sua luce e quando è una luce artificiale fatta dal nemico per ingannarci».

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 22 février, 2016 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – PER NON LASCIARSI CONTAGIARE DALLA TENTAZIONE

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PAPA FRANCESCO – MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

PER NON LASCIARSI CONTAGIARE DALLA TENTAZIONE

Martedì, 18 febbraio 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.040, Merc. 19/02/2014)

La tentazione si presenta a noi in modo subdolo, contagia tutto l’ambiente che ci circonda, ci spinge a cercare sempre una giustificazione. E alla fine ci fa cadere nel peccato, chiudendoci in una gabbia dalla quale è difficile uscire. Per resisterle bisogna ascoltare la parola del Signore, perché «lui ci aspetta», ci dà sempre fiducia e apre davanti a noi un nuovo orizzonte. È questo in sintesi il senso della riflessione proposta da Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta questa mattina, martedì 18 febbraio. Il Pontefice ha preso lo spunto, come di consueto, dalla liturgia del giorno, in particolare dalla Lettera di san Giacomo (12-18), nella quale l’apostolo «dopo averci parlato ieri della pazienza — ha fatto notare — ci parla oggi della resistenza. Resistenza alle tentazioni. E ci spiega che ciascuno è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono. Poi le passioni concepiscono, generano il peccato. E il peccato una volta commesso, genera la morte». Ma da dove viene la tentazione? Come agisce dentro di noi? Per rispondere a questi interrogativi il Papa ha fatto nuovamente ricorso al testo della lettera di Giacomo. «L’apostolo — ha osservato — ci dice che non viene da Dio ma dalle nostre passioni, dalle nostre debolezze interiori, dalle ferite che ha lasciato in noi il peccato originale. Da lì vengono le tentazioni». E al riguardo si è soffermato sulle caratteristiche della tentazione, che, ha detto, «cresce, contagia e si giustifica». Inizialmente, dunque, la tentazione «comincia con un’aria tranquillizzante», ma «poi cresce. Gesù stesso lo diceva quando ha raccontato la parabola del grano e della zizzania (Matteo, 13, 24-30). Il grano cresceva, ma cresceva anche la zizzania seminata dal nemico. E così anche la tentazione cresce, cresce, cresce. E se uno non la ferma, occupa tutto». Poi avviene il contagio. La tentazione «cresce ma — ha spiegato il vescovo di Roma — non ama la solitudine»; dunque «cerca un altro per farsi fare compagnia, contagia un altro e così accumula persone». E la terza caratteristica è la giustificazione, perché noi uomini «per essere tranquilli ci giustifichiamo». A questo proposito il Pontefice ha osservato che la tentazione si giustifica da sempre, «sin dal peccato originale», quando Adamo incolpa Eva per averlo convinto a mangiare il frutto proibito. E in questo suo crescere, contagiare e giustificarsi, essa «ci chiude in un ambiente da dove non si può uscire con facilità». Per spiegarlo il Papa si è riferito al brano del Vangelo di Marco (8, 14,21): «È quello che è successo agli apostoli che erano sulla barca: avevano dimenticato di prendere dei pani» e si erano messi a discutere incolpandosi a vicenda per averli dimenticati. «Gesù li guardava. Io penso — ha commentato — che lui sorrideva mentre li guardava. E dice loro: Ma ricordate del lievito di farisei, di Erode? Fate attenzione, guardatevi!». Eppure essi «non capivano niente, perché erano talmente presi a incolparsi che non avevano più spazio per altro, non avevano più luce per la parola di Dio». Lo stesso accade «quando cadiamo in tentazione. Non sentiamo la parola di Dio. Non capiamo. E Gesù ha dovuto ricordare la moltiplicazione dei pani per aiutare i discepoli a uscire da quell’ambiente». Questo accade, ha spiegato il Pontefice, perché la tentazione ci chiude ogni orizzonte «e così ci porta al peccato». Quando siamo in tentazione, «soltanto la parola di Dio, la parola di Gesù ci salva. Sentire quella parola ci apre l’orizzonte», perché «lui è sempre disposto a insegnarci come uscire dalla tentazione. Gesù è grande perché non solo ci fa uscire dalla tentazione ma ci dà più fiducia». Al riguardo Papa Francesco ha ricordato l’episodio raccontato dal Vangelo di Luca (22, 31-32) a proposito del colloquio tra Gesù e Pietro, durante il quale il Signore «dice a Pietro che il diavolo voleva passarlo al setaccio»; ma nello stesso tempo gli confida di aver pregato per lui e gli affida una nuova missione: «Quando sei convertito, conferma i tuoi fratelli». Dunque Gesù, ha sottolineato il Santo Padre, non solo ci aspetta per aiutarci a uscire dalla tentazione, ma si fida di noi. E «questa è una grande forza», perché «lui ci apre sempre nuovi orizzonti», mentre il diavolo con la tentazione «chiude e fa crescere l’ambiente in cui si litiga», cosicché «si cercano giustificazioni accusandosi l’un l’altro». «Non lasciamoci imprigionare dalla tentazione» è stata l’esortazione del vescovo di Roma. Dal cerchio in cui ci costringe la tentazione «si esce soltanto ascoltando la Parola di Gesù» ha ricordato, concludendo: «Chiediamo al Signore che sempre, come ha fatto con i discepoli, con la sua pazienza, quando siamo in tentazione ci dica: Fermati. Stai tranquillo. Alza gli occhi, guarda l’orizzonte, non chiuderti, vai avanti. Questa parola ci salverà dal cadere nel peccato nel momento della tentazione».  

SANTA MESSA PAPA FRANCESCO – XIV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

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SANTA MESSA PER L’APERTURA DELLA XIV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana

XXVII Domenica del Tempo Ordinario, 4 ottobre 2015

«Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,12).

Le Letture bibliche di questa domenica sembrano scelte appositamente per l’evento di grazia che la Chiesa sta vivendo, ossia L’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema della famiglia che con questa celebrazione eucaristica viene inaugurata.
Esse sono incentrate su tre argomenti: il dramma della solitudine, l’amore tra uomo-donna e la famiglia.

La solitudine
Adamo, come leggiamo nella prima Lettura, viveva nel Paradiso, imponeva i nomi alle altre creature esercitando un dominio che dimostra la sua indiscutibile e incomparabile superiorità, ma nonostante ciò si sentiva solo, perché «non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gen 2,20) e sperimentò la solitudine.
La solitudine, il dramma che ancora oggi affligge tanti uomini e donne. Penso agli anziani abbandonati perfino dai loro cari e dai propri figli; ai vedovi e alle vedove; ai tanti uomini e donne lasciati dalla propria moglie e dal proprio marito; a tante persone che di fatto si sentono sole, non capite e non ascoltate; ai migranti e ai profughi che scappano da guerre e persecuzioni; e ai tanti giovani vittime della cultura del consumismo, dell’usa e getta e della cultura dello scarto.
Oggi si vive il paradosso di un mondo globalizzato dove vediamo tante abitazioni lussuose e grattacieli, ma sempre meno il calore della casa e della famiglia; tanti progetti ambiziosi, ma poco tempo per vivere ciò che è stato realizzato; tanti mezzi sofisticati di divertimento, ma sempre di più un vuoto profondo nel cuore; tanti piaceri, ma poco amore; tanta libertà, ma poca autonomia… Sono sempre più in aumento le persone che si sentono sole, ma anche quelle che si chiudono nell’egoismo, nella malinconia, nella violenza distruttiva e nello schiavismo del piacere e del dio denaro.
Oggi viviamo, in un certo senso, la stessa esperienza di Adamo: tanta potenza accompagnata da tanta solitudine e vulnerabilità; e la famiglia ne è l’icona. Sempre meno serietà nel portare avanti un rapporto solido e fecondo di amore: nella salute e nella malattia, nella ricchezza e nella povertà, nella buona e nella cattiva sorte. L’amore duraturo, fedele, coscienzioso, stabile, fertile è sempre più deriso e guardato come se fosse roba dell’antichità. Sembrerebbe che le società più avanzate siano proprio quelle che hanno la percentuale più bassa di natalità e la percentuale più alta di aborto, di divorzio, di suicidi e di inquinamento ambientale e sociale.

L’amore tra uomo e donna
Leggiamo ancora nella prima Lettura che il cuore di Dio rimase come addolorato nel vedere la solitudine di Adamo e disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18). Queste parole dimostrano che nulla rende felice il cuore dell’uomo come un cuore che gli assomiglia, che gli corrisponde, che lo ama e che lo toglie dalla solitudine e dal sentirsi solo. Dimostrano anche che Dio non ha creato l’essere umano per vivere in tristezza o per stare solo, ma per la felicità, per condividere il suo cammino con un’altra persona che gli sia complementare; per vivere la stupenda esperienza dell’amore: cioè amare ed essere amato; e per vedere il suo amore fecondo nei figli, come dice il salmo che è stato proclamato oggi (cfr Sal 128).
Ecco il sogno di Dio per la sua creatura diletta: vederla realizzata nell’unione di amore tra uomo e donna; felice nel cammino comune, feconda nella donazione reciproca. È lo stesso disegno che Gesù nel Vangelo di oggi riassume con queste parole: «Dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne» (Mc 10,6-8; cfr Gen 1,27; 2,24).
Gesù, di fronte alla domanda retorica che Gli è stata fatta – probabilmente come un tranello, per farLo diventare all’improvviso antipatico alla folla che lo seguiva e che praticava il divorzio come realtà consolidata e intangibile –, risponde in maniera schietta e inaspettata: riporta tutto all’origine, all’origine della creazione, per insegnarci che Dio benedice l’amore umano, è Lui che unisce i cuori di un uomo e una donna che si amano e li unisce nell’unità e nell’indissolubilità. Ciò significa che l’obiettivo della vita coniugale non è solamente vivere insieme per sempre, ma amarsi per sempre! Gesù ristabilisce così l’ordine originario ed originante.

La famiglia
«Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10,9). E’ una esortazione ai credenti a superare ogni forma di individualismo e di legalismo, che nascondono un gretto egoismo e una paura di aderire all’autentico significato della coppia e della sessualità umana nel progetto di Dio.
Infatti, solo alla luce della follia della gratuità dell’amore pasquale di Gesù apparirà comprensibile la follia della gratuità di un amore coniugale unico e usque ad mortem.
Per Dio il matrimonio non è utopia adolescenziale, ma un sogno senza il quale la sua creatura sarà destinata alla solitudine! Infatti la paura di aderire a questo progetto paralizza il cuore umano.
Paradossalmente anche l’uomo di oggi – che spesso ridicolizza questo disegno – rimane attirato e affascinato da ogni amore autentico, da ogni amore solido, da ogni amore fecondo, da ogni amore fedele e perpetuo. Lo vediamo andare dietro agli amori temporanei ma sogna l’amore autentico; corre dietro ai piaceri carnali ma desidera la donazione totale.
Infatti, «ora che abbiamo pienamente assaporato le promesse della libertà illimitata, cominciamo a capire di nuovo l’espressione “tristezza di questo mondo”. I piaceri proibiti hanno perso la loro attrattiva appena han cessato di essere proibiti. Anche se vengono spinti all’estremo e vengono rinnovati all’infinito, risultano insipidi perché sono cose finite, e noi, invece, abbiamo sete di infinito» (Joseph Ratzinger, Auf Christus schauen. Einübung in Glaube, Hoffnung, Liebe, Freiburg 1989, p. 73).
In questo contesto sociale e matrimoniale assai difficile, la Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella fedeltà, nella verità e nella carità. Vivere la sua missione nella fedeltà al suo Maestro come voce che grida nel deserto, per difendere l’amore fedele e incoraggiare le numerosissime famiglie che vivono il loro matrimonio come uno spazio in cui si manifesta l’amore divino; per difendere la sacralità della vita, di ogni vita; per difendere l’unità e l’indissolubilità del vincolo coniugale come segno della grazia di Dio e della capacità dell’uomo di amare seriamente.
La Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella verità che non si muta secondo le mode passeggere o le opinioni dominanti. La verità che protegge l’uomo e l’umanità dalle tentazioni dell’autoreferenzialità e dal trasformare l’amore fecondo in egoismo sterile, l’unione fedele in legami temporanei. «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità» (Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 3).
E la Chiesa è chiamata a vivere la sua missione nella carità che non punta il dito per giudicare gli altri, ma – fedele alla sua natura di madre – si sente in dovere di cercare e curare le coppie ferite con l’olio dell’accoglienza e della misericordia; di essere “ospedale da campo”, con le porte aperte ad accogliere chiunque bussa chiedendo aiuto e sostegno; di più, di uscire dal proprio recinto verso gli altri con amore vero, per camminare con l’umanità ferita, per includerla e condurla alla sorgente di salvezza.
Una Chiesa che insegna e difende i valori fondamentali, senza dimenticare che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27); e che Gesù ha detto anche: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). Una Chiesa che educa all’amore autentico, capace di togliere dalla solitudine, senza dimenticare la sua missione di buon samaritano dell’umanità ferita.
Ricordo san Giovanni Paolo II quando diceva: «L’errore e il male devono essere sempre condannati e combattuti; ma l’uomo che cade o che sbaglia deve essere compreso e amato […] Noi dobbiamo amare il nostro tempo e aiutare l’uomo del nostro tempo» (Discorso all’Azione Cattolica Italiana, 30 dicembre 1978: Insegnamenti I [1978], 450). E la Chiesa deve cercarlo, accoglierlo e accompagnarlo, perché una Chiesa con le porte chiuse tradisce sé stessa e la sua missione, e invece di essere un ponte diventa una barriera: «Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli» (Eb 2,11).
Con questo spirito chiediamo al Signore di accompagnarci nel Sinodo e di guidare la sua Chiesa per l’intercessione della Beata Vergine Maria e di san Giuseppe, suo castissimo sposo.

 

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