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PAPA FRANCESCO – IL MISTERO DELLA PAZIENZA DI DIO

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PAPA FRANCESCO – IL MISTERO DELLA PAZIENZA DI DIO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Venerdì, 28 giugno 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 148, Sab. 29/06/2013)

Non esiste «un protocollo dell’azione di Dio sulla nostra vita», ma possiamo esser certi che, prima o poi, egli interviene «a modo suo». Per questo non dobbiamo farci prendere dall’impazienza o dallo scetticismo, anche perché quando ci scoraggiamo e «decidiamo di scendere dalla croce, lo facciamo sempre cinque minuti prima della rivelazione». È questo invito a saper accettare e a riconoscere i tempi di Dio quello che il Papa ha rivolto durante la messa celebrata questa mattina, venerdì 28 giugno, nella cappella della Domus Sanctae Marthae. Tra i presenti, personale della Direzione di Sanità e Igiene del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, guidato dal direttore Patrizio Polisca.
Dio cammina sempre con noi «e questo è sicuro» ha detto il Pontefice. «Dal primo momento della creazione — ha spiegato — il Signore si è coinvolto con noi. Non ha creato il mondo, l’uomo, la donna, e li ha lasciati. Ci ha creati a sua immagine e somiglianza». Dunque fin dall’inizio dei tempi c’è «questo coinvolgimento del Signore nella nostra vita, nella vita del suo popolo», perché «il Signore è vicino al suo popolo, molto vicino. Lui stesso lo dice: quale popolo sulla terra ha un Dio tanto vicino come voi?».
«Questa vicinanza del Signore — ha affermato Papa Francesco — è un segno del suo amore: lui ci ama tanto che ha voluto camminare con noi. La vita è un cammino che lui ha voluto fare insieme a noi. E sempre il Signore entra nella nostra vita e ci aiuta ad andare avanti». Ma, ha precisato, «quando il Signore viene, non sempre lo fa alla stessa maniera. Non esiste un protocollo dell’azione di Dio sulla nostra vita. Una volta lo fa in una maniera, un’altra volta lo fa in un’altra maniera. Ma lo fa sempre. Sempre c’è questo incontro fra noi e il Signore».
Nel passo del vangelo di Matteo (8, 1-4) della liturgia del giorno «abbiamo visto — ha evidenziato il Santo Padre — come il Signore entra subito nella vita di questo lebbroso». Racconta l’evangelista che «quando Gesù scese dal monte molta folla lo seguì. Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: “Signore, se vuoi, puoi purificarmi”. Tese la mano e lo toccò dicendo: “Lo voglio!”». Dunque Gesù interviene «subito: la preghiera e il miracolo».
Al contrario, nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi (17, 1.9-10.15-22), «vediamo — ha spiegato il Papa — come il Signore entra nella vita di Abramo passo dopo passo, lentamente. Quando Abramo aveva ottantanove anni», Dio gli aveva assicurato la nascita di un figlio. «Oggi abbiamo letto che a novantanove anni, dieci anni dopo, gli promette un figlio. Sono passati dieci anni. I saggi ci dicono: per il Signore un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno» ha sottolineato il Pontefice.
«Il Signore — ha proseguito — segue sempre il suo modo di entrare nella nostra vita. Tante volte lo fa tanto lentamente che noi siamo nel rischio di perdere un po’ la pazienza: “ma, Signore, quando?”. E preghiamo e preghiamo, ma non viene il suo intervento sulla nostra vita». Altre volte, invece, «pensiamo a quello che il Signore ci ha promesso, ma è tanto grande che siamo un po’ increduli, un po’ scettici, e come Abramo un po’ di nascosto sorridiamo».
Infatti il brano della Genesi «ci dice che Abramo nasconde la sua faccia e sorride. Un po’ di scetticismo: “Ma come io, a cent’anni quasi, avrò un figlio e mia moglie a novant’anni avrà un figlio!”». E «lo stesso — ha aggiunto il Pontefice — farà Sara alle Querce di Mamre, quando i tre angeli» ripetono l’annuncio «ad Abramo mentre lei era un po’ nascosta dietro la porta della tenda: spiava sicuro per sentire di cosa parlavano gli uomini, ma questo è sempre successo… E lei, quando ha sentito questo, sorrise. Sorrise di scetticismo».
Lo stesso accade anche a noi, come ha fatto notare Papa Francesco: «Quante volte, quando il Signore non viene, non fa il miracolo e non ci fa quello che noi vogliamo che lui faccia, diventiamo o impazienti — “ma non lo fa!” — o scettici: “non può farlo!”».
«Il Signore prende il suo tempo — ha continuato il Pontefice — ma anche lui, in questo rapporto con noi, ha tanta pazienza. Non soltanto noi dobbiamo avere pazienza. Lui ne ha, lui ci aspetta. E ci aspetta fino alla fine della vita, insieme al buon ladrone che proprio alla fine ha riconosciuto Dio. Il Signore cammina con noi, ma tante volte non si fa vedere, come nel caso dei discepoli di Emmaus».
«Il Signore — ha detto ancora il Santo Padre — è coinvolto nella nostra vita, questo è sicuro, ma tante volte non lo vediamo. E questo ci chiede pazienza. Ma il Signore, che cammina con noi, anche lui ha tanta pazienza con noi: il mistero della pazienza di Dio che, nel camminare, cammina al nostro passo»
«Alcune volte — ha spiegato Papa Francesco — nella vita le cose diventano tanto oscure. C’è tanto buio. E noi abbiamo voglia, se siamo in difficoltà, di scendere dalla croce. E questo è il momento preciso: la notte è più buia quando è prossima l’aurora. E sempre, quando noi scendiamo dalla croce, lo facciamo cinque minuti prima che venga la rivelazione. È il momento dell’impazienza più grande». Qui ci viene in aiuto l’insegnamento di Gesù, che «sulla croce sentiva che lo sfidavano: “scendi, scendi, vieni!”». Ci vuole perciò «pazienza fino alla fine, perché lui ha pazienza con noi. Lui entra sempre. Lui è coinvolto con noi. Ma lo fa a modo suo e quando lui pensa che sia meglio, ci dice soltanto quello che ha detto ad Abramo: “Cammina nella mia presenza e sii perfetto, sii irreprensibile”: è proprio la parola giusta».
Il Pontefice ha concluso l’omelia pregando il Signore perché conceda a tutti la grazia di «camminare sempre nella sua presenza cercando di essere irreprensibili. Questo è il cammino con il Signore e lui interviene, ma dobbiamo aspettare: aspettare il momento camminando sempre nella sua presenza e cercando di essere irreprensibili».

PAPA FRANCESCO – DIO SI ARRANGIA PER ENTRARE

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PAPA FRANCESCO – DIO SI ARRANGIA PER ENTRARE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Lunedì, 12 giugno 2017

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.135, 13/06/2017)

Basta tenere la porta del cuore socchiusa che «Dio si arrangia per entrare», salvandoci dal finire nella schiera degli «in-meriscordi»: neologismo per intendere coloro che senza misericordia mettono in pratica le beatitudini al contrario. È proprio dalla tentazione «narcisista dell’autoreferenzialità» — l’opposto dell’«alterità» cristiana che «è dono e servizio» — che Papa Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata lunedì mattina, 12 giugno, a Santa Marta.
Riferendosi al passo della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (1, 1-7), proposto dalla liturgia come prima lettura, il Pontefice ha fatto subito notare che in appena «diciannove righe per otto volte Paolo parla di consolazione, di lasciarsi consolare per consolare gli altri». La consolazione, dunque, «ricorre per otto volte in diciannove righe: è troppo forte, qualcosa vuol dirci». E «per questo credo — ha aggiunto — che questa sia un’opportunità, un’occasione per riflettere sulla consolazione: cosa è la consolazione della quale parla Paolo». Ma «prima di tutto dobbiamo vedere che la consolazione non è autonoma, non è una cosa chiusa in se stessa».
Infatti, ha fatto presente il Papa, «l’esperienza della consolazione, che è un’esperienza spirituale, ha bisogno sempre di un’alterità per essere piena: nessuno può consolare se stesso, nessuno». E «chi cerca di farlo, finisce guardandosi allo specchio: si guarda allo specchio, cerca di truccare se stesso, di apparire; si consola con queste cose chiuse che non lo lasciano crescere e l’aria che respira è quell’aria narcisista dell’autoreferenzialità». Ma «questa è la consolazione truccata che non lascia crescere, non è consolazione perché è chiusa, le manca un’alterità».
«Nel Vangelo troviamo tanta gente che è così» ha spiegato Francesco. «Per esempio — ha detto — i dottori della legge che sono pieni della propria sufficienza, chiusi, e questa è la “loro consolazione” tra virgolette». Il Papa ha voluto fare esplicito riferimento al «ricco Epulone, che viveva di festa in festa e con questo pensava di essere consolato». Però, ha affermato, sono forse le parole della preghiera del fariseo, del pubblicano, davanti all’altare, a esprimere meglio questo atteggiamento: «Ti ringrazio Dio perché non sono come gli altri». Insomma, quell’uomo «si guardava allo specchio, guardava la propria anima truccata da ideologie e ringraziava il Signore». È Gesù stesso che «ci fa vedere questa possibilità di questa gente che, con questo modo di vivere, mai arriverà alla pienezza» ma «al massimo alla “gonfiezza”, ossia vanagloria».
«La consolazione, per essere vera, per essere cristiana, ha bisogno di un’alterità» ha continuato Francesco, perché «la vera consolazione si riceve». Per questa ragione «Paolo Incomincia con quella benedizione: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione!”». Ed «è proprio il Signore, è Dio che ci consola, è Dio che ci dà questo dono: noi col cuore aperto, lui viene e ci dà». Questa è «l’alterità che fa crescere la vera consolazione; e la vera consolazione dell’anima matura anche in un’altra alterità, perché noi possiamo consolare gli altri». Ecco, allora, che «la consolazione è uno stato di passaggio dal dono ricevuto al servizio donato», tanto che «la vera consolazione ha questa doppia alterità: è dono e servizio».
«Così — ha rilanciato il Pontefice — se io lascio entrare la consolazione del Signore come dono è perché ho bisogno di essere consolato: sono bisognoso». Infatti «per essere consolato è necessario riconoscere di essere bisognoso: soltanto così il Signore viene, ci consola e ci dà la missione di consolare gli altri». Certo, ha riconosciuto Francesco, «non è facile avere il cuore aperto per ricevere il dono e fare il servizio, le due alterità che fanno possibile la consolazione».
«È proprio Gesù che spiega come posso fare che il mio cuore sia aperto» ha affermato il Papa: «Un cuore aperto, è un cuore felice e nel Vangelo abbiamo sentito chi sono i felici, chi sono i beati: i poveri». Così «il cuore si apre con un atteggiamento di povertà, di povertà di spirito: quelli che sanno piangere, quelli miti, la mitezza del cuore; quelli affamati di giustizia, che lottano per la giustizia; quelli che sono misericordiosi, che hanno misericordia nei confronti degli altri; i puri di cuore; gli operatori di pace e quelli che sono perseguitati per la giustizia, per amore alla giustizia». E «così il cuore si apre e il Signore viene con il dono della consolazione e la missione di consolare gli altri».
Ma ci sono però, ha avvertito Francesco, anche coloro che «hanno un cuore chiuso: non sono felici perché non può entrare il dono della consolazione e darlo agli altri». Non seguono le beatitudini, insomma, e «si sentono ricchi di spirito, ossia sufficienti». Sono «quelli che non hanno bisogno di piangere perché si sentono giusti; quelli violenti che non sanno cosa sia la mitezza; quelli ingiusti che vivono dell’ingiustizia e fanno ingiustizia; quelli “in-misericordi” — ossia senza misericordia — che mai perdonano, mai hanno bisogno di perdonare perché non si sentono con il bisogno di essere perdonati; quelli sporchi di cuore; quelli operatori di guerre, non di pace; e quelli che mai sono criticati o perseguitati perché lottano per la giustizia perché non importa loro le ingiustizie delle altre persone: questi sono chiusi».
Proprio di fronte a queste beatitudini al contrario, ha suggerito il Pontefice, «ci farà bene oggi pensare» a «come è il mio cuore: è aperto? So ricevere il dono della consolazione, lo chiedo al Signore, e poi so darlo agli altri come un dono del Signore e servizio mio?». E «così, con questi pensieri durante giornata, tornare e ringraziare il Signore che è tanto buono e sempre cerca di consolarci». Ricordando che Dio «ci chiede soltanto che la porta del cuore sia aperta o almeno un pochettino, così lui poi si arrangia per entrare».

NELLA TENDA DI ABRAMO – PAPA FRANCESCO

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MEDITAZIONI DEL SANTO PADRE FRANCESCO NELLE MESSE QUOTIDIANE

NELLA TENDA DI ABRAMO – LUNEDÌ, 26 GIUGNO 2017

Dovremmo avere tutti il dna di Abramo, padre nella fede, e vivere con lo stile cristiano dello «spogliamento», sempre «in cammino» senza mai cercare la comodità ma con la capacità di «bene dire». Sicuri che non servono oroscopi o negromanti per conoscere il futuro, perché basta fidarsi della «promessa di Dio». Ecco le coordinate «semplici» della vista cristiana che Papa Francesco ha riproposto nella messa celebrata lunedì 26 giugno a Santa Marta.
La prima lettura, ha fatto subito notare il Papa riferendosi al passo tratto dal libro della Genesi (12, 1-9), «ci parla dell’inizio della nostra famiglia, dell’inizio di noi cristiani come popolo». E «incominciò così, con Abramo — ha spiegato — e per questo noi diciamo che Abramo è nostro padre». Ma proprio «il modo come è stato chiamato Abramo segna anche lo stile della vita cristiana, lo stile». Abramo, infatti, risponde alla domanda su «come dobbiamo essere cristiani: se tu vuoi, facilmente vai lì, leggi questo e avrai lo stile». Uno stile che certo si trova «anche nei Vangeli». Ma proprio «come nel seme c’è la adn [l’acido deossiribonucleico, il dna] del frutto che verrà dopo, così in Abramo c’è lo stile della vita cristiana, lo stile di noi come popolo».
E «una prima dimensione di questo stile è lo spogliamento» ha fatto presente Francesco. «La prima parola» che il Signore dice ad Abramo è: «Vattene». Dunque, «essere cristiano porta sempre questa dimensione di spogliamento che trova la sua pienezza nello spogliamento di Gesù nella croce». Per questo «c’è sempre un “vattene”, “lascia”, per dare il primo passo: “Lascia e vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, dalla casa di tuo padre”» è il comando del Signore per Abramo.
Ma «se facciamo un po’ di memoria — ha proseguito il Papa — vedremo che nei Vangeli la vocazione dei discepoli è un “vattene”, “lascia” e “vieni”». Così è «anche nei profeti, pensiamo a Eliseo, lavorando la terra: “Lascia e vieni” —“Ma almeno permettimi di salutare i genitori” — “Ma va e torna”». È sempre lo stile del «lascia e vieni».
«Un cristiano deve avere questa capacità di essere spogliato» ha insistito il Pontefice. «Al contrario, non ci sono cristiani autentici» e certo «non lo sono quelli che non si lasciano, diciamo, spogliare e crocifiggere con Gesù in croce», come per esempio ha fatto san Paolo. E «Abramo, dice la lettera agli Ebrei, “per fede obbedì” partendo per una terra che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava». Del resto, ha affermato il Papa, «il cristiano non ha oroscopo per vedere il futuro; non va dalla negromante con la sfera di cristallo» perché «vuole che gli legga la mano: no, non sa dove va, va guidato».
«Lo spogliamento», dunque, «è come una prima dimensione della nostra vita cristiana». E questo «perché? Per una ascesi ferma? No, per andare verso una promessa». Ed ecco, allora, «la seconda» dimensione indicata da Francesco: «Noi siamo uomini e donne che camminiamo verso una promessa, verso un incontro, verso qualcosa — una terra, dice ad Abramo — che dobbiamo ricevere in eredità».
«A me piace vedere — ha confidato il Pontefice — come si ripete in questo passo, e in quelli di questo capitolo che seguono, che Abramo non edifica una casa: pianta una tenda, perché sa che è in cammino e si fida di Dio, si fida». E «lui, il Signore, gli farà sapere quale sarà la terra. Abbiamo letto che l’ha fatta vedere: “Alla tua discendenza, io darò questa terra”». Da parte sua, «Abramo cosa edifica, una casa? No, un altare per adorare il Signore: fa il sacrificio e poi prende la tenda e continua a camminare».
È perciò «sempre in cammino». Un atteggiamento che ci ricorda che «il cristiano fermo non è vero cristiano: il cammino incomincia tutti i giorni al mattino, il cammino di affidarsi al Signore, il cammino aperto alle sorprese del Signore, tante volte non buone, tante volte brutte — pensiamo a una malattia, a una morte — ma aperto, perché io so che tu mi porterai a un posto sicuro, a una terra che tu hai preparato per me». Ecco allora, ha proseguito il Papa, «l’uomo in cammino, l’uomo che vive in una tenda, una tenda spirituale: l’anima nostra, quando si sistema troppo, si installa troppo, perde questa dimensione di andare verso la promessa e invece di camminare verso la promessa, porta la promessa e possiede la promessa». Ma «questo non va, non è propriamente cristiano».
«Un’altra caratteristica, un’altra dimensione della vita cristiana che vediamo qui, in questo seme dell’inizio della nostra famiglia, è la benedizione» ha spiegato Francesco. «Per cinque volte — ha fatto notare — va detta la parola “benedizione”, cinque volte in questo piccolo pezzo di nove versetti» tratto dalla Genesi. Perché «il cristiano è un uomo, una donna che “benedice”, cioè dice bene di Dio e dice bene degli altri, e che si fa benedire da Dio e dagli altri per il modo come va avanti».
Riepilogando, ha affermato il Papa, «questo è uno schema, diciamo così, della nostra vita cristiana: lo spogliamento, la promessa e la benedizione, sia quella che Dio ci dà sia quella che noi diamo agli altri». Perché, ha avvertito, «tutti, anche voi laici, dovete benedire gli altri, dire bene degli altri e dire bene a Dio degli altri. E questo è “benedire”». Ma «noi siamo abituati — ha messo in guardia Francesco — a non dire bene tante volte e la lingua si muove un po’ come vuole, no?».
Per questa ragione, ha aggiunto, «mi piace il comandamento che Dio dà al nostro padre Abramo, come sintesi della vita, come deve essere lui: “Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile”». Dunque, ha spiegato, «“cammina nella mia presenza”, cioè davanti a me, lasciandoti spogliare da me e prendendo le promesse che io ti faccio, fidandoti di me, “e sii irreprensibile”». In fondo, ha commentato Francesco, «la vita cristiana è così semplice». E ha suggerito di non dimenticare lo stile dello «spogliamento, la promessa con il fidarsi di Dio e la tenda — senza sistemarsi e installarsi troppo — e la benedizione».

PAPA FRANCESCO – TUTTI ABBIAMO UN ANGELO (2014)

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PAPA FRANCESCO – TUTTI ABBIAMO UN ANGELO (2014)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 2 ottobre 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.225, Ven. 03/10/2014)

Tutti abbiamo un angelo sempre accanto, che non ci lascia mai soli e ci aiuta a non sbagliare strada. E se sapremo essere come bambini riusciremo a evitare la tentazione di bastare a noi stessi, che sfocia nella superbia e anche nel carrierismo esasperato. È proprio il ruolo decisivo degli angeli custodi nella vita dei cristiani che Papa Francesco ha ricordato, nel giorno della loro festa, durante la messa celebrata giovedì 2 ottobre a Santa Marta.
Sono due le immagini — l’angelo e il bambino — che, ha fatto subito notare Francesco, «la Chiesa ci fa vedere nella liturgia di oggi». Il libro dell’Esodo (23.20-23a), in particolare, ci propone «l’immagine dell’angelo», che «il Signore dà al suo popolo per aiutarlo nel suo cammino». Si legge infatti: «Io mando un angelo davanti a te per custodirti nel tuo cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato». Dunque, ha commentato il Papa, «la vita è un cammino, la nostra vita è un cammino che finisce in quel luogo che il Signore ci ha preparato».
Ma, ha puntualizzato, «nessuno cammina da solo: nessuno!». Perché «nessuno può camminare da solo». E «se uno di noi credesse di poter camminare da solo, sbaglierebbe tanto» e «cadrebbe in quello sbaglio, tanto brutto, che è la superbia: credersi di essere grande». Finendo anche per avere quell’atteggiamento di «sufficienza» che porta a dire a se stessi: «Io posso, io ce la faccio» da solo.
Invece il Signore dà una chiara indicazione al suo popolo: «Vai, tu farai quello che io ti dirò. Tu camminerai la tua vita, ma ti darò un aiuto che ti ricorderà continuamente quello che tu devi fare». E così «dice al suo popolo come dev’essere l’atteggiamento con l’angelo». La prima raccomandazione è: «Abbi rispetto della sua presenza». E poi: «Dai ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui». Perciò oltre a «rispettare» si deve anche saper «ascoltare» e «non ribellarsi».
In fondo, ha spiegato il Papa, «è quell’atteggiamento docile, ma non specifico, dell’obbedienza dovuta al padre, che è proprio dell’obbedienza del figlio». Si tratta in sostanza di «quell’obbedienza della saggezza, quell’obbedienza dell’ascoltare i consigli e scegliere il meglio secondo i consigli». E bisogna, ha aggiunto, «avere il cuore aperto per chiedere e ascoltare consigli».
Il passo del Vangelo di Matteo (18, 1-5.10) propone invece la seconda immagine, quella del bambino. «I discepoli — ha detto il vescovo di Roma commentando il brano — litigavano su chi fosse il più grande tra loro. C’era disputa interna: il carrierismo. Questi che sono i primi vescovi avevano questa tentazione del carrierismo» e dicevano tra loro: «Io voglio diventare più grande di te!». In proposito Francesco ha rimarcato: «Non è un buon esempio che i primi vescovi abbiano fatto questo, ma è la realtà».
Da parte sua «Gesù insegna loro il vero atteggiamento»: chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo a loro — riferisce Matteo — e così facendo indica espressamente «la docilità, il bisogno di consiglio, il bisogno di aiuto, perché il bambino è proprio il segno del bisogno di aiuto, di docilità per andare avanti».
«Questa è la strada», ha assicurato il Pontefice, e non quella di stabilire «chi è più grande». In realtà, ha ribadito ripetendo le parole di Gesù, «sarà più grande» colui che diventerà come un bambino. E qui il Signore «fa quel collegamento misterioso che non si può spiegare, ma è vero». Dice infatti: «Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».
In pratica, ha suggerito Francesco, «è come se dicesse: se voi avete questo atteggiamento di docilità, questo atteggiamento di stare a sentire i consigli, di cuore aperto, di non voler essere il più grande, quell’atteggiamento di non volere camminare da solo il cammino della vita, sarete più vicini all’atteggiamento di un bambino e più vicini alla contemplazione del Padre».
«Tutti noi secondo la tradizione della Chiesa — ha spiegato ancora il Papa — abbiamo un angelo con noi, che ci custodisce, ci fa sentire le cose». Del resto, ha confidato, «quante volte abbiamo sentito: “Ma, questo… dovrei fare così… questo non va… stai attento!”». È proprio «la voce di questo nostro compagno di viaggio». E possiamo essere «sicuri che lui ci porterà alla fine della nostra vita con i suoi consigli». Per questo bisogna «dare ascolto alla sua voce, non ribellarci». Invece «la ribellione, la voglia di essere indipendente, è una cosa che tutti noi abbiamo: è la stessa superbia, quella che ha avuto il nostro padre Adamo nel paradiso terrestre». Di qui l’invito del Papa a ciascuno: «Non ribellarti, segui i suoi consigli!».
In realtà, ha confermato il Pontefice, «nessuno cammina da solo e nessuno di noi può pensare che è solo: c’è sempre questo compagno». Certo, capita che «quando noi non vogliamo ascoltare il suo consiglio, ascoltare la sua voce, gli diciamo: “Ma vai via!”». Ma «cacciare via il compagno di cammino è pericoloso, perché nessun uomo, nessuna donna può consigliare se stesso: io posso consigliare un altro, ma non consigliare me stesso». Infatti, ha ricordato Francesco, «c’è lo Spirito Santo che mi consiglia, c’è l’angelo che mi consiglia» e per questo ne «abbiamo bisogno».
Il Papa ha invitato a non considerare «questa dottrina sugli angeli un po’ fantasiosa». Si tratta invece di una «realtà». È «quello che Gesù, che Dio ha detto: “Io mando un angelo davanti a te per custodirti, per accompagnarti nel cammino, perché non sbagli”».
In conclusione Francesco ha proposto una serie di domande perché ciascuno possa fare un esame di coscienza con se stesso: «Com’è il rapporto con il mio angelo custode? Lo ascolto? Gli dico buongiorno, al mattino? Gli dico: custodiscimi durante il sonno? Parlo con lui? Gli chiedo consiglio? È al mio fianco?». A questi interrogativi, ha detto, «possiamo rispondere oggi»: ciascuno di noi può farlo per verificare «com’è il rapporto con quest’angelo che il Signore ha mandato per custodirmi e accompagnarmi nel cammino, e che vede sempre la faccia del Padre che è nei cielo».

PAPA FRANCESCO – INNO ALLA GIOIA

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PAPA FRANCESCO – INNO ALLA GIOIA

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Lunedì, 23 maggio 2016

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.117, 23-24/05/2016)

«La carta d’identità del cristiano è la gioia»: lo «stupore» di fronte alla «grandezza di Dio», al suo «amore», alla «salvezza» che ha donato all’umanità non può che portare il credente a una gioia che neanche le croci della vita possono scalfire, perché anche nella prova c’è «la sicurezza che Gesù è con noi».
Un vero e proprio inno alla gioia è stata la meditazione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta lunedì 23 maggio. Lo spunto è venuto dalla liturgia del giorno. In particolare, il Pontefice ha voluto rileggere l’incipit del brano tratto dalla prima Lettera di Pietro (1, 3-9) che — ha detto — per il «tono esultante», l’«allegria», il modo dell’apostolo di intervenire «a tutta forza» ricorda l’inizio «dell’Oratorio di Natale di Bach». Scrive, infatti, Pietro: «Sia benedetto il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, ricreati, mediante la resurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce; essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rilevata nell’ultimo tempo».
Sono parole in cui si percepisce «lo stupore davanti alla grandezza di Dio», davanti alla «rigenerazione che il Signore — “in Gesù Cristo e per Gesù Cristo” — ha fatto in noi». Ed è «uno stupore pieno di giubilo, allegro»: subito dopo, ha fatto notare il Papa, nel testo della lettera s’incontra la «parola chiave», ovvero: «Perciò siete ricolmi di gioia».
La gioia di cui parla l’apostolo è duratura. Per questo, ha spiegato Francesco, egli aggiunge nell’epistola che, anche se per un po’ di tempo si è costretti a essere «afflitti dalle prove», quella gioia dell’inizio «non sarà tolta». Infatti essa scaturisce da «quello che Dio ha fatto in noi: ci ha rigenerati in Cristo e ci ha dato una speranza». Una speranza — «quella che i primi cristiani dipingevano come un’àncora in cielo» — che, ha detto il Papa, è anche la nostra. Da lì viene la gioia. E infatti Pietro concludendo il suo messaggio invita tutti: «Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa».
Da tutto ciò, ha sottolineato il Pontefice, si capisce come la gioia sia davvero la «virtù del cristiano». Un cristiano, ha specificato, «è un uomo e una donna con gioia nel cuore». Di più: «Non esiste un cristiano senza gioia». Qualcuno potrebbe obbiettare: «Ma, Padre, io ne ho visti tanti!», intendendo dire con ciò che «non sono cristiani: dicono di esserlo, ma non lo sono, gli manca qualcosa». Ecco perché secondo il Papa «la carta di identità del cristiano è la gioia, la gioia del Vangelo, la gioia di essere stati eletti da Gesù, salvati da Gesù, rigenerati da Gesù; la gioia di quella speranza che Gesù ci aspetta». E anche «nelle croci e nelle sofferenze di questa vita», ha aggiunto, il cristiano vive quella gioia, esprimendola in un altro modo, ovvero con la «pace» che viene dalla «sicurezza che Gesù ci accompagna, è con noi». Il cristiano, infatti, vede «crescere questa gioia con la fiducia in Dio». Egli sa bene che «Dio lo ricorda, che Dio lo ama, che Dio lo accompagna, che Dio lo aspetta. E questa è la gioia».
A fare da contraltare a questo inno alla gioia, la liturgia del giorno propone «un’altra parola», quella legata all’episodio del Vangelo di Marco (10, 17-27) nel quale si narra del giovane «che si è avvicinato a Gesù per seguirlo»: un «bravo giovane» tanto da riuscire «a conquistare il cuore di Gesù» il quale, si legge, «fissò lo sguardo su di lui» e «lo amò». A quel giovane Gesù fece una proposta: «Una sola cosa ti manca: vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e vieni con me»; ma a queste parole egli «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato».
Il giovane, ha notato Francesco, «non è stato capace di aprire il cuore alla gioia e ha scelto la tristezza». Ma perché? La risposta è chiara: «Perché possedeva molti beni. Era attaccato ai beni». Del resto, Gesù stesso aveva avvisato «che non si può servire due padroni: o servi il Signore o servi le ricchezze». Tornando su questo tema già affrontato in un’omelia pochi giorni fa, il Pontefice ha spiegato: «le ricchezze non sono cattive in se stesse», la cattiveria è «servire la ricchezza». Fu così, insomma, che il giovane se ne andò triste: «Egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato».
È questo un episodio che getta luce anche sulla vita quotidiana «nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, nelle nostre istituzioni»: qui infatti, ha sottolineato il Papa, se «troviamo gente che si dice cristiana e vuole essere cristiana ma è triste», vuol dire che succede qualcosa «che non va». Ed è compito di ognuno aiutare questa gente «a trovare Gesù, a togliere quella tristezza, perché possa gioire del Vangelo, possa avere questa gioia che è propria del Vangelo».
Francesco ha voluto approfondire ancora questo concetto centrale e legare la gioia allo stupore che scaturisce — come ricordato da san Pietro nella sua lettera — «davanti alla rivelazione, davanti all’amore di Dio, davanti alle emozioni dello Spirito Santo». Perciò si può ben dire che «il cristiano è un uomo, una donna di stupore».
Una parola — “stupore” — che ritorna anche alla fine del brano evangelico del giorno, «quando Gesù spiega agli apostoli che quel ragazzo tanto bravo non è riuscito a seguirlo, perché era attaccato alle ricchezze e dice che è molto difficile che un ricco, uno che è attaccato alle ricchezze, entri nel regno dei Cieli». Si legge infatti che loro, «più stupiti», dicevano: «E chi può essere salvato?».
L’uomo, il cristiano — ha spiegato il Papa — può essere talmente stupito di fronte a tanta grandezza e tanta bellezza, da pensare: «Io non ce la faccio. Non so come si fa!». La risposta che Gesù dà guardando in faccia i suoi discepoli è consolante: «Impossibile agli uomini — non ce la facciamo… — ma non a Dio!». Possiamo, cioè, vivere la «gioia cristiana», lo «stupore della gioia», e salvarci «dal vivere attaccati ad altre cose, alle mondanità», soltanto «con la forza di Dio, con la forza dello Spirito Santo».
Perciò, ha invitato il Pontefice al termine dell’omelia, «chiediamo oggi al Signore che ci dia lo stupore davanti a lui, davanti a tante ricchezze spirituali che ci ha dato; e con questo stupore ci dia la gioia, la gioia della nostra vita e di vivere in pace nel cuore le tante difficoltà; e ci protegga dal cercare la felicità in tante cose che alla fine ci rattristano: promettono tanto, ma non ci daranno niente!». Questa la conclusione: «Ricordatevi bene: un cristiano è un uomo e una donna di gioia, di gioia nel Signore; un uomo e una donna di stupore».

 

PAPA FRANCESCO – CATTOLICI MA NON TROPPO (ANCHE PAOLO)

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PAPA FRANCESCO – CATTOLICI MA NON TROPPO (ANCHE PAOLO)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 28 ottobre 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.247, Merc. 29/10/2014)

Ci sono cristiani che si fermano alla “reception” della Chiesa e restano fermi sulla porta, senza entrare dentro, per non compromettersi. È l’atteggiamento di chi si dichiara “cattolico, ma non troppo”, dal quale Papa Francesco ha messo in guardia durante la messa celebrata martedì mattina, 28 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.
Nel giorno della festa dei santi apostoli Simone e Giuda, ha fatto subito notare il Pontefice, «la Chiesa ci fa riflettere su se stessa», invitandoci a considerare «come è la Chiesa, cosa è la Chiesa». Nella lettera agli Efesini (2.19-22) «la prima cosa che ci dice Paolo è che noi non siamo stranieri né ospiti: non siamo di passaggio, in questa città che è la Chiesa, ma siamo concittadini». Dunque «il Signore ci chiama alla sua Chiesa con il diritto di un cittadino: non siamo di passaggio, siamo radicati lì. La nostra vita è lì».
E Paolo «fa l’icona del palazzo o del tempio» scrivendo: «Edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Gesù Cristo». Esattamente «questa è la Chiesa», ha confermato il Papa. Perché noi «siamo edificati sulle colonne degli apostoli: la pietra d’angolo, la base, è lo stesso Cristo Gesù, e noi siamo dentro».
San Paolo prosegue spiegando che «in Cristo tutta la costruzione cresce ben ordinata, per essere tempio santo del Signore. In lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito». Ecco dunque «la definizione della Chiesa che oggi ci dà Paolo: un tempio edificato». E così «anche noi siamo edificati per diventare abitazione dello Spirito»: siamo «edificati — ha precisato Francesco — sulle colonne degli apostoli e sopra questa pietra d’angolo che è Gesù Cristo».
Questa stessa visione della Chiesa, ha proseguito il Pontefice, «possiamo anche vederla un po’ più sviluppata nel passo del Vangelo» di Luca (6, 12-19) che racconta come Gesù ha scelto gli apostoli. L’evangelista «dice che Gesù se ne andò sul monte a pregare. E poi chiamò questi dodici, li scelse». Quindi Gesù scese insieme con loro dal monte, trovando ad attenderlo nella pianura «una gran folla di suoi discepoli, che invierà», e «una gran moltitudine di gente che cercava di toccarlo» per essere guarita.
Insomma, ha spiegato il Papa, «Gesù prega, Gesù chiama, Gesù sceglie, Gesù invia i discepoli, Gesù guarisce la folla». E «dentro a questo tempio Gesù, che è la pietra d’angolo, fa tutto questo lavoro: è lui che porta avanti la Chiesa così». Proprio come scrive Paolo, «questa Chiesa è edificata sul fondamento degli apostoli che lui ha scelto». Lo conferma il passo evangelico quando ricorda che il Signore «ne scelse dodici: tutti peccatori, tutti». Giuda — ha osservato il vescovo di Roma — «non era il più peccatore» e «non so chi fosse stato il più peccatore». Ma «Giuda, poveretto, è quello che si è chiuso all’amore e per questo diventò traditore». Resta il fatto che «tutti gli apostoli sono scappati nel momento difficile della passione e hanno lasciato solo Gesù: tutti sono peccatori». E nonostante ciò, li ha scelti Gesù stesso.
Così, ha proseguito Francesco, «la Chiesa la fa Gesù con la sua preghiera; la fa con l’elezione degli apostoli; la fa con la scelta dei discepoli che poi invia; la fa con l’incontro con la gente». Gesù non è «mai staccato dalla gente: è sempre in mezzo alla folla che cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti» come sottolinea Luca nel suo Vangelo.
«Noi siamo cittadini, concittadini, di questa Chiesa» ha precisato il Pontefice. Perciò «se noi non entriamo in questo tempio e facciamo parte di questa costruzione affinché lo Spirito Santo abiti in noi, noi non siamo nella Chiesa». Piuttosto «siamo alla porta e guardiamo», magari dicendo: «Ma che bello, sì, questo è bello!». E così finiamo per essere «cristiani che non vanno più avanti della “reception” della Chiesa. Sono lì, alla porta», nell’atteggiamento proprio di chi pensa: «Ma sì, sono cattolico, sì, ma troppo no, così!».
Secondo Francesco, «la cosa forse più bella che si possa dire di come si costruisce la Chiesa è la prima e l’ultima parola del brano del Vangelo: “Gesù prega”, “se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio”». Dunque «Gesù prega e Gesù guarisce», proprio perché «da lui usciva una forza che guariva tutti». Precisamente «in questa cornice — Gesù che prega e Gesù che guarisce — c’è tutto quello che si può dire della Chiesa: Gesù che prega per i suoi, per le colonne, per i discepoli, per il popolo; e Gesù che guarisce, che mette a posto la gente, che dà la salute dell’anima e del corpo».
A questo proposito, il Papa ha riproposto il dialogo di Gesù con Pietro, «la colonna». Il Signore «lo aveva scelto, in quel momento» e lo rassicura dicendogli: «Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno». È Gesù che prega per Pietro. «Questo dialogo — ha affermato il Papa — finisce dopo che Pietro rinnega Gesù». E così, a Tiberiade, il Signore gli domanda: «Pietro, tu mi ami più di costoro?».
In questo dialogo si vede bene, ha spiegato il Pontefice, «Gesù che prega e Gesù che guarisce il cuore di Pietro ferito da un tradimento». E comunque «lo fa colonna». Ciò significa che «a Gesù non importò il peccato di Pietro: cercava il cuore». Ma «per trovare questo cuore, e per guarirlo, pregò».
La realtà di «Gesù che prega e Gesù che guarisce» vale anche oggi per tutti noi. Perché «noi — ha ribadito il Papa — non possiamo capire la Chiesa senza questo Gesù che prega e questo Gesù che guarisce». Così Francesco ha concluso la sua meditazione con la preghiera allo Spirito Santo, perché «ci faccia capire a tutti noi questa Chiesa che ha la forza nella preghiera di Gesù per noi e che è capace di guarire tutti noi».

 

PAPA FRANCESCO – LA STORIA DI CAINO E ABELE

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PAPA FRANCESCO – LA STORIA DI CAINO E ABELE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

La storia di Caino e Abele

Lunedì, 13 febbraio 2017

Per un missionario speciale, che mercoledì partirà alla volta dell’oriente, Papa Francesco ha voluto offrire la messa celebrata lunedì mattina, 13 febbraio, nella cappella di Santa Marta. «Un pensiero di famiglia» ha sottolineato il Pontefice, perché il missionario è padre Adolfo Nicolás Pachón, già preposito generale della Compagnia di Gesù. «Che il Signore retribuisca tutto il bene fatto e lo accompagni nella nuova missione: grazie, padre Nicolás» ha detto Francesco rivolgendosi al religioso che ha concelebrato con lui.

Riferendosi poi alla prima lettura, tratta dal libro della Genesi (4, 1-15.25), il Papa all’omelia ha fatto notare che «è la prima volta che nella Bibbia si dice la parola fratello». Quella di Caino e Abele, ha spiegato, «è la storia di una fratellanza che doveva crescere, essere bella» ma invece «finisce distrutta». E «la storia, l’abbiamo sentito, incominciò con una piccola gelosia: Caino, quando ha visto che il suo sacrificio non è stato accettato, fu molto irritato e incominciò a cuocere quel sentimento dentro».
«Quell’irritazione — ha spiegato Francesco — non era solo nell’anima, anche nel corpo: il suo volto era abbattuto». Ed ecco che «il Signore, come Padre, gli parla: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il tuo istinto”».
Alla fine, ha affermato il Papa, «Caino preferì l’istinto, preferì lasciar cuocere dentro di sé questo sentimento, ingrandirlo, lasciarlo crescere. Questo peccato che farà dopo, che è accovacciato dietro il sentimento, cresce». Proprio «così — ha proseguito il Pontefice — crescono le inimicizie fra di noi: cominciano con una piccola cosa, una gelosia, un’invidia e poi questo cresce e noi vediamo la vita soltanto da quel punto e quella pagliuzza diventa per noi una trave: Ma la trave l’abbiamo noi, è là». Tanto che poi «la nostra vita gira intorno a quello, e quello distrugge il legame di fratellanza, distrugge la fraternità». Anche quando «siamo sotto questo istinto rannicchiato, nel nostro cuore, diventiamo con lo spirito giallo, come si dice: il fiele, come se non avessimo sangue, avessimo fiele, è così». A tal punto che «quello che conta è soltanto quella persona, quello che ha fatto male». Siamo «ossessionati, perseguitati da quello, e così cresce l’inimicizia e finisce male, sempre».
Insomma, ha aggiunto Francesco, finisce che «io mi distacco da mio fratello: “Questo non è mio fratello, questo è un nemico, questo dev’essere distrutto, cacciato via!”». Ed è proprio così che «si distrugge la gente, così le inimicizie distruggono famiglie, popoli, tutto». È «quel rodersi il fegato, sempre ossessionato con quello». Proprio «questo è accaduto a Caino e, alla fine, ha fatto fuori il fratello: “No, non c’è fratello, sono io soltanto; non c’è fratellanza, sono io soltanto!”».
Ciò che «è successo all’inizio — ha messo in guardia Francesco — può accadere a tutti noi, è una possibilità». Per questa ragione è un «processo» che «dev’essere fermato subito, all’inizio, alla prima amarezza». Bisogna fermarlo, perché «l’amarezza non è cristiana: il dolore sì, l’amarezza no». Anche «il risentimento non è cristiano: il dolore sì, il risentimento no». Invece «quante inimicizie, quante spaccature» ci sono.
«Oggi ci sono i nuovi parroci» ha detto ancora il Papa riferendosi ai sacerdoti presenti e facendo notare: «Anche nei nostri presbiteri, nei nostri collegi episcopali, quante spaccature incominciano così!». E magari ci si chiede: «Perché a questo hanno dato quella sede e non a me? E perché questo?». Così, con «piccole cosine, spaccature, si distrugge la fratellanza».
Davanti a questo atteggiamento dell’uomo «cosa fa il Signore?». Il passo della Genesi suggerisce che egli, come a Caino, «ci domanda: “dov’è Abele, tuo fratello?”». Per il Pontefice «la risposta di Caino è ironica: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”». Ma viene da ribattere: «Sì, tu sei il custode di tuo fratello». Da parte sua «Caino avrebbe potuto rispondere: “Sì, io so dov’è Abele, ma non so dov’è mio fratello, perché Abele non è mio fratello: ho distrutto quella fratellanza”». Come a dire: «Io so dov’è quello o quella o questi o questi: lo so, ma non so dove sono i miei fratelli». In effetti, «quando si cade in questo processo che finisce nella distruzione della fratellanza — ha spiegato il Pontefice — si può dire questo: io so, sì, dov’è questo o quella, ma non so dov’è mio fratello, mia sorella perché per me questo o quella non sono fratelli e sorelle».
Su questo punto, continua la Genesi, «il Signore è forte: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”». È vero, ha proseguito Francesco, che «ognuno di noi può dire: “Padre, io non mai ho ucciso nessuno, mai!”». Però «pensiamo al Vangelo di ieri: se tu hai un sentimento cattivo verso tuo fratello, lo hai ucciso; se tu insulti tuo fratello, lo hai ucciso nel tuo cuore». Perché «l’uccisione è un processo che incomincia dal piccolo, come qui». Ognuno di noi — «almeno io mi iscrivo nella lista» ha precisato il Papa — «pensi: quante volte ho lasciato questo da parte, ho avuto gelosia, questo l’ho staccato di qua, di là, di là». E ancora: «Quante volte, per dire la verità, ho detto al Signore: “Io so dov’è questo o quello, ma non so dov’è mio fratello”». Proprio «questa è la parola di Dio per noi» e «non per conoscere un pezzo di storia o di teologia biblica».
«Anche oggi — ha affermato il Pontefice — la voce di Dio, non solo a ognuno di noi, ma a tutta l’umanità, domanda: “Dov’è tuo fratello? Dov’è tua sorella?”». E la nostra risposta è: «Io so dove sono quelli che sono bombardati là, che sono cacciati via da lì, ma questi non sono fratelli, ho distrutto il legame». Allo stesso modo, «quanti potenti della terra possono dire: “A me interessa questo territorio, a me interessa questo pezzo di terra, questo altro, se la bomba cade e uccide duecento bambini non è colpa mia: è colpa della bomba; a me interessa il territorio”».
Dunque, ha aggiunto Francesco, «tutto incomincia da quel sentimento che ti porta a staccarti, a dire a l’altro: “Questo è tizio, questo è così, ma non è fratello”». E «finisce nella guerra che uccide». Ma, ha osservato il Papa, «tu hai ucciso all’inizio: questo è il processo del sangue e oggi il sangue di tanta gente nel mondo grida a Dio dal suolo». Ed «è tutto collegato: quel sangue là ha un rapporto — forse un piccolo goccetto di sangue — che con la mia invidia, la mia gelosia, ho fatto uscire io quando ho distrutto una fratellanza: non è il numero che distrugge la fratellanza, è quello che esce dal cuore di ognuno di noi».
«Il Signore oggi — è stato l’auspicio del Papa — ci aiuti a ripete questa sua parola: “Dov’è tuo fratello?”». E «ognuno di noi» — ha suggerito in conclusione Francesco come esame di coscienza — pensi «a tutti questi che abbiamo staccati, a tutti questi dei quali sparliamo quando ci incontriamo, o distruggiamo con la lingua». E «pensiamo anche a tutti quelli che nel mondo sono trattati come cose e non come fratelli, perché è più importante un pezzo di terra che il legame della fratellanza».

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 13 février, 2017 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – ANIME RISTRETTE

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PAPA FRANCESCO – ANIME RISTRETTE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Venerdì, 27 gennaio 2017

(da: www.osservatoreromano.va)

Il vestito del cristiano deve essere cucito con «memoria, coraggio, pazienza e speranza» per resistere anche alle piogge più intense senza cedere e restringersi. È proprio dal «peccato della pusillanimità» — ossia «avere paura di tutto» e diventare «anime ristrette per conservarsi» — che il Papa ha messo in guardia nella messa celebrata venerdì mattina 27 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta, ricordando come Gesù stesso abbia ammonito che «chi vuol conservare la propria vita, senza rischiare e appellandosi sempre alla prudenza, la perderà».
Per la sua meditazione Francesco ha preso le mosse dalle prima lettura del giorno che, ha subito fatto notare, è un passo della lettera agli Ebrei (10, 32-39): «Un’esortazione a vivere la vita cristiana, un’esortazione con tre punti di riferimento, tre punti temporali, diciamo così: il passato, il presente e il futuro». L’autore della lettera «incomincia con il passato e ci esorta a fare memoria: “Fratelli, richiamate alla memoria quei primi giorni”». Sono — ha spiegato il Papa — «i giorni dell’entusiasmo, di andare avanti nella fede, quando si incominciò a vivere la fede, le prove sofferte». Infatti «non si capisce la vita cristiana, anche la vita spirituale di ogni giorno, senza memoria». E «non solo non si capisce: non si può vivere cristianamente senza memoria».
Si tratta, ha affermato Francesco, della «memoria della salvezza di Dio nella mia vita», della «memoria dei miei guai nella mia vita: come il Signore mi ha salvato da questi guai?». Per questo «la memoria è una grazia, una grazia da chiedere: “Signore, che io non dimentichi il tuo passo nella mia vita, che io non dimentichi i buoni momenti, anche i brutti; le gioie e le croci”».
Dunque, ha spiegato il Pontefice, «il cristiano è un uomo di memoria». Tanto che «quando noi prendiamo la Bibbia, vediamo che i profeti sempre ci fanno guardare indietro: pensate questo che Dio ha fatto con voi, come vi ha liberato dalla schiavitù». Perché «la vita cristiana non incomincia oggi, continua oggi». E «fare memoria è saggezza: ricordare tutto, il buono, il non tanto buono, il brutto; tante grazie, tanti peccati, la famiglia, la storia personale di ognuno». Così «io vado davanti a Dio ma con la mia storia, non devo coprirla, nasconderla: no, è la mia storia, davanti alla mia anima, davanti a te». Ecco che «l’esortazione per vivere bene una vita cristiana incomincia con questo punto di riferimento: la memoria».
Poi, ha proseguito il Papa, l’autore della lettera agli Ebrei «ci fa capire che siamo in cammino, e siamo in cammino in attesa di qualcosa, in attesa di arrivare o di incontrare». Vuol dire «arrivare a un punto: un incontro; incontrare il Signore». Si legge infatti nella lettera: «Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà». E subito «ci esorta a vivere per fede: “Il mio giusto per fede vivrà”». Qui entra in gioco «la speranza: guardare al futuro».
Difatti, ha spiegato Francesco, «così come non si può vivere una vita cristiana senza la memoria dei passi fatti, non si può vivere una vita cristiana senza guardare il futuro con la speranza dell’incontro con il Signore». L’autore della lettera agli Ebrei scrive «una frase bella: “Ancora un poco…”». Sappiamo bene, ha ricordato il Papa, che «la vita è un soffio, passa: quando uno è giovane, pensa che ha tanto tempo davanti, ma poi la vita ci insegna quella parola, che diciamo tutti: “ma come passa il tempo, questo l’ho conosciuto da bambino, adesso si sposa, come passa il tempo!”». Dunque «la speranza di incontrarlo è una vita in tensione, tra la memoria e la speranza, il passato e il futuro».
Il terzo punto «è nel mezzo: è oggi, cioè il presente», ha affermato il Pontefice. Si tratta di «un oggi fra il passato e il futuro». E «il consiglio per vivere l’oggi è continuare con questo atteggiamento, che descrive i primi cristiani, di coraggio, di pazienza, di andare avanti, di non avere paura». Perché «il cristiano vive il presente — tante volte doloroso e triste — coraggiosamente o con pazienza». Ci sono «due parole che a Paolo, e al suo discepolo che ha scritto questa lettera, piacevano tanto: coraggio e pazienza». Ed «è curioso», ha notato il Papa, che l’autore del testo per dire «pazienza, usa una parola in greco che vuol dire “sopportare”; e coraggio è franchezza, dice qui, dire chiaramente le cose, andare avanti con la faccia avanti». Sono «le due parole — ha proseguito — che lui usa tanto, tanto: la parresìa e la hypomoné, il coraggio e la pazienza». E «la vita cristiana è così». È vero, ha riconosciuto Francesco, che tutti siamo peccatori, «chi prima e chi dopo», e «se volete dopo possiamo fare la lista, ma andiamo avanti con coraggio e con pazienza; non restiamo lì, fermi, perché questo non ci farà crescere».
Così dunque, ha spiegato il Pontefice, «è la nostra vita cristiana, così oggi la liturgia ci esorta a viverla: con grande memoria del cammino vissuto, con grande speranza di quel bell’incontro che sarà una bella sorpresa». Certo, ha insistito, «non sappiamo quando: può essere domani, può essere tra quindici anni, non si sa, ma è sempre domani, è presto, perché il tempo passa». In ogni caso ci deve sempre essere «la speranza dell’incontro». E anche l’atteggiamento di «sopportare, con pazienza; portare qui, pazienza, e coraggio, franchezza», con «la faccia avanti, senza vergogna». Proprio «così si porta la vita cristiana avanti».
«C’è una piccola cosa, per finire — ha evidenziato il Papa — sulla quale l’autore» della lettera agli Ebrei «attira l’attenzione della comunità a cui sta parlando: un peccato». È un peccato «che non le fa avere speranza, coraggio, pazienza e memoria: il peccato è la pusillanimità». Si tratta, ha spiegato Francesco, di «un peccato che non lascia essere cristiano, è un peccato che non ti lascia andare avanti per paura». Per questa ragione «tante volte Gesù diceva: “Non abbiate paura”»: proprio per mettere in guardia dalla «pusillanimità» e così fare in modo di non cedere, di non andare «sempre indietro», custodendo «troppo se stessi» per «la paura di tutto», per «non rischiare» appellandosi alla «prudenza».
Tanto che, ha affermato il Papa, uno può anche dire di seguire «tutti i comandamenti, sì, è vero; ma questo ti paralizza, ti fa dimenticare tante grazie ricevute, ti toglie la memoria, ti toglie la speranza perché non ti lascia andare». E «il presente di un cristiano, di una cristiana, è così come quando uno va per la strada e viene una pioggia inaspettata e il vestito non è tanto buono e si restringe la stoffa: anime ristrette». Proprio questa immagine esprime bene cos’è «la pusillanimità: il peccato contro la memoria, il coraggio, la pazienza e la speranza».
Prima di riprendere la celebrazione eucaristica, Francesco ha invitato a chiedere nella preghiera al Signore che «ci faccia crescere nella memoria, ci faccia crescere nella speranza, ci dia ogni giorno coraggio e pazienza e ci liberi da quella cosa che è la pusillanimità», cioè dall’atteggiamento di quelli che hanno «paura di tutto» e finiscono per essere «anime ristrette per conservarsi». Invece Gesù ci fa presente che «chi vuole conservare la propria vita, la perde».

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA, QUESTA SCONOSCIUTA

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA, QUESTA SCONOSCIUTA

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 29 ottobre 2013

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 249, Merc. 30/10/2013)

La speranza è la più umile delle tre virtù teologali, perché nella vita si nasconde. Tuttavia essa ci trasforma in profondità, così come «una donna incinta è donna» ma è come se si trasformasse perché diventa mamma. Della speranza Papa Francesco ha parlato questa mattina, martedì 29 ottobre, durante la messa celebrata a Santa Marta riflettendo sull’atteggiamento dei cristiani in attesa della rivelazione del Figlio di Dio.
A questo atteggiamento è legata la speranza, una virtù, ha detto all’inizio dell’omelia, che si è rivelata più forte delle sofferenze, così come scrive san Paolo nella lettera ai romani (8, 18-25). «Paolo — ha notato il Pontefice — si riferisce alle sofferenze del tempo presente, e dice che non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi». L’apostolo parla di «ardente aspettativa», una tensione verso la rivelazione che riguarda tutto il creato. «Questa tensione è la speranza — ha detto ancora — e vivere nella speranza è vivere in questa tensione», nell’attesa della rivelazione del Figlio di Dio, quando cioè tutta la creazione, «e anche ognuno di noi», sarà liberata dalla schiavitù «per entrare nella gloria dei figli di Dio».
«Paolo — ha poi proseguito — ci parla della speranza. Anche nel capitolo precedente della lettera ai romani aveva parlato della speranza. Ci aveva detto che la speranza non delude, è sicura». Tuttavia essa non è facile da capire; e sperare non vuol dire essere ottimisti. Dunque «la speranza non è ottimismo, non è quella capacità di guardare alle cose con buon animo e andare avanti», e non è neppure semplicemente un atteggiamento positivo, come quello di certe «persone luminose, positive». Questa, ha detto il Santo Padre «è una cosa buona, ma non è la speranza».
Si dice, ha spiegato il Santo Padre, che sia «la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita. La fede si vede, si sente, si sa cosa è; la carità si fa, si sa cosa è. Ma cos’è la speranza?». La risposta del Pontefice è stata chiara: «Per avvicinarci un po’ possiamo dire per prima cosa che è un rischio. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio. Non è un’illusione. È quella che avevano gli israeliti» i quali, quando furono liberati dalla schiavitù, dissero: «ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso e la nostra lingua di gioia».
Ecco, ha spiegato, questo è quanto avverrà quando ci sarà la rivelazione del Figlio di Dio. «Avere speranza significa proprio questo: essere in tensione verso questa rivelazione, verso questa gioia che riempirà la nostra bocca di sorriso». E ha esclamato: «È bella questa immagine!». Poi ha raccontato che «i primi cristiani la dipingevano come un’ancora. La speranza era un’ancora»; un’ancora fissata nella riva dell’aldilà. La nostra vita è come camminare sulla corda verso quell’ancora. «Ma dove siamo ancorati noi?» si è domandato il vescovo di Roma. «Siamo ancorati proprio là, sulla riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari, i nostri clericalismi, i nostri atteggiamenti ecclesiastici — non ecclesiali, eh? —. Siamo ancorati là dove tutto è comodo e sicuro? Questa non è la speranza».
Paolo, ha aggiunto Papa Francesco, «cerca poi un’altra icona della speranza, quella del parto. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione, e anche noi con la creazione, “geme e soffre le doglie del parto fino a oggi”. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo — pensate alla donna che partorisce — gemiamo interiormente aspettando. Siamo in attesa. Questo è un parto». La speranza, ha aggiunto, si pone in questa dinamica del dare la vita. Non è una cosa visibile anche per chi vive «nella primizia dello Spirito». Ma sappiamo che «lo Spirito lavora. Il Vangelo — ha precisato il Papa riferendosi al brano di Luca (13, 18-21) — dice qualcosa su questo. Lo Spirito lavora in noi. Lavora come se fosse un granello di senape, piccolino ma dentro è pieno di vita e di forza e va avanti sino all’albero. Lo Spirito lavora come il lievito che è capace di lievitare tutta la farina. Così lavora lo Spirito».
La speranza «è una grazia da chiedere»; infatti «una cosa è vivere nella speranza, perché nella speranza siamo salvati, e un’altra cosa è vivere come buoni cristiani e non di più; vivere in attesa della rivelazione, o vivere bene con i comandamenti»; essere ancorati sulla riva del mondo futuro «o parcheggiati nella laguna artificiale».
Per spiegare meglio il concetto il Pontefice ha indicato come è cambiato l’atteggiamento di Maria, «una ragazza giovane», quando ha saputo di essere mamma: «Va’ e aiuta e canta quel cantico di lode». Perché, ha spiegato Papa Francesco, «quando una donna è incinta, è donna» ma è come se si trasformasse nel profondo perché ora «è mamma». E la speranza è qualcosa di simile: «cambia il nostro atteggiamento». Per questo, ha aggiunto, «chiediamo la grazia di essere uomini e donne di speranza».
Alla conclusione, rivolgendosi a un gruppo di sacerdoti messicani che celebravano il venticinquesimo anniversario del loro sacerdozio, il Papa, indicando l’immagine mariana che gli avevano portato in dono, ha detto: «Guardate alla vostra Madre, figura della speranza dell’America. Guardate, è dipinta incinta. È la Madonna d’America, è la Madonna della speranza. Chiedete a lei la grazia affinché gli anni a venire siano per voi anni di speranza», la grazia «di vivere come preti di speranza» che donano speranza.

 

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 6. SALMO 115. LE FALSE SPERANZE NEGLI IDOLI

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 6. SALMO 115. LE FALSE SPERANZE NEGLI IDOLI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 11 gennaio 2017

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nello scorso mese di dicembre e nella prima parte di gennaio abbiamo celebrato il tempo di Avvento e poi quello di Natale: un periodo dell’anno liturgico che risveglia nel popolo di Dio la speranza. Sperare è un bisogno primario dell’uomo: sperare nel futuro, credere nella vita, il cosiddetto “pensare positivo”.
Ma è importante che tale speranza sia riposta in ciò che veramente può aiutare a vivere e a dare senso alla nostra esistenza. È per questo che la Sacra Scrittura ci mette in guardia contro le false speranze che il mondo ci presenta, smascherando la loro inutilità e mostrandone l’insensatezza. E lo fa in vari modi, ma soprattutto denunciando la falsità degli idoli in cui l’uomo è continuamente tentato di riporre la sua fiducia, facendone l’oggetto della sua speranza.
In particolare i profeti e sapienti insistono su questo, toccando un punto nevralgico del cammino di fede del credente. Perché fede è fidarsi di Dio – chi ha fede, si fida di Dio –, ma viene il momento in cui, scontrandosi con le difficoltà della vita, l’uomo sperimenta la fragilità di quella fiducia e sente il bisogno di certezze diverse, di sicurezze tangibili, concrete. Io mi affido a Dio, ma la situazione è un po’ brutta e io ho bisogno di una certezza un po’ più concreta. E lì è il pericolo! E allora siamo tentati di cercare consolazioni anche effimere, che sembrano riempire il vuoto della solitudine e lenire la fatica del credere. E pensiamo di poterle trovare nella sicurezza che può dare il denaro, nelle alleanze con i potenti, nella mondanità, nelle false ideologie. A volte le cerchiamo in un dio che possa piegarsi alle nostre richieste e magicamente intervenire per cambiare la realtà e renderla come noi la vogliamo; un idolo, appunto, che in quanto tale non può fare nulla, impotente e menzognero. Ma a noi piacciono gli idoli, ci piacciono tanto! Una volta, a Buenos Aires, dovevo andare da una chiesa ad un’altra, mille metri, più o meno. E l’ho fatto, camminando. E c’è un parco in mezzo, e nel parco c’erano piccoli tavolini, ma tanti, tanti, dove erano seduti i veggenti. Era pieno di gente, che faceva anche la coda. Tu, gli davi la mano e lui incominciava, ma, il discorso era sempre lo stesso: c’è una donna nella tua vita, c’è un’ombra che viene, ma tutto andrà bene … E poi, pagavi. E questo ti dà sicurezza? E’ la sicurezza di una – permettetemi la parola – di una stupidaggine. Andare dal veggente o dalla veggente che leggono le carte: questo è un idolo! Questo è l’idolo, e quando noi vi siamo tanto attaccati: compriamo false speranze. Mentre di quella che è la speranza della gratuità, che ci ha portato Gesù Cristo, gratuitamente dando la vita per noi, di quella a volte non ci fidiamo tanto.
Un Salmo pieno di sapienza ci dipinge in modo molto suggestivo la falsità di questi idoli che il mondo offre alla nostra speranza e a cui gli uomini di ogni tempo sono tentati di affidarsi. È il salmo 115, che così recita:

«I loro idoli sono argento e oro,
opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
Le loro mani non palpano,
i loro piedi non camminano;
dalla loro gola non escono suoni!
Diventi come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida!» (vv. 4-8).

Il salmista ci presenta, in modo anche un po’ ironico, la realtà assolutamente effimera di questi idoli. E dobbiamo capire che non si tratta solo di raffigurazioni fatte di metallo o di altro materiale, ma anche di quelle costruite con la nostra mente, quando ci fidiamo di realtà limitate che trasformiamo in assolute, o quando riduciamo Dio ai nostri schemi e alle nostre idee di divinità; un dio che ci assomiglia, comprensibile, prevedibile, proprio come gli idoli di cui parla il Salmo. L’uomo, immagine di Dio, si fabbrica un dio a sua propria immagine, ed è anche un’immagine mal riuscita: non sente, non agisce, e soprattutto non può parlare. Ma, noi siamo più contenti di andare dagli idoli che andare dal Signore. Siamo tante volte più contenti dell’effimera speranza che ti dà questo falso idolo, che la grande speranza sicura che ci dà il Signore.
Alla speranza in un Signore della vita che con la sua Parola ha creato il mondo e conduce le nostre esistenze, si contrappone la fiducia in simulacri muti. Le ideologie con la loro pretesa di assoluto, le ricchezze – e questo è un grande idolo – , il potere e il successo, la vanità, con la loro illusione di eternità e di onnipotenza, valori come la bellezza fisica e la salute, quando diventano idoli a cui sacrificare ogni cosa, sono tutte realtà che confondono la mente e il cuore, e invece di favorire la vita conducono alla morte. E’ brutto sentire e fa dolore all’anima quello che una volta, anni fa, ho sentito, nella diocesi di Buenos Aires : una donna brava, molto bella, si vantava della bellezza, commentava, come se fosse naturale: “Eh sì, ho dovuto abortire perché la mia figura è molto importante”. Questi sono gli idoli, e ti portano sulla strada sbagliata e non ti danno felicità.
Il messaggio del Salmo è molto chiaro: se si ripone la speranza negli idoli, si diventa come loro: immagini vuote con mani che non toccano, piedi che non camminano, bocche che non possono parlare. Non si ha più nulla da dire, si diventa incapaci di aiutare, cambiare le cose, incapaci di sorridere, di donarsi, incapaci di amare. E anche noi, uomini di Chiesa, corriamo questo rischio quando ci “mondanizziamo”. Bisogna rimanere nel mondo ma difendersi dalle illusioni del mondo, che sono questi idoli che ho menzionato.
Come prosegue il Salmo, bisogna confidare e sperare in Dio, e Dio donerà benedizione.
Così dice il Salmo:

«Israele, confida nel Signore […]
Casa di Aronne, confida nel Signore […]
Voi che temete il Signore, confidate nel Signore […]
Il Signore si ricorda di noi, ci benedice» (vv. 9.10.11.12). Sempre il Signore si ricorda. Anche nei momenti brutti lui si ricorda di noi. E questa è la nostra speranza. E la speranza non delude. Mai. Mai. Gli idoli deludono sempre: sono fantasie, non sono realtà.
Ecco la stupenda realtà della speranza: confidando nel Signore si diventa come Lui, la sua benedizione ci trasforma in suoi figli, che condividono la sua vita. La speranza in Dio ci fa entrare, per così dire, nel raggio d’azione del suo ricordo, della sua memoria che ci benedice e ci salva. E allora può sgorgare l’alleluia, la lode al Dio vivo e vero, che per noi è nato da Maria, è morto sulla croce ed è risorto nella gloria. E in questo Dio noi abbiamo speranza, e questo Dio – che non è un idolo – non delude mai.

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