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DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO « Cristo morto e risorto per noi: l’unica medicina contro lo spirito della mondanità »

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CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

« Cristo morto e risorto per noi: l’unica medicina contro lo spirito della mondanità »

Sabato, 16 maggio 2020

Introduzione

Preghiamo oggi per le persone che si occupano di seppellire i defunti in questa pandemia. È una delle opere di misericordia seppellire i defunti e non è una cosa gradevole, naturalmente. Preghiamo per loro, che rischiano la vita e di prendere il contagio.

Omelia

Gesù parecchie volte, e soprattutto nel suo congedo con gli apostoli, parla del mondo (cfr Gv 15, 18-21). E qui dice: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me» (v. 18). Chiaramente parla dell’odio che il mondo ha avuto verso Gesù e avrà verso di noi. E nella preghiera che fa a tavola con i discepoli nella Cena, chiede al Padre di non toglierli dal mondo, ma di difenderli dallo spirito del mondo (cfr Gv 17,15).

Credo che noi possiamo domandarci: qual è lo spirito del mondo? Cosa è questa mondanità, capace di odiare, di distruggere Gesù e i suoi discepoli, anzi di corromperli e di corrompere la Chiesa? Come è lo spirito del mondo, cosa sia questo, ci farà bene pensarlo. È una proposta di vita, la mondanità. Ma qualcuno pensa che mondanità è fare festa, vivere nelle feste… No, no. Mondanità può essere questo, ma non è questo fondamentalmente.

La mondanità è una cultura; è una cultura dell’effimero, una cultura dell’apparire, del maquillage, una cultura “dell’oggi sì domani no, domani sì e oggi no”. Ha dei valori superficiali. Una cultura che non conosce fedeltà, perché cambia secondo le circostanze, negozia tutto. Questa è la cultura mondana, la cultura della mondanità. E Gesù insiste a difenderci da questo e prega perché il Padre ci difenda da questa cultura della mondanità. È una cultura dell’usa e getta, secondo quello che convenga. È una cultura senza fedeltà, non ha delle radici. Ma è un modo di vivere, un modo di vivere anche di tanti che si dicono cristiani. Sono cristiani ma sono mondani.

Gesù, nella parabola del seme che cade in terra, dice che le preoccupazioni del mondo – cioè della mondanità – soffocano la Parola di Dio, non la lasciano crescere (cfr Lc 8,7). E Paolo ai Galati dice: “Voi eravate schiavi del mondo, della mondanità” (cfr Gal 4,3). A me sempre, sempre colpisce quando leggo le ultime pagine del libro del padre de Lubac: “Le meditazioni sulla Chiesa” (cfr Henri de Lubac, Meditazioni sulla Chiesa, Milano 1955), le ultime tre pagine, dove parla proprio della mondanità spirituale. E dice che è il peggiore dei mali che può accadere alla Chiesa; e non esagera, perché poi dice alcuni mali che sono terribili, e questo è il peggiore: la mondanità spirituale, perché è un’ermeneutica di vita, è un modo di vivere; anche un modo di vivere il cristianesimo. E per sopravvivere davanti alla predicazione del Vangelo, odia, uccide.

Quando si dice dei martiri che sono uccisi in odio alla fede, sì, davvero per alcuni l’odio era per un problema teologico; ma non erano la maggioranza. Nella maggioranza [dei casi] è la mondanità che odia la fede e li uccide, come ha fatto con Gesù.

È curioso: la mondanità, qualcuno può dirmi: “Ma padre, questa è una superficialità di vita…”. Non inganniamoci! La mondanità non è per niente superficiale! Ha delle radici profonde, delle radici profonde. È camaleontica, cambia, va e viene a seconda delle circostanze, ma la sostanza è la stessa: una proposta di vita che entra dappertutto, anche nella Chiesa. La mondanità, l’ermeneutica mondana, il maquillage, tutto si trucca per essere così.

L’apostolo Paolo venne ad Atene, ed è rimasto colpito quando ha visto nell’areopago tanti monumenti agli dei. E lui ha pensato di parlare di questo: “Voi siete un popolo religioso, io vedo questo… Mi attira l’attenzione quell’altare al ‘dio ignoto’. Questo io lo conosco e vengo a dirvi chi è”. E incominciò a predicare il Vangelo. Ma quando arrivò alla croce e alla risurrezione si scandalizzarono e se ne andarono via (cfr At 17,22-33). C’è una cosa che la mondanità non tollera: lo scandalo della Croce. Non lo tollera. E l’unica medicina contro lo spirito della mondanità è Cristo morto e risorto per noi, scandalo e stoltezza (cfr 1Cor 1,23).

È per questo che quando l’apostolo Giovanni nella sua prima Lettera tratta il tema del mondo dice: «È la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4). L’unica: la fede in Gesù Cristo, morto e risorto. E questo non significa essere fanatici. Questo non significa tralasciare di avere dialogo con tutte le persone, no, ma con la convinzione di fede, a partire dallo scandalo della Croce, dalla stoltezza di Cristo e anche dalla vittoria di Cristo. “Questa è la nostra vittoria”, dice Giovanni, “la nostra fede”.

Chiediamo allo Spirito Santo in questi ultimi giorni, anche nella novena dello Spirito Santo, negli ultimi giorni del tempo pasquale, la grazia di discernere cosa è mondanità e cosa è Vangelo, e non lasciarci ingannare, perché il mondo ci odia, il mondo ha odiato Gesù e Gesù ha pregato perché il Padre ci difendesse dallo spirito del mondo (cfr Gv 17,15).

Preghiera per la Comunione spirituale

Gesù mio, credo che sei realmente presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Poiché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a Te. Non permettere che mi abbia mai a separare da Te.

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 13 septembre, 2021 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – Scivolare nella mondanità è una lenta apostasia – (13.2.20)

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PAPA FRANCESCO – Scivolare nella mondanità è una lenta apostasia – (13.2.20)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE

Lasciarsi scivolare lentamente nel peccato, relativizzando le cose ed entrando «in negoziato» con gli dèi del denaro, della vanità e dell’orgoglio: da quella che ha definito una «caduta con anestesia» ha messo in guardia il Papa nell’omelia della messa celebrata a Casa Santa Marta giovedì mattina, 13 febbraio, riflettendo sulla storia del re Salomone.
La prima lettura della liturgia del giorno (1 Re 11, 4-13) «ci racconta — ha esordito — l’apostasia, diciamo così, di Salomone», che non è stato fedele al Signore. Quando era vecchio, le sue donne gli fecero infatti «deviare il cuore» per seguire altri dèi. Fu dapprima un «ragazzo bravo», che al Signore chiese solo la saggezza e Dio lo rese saggio, al punto che da lui vennero i giudici e anche la Regina di Saba, dall’Africa, con regali perché aveva sentito parlare della sua saggezza. «Si vede che questa donna era un po’ filosofa e gli fece domande difficili», ha affermato il Pontefice notando che «Salomone uscì da queste domande vittorioso» perché sapeva rispondere.
A quel tempo, ha proseguito Francesco, si poteva avere più di una sposa, che non vuol dire — ha spiegato — che fosse lecito fare «il donnaiolo». Il cuore di Salomone, però, si indebolì non per aver sposato queste donne — poteva farlo — ma perché le aveva scelte di un altro popolo, con altri dèi. E Salomone quindi cadde nel «tranello» e lasciò fare quando una delle mogli gli chiedeva di andare ad adorare Camos o Moloc. E così fece per tutte le sue donne straniere che offrivano sacrifici ai loro dèi. In una parola, «permise tutto, smise di adorare l’unico Dio». Dal cuore indebolito per la troppa affezione alle donne, «entrò il paganesimo nella sua vita». Quindi, ha evidenziato Francesco, quel ragazzo saggio che aveva pregato bene chiedendo la saggezza, è caduto al punto da essere rigettato dal Signore.
«Non è stata un’apostasia da un giorno all’altro, è stata un’apostasia lenta», ha chiarito il Papa. Anche il re Davide, suo padre, infatti, aveva peccato — in modo forte almeno due volte — ma subito si era pentito e aveva chiesto perdono: era rimasto fedele al Signore che lo custodì fino alla fine. Davide pianse per quel peccato e per la morte del figlio Assalonne e quando, prima, fuggiva da lui, si umiliò pensando al suo peccato, quando la gente lo insultava. «Era santo. Salomone non è santo», ha affermato il Pontefice. Il Signore gli aveva dato tanti doni ma lui aveva sprecato tutto perché si era lasciato indebolire il cuore. Non si tratta, ha notato, del «peccato di una volta», ma dello «scivolare».
«Le donne gli fecero deviare il cuore e il Signore lo rimprovera: “Tu hai deviato il cuore”. E questo succede nella nostra vita. Nessuno di noi è un criminale, nessuno di noi fa dei grossi peccati come aveva fatto Davide con la moglie di Uria, nessuno. Ma dove è il pericolo? Lasciarsi scivolare lentamente perché è una caduta con anestesia, tu non te ne accorgi, ma lentamente si scivola, si relativizzano le cose e si perde la fedeltà a Dio», ha rimarcato Francesco. «Queste donne erano di altri popoli, avevano altri dèi, e quante volte noi dimentichiamo il Signore ed entriamo in negoziato con altri dèi: il denaro, la vanità, l’orgoglio. Ma questo si fa lentamente e se non c’è la grazia di Dio, si perde tutto», ha avvertito ancora.
Di nuovo il Papa ha richiamato il Salmo 105 (106) per sottolineare che questo mescolarsi con i pagani e imparare ad agire come loro, significa farsi mondani. «E per noi questa scivolata lenta nella vita è verso la mondanità, questo è il grave peccato: “Lo fanno tutti, ma sì, non c’è problema, sì, davvero non è l’ideale, ma…”. Queste parole che ci giustificano al prezzo di perdere la fedeltà all’unico Dio. Sono degli idoli moderni», ha avvertito Francesco, chiedendo di pensare «a questo peccato della mondanità» che porta a «perdere il genuino del Vangelo. Il genuino della Parola di Dio» a «perdere l’amore di questo Dio che ha dato la vita per noi. Non si può stare bene con Dio e con il diavolo. Questo lo diciamo tutti noi quando parliamo di una persona che è un po’ così: “Questo sta bene con Dio e con il diavolo”. Ha perso la fedeltà».
E, in pratica, ha continuato il Pontefice, ciò significa non essere fedele «né a Dio né al diavolo». Per questo in conclusione, il Papa ha esortato a chiedere al Signore la grazia di fermarsi quando si capisce che il cuore inizia a scivolare. «Pensiamo a questo peccato di Salomone — ha raccomandato —, pensiamo a come è caduto quel Salomone saggio, benedetto dal Signore, con tutte le eredità del padre Davide, come è caduto lentamente, anestetizzato verso questa idolatria, verso questa mondanità e gli è stato tolto il regno».
E «chiediamo al Signore — ha concluso Francesco — la grazia di capire quando il nostro cuore incomincia a indebolirsi e a scivolare, per fermarci. Saranno la sua grazia e il suo amore a fermarci se noi lo preghiamo».

 

PAPA FRANCESCO – L’essenziale è il rapporto con Dio – 17 gennaio 2020

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PAPA FRANCESCO – L’essenziale è il rapporto con Dio – 17 gennaio 2020

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Le malattie dell’anima vanno guarite e la medicina è chiedere il perdono. Lo ha detto Papa Francesco alla messa mattutina, celebrata venerdì 17 gennaio a Casa Santa Marta, commentando il racconto evangelico della guarigione del paralitico compiuta da Gesù. È giusto, ha affermato il Pontefice, curare le malattie del corpo, ma «pensiamo alla salute del cuore?».
Presentando il brano della liturgia del giorno, tratto dal Vangelo secondo Marco, il Papa ripropone l’immagine di Gesù a Cafarnao con la folla gli si raduna intorno. Attraverso un’apertura fatta nel tetto della casa, alcuni gli portano un uomo steso su una barella. La speranza è che Gesù guarisca il paralitico, ma egli spiazza tutti dicendogli: «Figlio, ti sono perdonati i peccati». Solo dopo gli ordinerà di alzarsi, di prendere la barella e di tornarsene a casa. Francesco ha commentato dicendo che con le sue parole Gesù permette di andare all’essenziale. «Lui è un uomo di Dio», ha affermato; guariva, ma non era un guaritore, insegnava ma era più di un maestro e davanti alla scena che gli si presenta va all’essenziale: «Guarda il paralitico e dice: “Ti sono perdonati i peccati”. La guarigione fisica è un dono, la salute fisica è un dono che noi dobbiamo custodire. Ma il Signore — ha proseguito il Papa — ci insegna che anche la salute del cuore, la salute spirituale dobbiamo custodirla».
Gesù va all’essenziale anche con la donna peccatrice, di cui parla il Vangelo, quando davanti al suo pianto le dice: «Ti sono perdonati i peccati». Gli altri si scandalizzano, ha affermato Francesco, «quando Gesù va all’essenziale, si scandalizzano perché lì c’è la profezia, lì c’è la forza». Allo stesso modo, «Vai, ma non peccare più», dice Gesù all’uomo della piscina che non arriva mai in tempo a immergersi nell’acqua per poter guarire. Alla Samaritana che gli fa tante domande, — «lei faceva un po’ la parte della teologa» ha detto il Pontefice — Gesù chiede del marito. Va all’essenziale della vita e, ha sottolineato il Papa, «l’essenziale è il tuo rapporto con Dio. E noi dimentichiamo, tante volte, questo, come se avessimo paura di andare proprio lì dove c’è l’incontro con il Signore, con Dio». Noi ci diamo tanto fare, ha osservato ancora, per la nostra salute fisica, ci diamo consigli sui medici e sulle medicine, ed è una cosa buona, «ma pensiamo alla salute del cuore?». Quindi ha affermato: «C’è una parola, qui, di Gesù che forse ci aiuterà: “Figlio, ti sono perdonati i peccati”. Siamo abituati a pensare a questa medicina del perdono dei nostri peccati, dei nostri sbagli? Ci domandiamo: “Io devo chiedere perdono a Dio di qualcosa?”. “Sì, sì, sì, in generale, siamo tutti peccatori”, e così la cosa si annacqua e perde la forza, questa forza di profezia che Gesù ha quando va all’essenziale. E oggi Gesù, a ognuno di noi, dice: “Io voglio perdonarti i peccati”».
Il Papa ha proseguito dicendo che forse qualcuno non trova peccati in se stesso da confessare perché «manca la coscienza dei peccati». Dei «peccati concreti», delle «malattie dell’anima» che vanno guarite «e la medicina per guarire è il perdono». È una cosa semplice, quella che Gesù insegna quando va all’essenziale, ha detto Papa Francesco, e conclude: «L’essenziale è la salute, tutta: del corpo e dell’anima. Custodiamo bene quella del corpo, ma anche quella dell’anima. E andiamo da quel Medico che può guarirci, che può perdonare i peccati. Gesù è venuto per questo, ha dato la vita per questo».

PAPA FRANCESCO – 28 agosto 2019 – Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 7. «Quando Pietro passava…» (At 5,15)

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PAPA FRANCESCO – 28 agosto 2019 – Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 7. «Quando Pietro passava…» (At 5,15)

UDIENZA GENERALE

Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 7. «Quando Pietro passava…» (At 5,15). Pietro, principale testimone del Risorto

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La comunità ecclesiale descritta nel libro degli Atti degli Apostoli vive di tanta ricchezza che il Signore mette a sua disposizione – il Signore è generoso! –, sperimenta la crescita numerica e un gran fermento, malgrado gli attacchi esterni. Per mostrarci questa vitalità, Luca, nel Libro degli Atti degli Apostoli, indica anche dei luoghi significativi, per esempio il portico di Salomone (cfr At 5,12), punto di ritrovo per i credenti. Il portico (stoà) è una galleria aperta che funge da riparo, ma anche da luogo d’incontro e di testimonianza. Luca, infatti, insiste sui segni e sui prodigi che accompagnano la parola degli Apostoli e sulla speciale cura dei malati cui essi si dedicano.
Nel capitolo 5 degli Atti la Chiesa nascente si mostra come un “ospedale da campo” che accoglie le persone più deboli, cioè i malati. La loro sofferenza attira gli Apostoli, i quali non possiedono «né argento né oro» (At 3,6) – così dice Pietro allo storpio – ma sono forti del nome di Gesù. Ai loro occhi, come agli occhi dei cristiani di ogni tempo, i malati sono destinatari privilegiati del lieto annuncio del Regno, sono fratelli in cui Cristo è presente in modo particolare, per lasciarsi cercare e trovare da tutti noi (cfr Mt 25,36.40). I malati sono dei privilegiati per la Chiesa, per il cuore sacerdotale, per tutti i fedeli. Non sono da scartare, al contrario Sono da curare, da accudire: Sono oggetto della preoccupazione cristiana.
Tra gli apostoli emerge Pietro, che ha preminenza nel gruppo apostolico a motivo del primato (cfr Mt 16,18) e della missione ricevuti dal Risorto (cfr Gv 21,15-17). È lui che dà il via alla predicazione del kerygma nel giorno di Pentecoste (cfr At 2,14-41) e che al concilio di Gerusalemme svolgerà una funzione direttiva (cfr At 15 e Gal 2,1-10).
Pietro si accosta alle barelle e passa tra i malati, così come aveva fatto Gesù, prendendo su di sé le infermità e le malattie (cfr Mt 8,17; Is 53,4). E Pietro, il pescatore di Galilea, passa, ma lascia che sia un Altro a manifestarsi: che sia il Cristo vivo e operante! Il testimone, infatti, è colui che manifesta Cristo, sia con le parole sia con la presenza corporea, che gli permette di relazionarsi e di essere prolungamento del Verbo fatto carne nella storia.
Pietro è colui che compie le opere del Maestro (cfr Gv 14,12): guardando a lui con fede, si vede Cristo stesso. Ricolmo dello Spirito del suo Signore, Pietro passa e, senza che egli faccia nulla, la sua ombra diventa “carezza”, risanatrice, comunicazione di salute, effusione della tenerezza del Risorto che si china sui malati e restituisce vita, salvezza, dignità. In tal modo, Dio manifesta la sua prossimità e fa delle piaghe dei suoi figli «il luogo teologico della sua tenerezza» (Meditazione mattutina, S. Marta, 14.12.2017). Nelle piaghe degli ammalati, nelle malattie che sono impedimenti per andare avanti nella vita, c’è sempre la presenza di Gesù, la piaga di Gesù. C’è Gesù che chiama ognuno di noi ad accudirli, a sostenerli, a guarirli.
L’azione risanatrice di Pietro suscita l’odio e l’invidia, dei sadducei, che imprigionano gli apostoli e, sconvolti per la loro misteriosa liberazione, proibiscono loro di insegnare. Questa gente vedeva i miracoli che facevano gli apostoli non per magia, ma in nome di Gesù; ma non volevano accettarlo e li mettono in prigione, li bastonano. Sono stati poi liberati miracolosamente, ma il cuore dei sadducei era tanto duro che non volevano credere a ciò che vedevano. Pietro allora risponde offrendo una chiave della vita cristiana: «Obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29), perché loro – i sadducei – dicono: “Voi non dovete andare avanti con queste cose, non dovete guarire” – “Io obbedisco a Dio prima che agli uomini”: è la grande risposta cristiana. Questo significa ascoltare Dio senza riserve, senza rinvii, senza calcoli; aderire a Lui per diventare capaci di alleanza con Lui e con chi incontriamo sul nostro cammino.
Chiediamo anche noi allo Spirito Santo la forza di non spaventarci davanti a chi ci comanda di tacere, ci calunnia e addirittura attenta alla nostra vita. Chiediamogli di rafforzarci interiormente per essere certi della presenza amorevole e consolatrice del Signore al nostro fianco.

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 3 septembre, 2019 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UMILI PER GUARIRE

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PAPA FRANCESCO – UMILI PER GUARIRE

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 7 febbraio 2019

Il cristiano deve imparare la «saggezza delle carezze di Dio»: avere l’umiltà di «aprire il cuore per essere guarito dal Signore» e altrettanta umiltà e delicatezza per guarire il fratello che gli sta accanto, che ha bisogno del suo aiuto, di «un consiglio», di una «buona parola». Ed è proprio così che si costruisce una «comunità cristiana».
È la riflessione che Papa Francesco ha sviluppato durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 7 febbraio. Commentando il brano del vangelo di Marco (6, 7-13) nel quale Gesù «invia i suoi discepoli per guarire», il Pontefice ha sottolineato come Gesù stesso sia «venuto al mondo per guarire, guarire la radice del peccato in noi».
Un guarire, quello di Gesù — ha spiegato il Papa — che è un «ricreare». Gesù, infatti «ci ha ricreato dalla radice e poi ci ha fatto andare avanti con il suo insegnamento, con la sua dottrina, che è una dottrina che guarisce».
Il maestro, quindi, invia i dodici «a guarire». Ma prima di tutto diede un comando: «Ordinò loro [...] e loro proclamarono che la gente si convertisse». È un particolare sul quale Francesco si è immediatamente soffermato: «La prima guarigione — ha detto — è la conversione nel senso di aprire il cuore perché entri la Parola di Dio». Infatti «convertirsi è guardare da un’altra parte, convergere su un’altra parte. E questo apre il cuore, fa vedere altre cose. Ma se il cuore è chiuso non può essere guarito». È come nella vita quotidiana: «Se qualcuno è ammalato e per tenacia non vuole andare dal medico, non sarà guarito».
Perciò il Signore raccomanda ai discepoli innanzitutto: «Convertitevi, aprite il cuore». È questo il primo insegnamento che il Papa ha tratto dalla lettura del vangelo del giorno. Seppure «noi cristiani facciamo tante cose buone», ma «il cuore è chiuso», quelle buone azioni sono solo una facciata: «è tutta vernice di fuori, che alla prima pioggia sparirà». Bisogna invece «aprire il cuore». E porsi questa domanda: «Io sento questo invito a convertirmi, aprire il cuore per essere guarito, per trovare il Signore, per andare avanti?».
Proseguendo nella meditazione il Pontefice ha spostato l’attenzione dall’atteggiamento che ogni cristiano deve avere nei confronti di se stesso — la disponibilità ad «aprire il cuore» — a quello da portare avanti nei confronti degli altri. E lo ha fatto riprendendo la lettura del brano evangelico, nel quale si narra che i dodici, «partiti, proclamarono che la gente si convertisse». Una missione, ha spiegato Francesco, per la quale ci voleva «autorità». Ed è stato lo stesso Gesù a indicare come essi avrebbero guadagnato quell’autorità: «non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro…”. Niente. La povertà».
Si tratta di un dettaglio fondamentale per definire la figura dell’apostolo che, ha detto Francesco, è come «il pastore che non cerca il latte delle pecore, che non cerca la lana delle pecore». Anche sant’Agostino, ha ricordato, usò il medesimo paragone specificando che «quello che cerca il latte, cerca i soldi e che a quello che cerca la lana, piace vestirsi con la vanità del suo mestiere. È un arrampicatore di onori». Questo, ha rimarcato con decisione il Papa, non è l’apostolo: «No, no, no, niente: povertà, umiltà, mitezza».
Umiltà e mitezza richieste dallo stesso Gesù ai dodici ai quali raccomanda di non litigare: «Se non vi ricevono andate da un’altra parte!». Un atteggiamento approfondito dal Pontefice per far emergere consigli utili anche oggi: «Se un apostolo, un inviato, qualcuno di noi — ne siamo tanti di inviati qui —, va un po’ col naso in su, credendosi superiore agli altri o cercando qualche interesse umano o — non so — cercando posti nella Chiesa, non guarirà mai nessuno, non sarà riuscito ad aprire il cuore di nessuno, perché la sua parola non avrà autorità».
L’autorità, infatti, viene dal seguire «i passi di Cristo» che sono ben chiari: «La povertà. Da Dio si è fatto uomo! Si è annientato! Si è spogliato! La povertà che porta alla mitezza, all’umiltà». Come Gesù «umile», ha detto il Pontefice, andava «per la strada per guarire», così un apostolo «con questo atteggiamento di povertà, di umiltà, di mitezza, è capace di avere l’autorità per dire: “Convertitevi”, per aprire i cuori».
Questo atteggiamento, ha spiegato Francesco, si riscontra non solo nell’intenzione iniziale, ma anche nei gesti. I dodici infatti, si legge nel vangelo, «Scacciavano molti demoni», avevano «l’autorità di dire: “No, questo è un demonio! Questo è peccato. Questo è un atteggiamento impuro! Tu non puoi farlo». Ma, ha sottolineato il Papa, potevano farlo «con la mitezza e con l’autorità del proprio esempio, non con l’autorità di uno che parla da su ma non è interessato alla gente. Quella non è autorità: è autoritarismo». E davanti all’umiltà, «davanti al potere del nome di Cristo con il quale l’apostolo fa il suo mestiere se è umile, i demoni fuggono», perché i demoni «Non tollerano, che si guariscano i peccati».
E i dodici guarivano non solo lo lo spirito, ma anche il corpo: «ungevano con olio molti infermi e li guarivano». Un gesto altamente significativo quello dell’unzione. Ha sottolineato il Pontefice: «L’unzione è la carezza di Dio».
La simbologia dell’olio è profonda: «l’olio è sempre una carezza, sempre. Ti ammorbidisce la pelle, ti fa stare meglio; l’olio è carezza» del Signore. E così, ha spiegato Francesco, «gli inviati, gli apostoli, devono imparare questa saggezza delle carezze di Dio». Allo stesso modo, ha continuato, «un cristiano guarisce, non solo un sacerdote, un vescovo, ma anche un cristiano. Ognuno di noi ha il potere di guarire se prende questa strada». Così si può «guarire il fratello, la sorella con una buona parola, con la pazienza, con un consiglio a tempo, con uno sguardo, ma come l’olio, umilmente».
Ecco allora riassunta la duplice prospettiva dell’omelia del Pontefice: «Tutti noi abbiamo bisogno di essere guariti, tutti; perché tutti abbiamo malattie spirituali, tutti»; ma, allo stesso tempo, «abbiamo la possibilità di guarire gli altri, ma con questo atteggiamento». Un atteggiamento da chiedere nella preghiera: «Che il Signore ci dia questa grazia di guarire come guariva Lui: con la mitezza, con l’umiltà, con la forza contro il peccato, contro il diavolo e andare avanti in questo bella missione di guarirci fra noi, perché tutti possiamo dire: “Io guarisco l’altro e mi lascio guarire dall’altro”. Perché, ha concluso il Papa, «questa è una comunità cristiana».

PAPA FRANCESCO – La tenerezza della consolazione (11.12.18)

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PAPA FRANCESCO – La tenerezza della consolazione (11.12.18)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 11 dicembre 2018

A Natale Dio «bussa con le carezze» alla porta di ciascuno e sta a noi «non fare resistenza» al suo amore: spesso, infatti, abbiamo paura della sua «consolazione» e della sua «tenerezza», una «parola che oggi è sparita dal dizionario della nostra vita». È questa la nuova proposta spirituale per il tempo di Avvento suggerita da Papa Francesco nella messa celebrata martedì 11 dicembre a Santa Marta.

La prima lettura, ha fatto presente il Pontefice riferendosi al passo di Isaia (40, 1-11), «è un invito alla consolazione: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”». E il profeta spiega anche «come consolarlo: “Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa scontata perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati”».

Questa, ha affermato il Papa, è «la consolazione della salvezza, la consolazione che ci porta la buona notizia che siamo stati salvati». Ed è questo «l’ufficio che nostro Signore risorto esercita, fa con i suoi discepoli: consolare». Infatti «in quei quaranta giorni il Signore consola il suo popolo: va da uno, dall’altro, dall’altro, parla, si fa vedere, si fa toccare e consola il suo popolo». Si tratta appunto dell’«ufficio di Cristo risorto: consolare».

«Ma noi, è una cosa curiosa, opponiamo resistenza alla consolazione» ha fatto notare Francesco. Questo atteggiamento «è una cosa che viene da dentro, come se fossimo più sicuri nelle acque turbolente dei problemi, dell’ansia, delle tribolazioni». E così «non vogliamo rischiare».

Dunque, ha insistito il Pontefice, «facciamo la scommessa sulla desolazione, sui problemi, sulla sconfitta». E allora «il Signore lavora, lavora con tanta forza ma trova resistenza: noi non abbiamo fiducia nella consolazione». Del resto, ha aggiunto, «lo vediamo anche con i discepoli, la mattina della Pasqua: “Sì, ma io voglio toccare e assicurarmi bene”». C’è la «paura di rischiare, la paura di un’altra sconfitta». Anche «i discepoli di Emmaus non volevano essere consolati, si allontanavano: “No, no, una sconfitta basta! Un’altra noi non la vogliamo”».

«Noi siamo attaccati a questo pessimismo spirituale, facciamo resistenza» ha affermato il Papa. «Io penso a questo — ha confidato — quando nelle udienze pubbliche alcuni genitori mi fanno avvicinare il bambino perché io lo benedica o lo prenda con me o lo abbracci». Però «alcuni bambini mi vedono e strillano, incominciano a piangere, hanno paura: ma cosa succede? Eh, poverino, il piccino mi vede in bianco e pensa al dottore e all’infermiere che gli ha fatto le punture per il vaccino e pensa: “No, un’altra no!”». Ma, ha ricordato Francesco, «anche noi siamo feriti dentro e abbiamo paura delle carezze del Signore, siamo un po’ così».

«Consolate, consolate il mio popolo» è il grido di Isaia. «E il Signore consola con la tenerezza» ha spiegato il Pontefice. Ma la tenerezza «è un linguaggio che non conoscono i profeti di sventura, è una parola cancellata da tutti i vizi che ci allontanano dal Signore: vizi clericali, vizi dei cristiani un po’ che non vogliono muoversi, tiepidi». Perché «la tenerezza fa paura».

«“Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede”: così finisce il brano di Isaia» ha rilanciato il Papa, scandendo: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». Proprio «questo è il modo di consolare del Signore: con la tenerezza» ha ripetuto Francesco. Perché «la tenerezza consola: le mamme, quando il bambino piange, lo accarezzano e lo tranquillizzano con la tenerezza». E invece «tenerezza è una parola che il mondo d’oggi, di fatto, cancella dal dizionario».

«Il Signore ci invita a lasciarci accarezzare da lui, consolare da lui», ha proseguito il Pontefice. «Questo ufficio del Signore di consolare — ha aggiunto — ci aiuta anche in questa preparazione al Natale, ci risveglia un po’». Tanto che «oggi, nell’orazione colletta, abbiamo chiesto la grazia di una “sincera esultanza”, cioè di questa gioia semplice ma sincera. E anzi, io direi che lo stato abituale del cristiano dev’essere la consolazione». Non va dimenticato, infatti, che «anche nei momenti brutti i martiri entravano nel Colosseo cantando». E così fanno «i martiri di oggi: penso ai bravi lavoratori copti sulla spiaggia della Libia, sgozzati», che «morivano dicendo: “Gesù, Gesù!”». In questo «c’è una consolazione, dentro, una gioia anche nel momento del martirio».

Dunque, ha spiegato Francesco, «lo stato abituale del cristiano dev’essere la consolazione, che non è lo stesso dell’ottimismo, no: l’ottimismo è un’altra cosa»; ma «la consolazione, quella base positiva: si parla di persone luminose, positive». E «la positività, la luminosità del cristiano è la consolazione».

Certo, «nei momenti in cui si soffre non si sente la consolazione». Tuttavia «la consolazione regala la pace» ha rilanciato il Pontefice. E «un cristiano non può perdere la pace, perché è un dono del Signore: il Signore la offre a tutti, anche nei momenti più brutti». In questa prospettiva, ha suggerito il Papa, è bene «chiedere questo al Signore: “Signore, che io in questa settimana di preparazione al Natale mi lasci consolare da te, che non abbia paura di lasciarmi consolare, che io non abbia paura. Che anche io mi prepari al Natale almeno con la pace: la pace del cuore, la pace della tua presenza, la pace che danno le tue carezze”».

Certo, bisogna riconoscersi peccatori; ma occorre farlo con la certezza — ha suggerito Francesco riferendosi al passo liturgico di Matteo (18, 12-14) — di quello che «ci dice il Vangelo di oggi: il Signore che consola come il pastore, se perde uno dei suoi va a cercarlo, come quell’uomo che ha cento pecore e una di loro si è smarrita». Così «fa il Signore con ognuno di noi». Magari «io non voglio la pace, io resisto alla pace, io resisto alla consolazione, ma lui è alla porta, lui bussa perché noi apriamo il cuore per lasciarci consolare e per lasciarci mettere in pace». E «lo fa con soavità: bussa con le carezze»

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 11 décembre, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – Contro il veleno della maldicenza (17.5.18)

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PAPA FRANCESCO – Contro il veleno della maldicenza (17.5.18)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Giovedì, 17 maggio 2018

Con la tecnica della «finta unità» si inganna da sempre il popolo per fare, anAcora oggi, i colpi di stato, condannare i giusti — a cominciare da Gesù — ma anche per distruggere la vita nelle comunità cristiane, facendo fuori le persone a colpi di chiacchiere. È da questo «atteggiamento assassino» che Papa Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata giovedì 17 maggio a Santa Marta, riproponendo l’essenza della vera unità testimoniata da Cristo stesso nella sua preghiera al Padre «perché tutti siano una sola cosa».
E proprio «nella liturgia di oggi — ha subito fatto notare il Pontefice — possiamo vedere due strade, due pesi, due misure, per arrivare all’unità». Si tratta di «due tipi di unità». E «la prima» ha spiegato Francesco riferendosi al passo del Vangelo di Giovanni (17, 20-26), è quella per cui «Gesù prega il Padre per noi, “perché tutti siano una sola cosa”, una, “come tu, Padre, sei in me e io in te, perché il mondo creda”».
È, insomma, «l’unità alla quale ci porta Gesù» ha affermato il Papa, «l’unità nel Padre, come lui è col Padre». Ed è «un’unità costruttiva, un’unità che va su, sempre; è un’unità coinvolgente, che fa la Chiesa una». E «lo Spirito Santo — ha insistito il Pontefice — ci porta sempre verso questa unità: un’unità di salvezza, perché Gesù vuol salvare tutti e ci porta a questa unità».
Questa, ha rilanciato Francesco, è anche «una unità che non finisce: andrà verso l’eternità, cioè ha dei grandi orizzonti». E «così cresce l’unità e quando noi, nella vita, nella Chiesa o nella società civile, lavoriamo per l’unità, stiamo su questa strada». Consapevoli che «ogni persona che lavora per l’unità è sulla strada che Gesù ha tracciato». Proprio «questa è la grande unità — ha aggiunto il Papa — quella che ci rivela il Padre e ci fa vedere il nocciolo proprio della rivelazione che Gesù ci ha portato».
«Ma c’è un altro tipo di unità che io chiamerei “unità finta” o unità congiunturale: quella che hanno gli accusatori di Paolo nella prima lettura» ha affermato il Pontefice, facendo riferimento al passo degli Atti degli apostoli (22,30; 23,6-11). Questi accusatori infatti, ha spiegato il Papa, «si presentano come un blocco ad accusare Paolo: “Va contro la legge, va contro questo, è un blasfemo”».
Da parte sua, «il procuratore romano vede questa gente, e dice “ma è tutto il popolo, uno”». Però, ha proseguito Francesco, «Paolo, che era svelto — perché lo Spirito Santo anche ci permette di essere umanamente svelti: ci chiede quello — e sapeva che quella unità era finta, era congiunturale soltanto, butta la pietra di divisione». Si legge infatti nella pagina degli Atti: «Paolo, sapendo che una parte era dei sadducei e una parte dei farisei, disse a gran voce nel sinedrio” — butta la pietra — “Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti”». E «questa è la pietra che butta Paolo contro questa falsa unità che lo accusa».
Tanto che, «continua il testo: “Appena ebbe detto questo, scoppiò una disputa tra farisei e sadducei”. Si sciolse l’unità, disputano fra loro. Prima disputavano contro Paolo per accusarlo e condannarlo a morte; ma Paolo, con quella frase, distrugge quella unità perché era finta, non aveva consistenza. “Scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise. I sadducei infatti affermano che non c’è risurrezione né angeli né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose”». Insomma, «Paolo, con la saggezza umana che aveva, e la saggezza dello Spirito Santo, riuscì a distruggere questo blocco di unità».
Del resto, ha proseguito il Papa, «lo stesso abbiamo visto nelle persecuzioni di Paolo, per esempio a Gerusalemme». Infatti «il testo degli Atti degli apostoli dice che tutti quelli che sono congregati lì gridavano contro Paolo ma nessuno sapeva né ascoltava l’altro, non sapeva cosa gridavano: erano stati convocati per fare chiasso, fare una unità che era chiasso». E «lo stesso per esempio» ha affermato Francesco, è avvenuto «con gli operatori della immagine di Artèmide degli efesini, in Efeso quando — dice il testo — nessuno sapeva il motivo per il quale gridava» come raccontano gli Atti al capitolo 19. In pratica, ha spiegato il Pontefice, così «il popolo diventa massa, anonimo: fa una unità anonima e i dirigenti dicono “devi gridare contro questo” e gridano». Anche se «poi non sanno perché gridano, cosa vogliono».
«Questa strumentalizzazione del popolo è anche un disprezzo del popolo, perché lo converti da popolo in massa» ha detto Francesco. Facendo notare che «è un elemento che si ripete tanto, dai primi tempi fino adesso. Pensiamoci su: la domenica delle Palme tutti acclamano “Benedetto sei tu, che vieni in nome del Signore”» ma il «venerdì dopo la stessa gente grida “crocifiggilo”». La risposta è che è stato lavato il cervello e così sono state cambiate le cose: in pratica «hanno convertito il popolo in massa che distrugge». Di più, ha suggerito Francesco, «pensiamo a Stefano: cercano subito due falsi testimoni e così la gente va a lapidare Stefano». E «nell’antico Testamento pensiamo alla stessa tecnica» messa in atto «dalla regina Gezabele con Nabot», secondo quanto riferito nel primo libro dei Re. È sempre «lo stesso: si creano condizioni scure, “nebbiose”, per condannare una persona». Sì, «poi quella unità» costruita finisce per sciogliersi, intanto però «la persona è condannata».
«Anche oggi questo metodo è molto usato» ha messo in guardia il Papa. «Per esempio nella vita civile, nella vita politica, quando si vuole fare un colpo di stato, i media incominciano a sparlare della gente, dei dirigenti e, con la calunnia, la diffamazione, li sporcano. Poi entra la giustizia, li condanna e, alla fine, si fa il colpo di stato. È un sistema fra i più disdicevoli». Ma proprio «con questo metodo — ha chiarito Francesco — è perseguitato Paolo» e sono stati perseguitati «Gesù, Stefano e poi tutti i martiri». Certo, ha aggiunto il Pontefice, alla fine è «la gente che andava al circo e gridava per vedere come si faceva la lotta fra i martiri e le fiere o i gladiatori, ma sempre, l’anello della catena per arrivare alla condanna, o a un altro interesse dopo la condanna, è questo ambiente di unità finta, di unità falsa».
Il Papa ha ricordato però che «in una misura più ristretta», tutto questo «succede nelle nostre comunità parrocchiali, per esempio quando due o tre incominciano a criticare un altro e incominciano a sparlare di quello e fanno una unità finta per condannarlo». Insieme, ha proseguito Francesco, «si sentono sicuri e lo condannano: lo condannano mentalmente, come atteggiamento; poi si separano e sparlano uno contro l’altro, perché sono divisi». E proprio per questo, ha rimarcato, «il chiacchiericcio è un atteggiamento assassino, perché uccide, fa fuori la gente, fa fuori la “fama” della gente». E «il chiacchiericcio è lo stesso che facevano questi con Paolo, lo stesso che hanno fatto con Gesù: screditarlo» e «una volta screditato, lo fanno fuori».
«Pensiamo alla grande vocazione alla quale siamo stati chiamati: la unità con Gesù, il Padre» ha chiesto il Pontefice. E «su questa strada dobbiamo andare, uomini e donne che si uniscano e che sempre cercano di andare avanti sulla strada dell’unità». Però, ha insistito il Papa, «non le unità finte che non hanno sostanza e che servono soltanto per dare un passo oltre e condannare la gente e portare avanti interessi che non sono i nostri: interessi del principe di questo mondo, che è la distruzione». E così Francesco ha concluso la sua omelia auspicando «che il Signore ci dia la grazia di camminare sempre sulla strada della vera unità».

 

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PAPA FRANCESCO – BASTA UNA PAROLA (Gesù: «mai dialogare col diavolo»)

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PAPA FRANCESCO – BASTA UNA PAROLA (Gesù: «mai dialogare col diavolo»)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Venerdì, 25 novembre 2016

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.272, 26/11/2016)

Dio è sempre pronto a salvarci, sempre lì, come un padre, che aspetta solo che gli diciamo «Signore»: basta questa parola «e lui farà il resto», aiutandoci a evitare la superbia di cadere nella «dannazione eterna» per l’orgoglio di volersela «cavare da soli». Nella messa celebrata venerdì mattina, 25 novembre, nella cappella della Casa Santa Marta, Papa Francesco ha messo in guardia dalle «seduzioni del diavolo» e ha ricordato che «la dannazione eterna non è una sala di tortura» ma proprio il volersi «allontanare» da Dio dando ascolto, appunto, alle «bugie» del diavolo.
«Il regno di Dio è vicino, Gesù ci aveva detto che il regno di Dio è in mezzo a noi, ma si sviluppa e cammina verso la sua maturità, verso la sua fine», ha affermato il Papa, facendo subito notare che «la Chiesa, in questi due giorni ultimi dell’anno liturgico, oggi e domani, ci fa riflettere sull’ultima giornata del mondo, prima della fine o come sarà la fine nell’ultima giornata».
L’apostolo Giovanni, nella prima lettura tratta dal libro dell’Apocalisse (20, 1-4.11-21, 2), «ci parla del giudizio universale: tutti saremo giudicati». E «prima di tutto il diavolo, lui sarà il primo giudicato». C’è «quell’angelo», ha proseguito Francesco riferendosi al brano dell’Apocalisse, «che viene e afferrò il drago, il serpente antico, che è il diavolo e il Satana — chiaro, perché si capisca bene di chi sta parlando — e lo incatenò e lo gettò nell’abisso». Dunque, ecco «il diavolo, il serpente antico, incatenato perché non seducesse più le nazioni, perché lui è il seduttore».
Ma il diavolo, ha detto il Pontefice, è il seduttore «dall’inizio: pensiamo ad Adamo ed Eva, come ha incominciato a parlarle con quella voce dolce», dicendo che il frutto «è buono» da mangiare. È proprio quello della «seduzione» il suo linguaggio: «lui è un bugiardo; di più, è il padre della menzogna, lui genera menzogne, è un truffatore» ha affermato il Papa. Il diavolo «ti fa credere che se mangi questa mela sarai come un Dio; te la vende così, e tu la compri e alla fine ti truffa, ti inganna, ti rovina la vita».
A questo punto però occorre chiedersi «come possiamo fare noi per non lasciarci ingannare dal diavolo». L’atteggiamento giusto ce lo insegna proprio Gesù: «mai dialogare col diavolo». E infatti, ha spiegato Francesco, «cosa ha fatto Gesù col diavolo? Lo cacciava via, gli domandava il nome», ma non si metteva a fare «il dialogo». Si potrebbe obiettare che «nel deserto, nella tentazione, ci fu un dialogo»; ma, ha aggiunto il Papa, «badate bene, Gesù non ha mai usato una parola propria perché era ben consapevole del pericolo». E così «nelle risposte, nelle tre risposte che ha dato al diavolo, ha preso le parole dalla Bibbia, dalla parola di Dio: si è difeso con la parola di Dio». Così facendo, «Gesù ci dà l’esempio: mai dialogare con lui; non si può dialogare con questo bugiardo, con questo truffatore che cerca la nostra rovina». E, per questo, «il seduttore sarà gettato nell’abisso».
«La narrazione di Giovanni continua», ha spiegato il Pontefice riprendendo il filo del brano dell’Apocalisse. E così appaiono «le anime dei martiri, quelli che hanno dato testimonianza di Gesù Cristo e non hanno adorato la bestia — cioè il diavolo e i suoi seguaci — non hanno adorato il denaro, non hanno adorato la mondanità, non hanno adorato la vanità, non si sono immischiati nell’orgoglio». Sono «gli umili», che «hanno dato la vita pure per questo e per questo appaiono davanti». E poi ecco «il trono dove sarà il Signore a giudicarci: i vivi e i morti, grandi e piccoli in piedi davanti al trono». E quindi «i libri furono aperti», scrive ancora san Giovanni, perché «il giudizio incomincia: “I morti vennero giudicati secondo le loro opere in base a ciò che era scritto in quei libri”». Dunque, ha ribadito il Papa, «ognuno di noi sarà giudicato secondo le nostre opere».
E Giovanni prosegue ancora: «Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco». Si tratta di «quelli dannati». Il Papa ha voluto soffermarsi proprio su questa frase dell’Apocalisse: «Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco». In realtà, ha spiegato, «la dannazione eterna non è una sala di tortura, questa è una descrizione di questa seconda morte: è una morte». E «quelli che non saranno ricevuti nel regno di Dio — ha spiegato — è perché non si sono avvicinati al Signore: sono quelli che sono sempre andati per la loro strada, allontanandosi dal Signore e passano davanti al Signore e si allontanano da soli». Perciò «la dannazione eterna è questo allontanarsi continuamente da Dio, è il dolore più grande: un cuore insoddisfatto, un cuore che è stato fatto per trovare Dio ma per la superbia, per essere stato troppo sicuro di se stesso, si è allontanato da Dio».
Invece Gesù ha cercato di attrarre i superbi «con parole di mitezza» dicendo: «Vieni». E lo dice per perdonare. «Ma i superbi — ha proseguito Francesco — si allontanano, vanno per la loro strada e questa è la dannazione eterna: lontani per sempre dal Dio che dà la felicità, dal Dio che ci vuole tanto bene». In realtà «non sappiamo» se «sono tanti», ma «sappiamo soltanto che questa è la strada della dannazione eterna». L’allontanamento, dunque, è «il fuoco di non potersi avvicinare a Dio perché non voglio». È l’atteggiamento di coloro «che ogni volta che il Signore si avvicinava loro dicevano: “va’ via, me la cavo da solo”. E continuano a cavarsela da soli nell’eternità: questo è tragico».
Il passo dell’Apocalisse si conclude così: «E vidi il cielo, un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova». In queste parole, ha annotato il Papa, «c’è proprio la fine, la gioia finale, dove tutti saremo salvati se apriamo il nostro cuore alla salvezza di Gesù». Il Signore, infatti, «ci chiede soltanto questo: aprire il cuore».
Magari qualcuno potrebbe confidarsi e riconoscere: «Se lei, padre, sapesse le cose che ho fatto…». Ma «Gesù le sa», ha assicurato Francesco. Perciò, ha suggerito, «apri il cuore e lui perdona»; però «non andare per conto tuo, non andartene per la tua strada, lasciati carezzare da Gesù, lasciati perdonare». Basta «soltanto una parola, “Signore”, lui fa il resto, lui fa tutto». Invece «i superbi, gli orgogliosi, vanno per la loro strada e non riescono a dire parola, e l’unica parola che dicono è: “me la cavo da solo”». E «così finiscono nell’orgoglio e fanno tanto male nella vita». Ma per loro, ha insistito il Papa, tutto è iniziato proprio ascoltando e seguendo «le seduzioni del serpente antico, del diavolo, del bugiardo, del padre della menzogna».
In conclusione Francesco, anticipando la liturgia di sabato, ha annunciato: «Domani, ultimo giorno dell’anno liturgico, Gesù ci ammonirà» — come riporta Luca nel suo Vangelo (21, 34-26) — con queste parole: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita». In pratica Gesù ci dice: «Contemplate quello che vi aspetta, che il vostro cuore non si appesantisca con gli affanni e le preoccupazioni della vita; guardate avanti e abbiate speranza»: quella «speranza che apre i cuori all’incontro con Gesù». Proprio «questo ci aspetta, l’incontro con Gesù: è bello, è molto bello!». E «lui ci chiede soltanto di essere umili e di dire: “Signore”. Basterà quella parola e lui farà il resto».

 

PAPA FRANCESCO – IMPORTANZA DEL CONGEDO (Paolo, Atti 20, 17-27)

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PAPA FRANCESCO – IMPORTANZA DEL CONGEDO (Paolo, Atti 20, 17-27)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Martedì, 19 maggio 2015

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.112, 20/05/2015)

Papa Francesco ha ricordato le sofferenze dei rohingya del Myanmar, abbandonati in mezzo al mare e respinti, e dei profughi cristiani e yazidi «cacciati dalle loro case» in Iraq: tragedie che stanno avvenendo oggi sotto gli occhi di tutti. Celebrando la messa martedì 19 maggio, nella cappella della Casa Santa Marta, il Pontefice ha proposto una riflessione sul senso ultimo che ha ogni congedo, grande o piccolo, con la parola «addio» che esprime sempre un atto di affidamento al Padre. E non ha mancato di raccontare il dolore e l’apprensione di tutte le mamme che vedono partire il loro figlio per il fronte della guerra.
Del resto, ha fatto subito notare il Papa, «l’atmosfera in questi ultimi giorni del tempo pasquale è un’atmosfera di congedo». E «la Chiesa nella liturgia prende il discorso di Gesù nell’ultima cena, dove si congedava prima della Passione, e lo fa rileggere: Gesù si congeda per andare dal Padre e mandarci lo Spirito Santo» (Giovanni, 17, 1-11).
Oggi, ha affermato ancora Francesco, «questa atmosfera di congedo si concentra anche nella prima lettura, una di quelle belle pagine degli Atti degli apostoli: il congedo di Paolo» (20, 17-27). Lui «era a Milèto» e «mandò a chiamare ad Efeso gli anziani della Chiesa» per «una riunione di piccole chiese, grandi come parrocchie». E così «incomincia quel discorso che finirà nella liturgia di domani, dove Paolo ricorda il suo lavoro, cosa ha fatto: “Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile al fine di predicare a voi e di istruirvi”». Quindi «ricorda loro come ha lavorato, ma non si vanta». È, appunto, un ricordo: «Questa è stata la mia vita fra voi». Poi aggiunge: «Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme».
Paolo «se ne va», ha spiegato il Papa, con «un congedo anche un po’ drammatico». Difatti precisa di non sapere «ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo in nessun modo preziosa la vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore». E «cioè dare testimonianza al Vangelo della grazia di Dio».
Paolo, poi, «fa un discorso un po’ più lungo, fraterno, e quando finisce incomincia a piangere». E dice: «E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto, ma io so anche che non vedrò più il vostro». Poi «piangendo tutti vanno sulla spiaggia, si inginocchiano, pregano piangendo, e congedano Paolo» accompagnandolo «fino alla nave».
Insomma, ha riepilogato il Papa riferendosi alle due letture, «Gesù si congeda, Paolo si congeda e questo ci aiuterà a riflettere sui nostri congedi». Infatti «nella nostra vita ci sono tanti congedi: ci sono i piccoli congedi — si sa che torno, oggi o domani — e ci sono i grandi congedi e non si sa come finirà questo viaggio».
Francesco ha riconosciuto che fa «bene pensare a questo», perché «la vita è piena di congedi» e «c’è anche tanta sofferenza, tante lacrime» in alcune situazioni. E ha invitato a pensare «a quei poveri rohingya del Myanmar. Al momento di lasciare la loro terra per fuggire dalle persecuzioni non sapevano cosa sarebbe accaduto loro. Da mesi sono in barca, lì… Arrivano in una città dove, dopo aver dato loro acqua e cibo, gli dicono: “Andatevene via”: è un congedo».
E poi ha ricordato «il congedo dei cristiani e degli yazidi che prevedono di non tornare più nella loro terra perché cacciati via dalle loro case. Oggi!».
Il Pontefice ha quindi fatto presente che «ci sono anche piccoli, ma grandi congedi nella vita: penso al congedo della mamma che saluta, dà l’ultimo abbraccio al figlio che va in guerra, e tutti i giorni si alza col timore che venga un officiale a annunciarle: “Ringraziamo tanto la generosità di suo figlio che ha dato la vita per la patria”». Perché «non si sa come finiranno questi grandi congedi». E poi «c’è anche l’ultimo congedo, che tutti noi dobbiamo fare, quando il Signore ci chiama all’altra riva: io penso a questo».
«Questi grandi congedi della vita, anche l’ultimo, non sono i congedi» che si risolvono dicendo «a presto, a dopo, arrivederci». Congedi, insomma, «nei quali uno sa che torna o subito o dopo una settimana». Nei grandi congedi, invece, «non si sa né quando né come» avverrà il ritorno. E proprio «quell’ultimo congedo lo raffigura anche l’arte, nelle canzoni per esempio». E in proposito Francesco ha ricordato il tradizionale canto degli alpini Il testamento del capitano, che racconta «quando quel capitano si congeda dai suoi soldati». Così ha proposto questo interrogativo: «Penso al grande congedo, al mio grande congedo» e cioè «non quando devo dire “a dopo”, “a più tardi”, “arrivederci”, ma “addio”?».
I due testi della liturgia di oggi «dicono la parola “addio”: Paolo affida a Dio i suoi e Gesù affida al Padre i suoi discepoli, che rimangono nel mondo». Ma proprio «affidare al Padre, affidare a Dio è l’origine della parola “addio”». Infatti «noi diciamo “addio” soltanto nei grandi congedi, siano quelli della vita, sia l’ultimo».
Davanti all’icona «di Paolo che piange in ginocchio sulla spiaggia» e all’icona di «Gesù triste perché andava alla Passione, con i suoi discepoli, piangendo nel suo cuore» il Pontefice ha invitato a «riflettere su noi stessi: ci farà bene». E a domandarci «chi sarà la persona che chiuderà i miei occhi? Cosa lascio?». Il Papa ha fatto notare, infatti, che «Paolo e Gesù, tutti e due, in questi brani fanno una sorta di esame di coscienza: “Io ho fatto questo, questo, questo”». E così è bene chiedere a se stessi, in una sorta di esame di coscienza: «Io cosa ho fatto?». Con la consapevolezza che «mi fa bene immaginarmi in quel momento, quando sarà non si sa, nel quale “a dopo”, “a presto”, “a domani”, “arrivederci” diventerà “addio”». E, dunque ha domandato ancora invitando a riflettere, «io sono preparato per affidare a Dio tutti i miei? Per affidare me stesso a Dio? Per dire quella parola che è la parola dell’affidamento del figlio al Padre?».
Francesco ha anche suggerito un consiglio «se avete un po’ di tempo oggi e, se non l’avete, cercatelo!»: leggere il capitolo 16 del vangelo di Giovanni o il capitolo 19 degli Atti degli apostoli. E cioè «il congedo di Gesù e il congedo di Paolo». Proprio alla luce di questi testi, è importante «pensare che un giorno anche io dovrò dire quella parola: “addio”». Sì, ha aggiunto, «a Dio affido la mia anima; a Dio affido la mia storia; a Dio affido i miei; a Dio affido tutto».
«Adesso — ha concluso il Papa — facciamo il memoriale dell’addio di Gesù, della morte di Gesù». E ha auspicato «che Gesù, morto e risorto, ci invii lo Spirito Santo perché noi impariamo quella parola, impariamo a dirla esistenzialmente, con tutta la forza: l’ultima parola, “addio”».

 

PAPA FRANCESCO – QUELLI CHE SCANDALIZZANO

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(ho avuto una forte influenza spero di poter lavorare ora)

PAPA FRANCESCO – QUELLI CHE SCANDALIZZANO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Lunedì, 13 novembre 2017

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.261, 14/11/2017)

Dalle piccole e grandi «incoerenze di tutti i giorni» — quelle che si vedono anche nelle chiese o sono commesse da cristiani che nel mondo del lavoro danno «scandalo» — Papa Francesco ha messo in guardia nella messa celebrata lunedì 13 novembre a Santa Marta.
«Gesù incomincia questo passo del Vangelo — ha subito fatto presente riferendosi al brano liturgico del vangelo di Luca (17, 1-6) — con una constatazione di buon senso: “È inevitabile che vengano scandali”». E in effetti «è inevitabile», ha rilanciato Francesco: di scandali «ce ne sono, ce ne saranno». Però Gesù fa «un avvertimento che è constatazione e avvertimento» allo stesso tempo: «Ma guai a colui a causa del quale vengono» gli scandali.
Dunque il Signore lancia «un avvertimento forte» e va anche «oltre», aggiungendo: «È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli».
Ma non finisce qui, ha annotato il Pontefice. Il Signore infatti «rivolgendosi ai suoi dice: “State attenti a voi stessi!”; cioè state attenti a non scandalizzare». Infatti, ha spiegato il Papa, «lo scandalo è brutto perché ferisce la vulnerabilità del popolo di Dio, ferisce la debolezza del popolo di Dio, e tante volte queste ferite si portano per tutta la vita». Di più: lo scandalo, ha spiegato il Papa, «non solo ferisce» ma «è capace di uccidere: uccidere speranze, uccidere illusioni, uccidere famiglie, uccidere tanti cuori».
Lo scandalo è «un tema sul quale Gesù tornava» spesso, ha precisato il Pontefice. Ad esempio «dopo una predica aveva detto: “Beati coloro che non si scandalizzano di me”». Perché «lui aveva cura di non scandalizzare». E, ancora, «quando era il tempo di pagare le tasse, per non “scandalizzare” dice a Pietro: “Vai al mare, pesca un pesce, prendi la moneta che ha in bocca e paga per te e per me”». Sempre «per non scandalizzare», Gesù avverte anche: «Se la tua mano è motivo di scandalo, tagliala». E poi, di nuovo, «a Pietro, quando davanti alla croce, al progetto della croce, cerca di convincerlo di prendere un’altra via, non fa tante sfumature: “Allontanati da me, tu sei di inciampo per me, tu sei motivo di scandalo”».
«Gesù in questo è molto preciso» ha spiegato Francesco. E «a noi, a tutti» dà «questo avvertimento: “State attenti a voi stessi!”». Perché «c’è lo scandalo del popolo di Dio, dei cristiani, quando un cristiano, dicendosi cristiano, vive come pagano». Del resto, ha affermato il Papa, «quante volte nelle nostre parrocchie abbiamo sentito gente che dice: “No, io in Chiesa non vado perché quello o quella che sta tutto il giorno leccando le candele lì dentro, poi esce, sparla degli altri, semina la zizzania…”».
E «quanti cristiani — ha constatato il Pontefice — allontanano la gente con il loro esempio, con la loro incoerenza: l’incoerenza dei cristiani è una delle armi più facili che ha il diavolo per indebolire il popolo di Dio e per allontanare il popolo di Dio dal Signore». È lo stile di «dire una cosa e farne un’altra», insomma. Proprio «quello che Gesù diceva al popolo sui dottori della legge: “Fate quello che loro dicono, ma non fate quello che fanno”». Ecco «l’incoerenza».
A questo proposito il Papa non ha mancato di suggerire di «domandarsi oggi, ognuno di noi: come è la mia coerenza di vita?». Nella mia vita c’è «coerenza col Vangelo, coerenza col Signore?». Domandarsi, dunque, «se per la mia incoerenza sono motivo di scandalo per gli altri».
E incoerente, ha spiegato il Pontefice, è anche il cristiano che dice: «Io vado tutte le domeniche a messa, sono dell’azione cattolica o di questa associazione o dell’altra, ma pago in nero i miei dipendenti o faccio loro un contratto da settembre a giugno” — “E luglio e agosto?” — “Arrangiati caro!”». Proprio queste sono le «incoerenze di tutti i giorni». Ma sono motivo di scandalo anche «i cristiani imprenditori che non pagano il giusto» e approfittano «della gente per arricchirsi».
Certo, ha proseguito Francesco, «poi possiamo domandarci sullo scandalo dei pastori, perché nella Chiesa ci siamo anche noi pastori». Il profeta Geremia «parlava di questo “guai a voi!”», riferendosi proprio ai «pastori che sfruttano la gente, sfruttano le pecore, per arricchirsi cercano il latte o la lana, così dice Geremia, per vestirsi e per la vanità, ma non curano la pecora».
Poi c’è anche «lo scandalo del pastore che incomincia, per esempio, ad allontanarsi dalla gente: il pastore lontano». Invece «Gesù ci insegna che il pastore deve essere vicino e quando il pastore si allontana scandalizza: è un “signore”». Infatti «Gesù ci dice che non si possono servire due signori, Dio e i soldi: quando il pastore è uno attaccato ai soldi, scandalizza». E «la gente si scandalizza» vedendo «il pastore attaccato ai soldi», ha rilanciato il Pontefice. Per questa ragione «ogni pastore deve chiedersi: come è la mia amicizia con i soldi?».
C’è, inoltre, lo scandalo del «pastore che cerca di andare su: la vanità lo porta ad arrampicarsi, invece di essere mite, umile, perché la mitezza e l’umiltà favoriscono la vicinanza al popolo». O anche lo scandalo del «pastore che si sente “signore” e comanda tutti, orgoglioso, e non il pastore servitore del popolo di Dio».
Si potrebbe continuare su queste cose, ha affermato Francesco. Lo ricorda «Geremia, e anche sant’Agostino prende questo» pensiero «di Geremia e fa un lungo discorso sui pastori». E così si potrebbe andare ancora avanti, ha detto il Papa, «ma questo, credo, per oggi sarà sufficiente per domandarci, ognuno di noi: scandalizzo come cristiano, come cristiana, come pastore? Scandalizzo? Ferisco la vulnerabilità del mio popolo? Invece di attrarre il popolo, di farlo uno, di farlo felice, di dare la pace, la consolazione, lo caccio via perché io mi sento un pastore “signore” o mi sento un cristiano più importante di te?».
Non bisogna dimenticare l’avvertimento di Gesù ai discepoli: «State attenti a voi stessi!». Ecco che, ha concluso Francesco, «oggi può essere una bella giornata per fare un esame di coscienza su questo: scandalizzo o no e come?». E «così possiamo rispondere al Signore e avvicinarci un po’ di più a lui».

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO: OMELIE QUOTIDIANE |on 20 novembre, 2017 |Pas de commentaires »
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