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La vicenda del convertito ci interroga

Da Avvenire on line: 

Il senso di un viaggio 

La vicenda del convertito ci interroga 

Gian Maria Vian  

La chiave della tappa a Pavia di Benedetto XVI, che domenica ha venerato le reliquie di sant’Agostino, è il « pellegrinaggio »: quello di un vescovo che ha pregato davanti alla tomba di un suo predecessore nella fede e nella ricerca di Dio, mostrando così a ogni donna e a ogni uomo di oggi quanto questa fede e questa ricerca siano indispensabili. Una chiave che è autobiografica, certo, ma non solo, come ha indicato lo stesso Papa: giunto a Pavia «per esprimere sia l’omaggio di tutta
la Chiesa cattolica ad uno dei suoi « padri » più grandi, sia la mia personale devozione e riconoscenza verso colui che tanta parte ha avuto nella mia vita di teologo e di pastore, ma direi prima ancora di uomo e di sacerdote».
Non è stato infatti solo l’adempimento di un desiderio dell’anima il viaggio di Benedetto, questo vescovo di Roma che con le sue parole semplici sa toccare il cuore di chi lo ascolta. E che domenica ha voluto indicare come sant’Agostino resti un modello per l’umanità di oggi. Modello significa esempio che colpisce e affascina, come il grande intellettuale e vescovo africano è stato ed è per Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI. E come può essere per chiunque si accosti alla vicenda dell’autore di quella straordinaria autobiografia interiore che sono le Confessioni: vicenda di un convertito, anzi di «uno dei più grandi convertiti della storia della Chiesa», ha sottolineato il Papa che non ha avuto paura di usare una parola per il nostro tempo quasi scandalosa.
Ma perché questo convertito di sedici secoli fa può affascinare ancora oggi, quando sembra che più nulla sia vero? Perché la conversione di sant’Agostino «non fu un evento di un unico momento», ha spiegato Benedetto XVI, ma «un cammino»: ricerca inesausta del volto di Dio che continuò sino a quando il vescovo di Ippona morente fece attaccare alla parete i salmi penitenziali per poterli leggere dal letto nell’ultima preghiera. Ma sin da giovane Agostino aveva cercato, ha detto il Papa: «Non si accontent ò mai della vita così come essa si presentava e come tutti la vivevano. Era sempre tormentato dalla questione della verità. Voleva trovare la verità. Voleva riuscire a sapere che cosa è l’uomo; da dove proviene il mondo; di dove veniamo noi stessi, dove andiamo e come possiamo trovare la vita vera. Voleva trovare la retta vita e non semplicemente vivere ciecamente senza senso e senza meta. La passione per la verità è la vera parola-chiave della sua vita».
E la ricerca della verità non è, secondo Ratzinger, né una prerogativa né un lusso da intellettuali: «Non devo dire quanto tutto ciò riguardi noi: rimanere persone che cercano, non accontentarsi di ciò che tutti dicono e fanno. Non distogliere lo sguardo dal Dio eterno e da Gesù Cristo. Imparare sempre di nuovo l’umiltà della fede nella Chiesa corporea di Gesù Cristo». Come seppe fare Agostino, chiamato a tradurre il vangelo «nel linguaggio della vita quotidiana»: riconoscendo di continuo la necessità della «bontà misericordiosa di un Dio che perdona», nella consapevolezza che «ci rendiamo simili a Cristo, il Perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia».
Di questo è convinto Benedetto XVI: «Solo chi vive nell’esperienza personale dell’amore del Signore è in grado di esercitare il compito di guidare e accompagnare altri nel cammino della sequela di Cristo. Alla scuola di sant’Agostino ripeto questa verità per voi come Vescovo di Roma, mentre, con gioia sempre nuova, la accolgo con voi come cristiano». Perché Agostino, come scrisse il suo amico Possidio, è vivo e parla ancora: al Papa come a chiunque di noi.

 

 

Omelia del Pontefice nella celebrazione eucaristica agli Orti dell’Almo Collegio Borromeo

dal sito:

http://www.zenit.org/italian/

Data pubblicazione: 2007-04-22  Omelia del Pontefice nella celebrazione eucaristica agli Orti dell’Almo Collegio Borromeo 

PAVIA, domenica, 22 aprile 2007 (ZENIT.org).- Riportiamo l’omelia pronunciata dal Vescovo di Roma questa domenica presiedendo la celebrazione della Santa Messa, svoltasi agli Orti dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, con i Vescovi della Lombardia, i sacerdoti della Diocesi e una rappresentanza dei Padri Agostiniani.


* * *

Cari fratelli e sorelle! Ieri pomeriggio ho incontrato la Comunità diocesana di Vigevano ed il cuore di questa mia visita pastorale è stata

la Concelebrazione eucaristica in Piazza Ducale; quest’oggi ho la gioia di visitare la vostra Diocesi e momento culminante di questo nostro incontro è anche qui

la Santa Messa. Con affetto saluto i Confratelli che concelebrano con me: il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, il Pastore della vostra diocesi, il Vescovo Giovanni Giudici, quello emerito, il Vescovo Giovanni Volta, e gli altri Presuli della Lombardia. Sono grato per la loro presenza ai Rappresentanti del Governo e delle Amministrazioni locali. Rivolgo il mio saluto cordiale ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai responsabili delle associazioni laicali, ai giovani, ai malati e a tutti i fedeli, ed estendo il mio pensiero all’intera popolazione di questa antica e nobile città e della Diocesi.

Nel tempo pasquale la Chiesa ci presenta, domenica per domenica, qualche brano della predicazione con cui gli Apostoli, in particolare Pietro, dopo

la Pasqua invitavano Israele alla fede in Gesù Cristo, il Risorto, fondando così

la Chiesa. Nell’odierna lettura gli Apostoli stanno davanti al Sinedrio – davanti a quell’istituzione che, avendo dichiarato Gesù reo di morte, non poteva tollerare che questo Gesù, mediante la predicazione degli Apostoli, ora cominciasse ad operare nuovamente; non poteva tollerare che la sua forza risanatrice si facesse di nuovo presente e intorno a questo nome si raccogliessero persone che credevano in Lui come nel Redentore promesso. Gli Apostoli vengono accusati. Il rimprovero è: « Volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo ». A questa accusa Pietro risponde con una breve catechesi sull’essenza della fede cristiana: « No, non vogliamo far ricadere il suo sangue su di voi. L’effetto della morte e risurrezione di Gesù è totalmente diverso. Dio lo ha fatto «capo e salvatore» per tutti, proprio anche per voi, per il suo popolo d’Israele ». E dove conduce questo « capo », che cosa porta questo « salvatore »? Egli conduce alla conversione – crea lo spazio e la possibilità di ravvedersi, di pentirsi, di ricominciare. Ed Egli dona il perdono dei peccati – ci introduce nel giusto rapporto con Dio.

Questa breve catechesi di Pietro non valeva solo per il Sinedrio. Essa parla a tutti noi. Poiché Gesù, il Risorto, vive anche oggi. E per tutte le generazioni, per tutti gli uomini Egli è il « capo » che precede sulla via e il « salvatore » che rende la nostra vita giusta. Le due parole « conversione » e « perdono dei peccati », corrispondenti ai due titoli di Cristo « capo » e « salvatore », sono le parole-chiave della catechesi di Pietro, parole che in quest’ora vogliono raggiungere anche il nostro cuore. Il cammino che dobbiamo fare – il cammino che Gesù ci indica, si chiama « conversione ». Ma che cosa è? Che cosa bisogna fare? In ogni vita la conversione ha la sua forma propria, perché ogni uomo è qualcosa di nuovo e nessuno è soltanto la copia di un altro. Ma nel corso della storia della cristianità il Signore ci ha mandato modelli di conversione, guardando ai quali possiamo trovare orientamento. Potremmo per questo guardare a Pietro stesso, a cui il Signore nel cenacolo aveva detto: « Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » (Lc 22,32). Potremmo guardare a Paolo come a un grande convertito. La città di Pavia parla di uno dei più grandi convertiti della storia della Chiesa: sant’Aurelio Agostino. Egli morì il 28 agosto del 430 nella città portuale di Ippona, allora circondata ed assediata dai Vandali. Dopo parecchia confusione di una storia agitata, il re dei Longobardi acquistò le sue spoglie per la città di Pavia, cosicché ora egli appartiene in modo particolare a questa città ed in essa e da essa parla a tutti noi in maniera speciale.

Nel suo libro « Le Confessioni« , Agostino ha illustrato in modo toccante il cammino della sua conversione, che col Battesimo amministratogli dal Vescovo Ambrogio nel duomo di Milano aveva raggiunto la sua meta. Chi legge Le Confessioni può condividere il cammino che Agostino in una lunga lotta interiore dovette percorrere per ricevere finalmente, nella notte di Pasqua del 387, al fonte battesimale il Sacramento che segnò la grande svolta della sua vita. Seguendo attentamente il corso della vita di sant’Agostino, si può vedere che la conversione non fu un evento di un unico momento, ma appunto un cammino. E si può vedere che al fonte battesimale questo cammino non era ancora terminato. Come prima del Battesimo, così anche dopo di esso la vita di Agostino è rimasta, pur in modo diverso, un cammino di conversione – fin nella sua ultima malattia, quando fece applicare alla parete i Salmi penitenziali per averli sempre davanti agli occhi; quando si autoescluse dal ricevere l’Eucaristia per ripercorrere ancora una volta la via della penitenza e ricevere la salvezza dalle mani di Cristo come dono delle misericordie di Dio. Così possiamo parlare delle « conversioni » di Agostino che, di fatto, sono state un’unica grande conversione nella ricerca del Volto di Cristo e poi nel camminare insieme con Lui.

Vorrei parlare di tre grandi tappe in questo cammino di conversione, di tre « conversioni ». La prima conversione fondamentale fu il cammino interiore verso il cristianesimo, verso il « sì » della fede e del Battesimo. Quale fu l’aspetto essenziale di questo cammino? Agostino, da una parte, era figlio del suo tempo, condizionato profondamente dalle abitudini e dalle passioni in esso dominanti, come anche da tutte le domande e i problemi di un giovane. Viveva come tutti gli altri, e tuttavia c’era in lui qualcosa di particolare: egli rimase sempre una persona in ricerca. Non si accontentò mai della vita così come essa si presentava e come tutti la vivevano. Era sempre tormentato dalla questione della verità. Voleva trovare la verità. Voleva riuscire a sapere che cosa è l’uomo; da dove proviene il mondo; di dove veniamo noi stessi, dove andiamo e come possiamo trovare la vita vera. Voleva trovare la retta vita e non semplicemente vivere ciecamente senza senso e senza meta. La passione per la verità è la vera parola-chiave della sua vita. E c’è ancora una peculiarità. Tutto ciò che non portava il nome di Cristo, non gli bastava. L’amore per questo nome – ci dice – lo aveva bevuto col latte materno (cfr Conf 3,4,8). E sempre aveva creduto – a volte piuttosto vagamente, a volte più chiaramente – che Dio esiste e che Egli si prende cura di noi. Ma conoscere veramente questo Dio e familiarizzare davvero con quel Gesù Cristo e arrivare a dire « sì » a Lui con tutte le conseguenze –questa era la grande lotta interiore dei suoi anni giovanili. Egli ci racconta che, per il tramite della filosofia platonica, aveva appreso e riconosciuto che « in principio era il Verbo » – il Logos, la ragione creatrice. Ma la filosofia non gli indicava alcuna via per raggiungerlo; questo Logos rimaneva lontano e intangibile. Solo nella fede della Chiesa trovò poi la seconda verità essenziale: il Verbo si è fatto carne. E così esso ci tocca, noi lo tocchiamo. All’umiltà dell’incarnazione di Dio deve corrispondere l’umiltà della nostra fede, che depone la superbia saccente e si china entrando a far parte della comunità del corpo di Cristo; che vive con la Chiesa e solo così entra nella comunione concreta, anzi corporea, con il Dio vivente. Non devo dire quanto tutto ciò riguardi noi: rimanere persone che cercano, non accontentarsi di ciò che tutti dicono e fanno. Non distogliere lo sguardo dal Dio eterno e da Gesù Cristo. Imparare sempre di nuovo l’umiltà della fede nella Chiesa corporea di Gesù Cristo.

La seconda conversione Agostino ce la descrive alla fine del secondo libro delle sue Confessioni con le parole: « Oppresso dai miei peccati e dal peso della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu, però, me lo impedisti, confortandomi con queste parole: «Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti» » (2 Cor 5,15; Conf 10,43,70). Che cosa era successo? Dopo il suo Battesimo, Agostino si era deciso a ritornare in Africa e lì aveva fondato, insieme con i suoi amici, un piccolo monastero. Ora la sua vita doveva essere dedita totalmente al colloquio con Dio e alla riflessione e contemplazione della bellezza e della verità della sua Parola. Così egli passò tre anni felici, nei quali si credeva arrivato alla meta della sua vita; in quel periodo nacque una serie di preziose opere filosofiche. Nel 391 egli andò a trovare nella città portuale di Ippona un amico, che voleva conquistare alla vita monastica. Ma nella liturgia domenicale, alla quale partecipò nella cattedrale, venne riconosciuto. Il Vescovo della città, un uomo di provenienza greca, che non parlava bene il latino e faceva fatica a predicare, nella sua omelia non a caso disse di aver l’intenzione di scegliere un sacerdote al quale affidare anche il compito della predicazione. Immediatamente la gente afferrò Agostino e lo portò di forza avanti, perché venisse consacrato sacerdote a servizio della città. Subito dopo questa sua consacrazione forzata, Agostino scrisse al Vescovo Valerio: « Mi sentivo come uno che non sa tenere il remo e a cui, tuttavia, è stato assegnato il secondo posto al timone… E di qui derivavano quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare in città al tempo della mia ordinazione » (cfr Ep 21,1s). Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di Agostino ne risultava fondamentalmente cambiata. Ora egli doveva vivere con Cristo per tutti. Doveva tradurre le sue conoscenze e i suoi pensieri sublimi nel pensiero e nel linguaggio della gente semplice della sua città. La grande opera filosofica di tutta una vita, che aveva sognato, restò non scritta. Al suo posto ci venne donata una cosa più preziosa: il Vangelo tradotto nel linguaggio della vita quotidiana. Ciò che ora costituiva la sua quotidianità, lo ha descritto così: « Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori… stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e amare tutti » (cfr Serm 340, 3). « Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica » (Serm 339, 4). Fu questa la seconda conversione che quest’uomo, lottando e soffrendo, dovette continuamente realizzare: sempre di nuovo essere lì per tutti; sempre di nuovo, insieme con Cristo, donare la propria vita, affinché gli altri potessero trovare Lui, la vera Vita.

C’è ancora una terza tappa decisiva nel cammino di conversione di sant’Agostino. Dopo la sua Ordinazione sacerdotale, egli aveva chiesto un periodo di vacanza per poter studiare più a fondo le Sacre Scritture. Il suo primo ciclo di omelie, dopo questa pausa di riflessione, riguardò il Discorso della montagna; vi spiegava la via della retta vita, « della vita perfetta » indicata in modo nuovo da Cristo – la presentava come un pellegrinaggio sul monte santo della Parola di Dio. In queste omelie si può percepire ancora tutto l’entusiasmo della fede appena trovata e vissuta: la ferma convinzione che il battezzato, vivendo totalmente secondo il messaggio di Cristo, può essere, appunto, « perfetto ». Circa vent’anni dopo, Agostino scrisse un libro intitolato Le Ritrattazioni, in cui passa in rassegna in modo critico le sue opere redatte fino a quel momento, apportando correzioni laddove, nel frattempo, aveva appreso cose nuove. Riguardo all’ideale della perfezione nelle sue omelie sul Discorso della montagna annota: « Nel frattempo ho compreso che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (cfr Retract. I 19,1-3). Agostino aveva appreso un ultimo grado di umiltà – non soltanto l’umiltà di inserire il suo grande pensiero nella fede della Chiesa, non solo l’umiltà di tradurre le sue grandi conoscenze nella semplicità dell’annuncio, ma anche l’umiltà di riconoscere che a lui stesso e all’intera Chiesa peregrinante era continuamente necessaria la bontà misericordiosa di un Dio che perdona; e noi – aggiungeva – ci rendiamo simili a Cristo, il Perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia.

In quest’ora ringraziamo Dio per la grande luce che si irradia dalla sapienza e dall’umiltà di sant’Agostino e preghiamo il Signore affinché doni a tutti noi, giorno per giorno, la conversione necessaria e così ci conduca verso la vera vita. Amen 

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 22 avril, 2007 |Pas de commentaires »

ASIA – VATICANO – Dalla Cina e da tutta l’Asia auguri di buon compleanno al Papa

posto questo articolo di « AsiaNews », la realtà, è che oggi non riesco a fare di meglio – ossia l’articolo è interessante, tuttavia io mi sento un po’ agitata, in senso buono spero, perché mi emoziona il compleanno di questo Papa, mi rattristano le cose cative che. troppo, ancora si scrivono di lui, o che qualche quotidiano pubblica due righe su un evento che per molti, anzi moltissimi, è importante, è una soperta nuova, è la gioia di avere un « Maestro » sulla terra, un « Pietro », il Vicario di Cristo, uno che ci sa insegnare la « Verità », ossia « Cristo, e e ce la insegna con gioia;

io in genere non sono invidiosa (ho altri difetti), è una cosa che mi è stata spiegata, ma il tacere di tanti giornali, sul compleanno del Papa, mi fa pensare ad una sorta di invidia per il bene, per la gioia, per la speranza, non so;

questo un riguardare a questa persona che molti non conoscevano, che non hanno compreso all’inizio, e che oggi cominciano ad amare in molti, a comprendere la sua bontà, la sua semplicità, la sua saggezza, sì, è un evento che va al di la di un compleanno, avevo voglia di scrivere queste cose, io ho già comperato il libro, oggi pomeriggio, quindi lo devo ancora cominciare a leggere, ma chi? chi? ci da speranza oggi se non il Signore?

da « Asia News »: 

16/04/2007 12:23


ASIA – VATICANO
Dalla Cina e da tutta l’Asia auguri di buon compleanno al Papa
Da Cina, India, Sri Lanka, AsiaNews ha raccolto i messaggi di auguri di vescovi, laici, suore di Madre Teresa e di cattolici cinesi che in clima di persecuzione ribadiscono la loro fedeltà al Pontefice, “in attesa della sua lettera alla Chiesa di Cina”.
 Roma (AsiaNews) – Dalla Cina all’India allo Sri Lanka, in molti in Asia, tra personalità ecclesiastiche e laici, hanno scelto AsiaNews per inviare i propri auguri al Papa. Un cattolico 25enne dell’Hebei, appartenente alla Chiesa sotterranea cinese, ha fatto giungere un messaggio entusiasta. Citando frasi di antichi poeti e immagini della cultura cinese, il giovane – che chiama il pontefice “anziano”, come segno di onore nel mondo confuciano – augura al papa la longevità “delle cicogne”. Nel messaggio egli ricorda i numerosi sacerdoti e laici che hanno “versato il loro sangue” per essere fedeli al papa e alla Santa Sede e dice che tutti i cattolici in Cina attendono in preghiera la lettera che Benedetto XVI ha promesso di scrivere alla Chiesa cinese. Riportiamo qui sotto il messaggio (traduzione dal cinese di AsiaNews):

Il 16 aprile è il compleanno del nostro Santo Padre Benedetto XVI. C’è un frase [del poeta Du Fu, del periodo Tang] che dice con malinconia: “nell’antichità arrivare fino all’età di 70 anni è molto raro”, ma 80 anni, significano 80 anni di tempeste e di prove, 80 anni di vicissitudini della vita. I segni del tempo sono cresciuti sul capo del Santo Padre e in modo impercettibile, hanno imbiancato i capelli dell’anziano papa. Il cuore dei cattolici cinesi è tutto rivolto verso il nostro anziano Papa: così anche il mio cuore.

Ora, tutti noi cattolici stiamo aspettando con ansia la lettera pastorale del Santo Padre. Da tempo ho lanciato un appello: facciamo più sacrifici; intensifichiamo la lettura della Bibbia; recitiamo il Rosario per accogliere la lettera del Papa. Invochiamo lo Spirito del Signore perché protegga il nostro Padre e lo renda efficace segno di unità della fede, per consolidare la fede dei cattolici cinesi.

Negli ultimi 50 anni, numerosi sacerdoti e laici hanno versato il loro sangue per essere fedeli al Santo Padre, conservando la tradizione viva del cattolicesimo in Cina. Io e i miei coetanei siamo la nuova generazione della Chiesa in Cina: anche noi vogliamo rafforzare l’unità col papa, vogliamo essere in comunione con la Chiesa universale; nessuna forza esterna potrà impedircelo.

“Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino (Sal 119, 105)”. Santo Padre, la tua parola è incisa sul nostro cuore e non potremo mai dimenticarla. Quando ero adolescente, ho recitato molte volte a memoria l’“Inno al Grande Papa”. Ancora oggi lo canto spesso: Grandissimo Santo Padre noi ti amiamo; carissimo Santo Padre ti appoggiamo e sosteniamo. Tu sei il rappresentante di Cristo, tu sei il sole della verità che educa il popolo di Dio e ci conduce verso il Regno di Dio!

Santo, anziano Papa, lascia che io ti offra le mie congratulazioni: buon compleanno! Il Signore ti benedica sempre; la grazie dello Spirito Santo sia sempre con te. Come la cicogna tu possa conservare sempre la giovinezza, non invecchiare mai, e rinnovando sempre la tua venerabile esperienza di vita, possa essere felice per sempre.

India

Una vita lunga e salute è l’augurio al Papa anche del card. Telesphore Toppo, presidente della Conferenza episcopale cattolica indiana. Ad AsiaNews il cardinale esprime il suo “grazie al Papa per la comprensione e l’amore dimostrato alla Chiesa in India”, dove oggi in tutte le diocesi si celebrerà un messa per Benedetto XVI. “Sentiamo il Papa molto vicino a noi – dichiara Toppo – egli ha messo la missione in Asia come una priorità del suo pontificato e all’interno di questa missione ha rivestito l’India di un ruolo speciale elevando il card. Ivan Dias a prefetto del dicastero vaticano per le missioni”.

Mons Thomas Dabre, vescovo di Vasai, esperto teologo impegnato per la promozione dell’armonia interreligiosa, fa gli auguri al Pontefice ricordandone il “grande coraggio” nel portare avanti il dialogo con le altre religioni e l’ecumenismo. Come teologo il presule dice ad AsiaNews di essere “impressionato” in modo positivo dal forte accento posto da Benedetto XVI sul concetto di Dio come amore.

 Suor Nirmala, superiora generale delle Missionarie della Carità, ha inviato un messaggio personale al Papa. “Noi, tue figlie, Missionarie della Carità a Calcutta e in tutto il mondo, insieme ai poveri sotto le nostre cure le auguriamo buon compleanno – si legge nel testo indirizzato a Benedetto XVI – ringraziamo Dio in modo speciale per i suoi genitori e la sua famiglia per il bellissimo regalo che hanno fatto alla Chiesa universale. Le assicuriamo le nostre preghiere e chiediamo di ricordarci nelle sue”.

Anche i laici ringraziano in questo giorno il Papa. John Dayal, presidente dell’All India Catholic Union, sottolinea l’importanza della “ferma posizione del Pontefice in materia di vita e famiglia contro gli attacchi della scienza che vuole scindere fede e ragione per procedere senza limiti con la ricerca sulle cellule staminali”. Infine Dayal auspica un viaggio del Papa in India, “il prima possibile”.

Sri Lanka

Un migliaio di cattolici ieri hanno partecipato ad una messa speciale per il secondo anniversario del Pontificato di Benedetto XVI alla Basilica nazionale di Nostra Signora di Lanka a Tewatte. A presiedere la messa, il nunzio apostolico nel Paese, mons. Mario Zenari, e l’arcivescovo di Colombo, mons. Oswald Gomis; quest’ultimo nell’omelia ha confermato “rispetto e gratitudine” della Chiesa dello Sri Lanka per il Papa, a cui ha augurato di “poter continuare la sua inestimabile missione”.

 In particolare religiosi e laici presenti ieri a Tewatte hanno mostrato apprezzamento per le parole del Papa, che nella benedizione Urbi et Orbi di Pasqua ha invitato Colombo e i ribelli tamil ad una soluzione diplomatica della sanguinosa guerra civile che affigge il nord e l’est del Paese.

Presenti alla celebrazione eucaristica anche autorità di Stato. Il ministro della Pubblica amministrazione e degli Interni, Karu Jayasuriya, a nome del presidente Rajapakse, ha detto che il governo apprezza la “buona missione” di Benedetto XVI, a cui ha poi rivolto gli auguri.

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 16 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Data pubblicazione: 2007-04-15 – Omelia di Benedetto XVI durante la Santa Messa per il suo 80° compleanno

dal sito Zenith:

http://www.zenit.org/italian/

Data pubblicazione: 2007-04-15 

Omelia di Benedetto XVI durante la Santa Messa per il suo 80° compleanno 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 15 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la Santa Messa celebrata questa domenica sul sagrato della Basilica Vaticana in occasione del suo 80° compleanno. 

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Cari fratelli e sorelle,

secondo una vecchia tradizione, l’odierna domenica prende il nome di Domenica « in Albis ». In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel Battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio.

Il Santo Padre Giovanni Paolo II volle che questa domenica fosse celebrata come la Festa della Divina Misericordia: nella parola « misericordia », egli trovava riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione. Egli visse sotto due regimi dittatoriali e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo. Ma sperimentò pure, e non meno fortemente, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore. Due anni orsono, dopo i primi Vespri di questa Festività, Giovanni Paolo II terminava la sua esistenza terrena.

Morendo egli è entrato nella luce della Divina Misericordia di cui, al di là della morte e a partire da Dio, ora ci parla in modo nuovo. Abbiate fiducia – egli ci dice – nella Divina Misericordia! Diventate giorno per giorno uomini e donne della misericordia di Dio! La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario essa deve crescere in noi ogni giorno e così portare al mondo il lieto annuncio di Dio. Proprio in questi giorni particolarmente illuminati dalla luce della divina misericordia, cade una coincidenza per me significativa: posso volgere indietro lo sguardo su 80 anni di vita. Saluto quanti sono qui convenuti per celebrare con me questa ricorrenza. Saluto innanzitutto i Signori Cardinali, con un particolare pensiero di gratitudine al Decano del Collegio cardinalizio, il Signor Cardinale Angelo Sodano, che s’è fatto autorevole interprete dei comuni sentimenti. Saluto gli Arcivescovi e Vescovi, tra i quali gli Ausiliari della Diocesi di Roma, della mia Diocesi; saluto i Prelati e gli altri membri del Clero, i Religiosi e le Religiose e tutti i fedeli presenti. Un pensiero deferente e grato rivolgo inoltre alle Personalità politiche e ai membri del Corpo Diplomatico, che hanno voluto onorarmi con la loro presenza. Saluto infine, con fraterno affetto, l’inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I, Sua Eminenza Ioannis, Metropolita di Pergamo, esprimendo apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata.

Siamo qui raccolti per riflettere sul compiersi di un non breve periodo della mia esistenza. Ovviamente, la liturgia non deve servire per parlare del proprio io, di se stesso; tuttavia, la propria vita può servire per annunciare la misericordia di Dio. « Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto », dice un Salmo (65 [66], 16). Ho sempre considerato un grande dono della Misericordia Divina che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria famiglia e della grande famiglia di Dio. Sì, ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa « famiglia »; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti. Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita. Ringrazio Dio per i compagni incontrati nel mio cammino, per i consiglieri e gli amici che Egli mi ha donato. Ringrazio in modo particolare perché, fin dal primo giorno, ho potuto entrare e crescere nella grande comunità dei credenti, nella quale è spalancato il confine tra vita e morte, tra cielo e terra; ringrazio per aver potuto apprendere tante cose attingendo alla sapienza di questa comunità, nella quale sono racchiuse non solo le esperienze umane fin dai tempi più remoti: la sapienza di questa comunità non è soltanto sapienza umana, ma in essa ci raggiunge la sapienza stessa di Dio – la Sapienza eterna.

Nella prima lettura di questa domenica ci viene raccontato che, agli albori della Chiesa nascente, la gente portava i malati nelle piazze, perché, quando Pietro passava, la sua ombra li coprisse: a quest’ombra si attribuiva una forza risanatrice. Quest’ombra, infatti, proveniva dalla luce di Cristo e perciò recava in sé qualcosa del potere della sua bontà divina. L’ombra di Pietro, mediante la comunità della Chiesa cattolica, ha coperto la mia vita fin dall’inizio, e ho appreso che essa è un’ombra buona – un’ombra risanatrice, perché, appunto, proviene in definitiva da Cristo stesso. Pietro era un uomo con tutte le debolezze di un essere umano, ma soprattutto era un uomo pieno di una fede appassionata in Cristo, pieno di amore per Lui. Per il tramite della sua fede e del suo amore la forza risanatrice di Cristo, la sua forza unificante, è giunta agli uomini pur frammista a tutta la debolezza di Pietro. Cerchiamo anche oggi l’ombra di Pietro, per stare nella luce di Cristo! Nascita e rinascita; famiglia terrena e grande famiglia di Dio – è questo il grande dono delle molteplici misericordie di Dio, il fondamento sul quale ci appoggiamo. Proseguendo nel cammino della vita mi venne incontro poi un dono nuovo ed esigente: la chiamata al ministero sacerdotale.

Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo. E quale fiducia infondevano le parole di Gesù, che poi durante la liturgia dell’Ordinazione potemmo ascoltare dalle labbra del Vescovo: « Non vi chiamo più servi, ma amici ». Ho potuto farne un’esperienza profonda: Egli, il Signore, non è soltanto Signore, ma anche amico. Egli ha posto la sua mano su di me e non mi lascerà. Queste parole venivano allora pronunciate nel contesto del conferimento della facoltà di amministrare il Sacramento della riconciliazione e così, nel nome di Cristo, di perdonare i peccati. È la stessa cosa che oggi abbiamo ascoltato nel Vangelo: il Signore alita sui suoi discepoli. Egli concede loro il suo Spirito – lo Spirito Santo: « A chi rimetterete i peccati saranno rimessi… ». Lo Spirito di Gesù Cristo è potenza di perdono. È potenza della Divina Misericordia. Dà la possibilità di iniziare da capo – sempre di nuovo. L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà.

Nel brano evangelico di oggi abbiamo anche ascoltato il racconto dell’incontro dell’apostolo Tommaso col Signore risorto: all’apostolo viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: « Mio Signore e mio Dio! » (Gv 20,28). Il Signore ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: « Mio Signore e mio Dio! » E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!

Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi. Con il peso accresciuto della responsabilità, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita. Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo. Per questo vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi. Vorrei concludere questa omelia con la preghiera del santo Papa Leone Magno, quella preghiera che, proprio trent’anni fa, scrissi sull’immagine-ricordo della mia consacrazione episcopale: « Pregate il nostro buon Dio, affinché voglia nei nostri giorni rafforzare la fede, moltiplicare l’amore e aumentare la pace. Egli renda me, suo misero servo, sufficiente per il suo compito e utile per la vostra edificazione e mi conceda uno svolgimento del servizio tale che, insieme con il tempo donato, cresca la mia dedizione. Amen ». 

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 16 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Papa: I miei 80 anni, illuminati dalla luce della Divina Misericordia

 dal sito della Radio Vaticana:

15/04/2007 12:42
VATICANO

Papa: I miei 80 anni, illuminati dalla luce della Divina Misericordia

Alla Messa in san Pietro Benedetto XVI dice grazie a tutta la Chiesa e agli ospiti – fra cui l’inviato di Bartolomeo I – ma soprattutto alla Misericordia di Dio che l’accompagna e che sostiene la sua “debolezza”. Il “Dio ferito” chi chiede di “lasciarci ferire a nostra volta per Lui”.

Città del Vaticano (AsiaNews) – “La liturgia non deve servire per parlare del proprio io, di se stesso; tuttavia, la propria vita può servire per annunciare la misericordia di Dio”: così Benedetto XVI ha introdotto alcune considerazioni sulla sua vita, nella celebrazione in piazza san Pietro per i suoi 80 anni. Con timidezza commossa, ma anche con fermezza, il pontefice ha letto i momenti salienti della sua vita, gli inizi in famiglia, la sua ordinazione sacerdotale, quella episcopale e il suo divenire papa, alla luce della Divina Misericordia, proprio nella festa ad Essa dedicata, istituita da Giovanni Paolo II. Il clima caldo e primaverile ha favorito la presenza di oltre 35 mila persone. Alla liturgia hanno partecipato almeno 60 fra cardinali, vescovi, membri della Curia romana e della diocesi di Roma, oltre a personalità politiche e del corpo diplomatico presso la Santa Sede.

Il papa ha salutato e ringraziato tutti, il card. Angelo Sodano per l’omaggio iniziale, ma soprattutto la presenza di sua eminenza Ioannis (Zizioulas), metropolita di Pergamo, inviato personale del Patriarca ecumenico Bartolomeo I esprimendo “apprezzamento per il gesto gentile e auspicando che il dialogo teologico cattolico-ortodosso possa proseguire con lena rinnovata”.

Benedetto XVI ha iniziato la sua omelia ricordando il significato della giornata di oggi (domenica “in Albis”): “In questo giorno, i neofiti della veglia pasquale indossavano ancora una volta la loro veste bianca, simbolo della luce che il Signore aveva loro donato nel Battesimo. In seguito avrebbero poi deposto la veste bianca, ma la nuova luminosità ad essi comunicata la dovevano introdurre nella loro quotidianità; la fiamma delicata della verità e del bene che il Signore aveva acceso in loro, la dovevano custodire diligentemente per portare così in questo nostro mondo qualcosa della luminosità e della bontà di Dio”. La notazione è importante perché Benedetto XVI è venuto al mondo il Sabato Santo del 1927 (16 aprile) e battezzato con l’acqua benedetta proprio alla liturgia della Pasqua. “Ho sempre considerato – ha detto il papa – un grande dono della misericordia divina che la nascita e la rinascita siano state a me concesse, per così dire insieme, nello stesso giorno, nel segno dell’inizio della Pasqua. Così, in uno stesso giorno, sono nato membro della mia propria famiglia e della grande famiglia di Dio”

Da diversi anni la domenica in Albis viene definita “festa della Divina Misericordia”, per volere di Giovanni Paolo II che ha proposto a tutta la Chiesa le rivelazioni di Santa Faustina Kowalska.

Per il papa polacco, nella misericordia si trova “riassunto e nuovamente interpretato per il nostro tempo l’intero mistero della Redenzione”. Mentre il pubblico applaudiva al nome di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha ricordato il valore della misericordia divina nell’esperienza personale del defunto pontefice e negli avvenimenti della storia contemporanea: “Egli visse sotto due regimi dittatoriali e, nel contatto con povertà, necessità e violenza, sperimentò profondamente la potenza delle tenebre, da cui è insidiato il mondo anche in questo nostro tempo. Ma sperimentò pure, e non meno fortemente, la presenza di Dio che si oppone a tutte queste forze con il suo potere totalmente diverso e divino: con il potere della misericordia. È la misericordia che pone un limite al male. In essa si esprime la natura tutta peculiare di Dio – la sua santità, il potere della verità e dell’amore. Due anni or sono, dopo i primi Vespri di questa Festività, Giovanni Paolo II terminava la sua esistenza terrena. Morendo egli è entrato nella luca della Divina Misericordia di cui, al di là della morte e a partire da Dio, ora ci parla in modo totalmente nuovo. Abbiate fiducia – egli ci dice – nella Divina Misericordia! Diventate giorno per giorno uomini e donne della misericordia di Dio! La misericordia è la veste di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo. Non dobbiamo lasciare che questa luce si spenga; al contrario essa deve crescere in noi ogni giorno e così portare al mondo il lieto annuncio di Dio”.

Nella vita del papa presente la misericordia si è anzitutto manifestata nella sua entrata alla vita e alla vita cristiana, nella famiglia naturale e nella famiglia di Dio: “Nascita e rinascita; famiglia terrena e grande famiglia di Dio – è questo il grande dono delle molteplici misericordie di Dio, il fondamento sul quale ci appoggiamo”.

“Sì – ha detto Benedetto XVI – ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza di che cosa significa « famiglia »; ho potuto fare l’esperienza di che cosa vuol dire paternità, cosicché la parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo. Davanti a Lui noi portiamo una responsabilità, ma allo stesso tempo Egli ci dona la fiducia, perché nella sua giustizia traspare sempre la misericordia e la bontà con cui accetta anche la nostra debolezza e ci sorregge, così che man mano possiamo imparare a camminare diritti. Ringrazio Dio perché ho potuto fare l’esperienza profonda di che cosa significa bontà materna, sempre aperta a chi cerca rifugio e proprio così in grado di darmi la libertà. Ringrazio Dio per mia sorella e mio fratello che, con il loro aiuto, mi sono stati fedelmente vicini lungo il corso della vita. Ringrazio Dio per i compagni incontrati nel mio cammino, per i consiglieri e gli amici che Egli mi ha donato. Ringrazio in modo particolare perché, fin dal primo giorno, ho potuto entrare e crescere nella grande comunità dei credenti, nella quale è spalancato il confine tra vita e morte, tra cielo e terra; ringrazio per aver potuto apprendere tante cose attingendo alla sapienza di questa comunità, nella quale sono racchiuse non solo le esperienze umane fin dai tempi più remoti: la sapienza di questa comunità non è soltanto sapienza umana, ma in essa ci raggiunge la sapienza stessa di Dio – la Sapienza eterna”.

Riferendosi poi alla prima lettura di questa domenica (Atti 5,12-16), che narra delle guarigioni che avvenivano facendosi toccare dall’ombra di Pietro, il papa ha aggiunto: “L’ombra di Pietro, mediante la comunità della Chiesa cattolica, ha coperto la mia vita fin dall’inizio, e ho appreso che essa è un’ombra buona – un’ombra risanatrice, perché, appunto, proviene in definitiva da Cristo stesso. Pietro era un uomo con tutte le debolezze di un essere umano, ma soprattutto era un uomo pieno di una fede appassionata in Cristo, pieno di amore per Lui. Per il tramite della sua fede e del suo amore la forza risanatrice di Cristo, la sua forza unificante, è giunta agli uomini pur frammista a tutta la debolezza di Pietro. Cerchiamo anche oggi l’ombra di Pietro, per stare nella luce di Cristo!”.

Nella “debolezza” di Pietro, rafforzata dalla misericordia di Dio, il pontefice vede la propria debolezza, accompagnata dalla compagnia di Gesù. Lo dice con molta chiarezza ricordando la sua ordinazione sacerdotale: “Nella festa dei santi Pietro e Paolo del 1951, quando noi – c’erano oltre quaranta compagni – ci trovammo nella cattedrale di Frisinga prostrati sul pavimento e su di noi furono invocati tutti i santi, la consapevolezza della povertà della mia esistenza di fronte a questo compito mi pesava. Sì, era una consolazione il fatto che la protezione dei santi di Dio, dei vivi e dei morti, venisse invocata su di noi. Sapevo che non sarei rimasto solo. E quale fiducia infondevano le parole di Gesù, che poi durante la liturgia dell’Ordinazione potemmo ascoltare dalle labbra del vecchio Vescovo: ‘Non vi chiamo più servi, ma amici’. Ho potuto farne un’esperienza profonda: Egli, il Signore, non è soltanto Signore, ma anche amico. Egli ha posto la sua mano su di me e non mi lascerà. Queste parole venivano allora pronunciate nel contesto del conferimento della facoltà di amministrare il Sacramento della riconciliazione e così, nel nome di Cristo, di perdonare i peccati. È la stessa cosa che oggi abbiamo ascoltato nel Vangelo: il Signore alita sui suoi discepoli. Egli concede loro il suo Spirito – lo Spirito Santo: ‘A chi rimetterete i peccati saranno rimessi…’. Lo Spirito di Gesù Cristo è potenza di perdono. È potenza della Divina Misericordia. Dà la possibilità di iniziare da capo – sempre di nuovo. L’amicizia di Gesù Cristo è amicizia di Colui che fa di noi persone che perdonano, di Colui che perdona anche a noi, ci risolleva di continuo dalla nostra debolezza e proprio così ci educa, infonde in noi la consapevolezza del dovere interiore dell’amore, del dovere di corrispondere alla sua fiducia con la nostra fedeltà”.

Il pontefice ha poi ricordato il brano evangelico di oggi, che racconta l’incontro dell’apostolo Tommaso con il Signore risorto. “All’apostolo – spiega il papa – viene concesso di toccare le sue ferite e così egli lo riconosce – lo riconosce, al di là dell’identità umana del Gesù di Nazaret, nella sua vera e più profonda identità: ‘Mio Signore e mio Dio!’ (Gv 20,28)”.

Il papa così attento alla ricerca “del volto del Signore” – come appare dal suo libro “Gesù di Nazaret”, pubblicato in occasione dei suoi 80 anni – non perde l’occasione di manifestare il volto di Dio misericordioso come “un Dio ferito”: “Il Signore – ha detto – ha portato con sé le sue ferite nell’eternità. Egli è un Dio ferito; si è lasciato ferire dall’amore verso di noi. Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite – come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! Egli, infatti, si lascia sempre di nuovo ferire per noi. Quale certezza della sua misericordia e quale consolazione esse significano per noi! E quale sicurezza ci danno circa quello che Egli è: ‘Mio Signore e mio Dio!’ E come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!”.

Le sue ultime considerazioni mostrano quanto “le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno”, anche nelle fatiche del pontificato. “Siamo troppo inclini – ha detto il papa – ad avvertire solo la fatica quotidiana che a noi, come figli di Adamo, è stata imposta. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi. Con il peso accresciuto della responsabilità, il Signore ha portato anche nuovo aiuto nella mia vita”.

Benedetto XVI ha voluto citare come segno delle “misericordie quotidiane di Dio”, tutti i collaboratori e le persone nascoste che pregano per lui e il suo ministero: “Ripetutamente vedo con gioia riconoscente quanto è grande la schiera di coloro che mi sostengono con la loro preghiera; che con la loro fede e con il loro amore mi aiutano a svolgere il mio ministero; che sono indulgenti con la mia debolezza, riconoscendo anche nell’ombra di Pietro la luce benefica di Gesù Cristo. Per questo vorrei in quest’ora ringraziare di cuore il Signore e tutti voi”.

A conclusione dell’omelia, egli ha ricordato una preghiera del papa san Leone Magno, da lui usata 30 anni fa sull’immagine-ricordo della sua consacrazione episcopale: « Pregate il nostro buon Dio, affinché voglia nei nostri giorni rafforzare la fede, moltiplicare l’amore e aumentare la pace. Egli renda me, suo misero servo, sufficiente per il suo compito e utile per la vostra edificazione e mi conceda uno svolgimento del servizio tale che, insieme con il tempo donato, cresca la mia

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 15 avril, 2007 |Pas de commentaires »

candele a Markl am Inn per gli 80 anni di Papa Bendetto

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candele a Markl am Inn per gli 80 anni di Papa Bendetto

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Omelia di Benedetto XVI nella Veglia Pasquale

dal sito Zenith:

Data pubblicazione: 2007-04-08

Omelia di Benedetto XVI nella Veglia Pasquale

CITTA DEL VATICANO, domenica, 8 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo lomelia pronunciata da Benedetto XVI nella Veglia nella Notte Santa di Pasqua nella Basilica di San Pietro in Vaticano.

Cari fratelli e sorelle!

Dai tempi più antichi la liturgia del giorno di Pasqua comincia con le parole: Resurrexi et adhuc tecum sum sono risorto e sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano. La liturgia vi vede la prima parola del Figlio rivolta al Padre dopo la risurrezione, dopo il ritorno dalla notte della morte nel mondo dei viventi. La mano del Padre lo ha sorretto anche in questa notte, e così Egli ha potuto rialzarsi, risorgere.

La parola è tratta dal Salmo 138 e lì ha inizialmente un significato diverso. Questo Salmo è un canto di meraviglia per lonnipotenza e lonnipresenza di Dio, un canto di fiducia in quel Dio che non ci lascia mai cadere dalle sue mani. E le sue mani sono mani buone. Lorante immagina un viaggio attraverso tutte le dimensioni delluniverso che cosa gli accadrà? « Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dellaurora per abitare allestremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno loscurità mi copra…», nemmeno le tenebre per te sono oscure per te le tenebre sono come luce » (Sal 138 [139],8-12).

Nel giorno di Pasqua la Chiesa ci dice: Gesù Cristo ha compiuto per noi questo viaggio attraverso le dimensioni delluniverso. Nella Lettera agli Efesini leggiamo che Egli è disceso nelle regioni più basse della terra e che Colui che è disceso è il medesimo che è anche asceso al di sopra di tutti i cieli per riempire luniverso (cfr 4,9s). Così la visione del Salmo è diventata realtà. Nelloscurità impenetrabile della morte Egli è entrato come luce la notte divenne luminosa come il giorno, e le tenebre divennero luce. Perciò la Chiesa giustamente può considerare la parola di ringraziamento e di fiducia come parola del Risorto rivolta al Padre: « Sì, ho fatto il viaggio fin nelle profondità estreme della terra, nellabisso della morte e ho portato la luce; e ora sono risorto e sono per sempre afferrato dalle tue mani ». Ma questa parola del Risorto al Padre è diventata anche una parola che il Signore rivolge a noi: « Sono risorto e ora sono sempre con te », dice a ciascuno di noi. La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto io e trasformo per te le tenebre in luce.

Questa parola del Salmo, letta come colloquio del Risorto con noi, è allo stesso tempo una spiegazione di ciò che succede nel Battesimo. Il Battesimo, infatti, è più di un lavacro, di una purificazione. È più dellassunzione in una comunità. È una nuova nascita. Un nuovo inizio della vita. Il passo della Lettera ai Romani, che abbiamo appena ascoltato, dice con parole misteriose che nel Battesimo siamo stati « innestati » nella somiglianza con la morte di Cristo. Nel Battesimo ci doniamo a Cristo Egli ci assume in sé, affinché poi non viviamo più per noi stessi, ma grazie a Lui, con Lui e in Lui; affinché viviamo con Lui e così per gli altri. Nel Battesimo abbandoniamo noi stessi, deponiamo la nostra vita nelle sue mani, così da poter dire con san Paolo: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ». Se in questo modo ci doniamo, accettando una specie di morte del nostro io, allora ciò significa anche che il confine tra morte e vita diventa permeabile. Al di qua come al di là della morte siamo con Cristo e per questo, da quel momento in avanti, la morte non è più un vero confine. Paolo ce lo dice in modo molto chiaro nella sua Lettera ai Filippesi: « Per me il vivere è Cristo. Se posso essere presso di Lui (cioè se muoio) è un guadagno. Ma se rimango in questa vita, posso ancora portare frutto. Così sono messo alle strette tra queste due cose: essere sciolto cioè essere giustiziato ed essere con Cristo, sarebbe assai meglio; ma rimanere in questa vita è più necessario per voi » (cfr 1,21ss). Di qua e di là del confine della morte egli è con Cristo non esiste più una vera differenza. Sì, è vero: « Alle spalle e di fronte tu mi circondi. Sempre sono nelle tue mani ». Ai Romani Paolo ha scritto: « Nessuno vive per se stesso e nessuno muore per se stesso sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore » (Rm 14,7s).

Cari battezzandi, è questa la novità del Battesimo: la nostra vita appartiene a Cristo, non più a noi stessi. Ma proprio per questo non siamo soli neppure nella morte, ma siamo con Lui che vive sempre. Nel Battesimo, insieme con Cristo, abbiamo già fatto il viaggio cosmico fin nelle profondità della morte. Accompagnati da Lui, anzi, accolti da Lui nel suo amore, siamo liberi dalla paura. Egli ci avvolge e ci porta, ovunque andiamo Egli che è la Vita stessa.

Ritorniamo ancora alla notte del Sabato Santo. Nel Credo professiamo circa il cammino di Cristo: « Discese agli inferi ». Che cosa accadde allora? Poiché non conosciamo il mondo della morte, possiamo figurarci questo processo del superamento della morte solo mediante immagini che rimangono sempre poco adatte. Con tutta la loro insufficienza, tuttavia, esse ci aiutano a capire qualcosa del mistero. La liturgia applica alla discesa di Gesù nella notte della morte la parola del Salmo 23 [24]: « Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche! » La porta della morte è chiusa, nessuno può tornare indietro da lì. Non c’è una chiave per questa porta ferrea. Cristo, però, ne possiede la chiave. La sua Croce spalanca le porte della morte, le porte irrevocabili. Esse ora non sono più invalicabili. La sua Croce, la radicalità del suo amore è la chiave che apre questa porta. Lamore di Colui che, essendo Dio, si è fatto uomo per poter morire questo amore ha la forza per aprire la porta. Questo amore è più forte della morte. Le icone pasquali della Chiesa orientale mostrano come Cristo entra nel mondo dei morti. Il suo vestito è luce, perché Dio è luce. « La notte è chiara come il giorno, le tenebre sono come luce » (cfr Sal 138 [139],12). Gesù che entra nel mondo dei morti porta le stimmate: le sue ferite, i suoi patimenti sono diventati potenza, sono amore che vince la morte. Egli incontra Adamo e tutti gli uomini che aspettano nella notte della morte. Alla loro vista si crede addirittura di udire la preghiera di Giona: « Dal profondo degli inferi ho gridato, e tu hai ascoltato la mia voce » (Gio 2,3). Il Figlio di Dio nellincarnazione si è fatto una cosa sola con lessere umano con Adamo. Ma solo in quel momento, in cui compie latto estremo dellamore discendendo nella notte della morte, Egli porta a compimento il cammino dellincarnazione. Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa e li porta alla luce.

Ora, tuttavia, si può domandare: Ma che cosa significa questa immagine? Quale novità è lì realmente accaduta per mezzo di Cristo? Lanima delluomo, appunto, è di per sé immortale fin dalla creazione che cosa di nuovo ha portato Cristo? Sì, lanima è immortale, perché luomo in modo singolare sta nella memoria e nellamore di Dio, anche dopo la sua caduta. Ma la sua forza non basta per elevarsi verso Dio. Non abbiamo ali che potrebbero portarci fino a tale altezza. E tuttavia, nientaltro può appagare luomo eternamente, se non lessere con Dio. Uneternità senza questa unione con Dio sarebbe una condanna. Luomo non riesce a giungere in alto, ma anela verso lalto: « Dal profondo grido a te« . Solo il Cristo risorto può portarci su fino allunione con Dio, fin dove le nostre forze non possono arrivare. Egli prende davvero la pecora smarrita sulle sue spalle e la porta a casa. Aggrappati al suo Corpo noi viviamo, e in comunione con il suo Corpo giungiamo fino al cuore di Dio. E solo così è vinta la morte, siamo liberi e la nostra vita è speranza.

È questo il giubilo della Veglia Pasquale: noi siamo liberi. Mediante la risurrezione di Gesù lamore si è rivelato più forte della morte, più forte del male. Lamore Lo ha fatto discendere ed è al contempo la forza nella quale Egli ascende. La forza per mezzo della quale ci porta con sé. Uniti col suo amore, portati sulle ali dellamore, come persone che amano scendiamo insieme con Lui nelle tenebre del mondo, sapendo che proprio così saliamo anche con Lui. Preghiamo quindi in questa notte: Signore, dimostra anche oggi che lamore è più forte dellodio. Che è più forte della morte. Discendi anche nelle notti e negli inferi di questo nostro tempo moderno e prendi per mano coloro che aspettano. Portali alla luce! Sii anche nelle mie notti oscure con me e conducimi fuori! Aiutami, aiutaci a scendere con te nel buio di coloro che sono in attesa, che gridano dal profondo verso di te! Aiutaci a portarvi la tua luce! Aiutaci ad arrivare al « sì » dellamore, che ci fa discendere e proprio così salire insieme con te! Alleluia. Amen.

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 9 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI

dal sito Zenith: 

Data pubblicazione: 2007-04-08 

Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 8 aprile 2007 (ZENIT.org)

Pubblichiamo il messaggio di Pasqua che Benedetto XVI ha pronunciato a mezzogiorno della Domenica di Risurrezione dal balcone della facciata della Basilica di San Pietro in Vaticano. 

Fratelli e sorelle del mondo intero,
uomini e donne di buona volontà!

Cristo è risorto! Pace a voi! Si celebra oggi il grande mistero, fondamento della fede e della speranza cristiana: Gesù di Nazaret, il Crocifisso, è risuscitato dai morti il terzo giorno, secondo le Scritture. L’annuncio dato dagli angeli, in quell’alba del primo giorno dopo il sabato, a Maria di Magdala e alle donne accorse al sepolcro, lo riascoltiamo oggi con rinnovata emozione: « Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato! » (Lc 24,5-6).

Non è difficile immaginare quali fossero, in quel momento, i sentimenti di queste donne: sentimenti di tristezza e sgomento per la morte del loro Signore, sentimenti di incredulità e stupore per un fatto troppo sorprendente per essere vero. La tomba però era aperta e vuota: il corpo non c’era più. Pietro e Giovanni, avvertiti dalle donne, corsero al sepolcro e verificarono che esse avevano ragione. La fede degli Apostoli in Gesù, l’atteso Messia, era stata messa a durissima prova dallo scandalo della croce. Durante il suo arresto, la sua condanna e la sua morte si erano dispersi, ed ora si ritrovavano insieme, perplessi e disorientati. Ma il Risorto stesso venne incontro alla loro incredula sete di certezze. Non fu sogno, né illusione o immaginazione soggettiva quell’incontro; fu un’esperienza vera, anche se inattesa e proprio per questo particolarmente toccante. « Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!» » (Gv 20,19).

A quelle parole, la fede quasi spenta nei loro animi si riaccese. Gli Apostoli riferirono a Tommaso, assente in quel primo incontro straordinario: Sì, il Signore ha compiuto quanto aveva preannunciato; è veramente risorto e noi lo abbiamo visto e toccato! Tommaso però rimase dubbioso e perplesso. Quando Gesù venne una seconda volta, otto giorni dopo nel Cenacolo, gli disse: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! ». La risposta dell’Apostolo è una commovente professione di fede: « Mio Signore e mio Dio! » (Gv 20,27-28).

« Mio Signore e mio Dio »! Rinnoviamo anche noi la professione di fede di Tommaso. Come augurio pasquale, quest’anno, ho voluto scegliere proprio le sue parole, perché l’odierna umanità attende dai cristiani una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo; ha bisogno di incontrarlo e di poterlo conoscere come vero Dio e vero Uomo. Se in questo Apostolo possiamo riscontrare i dubbi e le incertezze di tanti cristiani di oggi, le paure e le delusioni di innumerevoli nostri contemporanei, con lui possiamo anche riscoprire con convinzione rinnovata la fede in Cristo morto e risorto per noi. Questa fede, tramandata nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli, continua, perché il Signore risorto non muore più. Egli vive nella Chiesa e la guida saldamente verso il compimento del suo eterno disegno di salvezza.

Ciascuno di noi può essere tentato dall’incredulità di Tommaso. Il dolore, il male, le ingiustizie, la morte, specialmente quando colpiscono gli innocenti – ad esempio, i bambini vittime della guerra e del terrorismo, delle malattie e della fame – non mettono forse a dura prova la nostra fede? Eppure paradossalmente, proprio in questi casi, l’incredulità di Tommaso ci è utile e preziosa, perché ci aiuta a purificare ogni falsa concezione di Dio e ci conduce a scoprirne il volto autentico: il volto di un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita. Tommaso ha ricevuto dal Signore e, a sua volta, ha trasmesso alla Chiesa il dono di una fede provata dalla passione e morte di Gesù e confermata dall’incontro con Lui risorto. Una fede che era quasi morta ed è rinata grazie al contatto con le piaghe di Cristo, con le ferite che il Risorto non ha nascosto, ma ha mostrato e continua a indicarci nelle pene e nelle sofferenze di ogni essere umano.

« Dalle sue piaghe siete stati guariti » (1 Pt 2,24), è questo l’annuncio che Pietro rivolgeva ai primi convertiti. Quelle piaghe, che per Tommaso erano dapprima un ostacolo alla fede, perché segni dell’apparente fallimento di Gesù; quelle stesse piaghe sono diventate, nell’incontro con il Risorto, prove di un amore vittorioso. Queste piaghe che Cristo ha contratto per amore nostro ci aiutano a capire chi è Dio e a ripetere anche noi: « Mio Signore e mio Dio ». Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede.

Quante ferite, quanto dolore nel mondo! Non mancano calamità naturali e tragedie umane che provocano innumerevoli vittime e ingenti danni materiali. Penso a quanto è avvenuto di recente in Madagascar, nelle Isole Salomone, in America Latina e in altre Regioni del mondo. Penso al flagello della fame, alle malattie incurabili, al terrorismo e ai sequestri di persona, ai mille volti della violenza – talora giustificata in nome della religione – al disprezzo della vita e alla violazione dei diritti umani, allo sfruttamento della persona. Guardo con apprensione alla condizione in cui si trovano non poche regioni dell’Africa: nel Darfur e nei Paesi vicini permane una catastrofica e purtroppo sottovalutata situazione umanitaria; a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, gli scontri e i saccheggi delle scorse settimane fanno temere per il futuro del processo democratico congolese e per la ricostruzione del Paese; in Somalia la ripresa dei combattimenti allontana la prospettiva della pace e appesantisce la crisi regionale, specialmente per quanto riguarda gli spostamenti della popolazione e il traffico di armi; una grave crisi attanaglia lo Zimbabwe, per la quale i Vescovi del Paese, in un loro recente documento, hanno indicato come unica via di superamento la preghiera e l’impegno condiviso per il bene comune.

Di riconciliazione e di pace ha bisogno la popolazione di Timor Est, che si appresta a vivere importanti scadenze elettorali. Di pace hanno bisogno anche lo Sri Lanka, dove solo una soluzione negoziata porrà fine al dramma del conflitto che lo insanguina, e l’Afghanistan, segnato da crescente inquietudine e instabilità. In Medio Oriente, accanto a segni di speranza nel dialogo fra Israele e l’Autorità palestinese, nulla di positivo purtroppo viene dall’Iraq, insanguinato da continue stragi, mentre fuggono le popolazioni civili; in Libano lo stallo delle istituzioni politiche minaccia il ruolo che il Paese è chiamato a svolgere nell’area mediorientale e ne ipoteca gravemente il futuro. Non posso infine dimenticare le difficoltà che le comunità cristiane affrontano quotidianamente e l’esodo dei cristiani dalla Terra benedetta che è la culla della nostra fede. A quelle popolazioni rinnovo con affetto l’espressione della mia vicinanza spirituale.

Cari fratelli e sorelle, attraverso le piaghe di Cristo risorto possiamo vedere questi mali che affliggono l’umanità con occhi di speranza. Risorgendo, infatti, il Signore non ha tolto la sofferenza e il male dal mondo, ma li ha vinti alla radice con la sovrabbondanza della sua Grazia. Alla prepotenza del Male ha opposto l’onnipotenza del suo Amore. Ci ha lasciato come via alla pace e alla gioia l’Amore che non teme la morte. « Come io vi ho amato – ha detto agli Apostoli prima di morire –, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13,34).

Fratelli e sorelle nella fede, che mi ascoltate da ogni parte della terra! Cristo risorto è vivo tra noi, è Lui la speranza di un futuro migliore. Mentre con Tommaso diciamo: « Mio Signore e mio Dio! », risuoni nel nostro cuore la parola dolce ma impegnativa del Signore: « Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà » (Gv 12,26). Ed anche noi, uniti a Lui, disposti a spendere la vita per i nostri fratelli (cfr 1 Gv 3,16), diventiamo apostoli di pace, messaggeri di una gioia che non teme il dolore, la gioia della Risurrezione. Ci ottenga questo dono pasquale Maria, Madre di Cristo risorto. Buona Pasqua a tutti! 

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 9 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Parole di Benedetto XVI a conclusione della Via Crucis al Colosseo

dal sito Zenith

Data pubblicazione: 2007-04-06 

Parole di Benedetto XVI a conclusione della Via Crucis al Colosseo 

ROMA, venerdì, 6 aprile 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso improvvisato da Benedetto XVI a conclusione della Via Crucis celebratasi questo Venerdì Santo al Colosseo. 


Cari fratelli e sorelle,

seguendo Gesù nella via della sua Passione vediamo non soltanto la Passione di Gesù, ma vediamo tutti i sofferenti del mondo. Ed è questa la profonda intenzione della preghiera della Via Crucis, di aprire i nostri cuori, di aiutarci a vedere col cuore. I Padri della Chiesa hanno considerato come il più grande peccato del mondo pagano la loro insensibilità, la durezza del cuore e amavano la profezia del profeta Ezechiele: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36, 26).

Convertirsi a Cristo, divenire cristiano voleva dire ricevere un cuore di carne, un cuore sensibile per la passione e la sofferenza degli altri. Il nostro Dio non è un Dio lontano, intoccabile nella sua beatitudine. Il nostro Dio ha un cuore, anzi ha un cuore di carne. Si è fatto carne proprio per poter soffrire con noi ed essere con noi nelle nostre sofferenze. Si è fatto uomo per darci un cuore di carne e per risvegliare in noi l’amore per i sofferenti, per i bisognosi.

Preghiamo in questa ora il Signore per tutti i sofferenti nel mondo, preghiamo il Signore perché ci dia realmente un cuore di carne, ci faccia messaggeri del suo amore non solo con parole, ma con tutta la nostra vita. Amen. 

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 7 avril, 2007 |Pas de commentaires »

Omelia di Benedetto XVI per la Santa Messa Crismale

dal sito Zenith: 

Data pubblicazione: 2007-04-05 

Omelia di Benedetto XVI per la Santa Messa Crismale 

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 5 aprile 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato nel presiedere oggi, Giovedì Santo, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale con i Cardinali, i Vescovi e i Presbiteri – diocesani e religiosi – presenti a Roma. 

* * *
Cari fratelli e sorelle,

lo scrittore russo Leone Tolstoi narra in un piccolo racconto di un sovrano severo che chiese ai suoi sacerdoti e sapienti di mostrargli Dio affinché egli potesse vederlo. I sapienti non furono in grado di appagare questo suo desiderio. Allora un pastore, che stava giusto tornando dai campi, si offrì di assumere il compito dei sacerdoti e dei sapienti. Il re apprese da lui che i suoi occhi non erano sufficienti per vedere Dio. Allora, però, egli volle almeno sapere che cosa Dio faceva. « Per poter rispondere a questa tua domanda – disse il pastore al sovrano – dobbiamo scambiare i vestiti ». Con esitazione, spinto tuttavia dalla curiosità per l’informazione attesa, il sovrano acconsentì; consegnò i suoi vestiti regali al pastore e si fece rivestire del semplice abito dell’uomo povero. Ed ecco allora arrivare la risposta: « Questo è ciò che Dio fa ». Di fatto, il Figlio di Dio – Dio vero da Dio vero – ha lasciato il suo splendore divino: « …spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso … fino alla morte di croce » (cfr Fil 2,6ss). Dio ha – come dicono i Padri – compiuto il sacrum commercium, il sacro scambio: ha assunto ciò che era nostro, affinché noi potessimo ricevere ciò che era suo, divenire simili a Dio.

San Paolo, per quanto accade nel Battesimo, usa esplicitamente l’immagine del vestito: « Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Gal 3,27). Ecco ciò che si compie nel Battesimo: noi ci rivestiamo di Cristo, Egli ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna. Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui, che il suo e il nostro essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » – così Paolo stesso nella Lettera ai Galati (2,2) descrive l’avvenimento del suo battesimo. Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi « vestiti ». Ciò che nella Lettera ai Galati espone come semplice « fatto » del battesimo – il dono del nuovo essere – Paolo ce lo presenta nella Lettera agli Efesini come un compito permanente: « Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima! … [Dovete] rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira, non peccate… » (Ef 4,22-26).

Questa teologia del Battesimo ritorna in modo nuovo e con una nuova insistenza nell’Ordinazione sacerdotale. Come nel Battesimo viene donato uno « scambio dei vestiti », uno scambio del destino, una nuova comunione esistenziale con Cristo, così anche nel sacerdozio si ha uno scambio: nell’amministrazione dei Sacramenti, il sacerdote agisce e parla ora « in persona Christi« . Nei sacri misteri egli non rappresenta se stesso e non parla esprimendo se stesso, ma parla per l’Altro – per Cristo. Così nei Sacramenti si rende visibile in modo drammatico ciò che l’essere sacerdote significa in generale; ciò che abbiamo espresso con il nostro « Adsum – sono pronto » durante la consacrazione sacerdotale: io sono qui perché tu possa disporre di me. Ci mettiamo a disposizione di Colui « che è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi… » (2Cor 5,15). Metterci a disposizione di Cristo significa che ci lasciamo attirare dentro il suo « per tutti »: essendo con Lui possiamo esserci davvero « per tutti ».

In persona Christi – nel momento dell’Ordinazione sacerdotale, la Chiesa ci ha reso visibile ed afferrabile questa realtà dei « vestiti nuovi » anche esternamente mediante l’essere stati rivestiti con i paramenti liturgici. In questo gesto esterno essa vuole renderci evidente l’evento interiore e il compito che da esso ci viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come Egli si è donato a noi. Questo evento, il « rivestirsi di Cristo », viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici. Indossarli deve essere più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel « sì » del nostro incarico – in quel « non più io » del battesimo che l’Ordinazione sacerdotale ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti che stiamo lì « in persona di un Altro ». Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo si sono sviluppati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa. Vorrei pertanto, cari confratelli, spiegare in questo Giovedì Santo l’essenza del ministero sacerdotale interpretando i paramenti liturgici che, appunto, da parte loro vogliono illustrare che cosa significhi « rivestirsi di Cristo », parlare ed agire in persona Christi.

L’indossare le vesti sacerdotali era una volta accompagnato da preghiere che ci aiutano a capire meglio i singoli elementi del ministero sacerdotale. Cominciamo con l’amitto. In passato – e negli ordini monastici ancora oggi – esso veniva posto prima sulla testa, come una specie di cappuccio, diventando così un simbolo della disciplina dei sensi e del pensiero necessaria per una giusta celebrazione della Santa Messa. I pensieri non devono vagare qua e là dietro le preoccupazioni e le attese del mio quotidiano; i sensi non devono essere attirati da ciò che lì, all’interno della chiesa, casualmente vorrebbe sequestrare gli occhi e gli orecchi. Il mio cuore deve docilmente aprirsi alla parola di Dio ed essere raccolto nella preghiera della Chiesa, affinché il mio pensiero riceva il suo orientamento dalle parole dell’annuncio e della preghiera. E lo sguardo del mio cuore deve essere rivolto verso il Signore che è in mezzo a noi: ecco cosa significa ars celebrandi – il giusto modo del celebrare. Se io sono col Signore, allora con il mio ascoltare, parlare ed agire attiro anche la gente dentro la comunione con Lui.

I testi della preghiera che interpretano il camice e la stola vanno ambedue nella stessa direzione. Evocano il vestito festivo che il padre donò al figlio prodigo tornato a casa cencioso e sporco. Quando ci accostiamo alla liturgia per agire nella persona di Cristo ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani da Lui; quanta sporcizia esiste nella nostra vita. Egli solo può donarci il vestito festivo, renderci degni di presiedere alla sua mensa, di stare al suo servizio. Così le preghiere ricordano anche la parola dell’Apocalisse secondo cui i vestiti dei 144.000 eletti non per merito loro erano degni di Dio. L’Apocalisse commenta che essi avevano lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello e che in questo modo esse erano diventate candide come la luce (cfr Ap 7,14). Già da piccolo mi sono chiesto: Ma quando si lava una cosa nel sangue, non diventa certo bianca! La risposta è: il « sangue dell’Agnello » è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide le nostre vesti sporche; che rende verace ed illuminato il nostro spirito oscurato; che, nonostante tutte le nostre tenebre, trasforma noi stessi in « luce nel Signore ». Indossando il camice dovremmo ricordarci: Egli ha sofferto anche per me. E soltanto perché il suo amore è più grande di tutti i miei peccati, posso rappresentarlo ed essere testimone della sua luce.

Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del banchetto di Dio. Nelle omelie di san Gregorio Magno ho trovato a questo riguardo una riflessione degna di nota. Gregorio distingue tra la versione di Luca della parabola e quella di Matteo. Egli è convinto che la parabola lucana parli del banchetto nuziale escatologico, mentre – secondo lui – la versione tramandata da Matteo tratterebbe dall’anticipazione di questo banchetto nuziale nella liturgia e nella vita della Chiesa. In Matteo – e solo in Matteo – infatti il re viene nella sala affollata per vedere i suoi ospiti. Ed ecco che in questa moltitudine trova anche un ospite senza abito nuziale, che viene poi buttato fuori nelle tenebre. Allora Gregorio si domanda: « Ma che specie di abito è quello che gli mancava? Tutti coloro che sono riuniti nella Chiesa hanno ricevuto l’abito nuovo del battesimo e della fede; altrimenti non sarebbero nella Chiesa. Che cosa, dunque, manca ancora? Quale abito nuziale deve ancora essere aggiunto? » Il Papa risponde: « Il vestito dell’amore ». E purtroppo, tra i suoi ospiti ai quali aveva donato l’abito nuovo, la veste candida della rinascita, il re trova alcuni che non portano il vestito color porpora del duplice amore verso Dio e verso il prossimo. « In quale condizione vogliamo accostarci alla festa del cielo, se non indossiamo l’abito nuziale – cioè l’amore, che solo può renderci belli? », domanda il Papa. Una persona senza l’amore è buia dentro. Le tenebre esterne, di cui parla il Vangelo, sono solo il riflesso della cecità interna del cuore (cfr Hom. 38, 8-13).

Ora che ci apprestiamo alla celebrazione della Santa Messa, dovremmo domandarci se portiamo questo abito dell’amore. Chiediamo al Signore di allontanare ogni ostilità dal nostro intimo, di toglierci ogni senso di autosufficienza e di rivestirci veramente con la veste dell’amore, affinché siamo persone luminose e non appartenenti alle tenebre.

Infine ancora una breve parola riguardo alla casula. La preghiera tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore che a noi come sacerdoti è stato imposto. E ricorda la parola di Gesù che ci invita a portare il suo giogo e a imparare da Lui, che è « mite e umile di cuore » (Mt 11,29). Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui. Essere sempre disposti ad andare a scuola da Lui. Da Lui dobbiamo imparare la mitezza e l’umiltà – l’umiltà di Dio che si mostra nel suo essere uomo. San Gregorio Nazianzeno una volta si è chiesto perché Dio abbia voluto farsi uomo. La parte più importante e per me più toccante della sua risposta è: « Dio voleva rendersi conto di che cosa significa per noi l’obbedienza e voleva misurare il tutto in base alla propria sofferenza, all’invenzione del suo amore per noi. In questo modo, Egli può conoscere direttamente su se stesso ciò che noi sperimentiamo – quanto è richiesto da noi, quanta indulgenza meritiamo – calcolando in base alla sua sofferenza la nostra debolezza » (Discorso 30; Disc. teol. IV,6). A volte vorremmo dire a Gesù: Signore, il tuo giogo non è per niente leggero. È anzi tremendamente pesante in questo mondo. Ma guardando poi a Lui che ha portato tutto – che su di sé ha provato l’obbedienza, la debolezza, il dolore, tutto il buio, allora questi nostri lamenti si spengono. Il suo giogo è quello di amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero diventa per noi il suo giogo apparentemente pesante.

Preghiamolo di aiutarci a diventare insieme con Lui persone che amano, per sperimentare così sempre di più quanto è bello portare il suo giogo. Amen. 

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 6 avril, 2007 |Pas de commentaires »
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