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DAL LIBRO DI BENEDETTO XVI « LA GIOIA DELLA FEDE »: ECCO UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA VITA ETERNA

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LA GIOIA DELLA FEDE

DAL LIBRO DI BENEDETTO XVI « LA GIOIA DELLA FEDE »: ECCO UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA VITA ETERNA

Dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?

È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l’accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo.
Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?». Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?»
Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna».
Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono.
La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio. [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia». Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…». Qualunque cosa sant’Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole, è vero che l’eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l’umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio.
Ovviamente c’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità». Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera.
Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta.
Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo.
Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. «C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza» (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell’uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa «cosa» ignota è la vera «speranza» che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo.
La parola «vita eterna» cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. «Eterno», infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; «vita» ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più.
Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia»
(16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

«DIO DÀ INIZIO A UNA STORIA» – Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger …

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«DIO DÀ INIZIO A UNA STORIA»

Cenni della concezione cristiana di tempo e di eternità. Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense il 15 dicembre 1998 all’interno del Colloquio su «San Tommaso e lo Spirito Santo»

Brani da un intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense

Aristotele ha tratteggiato una visione del mondo orientata in modo cosmocentrico, che oggi ancora ci colpisce per la chiarezza della sua logica e la coerenza della sua concezione. Questa visione del mondo è determinata dalla correlazione reciproca di tempo e di non tempo. Il cosmo stesso è perpetuo movimento circolare, che non ha né inizio né fine. Ma questo movimento ha bisogno per così dire di un motore, di una forza, che deve essere come esso stesso infinita, ma non può essere ancora una volta movimento. Il motore immobile è l’energia continua dell’universo. Poiché è immobile, è collocato al di fuori del tempo, dal momento che il tempo dipende dal movimento. La semplice immobilità, immutabilità, eternità è pertanto da caratterizzare come atemporalità. Il tempo è agganciato all’eternità, all’atemporalità. Il tempo dipende da ciò che è atemporale, riceve da lì la sua energia, ma l’eternità non è toccata dal tempo, bensì rimane pura in se stessa. Diversamente infatti sarebbe anch’essa movimento, diverrebbe anch’essa relativa e non potrebbe più sostenere ciò che è relativo. Il condizionato postula l’incondizionato. Poiché però questa realtà senza movimento è per sua essenza senza principio e senza fine, quindi anche il tempo può sempre essere senza principio e senza fine: la sua temporalità non dipende dal cominciare e dal venir meno, ma dalla persistenza del suo muoversi. Il tempo è puro movimento ed è definito dal movimento, come l’eternità è definita dal non movimento, dalla pura semplicità dell’essere.
L’idea che l’eternità sia atemporalità e che così venga descritta l’essenza di Dio ha in qualche modo determinato anche il pensiero cristiano. Tommaso d’Aquino a partire da qui ha insegnato che fondamentalmente un cosmo senza principio e senza fine sarebbe perfettamente conciliabile con la fede cristiana; solo per una specifica rivelazione si verrebbe a conoscere che il mondo ha come creazione un principio e come storia una fine, ma dal punto di vista filosofico questo non sarebbe deducibile e non sarebbe in sé un concetto necessariamente connesso con la fede in Dio. Nel nostro tempo, andando oltre questa certamente convincente concezione aristotelico-cristiana di san Tommaso si è affermato un singolare sviluppo dell’idea di eternità come atemporalità, che è importante per la nostra questione. In una vasta corrente di teologia si sostiene l’opinione che la temporalità è legata alla corporeità e pertanto l’uscire dell’uomo dal corpo nella morte significa anche l’uscire dal tempo nell’atemporalità – un’idea che naturalmente nel sistema aristotelico non poteva emergere. Chi dunque abbandona la corporeità determinata in modo fisico-biologico non potrebbe entrare in una fase intermedia nell’attesa della fine del tempo.
Egli si troverebbe di fatto totalmente al di fuori del tempo nell’eternità, che sarebbe atemporalità. Egli sarebbe situato al di là del tempo. In questo caso il giudizio e la fine del tempo non potrebbero essere pensati come ancora da attendere, perché ciò significherebbe introdurre nuovamente elementi temporali, laddove non esiste più nessun tempo. Essendo situati là ove è Dio, nell’atemporalità dell’eternità, ci si troverebbe ormai nel mondo già compiuto della risurrezione, al di là della storia, perché presso Dio, in quanto totalmente atemporale, tutto è già compiuto e ciò che all’interno del tempo è ancora da attendere là sarebbe già continuo presente. Così la storia come tempo potrebbe continuare tranquillamente senza fine, mentre essa dall’altra parte sarebbe in realtà sempre già compiuta. Le sofferenze, che da una parte vengono patite, sarebbero dall’altra parte sempre già superate nella definitiva vittoria di Dio. L’identificazione di eternità con atemporalità e l’appiattimento di tutto ciò che non è fisico nell’atemporalità introduce qui un dualismo di due mondi, nel quale la storia – a mio parere – perde ogni aspetto di serietà: mentre noi crediamo di operare in essa con fatica, di là essa è ormai già passata. La fine della storia non riguarda la storia stessa, ma si situa laddove semplicemente non vi è nessuna storia.
Devo confessare che questo dualismo rimane per me incomprensibile, per quanto ampiamente oggi esso sia diffuso con la teoria della “risurrezione nella morte”, che di fatto presuppone proprio questa idea della morte come uscita dal tempo, in cui tutto ciò che a noi sembra futuro, già è presente senza tempo. Una cosa comunque, a mio parere, emerge con evidenza: per la chiarificazione del concetto di tempo è necessario anche l’approfondimento del concetto di eternità così come la distinzione dei livelli di tempo. Il tempo non è solo un fenomeno fisico. L’esistenza del tempo non dipende solo dal movimento degli astri, vi è movimento anche nell’ambito del cuore, dello spirito. Ed a partire da qui ci si deve chiedere se la relazione di Dio con il mondo e con il tempo possa essere descritta in modo adeguato semplicemente con il concetto dell’atemporalità. Ciò che nel sistema cosmico di Aristotele è perfettamente logico e corretto diviene contraddittorio se lo si mette in relazione con la concezione cristiana di Dio, con il Dio che non solo muove il mondo restando immobile, ma lo crea – con il Dio che dà inizio ad una storia, che contrae un’alleanza e questo fino al punto che egli stesso diviene un uomo. Naturalmente non può semplicemente essere attribuita a Dio quella medesima modalità di temporalità che caratterizza l’uomo inserito nel cosmo e neppure l’uomo che nella morte è uscito dalla corporeità. Se mi contrappongo qui ad un certo tipo di aristotelismo cristiano, mi contrappongo quindi anche ad Oscar Cullmann, che in comprensibile reazione all’aristotelismo ed al platonismo riteneva che nella Bibbia anche Dio appartenga al tempo e di conseguenza denomina tutto allo stesso modo tempo e storia. Più precisa mi sembra già essere la proposta di Emil Brunner di definire l’eternità di Dio a partire dall’immagine cristiana di Dio, non come atemporalità, ma come dominio del tempo.
Il Dio della Bibbia non è una forza che riposa in se stessa, che tiene in movimento il mondo senza muovere se stessa. Quando Dante definisce Dio «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso XXXIII, 145), riecheggia certo chiaramente la visione aristotelica, ma con il concetto di «amor» è nondimeno enunciato qualcosa di nuovo: l’idea della relazione, che assume in sé l’altro e si lascia assumere in lui. L’immagine delle mani, che abbracciano il tempo e così gli divengono contemporanee, mi sembra rendere nel modo migliore una rappresentazione della relazione di Dio con il tempo ed insieme della sua superiorità su di esso. Troppo a lungo siamo qui restati all’interno della struttura concettuale aristotelica. Ripensare l’essenza dell’eternità a partire dalle conoscenze e dalle esperienze della fede cristiana mi sembra essere un compito ancora ampiamente aperto. Quando ci si inoltra in tale via, allora il rigido cosmocentrismo della visione aristotelica si dissolve da solo, perché non conta più soltanto il fenomeno del movimento fisico, ma anche il movimento dello spirito e così la storia, l’uomo, ottiene una sua propria dignità di collocazione.

Dal numero di Nuntium del giugno 1999

L’ANNUNCIAZIONE (J. RATZINGER) – DAL LIBRO « LA FIGLIA DI SION »

http://it.mariedenazareth.com/8438.0.html?&L=4

L’ANNUNCIAZIONE (J. RATZINGER) – DAL LIBRO « LA FIGLIA DI SION »

Nel suo libro La figlia di Sion, Papa Benedetto XVI, allora Cardinale J. Ratzinger, il racconto dell’Annunciazione è fonte di numerose meditazioni. Egli, andando diritto all’essenziale, apre la via ai principali approfondimenti che il lettore trova poi a sua disposizione.

Il luogo
Anzitutto, è già importante la localizzazione che Luca presenta in voluta contrapposizione con la precedente storia di Giovanni Battista.
L’annuncio della nascita del Battista avviene nel Tempio di Gerusalemme, è fatto ad un sacerdote che sta svolgendo la sua funzione e avviene, per così dire, nell’ordinamento ufficiale, come prescritto dalla legge, in conformità al culto, al luogo e alle funzioni.
L’annuncio della nascita del Messia viene fatto a Maria, ad una donna, in un luogo insignificante della semi-pagana Galilea che né Flavio Giuseppe né il Talmud nominano. Tutto ciò era « insolito per la sensibilità ebraica.
Ora Dio si rivela dove e quando Lui vuole ». Incomincia una vita nuova, al centro della quale non vi è il tempio ma l’umanità semplice di Gesù Cristo. È Egli ora il vero tempio, la tenda dell’incontro.

Il saluto a Maria
Il saluto a Maria (Lc 1,28-32) è stato formulato con stretto riferimento a Sof. 3,14-17 : è Maria la figlia di Sion alla quale sono rivolte le espressioni di quel testo, a lei viene detto « Gioisci » ; a lei viene detto che il Signore viene a lei; è lei che viene sollevata dall’angoscia perché il Signore è con lei per salvarla. [...]
Maria rimase turbata (Lc 1,29) a questo messaggio. Il suo turbamento non deriva dalla non comprensione o da quella paura pusillanime alla quale lo si vorrebbe talvolta far risalire. Deriva dalla commozione prodotta dagli incontri con Dio, di quelle gioie incommensurabili che sono capaci di commuovere le nature più dure.
Nel saluto dell’angelo compare il motivo portante con cui Luca presenta la figura di Maria in genere: è lei, in persona, la vera Sion alla quale si sono rivolte le speranze da tutte le rovine della storia.
È lei il vero Israele, nel quale si uniscono inseparabilmente Antica e Nuova Alleanza, Israele e Chiesa.
È lei il « popolo di Dio » , che porta frutto per la potenza della grazia di Dio.

Un concepimento misterioso
Dobbiamo infine fare attenzione anche all’espressione con la quale, in modo preciso, viene descritto il mistero del nuovo concepimento e della nuova nascita: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo ». [...]
La prima immagine fa riferimento al racconto della creazione ( Gn 1,2) e caratterizza quindi l’avvenimento come una nuova creazione: il Dio, il cui Spirito aleggiava sugli abissi, chiamò l’essere dal nulla. Egli che, come « Spirito creatore », è la ragione di tutto ciò che è, questo Dio inaugura qui una nuova creazione. Viene perciò sottolineato con ogni energia il taglio radicale che la venuta di Cristo significa: la sua novità è tale che essa raggiunge anche il fondamento dell’essere; è tale che può venire solamente dalla potenza creatrice di Dio stesso, non da altre parti.
La seconda immagine « su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo », appartiene alla teologia cultuale d’Israele; essa rimanda alla nube che stende la sua ombra sul Tempio ed indica così la presenza di Dio. Maria appare come la tenda santa sulla quale comincia ad agire la presenza nascosta di Dio.

J. Ratzinger (Papa Benedetto XVI)
La figlia di Sion, Jaca Book, Milano 1979, p.41-43

LO SPLENDORE DELLA PACE DI FRANCESCO (SAN FRANCESCO) – DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

http://www.30giorni.it/articoli_id_375_l1.htm

LO SPLENDORE DELLA PACE DI FRANCESCO (SAN FRANCESCO)

«Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura». Un articolo per 30Giorni del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

Storie di san Francesco, Giotto, basilica superiore, Assisi
La preghiera di san Francesco nella chiesa di San Damiano, particolare, Storie di san Francesco, Giotto, basilica superiore, Assisi
Quando, giovedì 24 gennaio, sotto un cielo gravido di pioggia, si è mosso il treno che doveva condurre ad Assisi i rappresentanti di un gran numero di Chiese cristiane e comunità ecclesiali assieme ai rappresentanti di molte religioni mondiali per testimoniare e pregare per la pace, questo treno mi è apparso come un simbolo del nostro pellegrinaggio nella storia. Non siamo, infatti, forse tutti passeggeri di uno stesso treno? Il fatto che il treno abbia scelto come sua destinazione la pace e la giustizia, la riconciliazione dei popoli e delle religioni non è forse una grande ambizione e, al contempo, uno splendido segnale di speranza? Ovunque, passando nelle stazioni, è accorsa una gran folla per salutare i pellegrini della pace. Nelle strade di Assisi e nella grande tenda, il luogo della testimonianza comune, siamo stati nuovamente circondati dall’entusiasmo e dalla gioia piena di gratitudine, in particolare di un numeroso drappello di giovani. Il saluto della gente era diretto principalmente all’uomo anziano vestito di bianco che stava sul treno. Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni. Ma l’applauso, rivolto innanzitutto al Papa, esprimeva anche un consenso spontaneo per tutti coloro che con lui cercano la pace e la giustizia, ed era un segnale del desiderio profondo di pace che provano gli individui di fronte alle devastazioni che ci circondano provocate dall’odio e dalla violenza. Anche se talvolta l’odio appare invincibile e si moltiplica senza sosta nella spirale della violenza, qui, per un momento, si è percepita la presenza della forza di Dio, della forza della pace. Mi vengono alla mente le parole del salmo: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18, 30). Dio non ci mette gli uni contro gli altri, bensì Egli che è Uno, che è il Padre di tutti, ci ha aiutato, almeno per un momento, a scavalcare le mura che ci separano, facendoci riconoscere che Egli è la pace e che non possiamo essere vicini a Dio se siamo lontani dalla pace.
Due immagini della Giornata di Assisi: in alto, il muftì della moschea di Roma mentre depone la lampada sul tripode posto davanti al palco; a destra, un gruppo di leader religiosi non cristiani
Due immagini della Giornata di Assisi: in alto, il muftì della moschea di Roma mentre depone la lampada sul tripode posto davanti al palco; a destra, un gruppo di leader religiosi non cristiani
Nel suo discorso il Papa ha citato un altro caposaldo della Bibbia, la frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è la nostra pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Pace e giustizia sono nel Nuovo Testamento nomi di Cristo (per «Cristo, nostra giustizia» vedere ad esempio 1Cor 1, 30). Come cristiani non dobbiamo nascondere questa nostra convinzione: da parte del Papa e del Patriarca ecumenico la confessione di Cristo nostra pace è stata chiara e solenne. Ma proprio per questa ragione c’è qualcosa che ci unisce oltre le frontiere: il pellegrinaggio per la pace e la giustizia. Le parole che un cristiano deve dire a colui che si mette in cammino verso tali mete sono le stesse usate dal Signore nella risposta allo scriba che aveva riconosciuto nel duplice comandamento che esorta ad amare Dio e il prossimo la sintesi del messaggio veterotestamentario: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34).
Per una giusta comprensione dell’evento di Assisi, mi sembra importante considerare che non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia. Infatti, là dove manca la giustizia, dove agli individui viene negato il loro diritto, l’assenza di guerra può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione.
Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia, i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione. Ciò vale anche per noi cristiani. Siamo giunti veramente a Cristo solo se siamo arrivati alla sua pace e alla sua giustizia. Assisi, la città di san Francesco, può essere la migliore interprete di questo pensiero. Anche prima della sua conversione Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere prigioniero e sconfitto era formato da cristiani. Fu solo allora, sconfitto, prigioniero, sofferente, che cominciò a pensare al cristianesimo in modo nuovo. E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del Crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza. Solo allora vide come la nudità del Crocifisso, la sua povertà e la sua umiliazione estreme fossero in contrasto con il lusso e la violenza che prima gli apparivano normali. E solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa, bensì bisognava prendere alla lettera il messaggio dell’imitazione del Crocifisso.
Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura. Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo. E se altri si uniscono a noi nella ricerca della pace e della giustizia, né loro né noi dobbiamo temere che la verità possa venir calpestata da belle frasi fatte. No, se noi ci dirigiamo seriamente verso la pace allora siamo sulla via giusta perché siamo sulla via del Dio della pace (Rm 15, 32) il cui volto si è fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo.

J. RATZINGER. LA TRASFIGURAZIONE (DA GESÙ DI NAZARET)

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J. RATZINGER. LA TRASFIGURAZIONE (DA GESÙ DI NAZARET)

In tutti e tre i sinottici la confessione di Pietro e il rac­conto della trasfigurazione di Gesù sono collegati tra loro da un’indicazione temporale. Matteo e Marco di­cono: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Gia­como e Giovanni» (Mt. 17,1; Mc. 9,2), Luca scrive: «Circa otto giorni dopo questi discorsi … » (Lc 9,28). Ciò significa innanzi tutto che i due avvenimenti in cui Pietro svolge sempre un ruolo preminente han­no a che fare l’uno con l’altro. In un primo momento potremmo dire: entrambe le volte si tratta della divi­nità di Gesù, il Figlio; ma entrambe le volte l’appari­zione della sua gloria è legata anche al tema della pas­sione. La divinità di Gesù va insieme alla croce; solo in questo legame riconosciamo Gesù in modo giusto. Giovanni ha espresso questo intimo intreccio di croce e gloria dicendo che la croce è l’«esaltazione» di Gesù e che la sua esaltazione non si compie se non sulla cro­ce. Ora dobbiamo tuttavia andare un po’ più a fondo circa questa singolare datazione. Esistono due inter­pretazioni differenti che però non devono escludersi a vicenda.
In particolare Jean-Marie Van Cangi e Michel Van Esbroeck hanno sviscerato il rapporto con il calenda­rio delle festività giudaiche. Essi richiamano l’atten­zione sul fatto che soltanto cinque giorni separano due grandi feste giudaiche nell’autunno: prima vi è lo Yom Kippur, la grande festa dell’espiazione; sei giorni dopo viene poi celebrata la festa delle Capanne (Sukkot) che dura una settimana. Ciò starebbe a significare che la confessione di Pietro ha avuto luogo durante il grande giorno dell’espiazione e che teologicamente andrebbe anche interpretata sullo sfondo di questa festa, l’unica occasione dell’anno in cui il sommo sacerdote pronun­cia solennemente il nome YHWH nel Santo dei Santi del tempio. In questo contesto la confessione di Pietro in Gesù Figlio del Dio vivente acquisirebbe un’ulte­riore dimensione di profondità. Jean Daniélou ricolle­ga invece l’indicazione della data fornita dagli evange­listi esclusivamente alla festa delle Capanne, che – co­me già detto – durava un’intera settimana. In sostanza, dunque, le indicazioni temporali di Matteo, Marco e Luca concorderebbero. I sei, rispettivamente circa ot­to giorni, si riferirebbero quindi alla settimana della festa delle Capanne; la trasfigurazione di Gesù avreb­be pertanto avuto luogo l’ultimo giorno di questa fe­sta, che ne costituiva insieme il culmine e la sintesi in­terna.
Le due interpretazioni sono accomunate dal fatto che la trasfigurazione di Gesù ha a che fare con la fe­sta delle Capanne. Vedremo che, in effetti, questa rela­zione si manifesta nel testo stesso e ci consente una comprensione più profonda dell’intero avvenimento. Oltre la peculiarità di questi racconti emerge un tratto fondamentale della vita di Gesù, delineato soprattutto da Giovanni, come abbiamo visto nel capitolo prece­dente: i grandi avvenimenti della vita di Gesù hanno un rapporto intrinseco con il calendario delle festività ebraiche; sono, per così dire, avvenimenti liturgici in cui la liturgia, con la sua commemorazione e la sua attesa, diventa realtà, diventa vita, che riconduce a sua volta alla liturgia e che da lì vorrebbe ridiventare vita.
Proprio nell’analisi delle relazioni tra la storia della trasfigurazione e la festa delle Capanne vedremo anco­ra una volta con chiarezza, che tutte le feste giudaiche hanno in sé tre dimensioni. Derivando da celebrazioni della religione naturale, parlano del Creatore e della creazione; si trasformano poi in ricordi dell’agire stori­co di Dio e infine, in base a ciò, in feste della speranza che vanno incontro al Signore che viene, nel quale giunge a compimento l’agire salvifico di Dio nella sto­ria e si risolve al tempo stesso nella riconciliazione di tutta la creazione. Vedremo come queste tre dimensio­ni delle feste si approfondiscano ulteriormente e acquistino un nuovo carattere mediante la loro realizza­zione nella vita e nella passione di Gesù. A questa interpretazione liturgica della data se ne con­trappone un’altra, sostenuta con insistenza soprattutto da Hartmut Gese, che non reputa sufficientemente fondata l’allusione alla festa delle Capanne e legge in­vece l’intero testo sullo sfondo di Esodo 24 – la salita di Mosè sul monte Sinai. In effetti, questo capitolo, in cui viene descritta la stipulazione dell’Alleanza di Dio con Israele, è una chiave interpretativa essenziale per l’evento della trasfigurazione. Vi si legge: «La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube» (Es 24,16). Il fatto che qui­a differenza dei Vangeli – si parli del settimo giorno non deve smentire un legame tra Esodo 24 e l’evento della trasfigurazione; mi sembra tuttavia più convin­cente la datazione basata sul calendario delle festività giudaiche. Del resto, non vi è nulla di inconsueto nel fatto che diversi collegamenti tipologici confluiscano negli avvenimenti del cammino di Gesù, dimostrando così che Mosè e i Profeti parlano tutti di Gesù.
Veniamo ora al testo stesso della trasfigurazione. Vi si dice che Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovan­ni e li portò sopra un monte alto, loro soli (cfr. Mc 9,2). Ritroveremo questi tre discepoli sul monte degli Ulivi (cfr. Mc 14,33) nell’estrema angoscia di Gesù come immagine di contrasto con la trasfigurazione, sebbene i due episodi siano inscindibilmente legati tra loro. Qui non si può non vedere il riferimento a Esodo 24, dove Mosè porta con sé nella sua salita Aronne, Nadab e Abiu – ma anche settanta anziani d’Israele.
Come già nel Discorso della montagna e nelle notti trascorse in preghiera da Gesù, incontriamo di nuovo il monte come luogo della particolare vicinanza di Dio; di nuovo dobbiamo pensare ai vari monti della vita di Gesù come a un tutt’uno: il monte della tentazione, il monte della sua grande predicazione, il monte della preghiera, il monte della trasfigurazione, il monte dell’angoscia, il monte della croce e infine il monte dell’a­scensione; su di esso il Signore – in contrasto con l’of­ferta del dominio sul mondo in virtù del potere del de­monio – dichiara: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). Sullo sfondo si stagliano però anche il Sinai, l’Oreb, il Moria – i monti della rivela­zione dell’Antico Testamento, che sono tutti al tempo stesso monti della passione e monti della rivelazione e, dal canto loro, rimandano, anche al monte del tempio su cui la rivelazione diventa liturgica.
Nella ricerca di un’interpretazione, senza dubbio si profila dapprima sullo sfondo il simbolismo generale del monte: il monte come luogo della salita – non solo della salita esteriore, ma anche dell’ascesa interiore; il monte come un liberarsi dal peso della vita quotidia­na, come un respirare nell’ aria pura della creazione; il monte che offre il panorama dell’ampiezza della crea­zione e della sua bellezza; il monte che mi dà elevatez­za interiore e mi permette di intuire il Creatore. La storia aggiunge a queste considerazioni l’esperienza del Dio che parla e l’esperienza della passione, che culmina nel sacrificio di Isacco, nel sacrificio dell’a­gnello, prefigurazione dell’Agnello definitivo, sacrifi­cato sul monte Calvario. Mosè ed Elia avevano potuto ricevere la rivelazione di Dio sul monte; ora sono a colloquio con Colui che è la rivelazione di Dio in per­sona.
«Si trasfigurò davanti a loro» dice semplicemente Marco e, con un po’ di goffaggine, quasi balbettando dinanzi al mistero aggiunge: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaia sulla terra potrebbe renderle così bianche» (9,2s). Matteo dispo­ne già di parole più impegnative: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (17,2). Luca è l’unico ad aver indicato già in precedenza lo scopo della salita: «Salì sul monte a pregare», e da lì spiega poi l’avvenimento di cui i tre discepoli diventano testimoni: «E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne can­dida e sfolgorante» (9,29). La trasfigurazione è un av­venimento di preghiera; diventa visibile ciò che acca­de nel dialogo di Gesù con il Padre: l’intima compe­netrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce. Ciò che Egli è nel suo intimo e ciò che Pietro aveva cercato di dire nella sua confessione – si rende percepibile in questo momento anche ai sensi: l’essere di Gesù nella luce di Dio, il suo proprio esse­re luce come Figlio.
Qui diventano visibili il riferimento alla figura di Mosè e la differenza: «Quando Mosè scese dal monte Sinai [ ... ] non sapeva che la pelle del suo viso era di­ventata raggiante, poiché aveva conversato con il Si­gnore»(Es 34,29). Attraverso la conversazione con Dio, la luce di Dio si irradia su di lui e lo rende a sua volta raggiante. Tuttavia, si tratta, per cosi dire, di un raggio che lo raggiunge dall’esterno, e ora fa risplen­dere anche lui. Gesù, invece, risplende dall’interno, non riceve solo luce, ma è Egli stesso Luce da Luce.
L’abito di Gesù, bianco come la luce durante la trasfi­gurazione, parla tuttavia anche del nostro futuro. Nella letteratura apocalittica le vesti bianche sono espressione della creatura celeste – le vesti degli angeli e degli eletti. così, l’Apocalisse di Giovanni parla delle vesti candide che verranno indossate dai salvati (cfr. soprattutto 7,9.13; 19,14), Essa, però, ci dice anche qualcosa di nuo­vo: le vesti degli eletti sono candide perché essi le hanno lavate nel sangue dell’ Agnello (cfr. Ap 7,14) – vuol dire: perché mediante il battesimo sono stati uniti alla passio­ne di Gesù e la sua passione è la purificazione che ci re­stituisce la veste originaria, perduta nel peccato (cfr. Le 15,22!). Mediante il battesimo siamo con Gesù rivestiti di luce e siamo diventati noi stessi luce.
Ora appaiono Mosè ed Elia e parlano con Gesù. Ciò che il Risorto spiegherà ai discepoli sulla via di Em­maus è qui un’apparizione visibile. La Legge e i Profe­ti parlano con Gesù, parlano di Gesù. Soltanto Luca ci riferisce – almeno in un breve accenno – di che cosa conversavano i due grandi testimoni di Dio con Gesù: «Apparsi nella loro gloria, parlavano della sua diparti­ta che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (9,31). Il loro argomento di conversazione è la croce, intesa tuttavia in senso ampio come esodo di Gesù, che doveva aver luogo a Gerusalemme. La cro­ce di Gesù è esodo, un uscire da questa vita, un attraversare il «Mar Rosso» della passione e un passare nella gloria, nella quale tuttavia restano sempre impresse le stimmate.
In tal modo si chiarisce che il tema fondamentale della Legge e dei Profeti è la «speranza di Israele» ­l’esodo che libera definitivamente; che il contenuto di questa speranza è il sofferente Figlio dell’uomo e ser­vo di Dio che, soffrendo, apre la porta verso la libertà e la novità. Mosè ed Elia sono essi stessi figure e testi­moni della passione. Parlano con il Trasfigurato di ciò che hanno detto sulla terra, della passione di Gesù; ma, mentre ne parlano con il Trasfigurato, diventa pa­lese che questa passione porta salvezza; che è permea­ta dalla gloria di Dio, che la passione viene trasformata in luce, in libertà e gioia.
A questo punto dobbiamo anticipare la conversazione che i tre discepoli intrattengono con Gesù durante la discesa dal «monte alto». Gesù parla con loro della sua futura risurrezione dai morti che, appunto, include la croce come precedente passaggio. I discepoli, invece, pongono domande sul ritorno di Elia annunciato dagli scribi. Gesù dice loro: «Sì, prima viene Elia e ristabili­sce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uo­mo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fat­to di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Me 9,9-13). Gesù conferma così, da una parte, l’attesa del ritorno di Elia, ma dall’altra completa e corregge al con tempo l’immagine che ci si era fatti di quell’evento. Identifica tacitamente l’Elia che ritorna con Giovanni Battista: nell’attività del Battista ha avu­to luogo un ritorno di Elia.
Giovanni era venuto per riunire Israele, per prepa­rarlo all’ avvento del Messia. Se però il Messia è Egli stesso il sofferente Figlio dell’uomo e solo così apre la via verso la salvezza, allora anche l’attività preparato­ria di Elia deve stare in qualche modo sotto il segno della passione. E infatti: «Hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Mc 9,13). Qui Gesù ricorda, da una parte, l’effettivo destino del Battista, ma dall’ altra, con il riferimento alla Scrittu­ra, allude forse anche a tradizioni esistenti, che predi­cevano il martirio di Elia: Elia veniva considerato «l’unico a essere sfuggito al martirio durante la perse­cuzione; al suo ritorno deve subire anch’egli la morte» (Pesch, Markusevangeliurn II, p. 80).
L’attesa della salvezza e la passione vengono pertan­to comunemente associate tra loro, sviluppando così un’immagine della redenzione che, in fondo, è confor­me alla Scrittura, ma che possiede una novità travol­gente rispetto alle aspettative esistenti: la Scrittura an­dava e va continuamente riletta con il Cristo sofferen­te. Sempre di nuovo dobbiamo lasciarci introdurre dal Signore nel suo dialogo con Mosè ed Elia, continua­mente dobbiamo imparare di nuovo a partire da Lui, il Risorto, a comprendere la Scrittura.
Torniamo al racconto stesso della trasfigurazione. I tre discepoli sono sconvolti dalla grandezza dell’ apparizio­ne: il «timore di Dio» li pervade, come abbiamo visto in altri momenti in cui avvertono la vicinanza di Dio in Ge­sù, intuiscono la propria miseria e sono quasi paralizzati dalla paura. «Erano stati presi dallo spavento» ci dice Marco (9,6). E tuttavia Pietro prende la parola, anche se nel suo stordimento, «non sapeva [ ... ] che cosa dire» (9,6): «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!» (9,5).
Di queste parole per così dire estatiche, pronunciate nel timore ma anche nella gioia della vicinanza di Dio, si è discusso molto. Hanno forse a che fare con la festa delle Capanne, nel cui ultimo giorno ebbe luogol’ap­parizione? Hartmut Gese contesta questa ipotesi e ri­tiene che il vero punto di riferimento nell’ Antico Testa­mento sia Esodo 33,7ss, dove viene descritta la «ritua­lizzazione dell’ episodio del Sinai» . Secondo questo te­sto, Mosè piantò «fuori dell’accampamento» la tenda della rivelazione, su cui scese poi la colonna di nube. Lì il Signore e Mosè parlarono «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (33,11). Qui Pietro vorrebbe dunque dare continuità all’ evento della rivelazione ed erigere tende di rivelazione; il particolare della nube che ora avvolge i discepoli potrebbe confermarlo. Una reminiscenza di questo testo della Scrittura potrebbe senz’ altro essere presente; l’esegesi ebraica e paleocri­stiana conosce un intreccio in cui differenti riferimenti alla rivelazione confluiscono e si completano a vicenda. Il fatto che debbano essere costruite tre tende della ri­velazione è tuttavia in contrasto con un simile riferi­mento o almeno lo fa apparire secondario. Il rapporto con la festa delle Capanne diventa con­vincente se si considera l’interpretazione messianica di questa festa nel giudaismo all’epoca di Gesù. Jean Da­niélou ha approfondito questo aspetto in maniera con­vincente, collegandolo alla testimonianza dei Padri, in cui le tradizioni ebraiche erano senz’ altro ancora note e venivano reinterpretate nel contesto cristiano. La fe­sta delle Capanne presenta la medesima tridimensio­nalità caratteristica – come abbiamo già potuto vedere – delle grandi feste giudaiche in generale: una festa tratta originariamente dalla religione naturale diventa al tempo stesso una festa dei ricordi storici delle azioni salvifiche di Dio, e il ricordo diventa speranza di sal­vezza definitiva. Creazione – storia – speranza si colle­gano tra loro. Se durante la festa naturale delle Capan­ne con la sua offerta dell’ acqua si era implorata la pioggia necessaria in una terra arida, la festa diviene ben presto il ricordo della peregrinazione di Israele nel deserto, dove gli ebrei avevano vissuto nelle tende (ca­panne, sukkot) (cfr. Lv 23,43),Daniélou cita prima Riesenfeld: «Le capanne furono concepite non solo come ricordo della protezione divina nel deserto, ma [ciò che è importante] anche come una prefigurazione dei sukkot [divini] nei quali i giusti avrebbero abitato nel secolo a venire. Sembra, quindi, che con il rito più caratteristico della festa delle Capanne, così come que­sta era celebrata nei tempi del giudaismo, era collega­to un significato escatologico molto preciso» (p. 451). Nel Nuovo Testamento, ritroviamo in Luca il discorso delle eterne tende dei giusti nella vita futura (16,9). «L’epifania della gloria di Gesù» così Daniélou «è in­terpretata da Pietro come il segno che i tempi messianici sono arrivati. E uno dei caratteri dei tempi messia­nici era il soggiorno dei giusti nelle tende di cui quelle della festa delle Capanne erano figura» (p. 459). L’esperienza della trasfigurazione durante la festa delle Capanne permise a Pietro di riconoscere, nella sua estasi, «che le realtà prefigurate dai riti della festa era­no realizzate [ ... ]. La scena della trasfigurazione indica dunque che i tempi messianici sono venuti» (p. 459). Solo durante la discesa dal monte Pietro dovrà impa­rare ancora in modo nuovo a comprendere che l’epo­ca messianica è innanzitutto l’epoca della croce e che la trasfigurazione – il diventare luce in virtù del Signo­re e con Lui – comporta il nostro essere arsi dalla luce della passione.
A partire da questi collegamenti acquista nuovo si­gnificato anche la frase fondamentale del Prologo di Giovanni, dove l’evangelista riassume il mistero di Ge­sù: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare [lette­ralmente: pose la tenda] in mezzo a noi» (Cv 1,14). Sì, il Signore ha piantato la tenda del suo corpo in mezzo a noi, inaugurando così l’epoca messianica. Seguendo questa traccia, Gregorio di Nissa ha commentato il rapporto tra la festa delle Capanne e l’incarnazione in un testo magnifico, che parte dalla constatazione che la festa delle Capanne veniva sempre celebrata ma non era compiuta: «La vera festa della costruzione delle Capanne, infatti, non c’era ancora. Ma proprio per questo, conformemente alla parola profetica [allusio­ne al Salmo 118,27], Dio il Signore dell’universo si è rivelato a noi, per compiere la ricostruzione della ten­da distrutta della natura umana» (Gregorio di Nissa, De anima, PC 46, 132 B; cfr. Daniélou, pp. 464-466). Con negli occhi questa panoramica, torniamo ora al racconto della trasfigurazione. «Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: « Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo! »» (Me 9,7). La nube sacra è il segno della presenza di Dio stesso, la Shekinah. La nube sopra la tenda della rive­lazione indicava la presenza di Dio. Gesù è la tenda sa­cra sopra la quale si trova la nube della presenza di Dio e dalla quale essa avvolge «nell’ombra» ora anche gli altri. Si ripete la scena del battesimo di Gesù, quan­do il Padre stesso dalla nube aveva indicato Gesù co­me Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi so­no compiaciuto» (Mc 1, 11).
A questa solenne proclamazione della dignità filiale si aggiunge però ora l’imperativo: «Ascoltatelo! ». Qui torna visibile la relazione con la salita di Mosè sul Si­nai, che all’inizio avevamo visto come sfondo della sto­ria della trasfigurazione. Sul monte, Mosè aveva ricevuto la Torah, la parola d’insegnamento di Dio. Ora, con riferimento a Gesù, ci viene detto: «Ascoltatelo! ». Hartmut Gese ha commentato questa scena con per­spicace correttezza: «Gesù è diventato la stessa Parola divina della rivelazione. I Vangeli non possono presen­tarlo in modo più chiaro e più possente: Gesù è la stes­sa Torah» (p. 81). L’apparizione è così terminata, il suo significato più profondo è riassunto in quest’unica parola. I discepoli devono ridiscendere con Gesù e im­parare sempre di nuovo: «Ascoltatelo!».
Se impariamo a interpretare così il contenuto del rac­conto della trasfigurazione – irruzione e inizio dell’epoca messianica – riusciamo anche a comprendere la parola oscura che Marco inserisce tra la confessione di Pietro e l’insegnamento ai discepoli, da una parte, e il racconto della trasfigurazione, dall’altra: «E diceva lo­ro: « In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza »» (9,1). Che cosa significa? Gesù predice forse che alcuni degli astanti saranno ancora in vita al momento della sua Parusìa, dell’irruzione definitiva del regno di Dio? Oppure preannuncia qualcos’altro?
Rudolf Pesch (II 2, p. 66s) ha osservato in modo convincente che la collocazione di questa parola subi­to prima della trasfigurazione indica con molta chia­rezza il rimando a questo avvenimento. Ad alcuni ­che sono poi i tre accompagnatori di Gesù nella salita sul monte – viene promesso che faranno l’esperienza della venuta del regno di Dio «con potenza». Sul mon­te, i tre discepoli vedono splendere la gloria del regno di Dio in Gesù. Sul monte, la nube sacra di Dio li av­volge nell’ombra. Sul monte – nel dialogo di Gesù tra­sfigurato con la Legge e i Profeti – essi riconoscono che la vera festa delle Capanne è arrivata. Sul monte apprendono che Gesù stesso è la Torah vivente, l’inte­ra parola di Dio. Sul monte vedono la «potenza» (djnamis) del regno che viene in Cristo.
Tuttavia, proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù devono imparare ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi nella Prima Lettera ai Corinzi: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cri­sto potenza di Dio [dinamis] e sapienza di Dio»(1,23s). Questa «potenza» (dynamis) del regno futuro appare loro nel Gesù trasfigurato che parla con i testi­moni dell’ Antica Alleanza della «necessità» della sua passione come via verso la gloria (cfr. Lc 24,26s). Ve­dono così la Parusìa anticipata; vengono così iniziati pian piano all’intera profondità del mistero di Gesù.

J. Ratzinger-Benedetto XVI « Gesù di Nazaret, pg. 352-366

CARD. JOSEPH RATZINGER : UN DONO PERSONALE (2002)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2002/Riv1002/Riv1002_04.htm

CARD. JOSEPH RATZINGER  :  UN DONO PERSONALE (2002)

Pubblichiamo un estratto della presentazione che il Card. Joseph Ratzinger ha fatto della Lettera Apostolica del Santo Padre in forma di « motu proprio » MISERICORDIA DEI su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza

Che l’umanità abbia bisogno di purificazione e di perdono, è del tutto evidente in questa nostra ora storica. Proprio per questo il Santo Padre ha auspicato fra le priorità della missione della Chiesa per il nuovo millennio « un rinnovato coraggio pastorale per proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione » (Novo Millennio Inenute, n. 37). A questo invito si riallaccia il nuovo Motu proprio Misericordia Dei che concretizza teologicamente, pastoralmente e giuridicamente alcuni importanti aspetti della prassi di questo Sacramento. Il Motu proprio sottolinea innanzi tutto il carattere personalistico del sacramento della Penitenza: come la colpa, malgrado tutti i nostri legami con la comunità umana, è qualcosa di totalmente personale, così anche la nostra guarigione, il perdono, deve essere totalmente personale.
Dio non ci tratta come parti di un collettivo – Egli conosce ogni singolo per nome, lo chiama personalmente e lo salva, se è caduto nella colpa.
Anche se in tutti i sacramenti il Signore si rivolge direttamente al singolo, il carattere personalistico dell’essere cristiani si manifesta in modo particolarmente chiaro nel sacramento della Penitenza. Ciò significa che sono parti costitutive del Sacramento la confessione personale e il perdono rivolto a questa persona.
L’assoluzione collettiva è una forma straordinaria e possibile solo in ben determinati casi di necessità; essa presuppone inoltre – proprio a partire dall’essenza del Sacramento – la volontà di provvedere alla confessione personale dei peccati, non appena ciò sarà possibile.
Questo carattere fortemente personalistico del sacramento della Penitenza era stato un po’ messo in ombra negli ultimi decenni a motivo di un sempre più frequente ricorso all’assoluzione collettiva, che era considerata sempre più come una forma normale del sacramento della Penitenza – un abuso, che ha contribuito alla progressiva scomparsa di questo Sacramento in alcune parti della Chiesa. Se il Papa ora riduce nuovamente i confini di questa possibilità, potrebbe insorgere l’obiezione: ma il sacramento della Penitenza ha pur subito nella storia molte trasformazioni, e perché non anche questa? Al riguardo occorre dire che la forma del Sacramento manifesta in realtà nel corso della storia notevoli variazioni, ma la componente personalistica gli era sempre essenziale.
La Chiesa ha avuto coscienza ed ha coscienza che solo Dio può perdonare i peccati (cfr. Mc 2,7). Perciò doveva imparare a discernere con attenzione, quasi con timore, quali poteri il Signore le aveva trasmesso e quali no. Dopo un lungo cammino di maturazione storica il Concilio di Trento ha esposto in una forma organica la dottrina ecclesiale sul sacramento della Penitenza. I Padri del Concilio di Trento hanno compreso le parole del Risorto ai suoi discepoli in Gv 20,22ss come le specifiche parole dell’istituzione del Sacramento: « Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi (DS 1670; 1703; 1710). A partire da Gv 20 essi hanno interpretato Mt 16,19 e 18,18 e compreso il potere delle chiavi della Chiesa come potere di remissione dei peccati. Trento si differenzia chiaramente dalla posizione riformata [protestante], secondo cui il sacramento della Penitenza significa solo una manifestazione di un perdono già concesso nella fede, che quindi non pone nulla di nuovo, ma solo annuncia, ciò che nella fede sempre già esiste.
Il carattere sacramentale-giuridico del Sacramento ha due importanti implicazioni: si tratta di un sacramento diverso dal battesimo, di un sacramento specifico, che presuppone un particolare potere sacramentale, quindi che è legato all’Ordine. Se deve esserci una valutazione giudiziale, allora è chiaro che il giudice deve conoscere la fattispecie da giudicare. Nell’aspetto giuridico è implicita la necessità della confessione personale con la comunicazione dei peccati, per i quali deve essere chiesto il perdono a Dio e alla Chiesa, perché essi hanno infranto quell’unità di amore con Dio donata nel battesimo.
A partire di qui il Concilio può dire che è necessario iure divino confessare tutti e singoli i peccati mortali (can. 7, 1707). Il dovere della confessione è istituito – così ci dice il Concilio – dal Signore stesso e costitutivo del Sacramento, non lasciato quindi alla disposizione della Chiesa.
Non è dunque nel potere della Chiesa sostituire la confessione personale con l’assoluzione generale: questo ci ricorda il Papa nel nuovo Motu proprio, che è così espressione della coscienza della Chiesa a riguardo dei limiti del suo potere – esprime il legame con la parola del Signore, che obbliga anche il Papa. Solo nella situazione di necessità, nella quale la salvezza ultima dell’uomo è in gioco, l’assoluzione può essere anticipata e la confessione rimandata ad un momento in cui per questo sarà data la possibilità: questo è il vero senso di ciò che in modo piuttosto oscuro viene reso con la parola assoluzione collettiva Qui è ora nondimeno compito della Chiesa definire quando si è in presenza di una tale situazione di necessità.
È allora questo un testo che pone nuovi pesi sulle spalle dei cristiani? È proprio il contrario: il carattere totalmente personale dell’esistenza cristiana viene difeso.
Certamente, la confessione della propria colpa può apparire spesso pesante alla persona, perché umilia il suo orgoglio e la confronta con la sua povertà. Ma è proprio di questo che abbiamo bisogno. Proprio di questo soffriamo, che ci rinchiudiamo nel nostro delirio di incolpevolezza e così ci chiudiamo anche davanti agli altri e nei confronti degli altri.
Nelle cure psicoterapeutiche si esige dalle persone di portare il peso di profonde e spesso pericolose rivelazioni circa la loro interiorità. Nel sacramento della Penitenza si depone con fiducia nella bontà misericordiosa di Dio la semplice confessione della propria colpa. È importante fare questo senza cadere nello scrupolo, nello spirito di confidenza proprio dei figli di Dio.
Così la confessione può divenire un’esperienza di liberazione, nella quale il peso del passato ci abbandona e noi possiamo sentirci ringiovaniti per merito della grazia di Dio, che ci ridona ogni volta la giovinezza del cuore.

Publié dans:Papa Benedetto/ Joseph Ratzinger |on 18 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

LA MUSICA E IL CANTO LITURGICO – (Papa Benedetto, Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto/ Jospeh Ratzinger)

http://www.carismaticiborghesiana.it/it/magistero/75-approfondimenti/487-la-musica-e-il-canto-liturgico.html

 LA MUSICA E IL CANTO LITURGICO

 (Papa Benedetto,  Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto/ Jospeh Ratzinger)

BENEDETTO XVI, Lettera al Gran Cancelliere del Pontificio Istituto di Musica Sacra in occasione del 100º anniversario di fondazione dell’Istituto, 13 maggio 2011

…Un aspetto fondamentale, a me particolarmente caro, desidero mettere in rilievo a tale proposito: come, cioè, da san Pio X fino ad oggi si riscontri, pur nella naturale evoluzione, la sostanziale continuità del Magistero sulla musica sacra nella Liturgia. In particolare, i Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, alla luce della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, hanno voluto ribadire il fine della musica sacra, cioè « la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli » (n. 112), e i criteri fondamentali della tradizione, che mi limito a richiamare: il senso della preghiera, della dignità e della bellezza; la piena aderenza ai testi e ai gesti liturgici; il coinvolgimento dell’assemblea e, quindi, il legittimo adattamento alla cultura locale, conservando, al tempo stesso, l’universalità del linguaggio; il primato del canto gregoriano, quale supremo modello di musica sacra, e la sapiente valorizzazione delle altre forme espressive, che fanno parte del patrimonio storico-liturgico della Chiesa, specialmente, ma non solo, la polifonia; l’importanza della schola cantorum, in particolare nelle chiese cattedrali. Sono criteri importanti, da considerare attentamente anche oggi. A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, « vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio », tenendo sempre ben presente che questi due concetti – che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano – si integrano a vicenda perché « la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso » (Discorso al Pontificio Istituto Liturgico, 6 maggio 2011).

GIOVANNI PAOLO II – CHIROGRAFO SULLA MUSICA SACRA
…3. In varie occasioni anch’io ho richiamato la preziosa funzione e la grande importanza della musica e del canto per una partecipazione più attiva e intensa alle celebrazioni liturgiche, ed ho sottolineato la necessità di “purificare il culto da sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti e poco consoni alla grandezza dell’atto che si celebra”, per assicurare dignità e bontà di forme alla musica liturgica.
In tale prospettiva, alla luce del magistero di san Pio X e degli altri miei Predecessori e tenendo conto in particolare dei pronunciamenti del Concilio Vaticano II, desidero riproporre alcuni principi fondamentali per questo importante settore della vita della Chiesa, nell’intento di far sì che la musica liturgica risponda sempre più alla sua specifica funzione.
4. Sulla scia degli insegnamenti di san Pio X e del Concilio Vaticano II, occorre innanzitutto sottolineare che la musica destinata ai sacri riti deve avere come punto di riferimento la santità: essa di fatto, “sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”. Proprio per questo, “non indistintamente tutto ciò che sta fuori dal tempio (profanum) è atto a superarne la soglia”, affermava saggiamente il mio venerato Predecessore Paolo VI, commentando un decreto del Concilio di Trento e precisava che “se non possiede ad un tempo il senso della preghiera, della dignità e della bellezza, la musica – strumentale e vocale – si preclude da sé l’ingresso nella sfera del sacro e del religioso. D’altra parte la stessa categoria di “musica sacra” oggi ha subito un allargamento di significato tale da includere repertori i quali non possono entrare nella celebrazione senza violare lo spirito e le norme della Liturgia stessa.
La riforma operata da san Pio X mirava specificamente a purificare la musica di chiesa dalla contaminazione della musica profana teatrale, che in molti Paesi aveva inquinato il repertorio e la prassi musicale liturgica. Anche ai tempi nostri è da considerare attentamente, come ho messo in evidenza nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, che non tutte le espressioni delle arti figurative e della musica sono capaci “di esprimere adeguatamente il Mistero colto nella pienezza di fede della Chiesa”. Di conseguenza, non tutte le forme musicali possono essere ritenute adatte per le celebrazioni liturgiche.
5. Un altro principio enunciato da san Pio X nel Motu proprio Tra le sollecitudini, principio peraltro intimamente connesso con il precedente, è quello della bontà delle forme. Non vi può essere musica destinata alla celebrazione dei sacri riti che non sia prima “vera arte”, capace di avere quell’efficacia “che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni”
E tuttavia tale qualità da sola non basta. La musica liturgica deve infatti rispondere a suoi specifici requisiti: la piena aderenza ai testi che presenta, la consonanza con il tempo e il momento liturgico a cui è destinata, l’adeguata corrispondenza ai gesti che il rito propone. I vari momenti liturgici esigono, infatti, una propria espressione musicale, atta di volta in volta a far emergere la natura propria di un determinato rito, ora proclamando le meraviglie di Dio, ora manifestando sentimenti di lode, di supplica o anche di mestizia per l’esperienza dell’umano dolore, un’esperienza tuttavia che la fede apre alla prospettiva della speranza cristiana.
6. Canto e musica richiesti dalla riforma liturgica ‑ è bene sottolinearlo ‑ devono rispondere anche a legittime esigenze di adattamento e di inculturazione. E’ chiaro, tuttavia, che ogni innovazione in questa delicata materia deve rispettare peculiari criteri, quali la ricerca di espressioni musicali che rispondano al necessario coinvolgimento dell’intera assemblea nella celebrazione e che evitino, allo stesso tempo, qualsiasi cedimento alla leggerezza e alla superficialità. Sono altresì da evitare, in linea di massima, quelle forme di “inculturazione” di segno elitario, che introducono nella Liturgia composizioni antiche o contemporanee che sono forse di valore artistico, ma che indulgono ad un linguaggio ai più incomprensibile.
In questo senso san Pio X indicava – usando il termine universalità – un ulteriore requisito della musica destinata al culto: “… pur concedendosi ad ogni nazione – egli annotava – di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione nell’udirle debba provarne impressione non buona. In altri termini, il sacro ambito della celebrazione liturgica non deve mai diventare laboratorio di sperimentazioni o di pratiche compositive ed esecutive introdotte senza un’attenta verifica.
7. Tra le espressioni musicali che maggiormente rispondono alle qualità richieste dalla nozione di musica sacra, specie di quella liturgica, un posto particolare occupa il canto gregoriano. Il Concilio Vaticano II lo riconosce come “canto proprio della liturgia romana” a cui occorre riservare a parità di condizioni il primo posto nelle azioni liturgiche in canto celebrate in lingua latina.San Pio X rilevava come la Chiesa lo ha “ereditato dagli antichi padri”, lo ha ”custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici” e tuttora lo “propone ai fedeli” come suo, considerandolo “come il supremo modello della musica sacra”. Il canto gregoriano pertanto continua ad essere anche oggi elemento di unità nella liturgia romana.
Come già san Pio X, anche il Concilio Vaticano II riconosce che “gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non vanno esclusi affatto dalla celebrazione dei divini uffici”. Occorre, pertanto, vagliare con attenta cura i nuovi linguaggi musicali, per esperire la possibilità di esprimere anche con essi le inesauribili ricchezze del Mistero riproposto nella Liturgia e favorire così la partecipazione attiva dei fedeli alle celebrazioni…
11. Il secolo scorso, con il rinnovamento operato dal Concilio Vaticano II, ha conosciuto uno speciale sviluppo del canto popolare religioso, del quale la Sacrosanctum Concilium dice: “Si promuova con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, [...] possano risuonare le voci dei fedeli”. Tale canto si presenta particolarmente adatto alla partecipazione dei fedeli non solo alle pratiche devozionali, “secondo le norme e le disposizioni delle rubriche”, ma anche alla stessa Liturgia. Il canto popolare, infatti, costituisce “un vincolo di unità e un’espressione gioiosa della comunità orante, promuove la proclamazione dell’unica fede e dona alle grandi assemblee liturgiche una incomparabile e raccolta solennità”
12. A riguardo delle composizioni musicali liturgiche faccio mia la “legge generale”, che san Pio X formulava in questi termini: “Tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”. Non si tratta evidentemente di copiare il canto gregoriano, ma piuttosto di far sì che le nuove composizioni siano pervase dallo stesso spirito che suscitò e via via modellò quel canto. Solo un artista profondamente compreso del sensus Ecclesiae può tentare di percepire e tradurre in melodia la verità del Mistero che si celebra nella Liturgia. In questa prospettiva, nella Lettera agli Artisti scrivevo: “Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della Liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio”
E’ dunque necessaria una rinnovata e più approfondita considerazione dei principi che devono essere alla base della formazione e della diffusione di un repertorio di qualità. Solo così si potrà consentire all’espressione musicale di servire in maniera appropriata al suo fine ultimo che “è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli

 LITURGIA E MUSICA SACRA (CARD. J. RATZINGER)
Oggi sperimentiamo il ritorno profanizzato di questo modello nella musica Rock e Pop, i cui festivals sono un anticulto nella stessa dire­zione — smania di distruzione, abolizione delle barriere del quotidiano e illusione di redenzione nella liberazione dall’Io, nell’estasi furiosa del rumore e della massa. Si tratta di pratiche redentive simili alla droga nella loro forma di redenzione e fondamentalmente opposte alla conce­zione di redenzione della fede cristiana. Di conseguenza perciò dilagano oggi sempre di più, in questo ambito, culti e musiche satanistiche il cui potere pericoloso, in quanto volutamente tendente alla distruzione e al disfacimento della persona, non è preso ancora abbastanza sul serio. La disputa che Platone ha condotto tra la musica dionisiaca e quella apolli­nea non è la nostra, poiché Apollo non è Cristo. Ma la questione che egli ha posto ci tocca molto da vicino. In una forma che la generazione a noi precedente non poteva neppure immaginare la musica è diventata oggi il veicolo determinante di una controreligione e pertanto il palco­scenico della divisione degli spiriti. Cercando la salvezza mediante la li­berazione dalla personalità e dalla sua responsabilità, la musica Rock da un lato si inserisce perfettamente nelle idee di libertà anarchiche che oggi in occidente dominano più che non in oriente; ma proprio per que­sto si oppone radicalmente alla concezione cristiana della redenzione e della libertà, è anzi la sua perfetta contraddizione. Perciò non per mo­tivi estetici, non per ostinazione restaurativa, non per immobilismo sto­rico, bensì per motivi antropologici di fondo, questo tipo di musica de­ve essere esclusa dalla Chiesa.
Potremmo concretizzare ulteriormente la nostra questione, se con­tinuassimo ad analizzare la base antropologica di vari tipi di musica.
Abbiamo della musica d’agitazione che anima l’uomo in vista di vari fi­ni collettivi. Esiste della musica sensuale, che introduce l’uomo nella sfera erotica oppure tende in altra maniera essenzialmente a sensazioni di piacere sensibili. Esiste della semplice musica leggera che non vuole dire nulla, bensì rompere soltanto il peso del silenzio. Esiste della mu­sica razionalistica in cui i suoni servono soltanto a delle costruzioni ra­zionali, ma non avviene una penetrazione reale dello spirito e dei sensi. Parecchi canti inconsistenti su testi catechetici, parecchi canti moderni costruiti in commissioni, sarebbero probabilmente da classificare in questo settore.
La musica invece adeguata alla liturgia di Colui che si è incarnato ed è stato elevato sulla croce, vive in forza di un’altra sintesi molto più grande e ampia di spirito, intuizione e suono. Si può dire che la musica occidentale dal canto gregoriano attraverso la musica delle cattedrali e la grande polifonia, la musica del rinascimento e del barocco fino a Bruckner e oltre proviene dalla ricchezza intrinseca di questa sintesi e l’ha sviluppata in un grande numero di possibilità. Questa grandezza esiste soltanto qui, perché poteva nascere soltanto dal fondamento antropologico che collegava elementi spirituali e profani in un’ultima unità umana. Essa si dissolve nella misura in cui svanisce tale antropologia. La grandezza di questa musica rappresenta per me la verifica più immediata e più evidente dell’immagine cristiana dell’uomo e ella concezione cristiana della redenzione, che la storia ci offre. Colui he da essa è realmente colpito, sa in qualche modo, dal suo intimo, che la fede è vera, pur dovendo fare ancora molti passi per completare questa intuizione a livello razionale e volitivo.
Ciò significa che la musica liturgica della Chiesa deve soggiacere a quell’integrazione dell’essere umano, che ci si presenta nella realtà di fede dell’incarnazione. Questa redenzione richiede più fatica che non quel­la dell’ebrezza. Ma questa fatica è lo sforzo della verità stessa. Da un lato deve integrare i sensi nell’intimo dello spirito, deve corrispondere all’impulso del Sursum corda. Non vuole, tuttavia, la pura spiritualizza­zione, bensì l’integrazione di sensi e spirito, di modo che ambedue insie­me diventino la persona. Lo spirito non si avvilisce ricevendo in sé i sen­si, bensì soltanto questa unione gli apporta tutta la ricchezza del crea­to. E i sensi non vengono privati della loro realtà, se vi penetra lo spi­rito, bensì soltanto in questo modo possono partecipare alla sua di­mensione di infinito. Ogni piacere sensuale è strettamente limitato e, in ultima analisi, non suscettibile di accrescimento, perché l’atto dei sensi non può oltrepassare una determinata misura. Colui che da esso si aspetta la redenzione, viene deluso, «frustrato” — come si direbbe oggi —. Ma essendo integrati nello spirito, i sensi acquistano una nuova profondità e penetrano nell’infinito dell’avventura spirituale. Là solo es­si si realizzano totalmente. Ciò però presuppone che anche lo spirito non rimanga chiuso. La musica della fede cerca nel Sursurn corda l’in­tegrazione dell’uomo, ma non trova questa integrazione in se stessa, bensì soltanto nell’autosuperamento, nell’intimo della Parola incarnata. La musica sacrale, ancorata in questa struttura di movimento, diventa purificazione dell’uomo, la sua ascensione. Non dobbiamo però dimen­ticare che questa musica non è l’opera di un momento, bensì partecipa­zione a una storia e suppone la comunione dal singolo individuo con le intuizioni fondamentali di questa storia. Così si esprime proprio in es­sa anche l’ingresso nella storia della fede, l’essere tutti membra del cor­po di Cristo. Dietro di sé lascia gioia, una modalità più alta di estasi, che non cancella la persona, bensì la unisce e nello stesso tempo la libera. Ci fa presentire ciò che è la libertà, che non distrugge, bensì rac­coglie e purifica.

UMANO (QUESTO È) – DA DOGMA E PREDICAZIONE DI J.RATZINGER

http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/umano.htm

UMANO (QUESTO È)

DA DOGMA E PREDICAZIONE DI J.RATZINGER

L’assioma “gratia praesupponit naturam” vuol dire, in base a tutto quello che abbiamo ripensato, anche in accordo con la Bibbia, che la grazia, cioè l’incontro dell’uomo col Dio che lo chiama, non distrugge la vera realtà umana dell’uomo, ma la salva e la completa. Questa vera realtà umana dell’uomo, la condizione creaturale di uomo, non è completamente estinta in nessun uomo; essa sta alla base di ognuna delle persone umane e si esplica in forme svariate anche nella concreta esistenza dell’uomo, incoraggiandolo e guidandolo ininterrottamente. Però non è presente in nessun uomo in forma non deformata e non adulterata; in ognuno invece essa è ricoperta da quello sporco rivestimento che Pascal ha acutamente definito la “seconde nature” dell’uomo. L’uomo ha aggiunto a se stesso una seconda natura, che ha per centro la schiavitù nei confronti dell’io, la concupiscentia. Ne è una conseguenza anche il fatto che sia nelle lingue antiche, sia nelle moderne la parola “uomo” contiene una particolare ambiguità di significati, nella quale si intrecciano fra loro dignità e bassezza, nobiltà e volgarità. Come è tipica questa ambiguità, ad esempio, nell’autoritratto per metà ironico e per metà serio di Goethe:

Da bambino taciturno e ostinato
Da giovane ardito e sorpreso
Da vecchio irresponsabile e capriccioso
Sulla tua lapide si leggerà:
Questo è stato un vero uomo!

In una frase del cardinale Saliège, che io lessi una volta su un calendarietto, si avverte con intensità ancora maggiore l’identica sensazione: “Con l’espressione ‘questo è umano’ oggi si giustifica tutto. Si cerca il divorzio: è umano. Si beve: è umano. Si imbroglia in un esame o in un concorso: umano. Si sciupa la propria giovinezza nel vizio: è umano. Si lavora con indolenza: è umano. Si è gelosi: è umano. Si commette peculato: è umano. Non esiste nessun vizio che non si giustifichi con questa formula. Con il termine ‘umano’ si caratterizza così ciò che di più caduco e meschino esiste nell’uomo. A volte diventa addirittura sinonimo di bestiale. Che bizzarro modo di esprimersi! L’umano è proprio quello che ci distingue dalla bestia. Umano è l’intelletto, il cuore, la volontà, la coscienza, la santità. Questo è umano”.

NOVITÀ DENTRO LE COSE SOLITE – LA «VERBUM DOMINI» E L’ALLARGAMENTO DELLA RAGIONE SECONDO BENEDETTO XVI

http://www.osservatoreromano.va/portal/dt?JSPTabContainer.setSelected=JSPTabContainer%2FDetail&last=false=&path=/news/cultura/2013/041q13-La—Verbum-Domini—e-l-allargamento-della.html&title=Novit%C3%A0%C2%A0%20dentro%20le%20cose%20solite&locale=it

LA «VERBUM DOMINI» E L’ALLARGAMENTO DELLA RAGIONE SECONDO BENEDETTO XVI

NOVITÀ  DENTRO LE COSE SOLITE

Un semplice raffronto tra l’esortazione apostolica Verbum Domini, l’intervento di Papa Benedetto XVI nel Sinodo della Parola e la produzione teologica del professore e poi del cardinale Ratzinger  permettono di constatare la sua costante preoccupazione di chiarire l’autentica maniera di vincolare l’esegesi biblica scientifica alla rivelazione storica. Dai suoi primi lavori, come Il Dio della fede e Il Dio dei filosofi, del 1960, ai suoi ultimi interventi, passando per discorsi programmatici come quello di Ratisbona, si riconosce una grande continuità nella sua opera intellettuale al servizio della Chiesa.
L’esegesi storico-critica si è dimostrata un eccellente metodo per interpretare i testi antichi; di fatto, nella programmatica introduzione al primo volume del libro Gesù di Nazaret, Papa Benedetto XVI afferma che tale metodo «resta indispensabile» (volume I, p. 12), perché il testo biblico, in sé, ha una storia. Ma questo metodo tanto necessario mostra i propri limiti quando lo si intende come autosufficiente, ossia come l’unico cammino e il cammino completo per la comprensione del testo biblico. La Scrittura richiede  metodi filologici e storici seri per essere compresa, poiché «il Verbo si fece carne» (Giovanni, 1, 14), ma questi non ne esauriscono la lettura.
L’ermeneutica secolarizzata non è aperta alla novità: non ammette che la realtà sia diversa da ciò che è usuale, e allora  la consuetudine si stabilisce come norma: laddove la Scrittura presenta qualcosa che va al di là della nostra esperienza quotidiana, lo si dovrà ridurre al livello della nostra esperienza quotidiana.
Per accettare la rivelazione cristiana è allora necessario essere aperti a una vera novità nella storia, ossia è necessario ammettere che la realtà possa essere più vasta e più ricca di ciò a cui siamo abituati.
Una lettura biblica che pretende di essere filosoficamente neutrale, senza convinzioni previe, è illusoria, e su ciò le attuali filosofie del linguaggio sono concordi. Se non sono presenti le convinzioni della fede cristiana, ci saranno altre convinzioni. Detto in altre parole, i lettori sono sempre “credenti”, la differenza sta nel fatto che alcuni “credono” in una cosa e altri “credono” in un’altra. Non si deve pertanto considerare meno scientifica un’esegesi che parte dalle convinzioni della fede cristiana.  La soluzione viene da un dialogo in cui il pensatore cristiano, illuminato dalla rivelazione, riforma la propria filosofia e, nello stesso tempo, esamina in modo critico la propria fede, alla luce della ragione.  In questo dialogo, si purifica la fede e si purifica la ragione. Ovvero, questo dialogo permette di avvicinarsi a ciò che appartiene veramente  alla fede e alle reali esigenze della ragione. Tale programma di “ampliamento della ragione” sarà forse una delle grandi eredità della teologia di Papa Benedetto XVI. Si tratta di un’eredità fondamentale, poiché solo una lettura biblica che si avvale di una ragione aperta alla novità del mistero di Dio è degna dell’uomo e, in definitiva, atta a far sì che, in modo autentico e responsabile, per mezzo della Scrittura, possiamo ascoltare Dio.
  Samuel Fernández, Pontificia Università Cattolica del Cile
19 febbraio 2013
[parola chiave: Benedetto XVI]

Teologia della Creazione – testo del card. Ratzinger .

http://www.corsodireligione.it/bibbiaspecial/storia_salvezza/storiasalv_miti_1.htm

Teologia della Creazione

L’unità della Bibbia come criterio di interpretazione

testo del card. Ratzinger .

«La Bibbia è l’ eco della storia di Dio con il suo popolo, non è un romanzo o un manuale , essa presenta sia le difficoltà che Dio incontra nella relazione con il popolo che le difficoltà del popolo a conoscere, comprendere e seguire Dio. Il tema di “Dio creatore” viene perciò incontrato nella Bibbia più di una volta , esso attraversa tutta la storia della relazione con Dio. La conoscenza di Dio si afferma nella Bibbia passo dopo passo. Con l’avvento di Gesù tutti i temi della Bibbia –dunque anche quello della creazione- riceveranno, secondo i cristiani, una luce nuova, nuovi significati.
Ogni testo biblico va interpretato nella scia del cammino che il tema da esso centrato ha fatto nella Bibbia. Il tema [di Dio creatore] non fu mai del tutto assente ma non fu sempre importante per Israele allo stesso modo.
Durante l’esilio babilonese esso divenne centrale: nel momento in cui la storia mostrava un Dio debole e vinto dagli dèi babilonesi Egli si rivela per mezzo dei profeti il Dio che permette la dispersione del suo popolo perché vuole farsi conoscere dagli altri popoli e questo lo fa perché è il Dio della storia che ha nelle sue mani i popoli, il mondo, il suo destino e dunque la sua origine. Dio è il Creatore, colui che ha il potere su tutto.»
Come è nato il mondo?
Come sia nato il mondo è mistero affidato alla scienza.
Il racconto biblico non è un « teoria religiosa sull’origine del mondo » come spesso qualche sprovveduto insegna (dal maestro elementare al professore di filosofia o di scienze nei licei , al docente univesritario); è invece una riflessione su Dio e la sua azione continua nella storia di Israele.
( LEGGI : Scienza e religione)
I sapienti riflettono sulla rivelazione divina, sulla storia di miracoli , di salvezze e scoprono che :
 » Dio ha creato il suo popolo e lo salva continuamente nella storia per vivere insieme ad esso. « 
Nei miracoli per il suo popolo Dio rivela anche il suo rapporto con il mondo.
Sal 134,5 Io so che grande è il Signore, il nostro Dio sopra tutti gli dèi.
6 Tutto ciò che vuole il Signore, egli lo compie in cielo e sulla terra, nei mari e in tutti gli abissi.
=ovunque. Di fatti, nell’evento dell’esodo :
7 Fa salire le nubi dall’estremità della terra, produce le folgori per la pioggia, dalle sue riserve libera i venti.8 Egli percosse i primogeniti d’Egitto, dagli uomini fino al bestiame.9 Mandò segni e prodigi in mezzo a te, Egitto, contro il faraone e tutti i suoi ministri.
Per salvare il suo popolo e ivere insieme ad esso in Palestina Dio ha dimostrato di essere il padrone, il Signore , del cosmo e della storia.
10 Colpì numerose nazioni e uccise re potenti:11 Seon, re degli Amorrèi, Og, re di Basan, e tutti i regni di Cànaan.
Il racconto biblico della creazione del mondo non parla della origine del mondo , come è nato il mondo, ma dice del rapporto che Dio ha con il mondo e la storia, del significato del mondo, perché esiste. Il significato del mondo che si scopre nella storia della rivelazione divina è questo:
Dio  » crea »-salva il mondo continuamente per mezzo della sua Parola di alleanza.
Questo potere lo ha rivelato nella storia e specialmente nell’ ‘evento dell’Esodo dall’Egitto.
Dio salva il mondo perchè ha un progetto sul mondo : salvare il suo popolo per portarlo a vivere con Sè . Nel NT, dopo la rivelazione divina che è Gesù, la creazione è considerata un continuum nella storia :
Ap 4,11 «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza,
perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono».
Il parallelismo è sinonimico : furono create e sussistono. Cioè sono continuamente create.
La Bibbia non conosce un problema scientifico della origine dell’universo o della origine dell’uomo.
I sapienti ebrei scoprono nella rivelazione divina, nei fatti della storia della salvezza un dato importante : Dio è trascendente rispetto al mondo ed alla storia, egli agisce sul mondo e sulla storia ma non può egli stessi essere  » misurato », « valutato », » descritto » in termini umani di spazio e tempo, di natura e storia . Dio è  » divino », l’unico  » onnipotente »:
Bar 4,10 Ho visto, infatti, la schiavitù in cui Dio ha condotto i miei figli e le mie figlie.
Dan 4,31 «Ma finito quel tempo, io Nabucodònosor alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo; lodai e glorificai colui che vive in eterno, la cui potenza è potenza eterna e il cui regno è di generazione in generazione.
Solo Dio è « Il Vivente », colui che ha in sè la Vita (eterna) perciò ha il dominio su tutto ciò che esiste e vive.
Dan 6,27 Per mio comando viene promulgato questo decreto: In tutto l’impero a me soggetto si onori e si tema il Dio di Daniele, perché egli è il Dio vivente, che dura in eterno; il suo regno è tale che non sarà mai distrutto e il suo dominio non conosce fine.
Dio è il Vivente , l’ Eterno, da cui solo può venire la Vita.
Dio è al di là dello spazio-tempo , è ulteriore, trascendente.
Sal 89,1 Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio. Signore, tu sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
2 Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, Dio.
Sal 103, 24 Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza, la terra è piena delle tue creature. 25 Ecco il mare spazioso e vasto: lì guizzano senza numero animali piccoli e grandi. 26 Lo solcano le navi, il Leviatàn che hai plasmato perché in esso si diverta. 27 Tutti da te aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno. 28 Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, tu apri la mano, si saziano di beni. 29 Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. 30 Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.
La sapienza ebraica per esprimere il processo con cui Dio ha dato vita alle cose utilizza una analogia umana : il verbo barah, che è il verbo del vasaio che plasma-crea.
Per l’uomo biblico, che vive con la percezione lineare del tempo, dire come il mondo riceva vita dal Dio Vivente significa concepire un inizio del tempo in cui il Vivente ha dato vita, esistenza a tutte le cose. E’ la mitopoiesi.
Per l’uomo ebraico antico è inconcepibile una azione che sia fuori del tempo, una azione che non abbia un inizio ed una fine. I sapienti si esprimono perciò in termini di « creazione » e di « inizio ». « In Principio » Dio ha « creato » il mondo. I termini  » in principio » e « creare » sono forme letterarie analogiche e come tali vanno intese, non sono affermazioni scientifiche.

Forma letteraria e contenuto
testo del card. Ratzinger .

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