Archive pour la catégorie 'Padri della Chiesa e Dottori'

SANT’AGOSTINO – PREGHIERE DA « LE CONFESSIONI », PARTE PRIMA: IL GRIDO DELL’ANIMA

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_conf_index.htm

- sono 5 parti, metto le prime due, l’indirizzo webe per tutte è:

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_conf_index.htm

SANT’AGOSTINO, PREGHIERE DA « LE CONFESSIONI »

PARTE PRIMA

IL GRIDO DELL’ANIMA

Come invocare Dio?
Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come chiedere, se prima nessuno dà l’annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).

Perché invocare Dio?
Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C’è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch’io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora negli inferi sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all’inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque ti invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: « Cielo e terra io colmo? » (1, 2, 2).

Cosa sei, Dio mio?
Cosa sei dunque, Dio mio? Cos’altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all’infuori del Signore, chi Dio all’infuori del nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla.
Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri ( 1, 4, 4)

Tu sei la mia salvezza!
Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l’assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l’oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo ( 1, 5, 5)

La mia anima è la tua casa
Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: « purificami, Signore dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri »? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s’inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà? (1, 5, 6).

Signore, che io ti ami fortissimamente
Ascolta, Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).

Grazie, Signore, per i tuoi doni!
Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell’universo, a te Dio nostro grazie anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere, immagine della misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l’istinto interiore sulla preservazione dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, mi intenerivo all’amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l’ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).

O mia gioia tardiva!
Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza (2, 2, 2).

Tu sei sempre vicino
Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te (2, 2, 3).

Signore, che dài per maestro il dolore
Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l’avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te (2, 2, 4).

Ti amerò, Signore!
Come rimunerare il Signore del fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne è turbata? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò il tuo nome, poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati: e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso (2, 7, 15).

Voglio te
Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un’insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entro nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria (2, 10, 18).

Dio mio, sconfinata misericordia mia!
Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell’abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti. E tu frattanto non cessavi di flagellarmi. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali? Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso (3, 3, 5).

O Verità, Verità!
O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz’altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l’anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell’anima mia (3, 6, 10).

Cosa sono io senza di te?
Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l’uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te (4, 1, 1).

Ascolta il mio pianto
Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l’orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall’amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te; ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell’amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite? (4, 5, 10).

Dio, speranza mia
Eccolo il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza mia, tu che mi purifichi dall’impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei piedi (4, 6 ,11).

Dio delle virtù, volgiti a me
Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L’animo dell’uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono… Ti lodi per quelle cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall’amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).

Ascolta, anima mia…
Non essere vana, anima mia, non assordare l’orecchio del cuore nel tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l’amore non conosce abbandoni, se lui per primo non abbandona. Qui invece lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l’universo inferiore nella sua interezza. « Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte? ». Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d’inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole (4, 11, 16).

Amiamolo, amiamolo!
Se ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch’esse, ma in lui si Fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di’ loro: « Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov’è? Dove si assapora la verità? E’ nell’intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è 11, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita? (4, 12, 18).

Fino a quando questo peso nel cuore?
Discese nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l’uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l’ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. « Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell’ascendere contro Dio ». Di’ loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t’ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità (4, 12, 19).

O dolce verità!
Pure tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell’atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla voce dello Sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate (4, 15, 27).

Tu, ci proteggi e ci sorreggi
O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell’avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).

PREGHIERE DALLE CONFESSIONI – PARTE SECONDA: VERSO L’APPRODO

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_conf_index.htm

SANT’AGOSTINO: PREGHIERE DALLE CONFESSIONI

PARTE SECONDA

VERSO L’APPRODO

Il canto della lode

Accetta l’olocausto delle mie confessioni dalla mano della mia lingua, formata e sollecitata da te alla confessione del tuo nome. Risana tutte le mie ossa, e ti dicano: « Signore, chi simile a te? ». Chi a te si confessa non ti rende nota la sua intima storia, poiché un cuore chiuso non esclude da sé il tuo occhio, né la durezza degli uomini respinge la tua mano, bensì tu la stemperi a tuo piacere, con la pietà o la punizione; e nessuno si sottrae al tuo calore. La mia anima ti lodi per amarti, ti confessi gli atti della tua commiserazione per lodarti. L’intero tuo creato non interrompa mai il canto delle tue lodi: né gli spiriti tutti attraverso la bocca rivolta verso di te, né gli esseri animati e gli esseri materiali, attraverso la bocca di chi li contempla. Così la nostra anima, sollevandosi dalla sua debolezza e appoggiandosi alle tue creature, trapassa fino a te, loro mirabile creatore. E 11 ha ristoro e vigore vero (5, 1, 1).

Ovunque sei presente

Vadano, fuggano pure lontano da te gli inquieti e gli iniqui. Tu li vedi, ne distingui le ombre fra le cose. Così l’insieme risulta bello anche con la loro presenza, con la loro deformità. Che male poterono farti? dove poterono deturpare il tuo regno, se è giusto e intatto dall’alto dei cieli fino ai lembi estremi della terra? Dove fuggirono fuggendo dal tuo volto? in quale luogo non li puoi trovare? Fuggirono per non vedere la tua vista posata su di loro e urtare, accecati, contro di te, che non abbandoni nulla di ciò che hai creato: per non urtare contro di te, e ricevere l’equo castigo della loro iniquità. Si sottrassero alla tua mitezza per urtare nella tua giustizia e cadere nella tua severità. Evidentemente ignorano che tu sei dovunque e nessun luogo ti racchiude, che tu solo sei vicino anche a chi si pone lontano da te. Dunque si volgano indietro a cercarti: tu non abbandoni le tue creature come esse abbandonano il loro creatore. Se si volgono indietro da sé a cercarti, eccoti già lì, nel loro cuore, nel cuore di chiunque ti riconosce e si getta ai tuoi piedi, piangendo sulle tue ginocchia dopo il suo aspro cammino. Tu prontamente ne tergi le lacrime, e più singhiozzano allora e si confortano al pianto perché sei tu, Signore, e non un uomo qualunque, carne e sangue, ma tu, Signore, il loro creatore, che le rincuori e le consoli. Anch’io dov’ero quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te (5, 2, 2).

Dio degli umili!

Tu sei grande, Signore, e volgi lo sguardo sugli umili, mentre gli eccelsi li vuoi conoscere da lontano e solo ai cuori contriti ti avvicini; non ti riveli ai superbi neppure se con la loro curiosa destrezza sappiano calcolare le stelle e l’arena, misurare gli spazi siderei ed esplorare le piste degli astri (5, 3, 3).

Felice chi conosce Dio

Signore, Dio di verità, basta la conoscenza di queste cose per piacerti? Infelice davvero chi conosce tutte quelle e ignora te; felice chi conosce te, anche se ignora quelle. Chi poi sa e di te e di quelle, non per quelle è più felice, ma per te solo felice, se, oltre a conoscerti, ti glorifica per ciò che sei e ti ringrazia, anziché disperdersi nei suoi vani pensieri. Chi sa di possedere un albero e ti è grato di goderlo, sebbene ignori i cubiti della sua altezza o la sua estensione in larghezza, è migliore di chi lo misura e ne conteggia tutti i rami, però non lo possiede né riconosce il suo creatore né lo ama. Così all’uomo di fede il mondo intero con i suoi tesori appartiene; forse non ha quasi nulla, eppure tutto possiede perché unito a te, padrone di tutto. Non importa se nemmeno conosce i giri delle Orse: solo uno stolto dubiterebbe che non sia in ogni caso migliore di chi sa misurare il cielo, enumerare le stelle, pesare gli elementi, però fa nessun conto di te, che ogni cosa hai disposto nella sua misura e numero e peso (5, 4, 7).

Tu guidi i miei passi

Le tue mani, Dio mio, nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano invero la mia anima; d’altra parte dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime. Agisti verso di me in modi mirabili. Fu azione tua, Dio mio, perché dal Signore sono diretti i passi dell’uomo, e gli imporrà la via. Come ottenere la salvezza, se la tua mano non ricrea la tua creazione? (5,7,13).

Dove eri, o Dio?

O speranza mia fin dalla mia gioventù, dov’eri per me, dove ti eri ritratto? Non eri stato tu a crearmi, a farmi diverso dai quadrupedi e più sapiente dei volatili del cielo? Ma io camminavo fra le tenebre e su terreno sdrucciolevole; ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore. Ormai avevo raggiunto il fondo del mare: come non perdere fiducia, non disperare di scoprire più il vero? (6, 1, 1).

Guarda il mio cuore, Signore!

Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi. Per colpa di queste passioni soffrivo disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che tu non eri. Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti. Si unisca ora a te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera! E tu stuzzicavi il bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te, che sei sopra tutto e senza di cui tutto sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita. Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato per farmi sentire la mia miseria! (6, 6, 9).

Il mio riposo

Lode a te, gloria a te, fonte di misericordia. Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino. Ormai, ormai era accostata la tua mano, che mi avrebbe tolto e lavato dal fango, e io lo ignoravo. Solo, a trattenermi dallo sprofondare ulteriormente nel gorgo dei piaceri carnali, stava il timore della morte e del tuo giudizio futuro, mai dileguato dal mio cuore pur nel variare delle mie opinioni. Guai all’anima temeraria, che sperò di trovare di meglio allontanandosi da te. Vòltati e rivòltati sulla schiena, sui fianchi, sul ventre, ma tutto è duro, e tu solo il riposo. Ed eccoti, sei qui, a liberi dai nostri errori miserabili e ci metti sulla strada e consoli e dia: « Correte, io vi reggerò, io vi condurrò al traguardo e là ancora vi reggerò » (6,16, 26).

Signore, giudice giusto

In realtà tu, Signore, regolatore giustissimo dell’universo, all’insaputa dei consultori e dei consultati, con un’ispirazione misteriosa fai sempre udire a chi si consulta, dall’abisso di giustizia del tuo giudizio, la risposta vantaggiosa per lui secondo gli occulti meriti delle anime. Nessun uomo ti domandi: « Che è ciò », « A che ciò? ». Non lo domandi, non lo domandi, perché è un uomo (7, 6, 10).

Il mio pungolo

Ma tu, Signore, permani in eterno, e non ti adiri in eterno verso di noi. Hai sentito pietà di questa terra e cenere, piacque ai tuoi occhi di racconciare le mie sconcezze. Mi agitavi con pungoli interni per rendermi insoddisfatto, finché al mio sguardo interiore tu fossi certezza. Il mio tumore scemava sotto la cura della tua mano nascosta, la vista intorbidata e ottenebrata della mia mente guariva di giorno in giorno sotto l’azione del collirio pungente di salutari dolori (7, 8, 12).

O eterna verità e vera carità e cara eternità

Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Neppure sovrastava la mia intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce. O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere: respingesti il mio sguardo malfermo col tuo raggio folgorante e io tutto tremai d’amore e terrore. Mi scoprii lontano da te in una regione dissimile, ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: « Io sono il nutrimento degli adulti. Cresa, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me ». Riconobbi che hai ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e imputridito come ragnatela l’anima mia. Chiesi: « La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito sia infinito? »; e tu gridasti da lontano: « Anzi, io sono colui che sono ». Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che dell’esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato (7, 10, 16).

Mi risvegliai in te e ti vidi…

Non c’è sanità di giudizio in coloro che non gradiscono qualche cosa del tuo creato, come non ce n’era in me quando non gradivo molte delle cose da te create. E poiché la mia anima non osava non gradire il mio Dio, si rifiutava di riconoscere come opera tua tutto ciò che non gradiva. Di qui era giunta alla concezione delle due sostanze, senza trovarsi soddisfatta e usando un linguaggio non suo; poi aveva abbandonato quell’idea per costruirsi un dio esteso dovunque negli spazi infiniti, che aveva immaginato fossi tu e aveva collocato nel proprio cuore, ricostituendosi tempio del proprio idolo, abominevole ai tuoi occhi. Quando però a mia insaputa prendesti il mio capo fra le tue braccia e chiudesti i miei occhi per togliere loro la vista delle cose vane, mi ritrassi un poco da me, la mia follia si assopì. Mi risvegliai in te e ti vidi, infinito ma diversamente, visione non prodotta dalla carne (7, 14, 20).

Verso il monte di Dio

Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece. Ma non ero stabile nel godimento del mio Dio. Attratto a te dalla tua bellezza, ne ero distratto subito dopo dal mio peso, che mi precipitava gemebondo sulla terra. Era, questo peso, la mia consuetudine con la carne; ma portavo con me il tuo ricordo (7, 17, 23).

GIOVANNI DAMASCENO E L’ASSUNZIONE DI MARIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/studi/08-09/10-Assunzione-di-Maria.html

STUDI MARIANI: MARIA E I PADRI DELLA CHIESA -

GIOVANNI DAMASCENO E L’ASSUNZIONE DI MARIA

Una delle più importanti feste della Madonna è la sua Assunzione in Cielo. I lettori più anziani ricorderanno ancora il 1º novembre 1950: durante l’Anno Santo, circondato da centinaia di Vescovi, tra la gioia di tutti i cattolici del mondo, l’augusta figura del Papa Pio XII proclamò ufficialmente che l’Assunzione della Madonna in cielo, con la sua anima e il suo corpo, è un dogma, una verità che appartiene alla Rivelazione cristiana.
Nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus, Papa Pacelli chiariva che questo articolo della nostra fede, implicitamente contenuto nella Bibbia, era progressivamente emerso alla coscienza della Chiesa, soprattutto grazie alle spiegazioni date da alcuni illustri Padri della Chiesa.

Firme false contro Giovanni
Tra essi eccelleva Giovanni di Damasco, nato verso il 650 in questa città, capitale della Siria, dove i Musulmani, oramai padroni pressoché di tutto il Medio Oriente, permettavano ancora ai cristiani di professare quasi del tutto liberamente la loro fede. Per comprendere la grandissima devozione di questo santo alla Madonna, occorre ricordare un episodio. Egli, per l’intelligenza di cui era dotato e i meriti acquisiti da suo padre, era stato nominato ministro dal califfo musulmano.
Purtroppo, l’Imperatore cristiano di Costantinopoli, per gettare discredito su Giovanni di Damasco, che si opponeva alla sua politica di distruggere le immagine sacre, falsificò un documento, in cui, imitando la grafia e la firma del santo, lo faceva apparire come un traditore del califfo.
Quest’ultimo, venuto in possesso di questa lettera, persuaso dell’inaffidabilità di Giovanni di Damasco, gli fece tagliare la mano destra, secondo la legge coranica. La notte stessa, però, per intervento miracoloso della Madonna, la mano fu riattaccata. Nonostante la riconciliazione con il califfo, Giovanni di Damasco preferì partire e ritirarsi in un monastero nei pressi di Gerusalemme, ove ancora oggi il suo corpo è venerato dai monaci che vi abitano.

Il principio della convenienza
Qui Giovanni scrisse delle opere di teologia tuttora ammirate e studiate. In esse espone il motivo per cui occorre credere che la Beata Vergine Maria, a differenza di tutte le altre creature, non deve attendere il giudizio finale, al ritorno glorioso di Gesù sulla terra, perché il suo corpo risorga, in quanto esso, che non ha conosciuto alcuna corruzione, è stato già assunto e glorificato in cielo.
L’argomento è legato ad una legge che in teologia è molto importante: il principio della convenienza. In altre parole, nelle cose che riguardano Dio e la sua azione, c’è una sorta di intrinseca esigenza che collega cause ed effetti.
Era conveniente – notava Giovanni di Damasco – che la Madonna, voluta da Dio sempre vergine nel corpo, non conoscesse la dissoluzione di quel corpo santo ed immacolato. Come si dirà in seguito: assumpta quia immaculata.
Era conveniente che la Madonna, in tutto associata a suo Figlio, lo fosse anche nel suo trionfo sulla morte. Ed ecco questo privilegio mariano: la glorificazione del suo corpo.
I teologi successivi, soprattutto negli ultimi anni, hanno definito questo evento della vita della Madonna un’anticipazione. Di che cosa? Del futuro che attende tutti gli uomini perché Dio ha predisposto per ognuno di noi di vivere in eterno in Paradiso con la nostra anima e con il nostro corpo. Per questo motivo, l’Assunzione della Madonna è motivo di speranza e di consolazione per tutti noi, soprattutto quando la mestizia per la morte di qualcuno dei nostri cari ci affligge.

Una strana convergenza
L’arte, che è una sorella della teologia, ha raffigurato spesso, in icone e affreschi, questo evento, dipingendo lo stupore degli apostoli, che ritrovano vuota la tomba, nella quale avevano deposto il corpo della Madonna, quando Ella si era addormentata ed essi l’avevano ritenuta morta.
Alcuni mistici, nelle loro visioni, hanno comunicato altri dettagli, nei quali la Chiesa non ci chiede di credere ma permette che essi siano diffusi per il nostro profitto spirituale.
Caterina Emmerich, per esempio, una suora agostiniana tedesca, pur senza essersi mai allontanata dal suo convento, riferì che il luogo dell’Assunzione era stato Efeso e non Gerusalemme, come si credeva. Qualche anno dopo, gli archeologi hanno scoperto, proprio nel posto indicato dalle visioni di Caterina Emmerich, i resti di un’abitazione e di una chiesa dedicata alla Madonna, perfettamente corrispondente ai particolari dati da lei! Teologia, arte, mistica: tutto converge nel glorificare Maria Santissima.

La mediazione di Maria
Il nostro Giovanni Damasceno, inoltre, asserì un’altra verità incontestabile: la Madonna esercita una mediazione efficacissima a favore di tutti. Con un’affermazione che non lascia spazio ad alcun dubbio, questo insigne Dottore della Chiesa afferma: “Essa è diventata per noi mediatrice di tutti i beni”. La paragona alla scala su cui il patriarca Giacobbe, secondo il racconto della Genesi, vide gli angeli salire e scendere tra cielo e terra:
“Allo stesso modo tu sei diventata mediatrice e scala per la quale Dio discende verso di noi, allorché assume la fragilità della nostra sostanza, abbracciandola e unendola intimamente a sé”.
Del resto, tutti i fedeli, sia quelli che vanno sempre in chiesa sia quelli che non ci vanno mai, si rivolgono sempre alla Madre di Dio per ottenere grazie e favori. Persino i non cristiani, come i missionari raccontano pieni di meraviglia, volentieri pregano la Madonna.
Il poeta Dante ha scritto: “Qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar senz’ali”. Cioè, com’è impossibile volare senza ali, così è impossibile ottenere una grazia senza affidarsi alla mediazione della Madonna.
I teologi latini, sempre bravi a sintetizzare in poche parole lunghi ragionamenti teologici, hanno sentenziato: “Quod Deus natura, tu gratia potes”.
Dio è onnipotente per natura, la Madonna lo è per grazia, cioè per volere di Dio stesso che l’ha scelta come Madre.
I protestanti si preoccupano che, in questo modo, l’unica mediazione di Cristo, asserita nel Nuovo Testamento (Uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, leggiamo nella Prima Lettera di san Paolo a Timoteo), verrebbe oscurata. Al contrario! Dalla grazia sovrabbondante di Gesù sgorga questa fontana purissima che riversa con liberale e sovrana bontà grazie su grazie, attingendo alla inesauribile sorgente, che è suo Figlio. È un vero peccato che il Concilio Vaticano II (1962-1965), nonostante la richiesta di moltissimi vescovi che vi presero parte, non abbia proclamato come dogma la mediazione universale di Maria Santissima.
Questa verità di fede, oltre ad essere patrimonio comune tra i teologi, è scolpita nel cuore di tutti i fedeli, i quali, con le parole di Giovanni di Damasco, provano tanta gioia e pace nel dire alla Madonna: “O sovrana, Madre di Dio e vergine.
Leghiamo le nostre anime alla tua speranza come ad un’ancora saldissima e del tutto intangibile, consacrandoti mente, anima, corpo e tutto il nostro essere e onorandoti, per quando ci è possibile, con salmi, inni e cantici spirituali”.

 Roberto SPATARO sdb

S. BEDA IL VENERABILE. SULLA TRASFIGURAZIONE – 6 AGOSTO

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2012/02/il-vangelo-della-trasfigurazione-nei.html

S. BEDA IL VENERABILE. SULLA TRASFIGURAZIONE – 6 AGOSTO

Apparvero Mosè ed Elia nella loro maestà e parlavano della sua dipartita che si sarebbe realizzata a Gerusalemme. Perciò Mosè ed Elia che sul monte parlarono col Signore della sua passione e risurrezione significano le predizioni della Legge e dei profeti che si sono realizzate nel Signore, come ora è evidente a ogni persona dotta e ancora più evidente risulterà in futuro a tutti gli eletti. E giustamente Luca dice che quelli apparvero nella loro maestà, poiché allora si vedrà più apertamente con quanto decoro di verità siano stati proferiti i discorsi divini, non solo quanto al senso ma anche quanto alla forma. In Mosé ed Elia si possono anche comprendere tutti quelli che regneranno col Signore … Concorda anche il fatto che essi parlavano della dipartita di Gesù, che si sarebbe realizzata a Gerusalemme, perché unica materia di lode per i fedeli diventa la passione del Redentore, e quanto più essi tengono a mente che non si possono salvare senza la sua grazia, tanto più forte conservano sempre in petto la memoria di questa grazia e l’attestano con devota confessione.
Ma quanto più ciascuno di noi gusta la dolcezza della vita celeste, tanto più prova disgusto di tutto ciò che di terreno ci dilettava: perciò giustamente Pietro, vista la maestà del Signore e dei suoi santi, dimentica subito tutto ciò che di terreno aveva appreso, e gode di aderire per sempre alla sola realtà che vede, dicendo: Signore è bene che noi stiamo qui; se vuoi innalziamo qui tre tende, una per te, una per Mosè, e una per Elia.
Certo Pietro non sapeva quello che diceva quando nel mezzo della conversazione celeste pensò di fare delle tende. Infatti non sarà necessaria alcuna casa nella gloria della vita celeste, dove nella completa pace, nella luce della contemplazione celeste non resterà da temere alcuna avversità, come testimonia l’apostolo Giovanni che descrivendo lo splendore di questa città superna, dice tra l’altro: Non ho visto tempio in essa perché sono tempio il Signore onnipotente e l’Agnello (Ap 21, 22).
Ma Pietro ben sapeva che cosa diceva quando disse: Signore, è bene che noi stiamo qui, perché in realtà per l’uomo il solo bene è entrare nel gaudio del Signore e stargli vicino contemplandolo in eterno. Perciò a ragione riteniamo che non abbia goduto mai di un vero bene chi, a causa della sua colpa, non ha mai potuto contemplare il volto del suo Creatore. Che se Pietro, contemplata l’umanità glorificata di Cristo, è preso da tanta gioia da non voler più essere distolto da tale visione, quale beatitudine pensiamo, fratelli carissimi, che abbiano raggiunto coloro che hanno meritato di contemplare l’eccellenza della sua divinità? E se quello considerò sommo bene contemplarne l’aspetto trasfigurato sul monte insieme soltanto con Mosè ed Elia, quale parola può spiegare, quale concetto comprendere quale sarà la gioia dei giusti quando si avvicineranno al monte Sion, alla città del Dio vivente, Gerusalemme, e alla moltitudine degli angeli (cfr. Eb 12, 22), e quando contempleranno Dio, creatore di questa città non attraverso uno specchio, per enigma, ma a faccia a faccia (1 Cor 13, 12)? Di questa visione proprio Pietro parla ai fedeli a proposito del Signore: Nel quale ora credete pur non vedendolo; e quando lo vedrete esulterete di letizia inenarrabile e glorificata (1 Pt 1, 8)
Segue: Mentre egli ancora parlava ecco una nube lucente li adombrò, ed ecco dalla nube una voce che disse: « Questo è il Figlio mio diletto nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo ». Poiché chiedevano di innalzare le tende, vengono ammoniti dalla copertura della nube splendente che non sono necessarie case nella dimora celeste, dove il Signore protegge tutto con l’ombra eterna della sua luce. Colui infatti che per quaranta anni stese una nube a loro protezione perché il sole o la luna non scottassero né di giorno né di notte il popolo che marciava nel deserto, quanto più protegge nei secoli col velo delle sue ali quelli che dimorano nelle tende del regno celeste? Sappiamo infatti, per insegnamento dell’apostolo che se la nostra casa in cui abitiamo sulla terra viene distrutta, noi abbiamo un altro edificio che è opera di Dio, una dimora eterna, che non è stata costruita dalla mano dell’uomo e che si trova in cielo.
Poiché desideravano contemplare il volto risplendente del Figlio dell’uomo, venne il Padre ad affermare con la sua voce che quello era il suo Figlio diletto nel quale si era compiaciuto, perché dalla gloria della sua umanità, che vedevano, imparassero a sospirare di contemplare la presenza della divinità, che è uguale a quella del Padre. Ciò poi che la voce del Padre dice del Figlio: Nel quale mi sono compiaciuto, lo attesta altrove anche il Figlio: Colui che mi ha mandato è con me e non mi lascerà solo, perché io faccio sempre quello che gli è gradito (Gv 8, 29). E aggiungendo ascoltatelo, il Padre ha manifestato che quello era proprio colui del quale Mosè parlava al popolo al quale aveva dato la legge: Il vostro Dio vi susciterà un profeta dai vostri fratelli, che ascolterete come me stesso, secondo tutto quanto vi avrà detto (Dt 18, 15). Non vieta infatti di ascoltare Mosè ed Elia, cioè la Legge e le profezie, ma fa capire a tutti costoro che si deve preferire l’ascolto del Figlio che è venuto ad adempiere la Legge e i Profeti, e comanda di anteporre la luce della verità del Vangelo a tutti i simboli e all’oscurità dell’Antico Testamento. Con provvidenziale disposizione viene rafforzata la fede dei discepoli perché non vacilli, a causa della crocifissione del Signore, perché nell’imminenza della croce si dimostra come la sua umanità sarebbe stata sublimata dalla luce celeste in virtù della risurrezione; e la voce del Padre attesta che il Figlio è per divinità coeterno a lui, perché al sopraggiungere dell’ora della passione quelli si dolessero meno della sua morte, ricordando che era sempre stato glorificato da Dio Padre nella divinità colui che, subito dopo la morte, sarebbe stato glorificato nell’umanità.
Ma i discepoli che, in quanto carnali, erano ancora di debole consistenza, udita la voce di Dio, per timore caddero faccia a terra. Il Signore perciò, autorevole maestro in tutto, li consola parlando loro e toccandoli li fa alzare.
(Dall’Omelia I, 24 passim)

AMORE DI DIO E DEL PROSSIMO – TESTIMONIANZE DEI PADRI DELLA CHIESA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/06-07/05-Amore_Dio_Prossimo.html

AMORE DI DIO E DEL PROSSIMO

TESTIMONIANZE DEI PADRI DELLA CHIESA

“Chi parla della carità, parla di Dio stesso. È opera difficile e rischiosa, per chi non valuta i termini con somma cautela. Parlare della carità è appena possibile agli angeli e, anche per essi, è più o meno difficile, a seconda del grado di illuminazione ricevuta.
Dio è carità, sta scritto: ma chi volesse con le parole esporre la profondità di questa rivelazione, assomiglierebbe a un cieco che, stando su una nave, volesse misurare sino a che limite si estende la sabbia del mare” (La scala del Paradiso 30,197).
Con queste parole San Giovanni Climaco († 649) riporta un pensiero largamente condiviso dalla tradizione patristica, in Oriente come in Occidente. È ben nota l’affermazione di Sant’Agostino († 430): Immo vero vides Trinitatem, si caritatem vides (La Trinità 8,8). Contemplare la carità significa contemplare il mistero insondabile di Dio.
È per questo – per umiltà, o forse per il timore di confondere il grande mistero cristiano con i concetti profani – che i Padri più antichi, prima di Nicea, parlano relativamente poco dell’amore di Dio. Lo fanno preferibilmente in contesti esegetici (si vedano i più importanti commenti patristici a Luca 10,25-38; Matteo 25,31-46; 1 Corinzi 13), e soprattutto in riferimento alla metafora sponsale del Cantico dei Cantici.
D’altra parte nella tradizione patristica, saldamente radicata nel Vangelo, il nesso tra amore di Dio e amore del prossimo è costantemente sottolineato, e non è mai messo in discussione. La connessione viene chiarita con diverse argomentazioni e da punti di vista differenti. Talvolta la carità verso il prossimo è considerata come condizione prima del nostro amore per Dio, altre volte – all’opposto – come sua diretta conseguenza.

I Padri greci:
da Basilio al Crisostomo
In ogni caso, sono soprattutto i cosiddetti Padri cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo) e Giovanni Crisostomo († 407) che – elaborando alcune intuizioni di Origene alessandrino († 254) – giungono, con i loro interventi teorici e pratici, a fondare una sorta di ordo caritatis, cioè a promuovere un’organica sintesi teologico-pastorale tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo (specialmente del prossimo povero e bisognoso).
Basilio di Cesarea, il primo dei Cappadoci († 379), teorizza l’identità della fede cristiana poggiandola direttamente sul vincolo della carità: “Dio”, giunge a dire nel suo Commento ai Salmi, “non è veramente Dio, se non per coloro che sono uniti a lui nella carità” (29,3); e l’Enarratio pseudobasiliana in Esaiam estende l’amore di Dio fino all’amore dei nemici: «Bisogna amare Dio con tutta la forza che abbiamo, per amare (agapân) chi ci è vicino [cioè “il prossimo” in generale] e anche i nemici, affinché siamo perfetti, imitando la bontà di Dio, che fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti» (1,15,9).
Da parte sua San Giovanni Crisostomo nella celebre Omelia 50 sul Vangelo di Matteo, pronunciata ad Antiochia intorno al 390, sviluppa nel modo più chiaro le conseguenze morali del discorso teologico sulla carità:
“Che nessun Giuda… si accosti alla mensa!”, prorompe l’omileta durante la liturgia eucaristica. Perché non è certo un criterio sufficiente di dignità quello di presentarsi alla mensa con vasi d’oro: “Non era d’argento quella mensa, né d’oro il calice da cui Cristo diede il suo sangue ai discepoli… Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che egli sia nudo: e non onorarlo qui in chiesa con vesti di seta, per poi tollerare, fuori di qui, che egli stesso muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo», e ha confermato il fatto con la sua parola, ha detto anche: «Mi avete visto affamato, e non mi avete nutrito»;
e: «Quello che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me»… Impariamo dunque a essere sapienti, e ad onorare Cristo come egli vuole… spendendo le ricchezze per i poveri. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro… Che vantaggio c’è, se la sua mensa è piena di calici d’oro ed egli stesso muore di fame? Prima sazia la sua fame, e allora con il superfluo ornerai la sua mensa! Fai un calice d’oro e non dai un bicchiere d’acqua fresca? E che vantaggio c’è? Prepari per la mensa paramenti ricamati in oro e non gli offri nemmeno il rivestimento necessario? E che profitto ne deriva?”.
Ecco chi è Giuda, secondo il Crisostomo. È colui che si accosta al Corpo e al Sangue del Signore, ma in realtà non ne condivide il progetto di vita. Giovanni, sempre attento ai risvolti concreti e alla rilevanza sociale dell’identità di fede, non perde l’occasione per sottolinearlo con forza.
Egli approda così a uno dei temi caratteristici della sua predicazione, quello dell’elemosina. Il tema dell’elemosina, infatti, scaturisce come un corollario: il Corpo di Cristo condiviso richiama i fedeli alla solidarietà fraterna. Questo spiega perché i sermoni crisostomiani sui poveri si svolgono alla presenza dell’Eucaristia.
In effetti, essa crea un nuovo linguaggio di solidarietà per una duplice ragione, che il Crisostomo non manca di sottolineare: anzitutto la partecipazione alla stessa mensa rafforza i vincoli della comunione; in secondo luogo nell’Eucaristia si svela la synkatabasis di Dio, ossia quella “condiscendenza” (abbassamento), che è la rivelazione suprema dell’agape.
Riecheggiando il Crisostomo, l’Enciclica di Benedetto XVI afferma che l’Eucaristia
“attira nell’atto oblativo di Gesù… La ‘mistica’ del Sacramento, che si fonda nell’abbassamento di Dio verso di noi… conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico innalzamento dell’uomo potrebbe realizzare” (n. 13).
Siamo giunti così alla conclusione dell’Omelia crisostomiana:
“L’elemosina”, vi si legge, “purifica dal peccato…, è più grande del sacrificio…, apre i cieli. Essa è più necessaria della verginità; così infatti quelle [le vergini stolte] furono scacciate dalla sala delle nozze; mentre le altre [le vergini prudenti] vi furono ammesse. Consapevoli di tutto ciò, seminiamo generosamente per mietere con maggiore abbondanza e conseguire i beni futuri” (Omelia sul Vangelo di Matteo 50,3).
I Padri latini e l’antica comunità cristiana di Roma
L’Occidente latino raccoglie dall’Oriente questa sintesi organica della carità.
Ma i Padri latini, pur sviluppando di meno l’aspetto filosofico e mistico della connessione tra amore di Dio e amore del prossimo, fin dagli inizi (Tertulliano, Cipriano) – e anche in maniera indipendente dai Padri greci –, ne valorizzano in massimo grado le conseguenze morali, soprattutto sui versanti della solidarietà e dell’elemosina.
La parola più usata da loro per indicare questo comportamento è caritas (termine che in tale accezione sopravvive ancor oggi nel linguaggio popolare, tanto che “fare la carità” significa comunemente “fare l’elemosina”).
A questo riguardo, l’Enciclica dedica un’ampia digressione all’ambiente romano del secondo secolo:
“Il martire Giustino († ca. 155) descrive, nel contesto della celebrazione domenicale dei cristiani, anche la loro attività caritativa, collegata con l’Eucaristia come tale… Tertulliano († 220) racconta come la premura dei cristiani verso ogni genere di bisognosi suscitasse la meraviglia dei pagani.
E quando Ignazio di Antiochia († ca. 117) qualifica la Chiesa di Roma come colei «che presiede nella carità (agape)», si può ritenere che egli, con questa definizione, intendesse esprimerne in qualche modo anche la concreta attività caritativa” (n. 22).
L’excursus storico prosegue nel paragrafo successivo dell’Enciclica, dove il Papa si riferisce alle primitive istituzioni relative al servizio della carità nella Chiesa. Si tratta in particolare dell’istituto della diaconia, che affonda le sue radici – ancora una volta – in Oriente, nelle origini del monachesimo, ma che proliferò in Occidente (soprattutto a Roma) a partire dal settimo e dall’ottavo secolo.
“Ma naturalmente già prima, e fin dagli inizi”, precisa il Papa, “l’attività assistenziale per i poveri e i sofferenti, secondo i principi della vita cristiana esposti negli Atti degli Apostoli, era parte essenziale della Chiesa di Roma. Questo compito trova una sua vivace espressione nella figura del diacono Lorenzo († 258).
La descrizione drammatica del suo martirio era già nota a Sant’Ambrogio († 397) e ci mostra, nel suo nucleo, sicuramente l’autentica figura del Santo. A lui, quale responsabile della cura dei poveri di Roma, era stato concesso qualche tempo, dopo la cattura dei suoi confratelli e del Papa, per raccogliere i tesori della Chiesa e consegnarli alle autorità civili. Lorenzo distribuì il denaro disponibile ai poveri, e li presentò poi alle autorità come il vero tesoro della Chiesa” (n. 23).
L’allusione dell’Enciclica a Sant’Ambrogio (precisamente al De officiis [ministrorum] 2,28, 140) suggerisce almeno un cenno a quel formidabile testimone della carità, che fu il vescovo di Milano.Tornano alla mente alcuni suoi gesti profetici (in verità criticati da alcuni, fin dai tempi dello stesso Ambrogio), come quello di fondere i vasi sacri per il riscatto dei prigionieri; e rivediamo lo sguardo ammirato del giovane Agostino, che contemplava il suo “modello” – appunto il vescovo Ambrogio – perennemente assediato da catervae di poveri, per i quali generosamente si prodigava (Confessioni 6,3).
Ancora in riferimento all’Occidente e all’esercizio pratico della carità, il Papa cita la Vita di San Martino, scritta da Sulpicio Severo verso il 397, pochi mesi prima della morte del Santo. Martino di Tours, prima soldato, poi monaco e vescovo, mostra – quasi come un’icona – il valore insostituibile della testimonianza individuale della carità.
“Alle porte di Amiens, Martino fa a metà del suo mantello con un povero. Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno rivestito di quel mantello, a confermare la validità perenne della parola evangelica: «Ero nudo, e mi avete vestito… Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,36.40)” (n. 40).

Il monachesimo delle origini
Ma in tutto il movimento monastico, fin dai suoi primi inizi con Antonio abate del deserto († 356), l’amore di Dio comporta un ingente servizio della carità verso il prossimo.
La contemplatio, che è il gradino più alto dell’antica lectio monastica, rimane sempre in intimo rapporto con l’operatio, cioè con l’esercizio pratico della carità: nel confronto “faccia a faccia” con quel Dio, che è tutto Carità, il monaco avverte l’esigenza improrogabile di trasformare in amore e in servizio tutta la sua vita. Si spiegano così le grandi strutture monastiche di accoglienza, di ricovero e di cura, e le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana destinate anzitutto ai poveri.
Come è noto, la predicazione e l’attività ascetica e caritativa di quel grande monaco e vescovo, che fu Basilio di Cesarea, si concretizzarono nella costruzione della Basiliade, città ospedaliera di ricovero e di cura dei poveri e dei malati, che doveva diventare il centro dell’attuale Cesarea. Da Sebaste, dove era vescovo, Eustazio († ca. 380) gli mandò un gruppo di discepoli, per organizzare le cose sul modello di quanto già si faceva nella sua città.

Una sola carità
In definitiva, il rapporto inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo è il “filo rosso”, lungo il quale si snoda l’itinerario della santità tracciato dalle testimonianze dei nostri Padri nelle Chiese di Oriente e di Occidente.
È questa la “storia della carità”. In essa – come scriveva un altro santo monaco, Massimo il Confessore († 662) – la carità va considerata “senza dividerla tra carità verso Dio e carità verso il prossimo”. Infatti, “la carità è unica, tutta intera; è dovuta a Dio, ma unisce gli uomini gli uni agli altri.
L’azione della perfetta carità verso Dio, e la sua evidente dimostrazione, risiedono in una sincera disposizione di volontaria benevolenza nei confronti del prossimo, perché, dice il divino apostolo Giovanni, «colui che non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede»” (Epistola II sulla carità a Giovanni cubiculario).

Enrico dal Covolo SDB

SANT’EFREM IL SIRO (mf il 9 giugno): UN POETA CHE CELEBRA LA BELLEZZA DELLA MADONNA

 http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/catechesi/08-09/01-Efrem_il_Siro.html

 SANT’EFREM IL SIRO (mf il 9 giugno):

 UN POETA CHE CELEBRA LA BELLEZZA DELLA MADONNA

Dante, Petrarca, Boccaccio, Manzoni, Testori… una lunghissima lista di poeti che hanno cantato la Madonna nei loro componimenti. Chi non ricorda le parole ispirate di Dante, nella preghiera alla Vergine che San Bernardo pronuncia nel canto XXXIII del Paradiso e che inizia con il celebre verso: “Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio”?
Sembra che nessun grande poeta nella storia della letteratura italiana abbia potuto resistere all’incanto che proviene dalla Madonna. Non ci sorprendiamo. La poesia è traduzione in parole dei frammenti della bellezza che il poeta, con la sua ispirazione, riesce a mettere insieme. La Madonna è la creatura in cui tutta la Bellezza si è raccolta.

Il primo poeta di Maria
Uno dei Padri della Chiesa, vissuti nel IV secolo, è, in ordine cronologico, il primo dei poeti mariani, quello che ha aperto la strada a tanti altri, di tutte le epoche e di tutte le lingue. Questo Padre della Chiesa si chiama Efrem. È un nome inusuale. Infatti egli è siriano, nativo di Nibisi, un’antichissima città che oggi si trova in Iraq. I cristiani della Siria e della Mesopotamia lo hanno sempre ritenuto un grande dottore e, ancora oggi, pur in mezzo alle immani difficoltà che devono affrontare, lo venerano con devozione.
I suoi componimenti, che assommano addirittura tre milioni di versi, sono ricchi di afflato mistico elevato al punto che Efrem è stato chiamato “la cetra dello Spirito Santo”. Se tutte le poesie scritte da Efrem sono dotate di bellezza, quelle in cui parla della Madonna sono veramente incantevoli perché sgorgano da un cuore teneramente filiale e così ad Efrem è stato giustamente attribuito anche il titolo di “il cantore di Maria”.
Efrem non è un teologo speculativo che scopre nuove idee. Egli, piuttosto, riferisce il contenuto tradizionale della fede, soprattutto i racconti della Bibbia, ma riveste questa materia di immagini liriche ed in questa sua capacità risiede il suo valore.

Tutto in me e tutto ovunque
Come i lettori assidui di “Maria Ausiliatrice” ricorderanno, già altri scrittori cristiani prima di Efrem, come Giustino ed Ireneo, avevano paragonato Maria ad Eva per mostrare, attraverso la contrapposizione, il ruolo esercitato dalla Madonna nella storia della salvezza. Efrem riprende lo stesso tema ma lo presenta con immagini poetiche veramente ispirate: “Guarda il mondo: due occhi ha avuto. Eva, l’occhio sinistro, quello cieco; Maria, occhio luminoso, quello destro. Per colpa dell’occhio sinistro si ottenebrò il mondo e rimase buio. Ma mediante Maria, occhio destro, s’illuminò il mondo con la luce celeste che abitò in lei e gli uomini ritrovarono l’unità”.
Quando vuole affermare la verginità di Maria, un articolo della fede alla quale la Chiesa ha sempre aderito, Efrem non propone dei ragionamenti per confutare gli avversari di questa verità, ma canta questo grande mistero rielaborando in modo poetico delle immagini tratte dalla Bibbia, come quella del roveto ardente che non si consuma: “Come il Sinai, io t’ho portato e non fui incendiata dal tuo fuoco tremendo, la tua fiamma non mi consumò”. Forse, tra i cristiani, non c’è celebrazione più dolce ed amata di quella del santo Natale. Tutti ci commuoviamo dinanzi al Presepe, anche le persone più severe e, persino, violente.
Naturalmente questo accade anche al nostro poeta siriano, Efrem, il quale, contemplando gli eventi accaduti a Betlemme, si lascia trasportare dal suo fervore religioso e poetico e mette sulla bocca della Madonna questi versi, una specie di ninna-nanna della Madre di Dio al Suo Bambino, che adora: “Maria effondeva il suo cuore con inimitabili accenti e cantava il suo canto di culla:
«Chi mai diede alla solitaria di concepire e dare alla luce colui che insieme è uno e molti, piccolo e grande, tutto in me e tutto dovunque? Il giorno in cui Gabriele entrò presso di me povera, in un istante mi ha fatto signora ed ancella. Perché io sono ancella della tua divinità, ma anche madre della tua umanità, o Signore e Figlio mio!»”.

Compartecipe della gloria
Qualche volta Efrem aggiunge dei particolari che non sono riportati nei Vangeli. Potremmo dire che si permette delle “licenze poetiche”. Una di queste è veramente felice e appare ragionevolmente vera. Si tratta della credenza secondo la quale il Signore Risorto sia apparso subito a sua Madre. Scrive Efrem: “Va’, di’ ai miei fratelli: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro».
Maria, come fu presente al primo miracolo, così ebbe le primizie della risurrezione dagli inferi”. Molti santi ed alcuni mistici hanno confermato questa opinione, molto radicata nella pietà popolare: Maria, come fu partecipe del dolore del Crocifisso, così per prima dovette gioire della gioia del Risorto. I poeti certe volte sono grandi teologi. Efrem ne è una dimostrazione.

Un prodigio la Madre Tua!
Nel far vibrare le corde del suo cuore, che sembra che non si stanchi mai di celebrare la bellezza e la grandezza di Maria, intuisce che c’è una profonda somiglianza tra la Madonna e la Chiesa. Entrambe sono accomunate da molteplici tratti. Come sempre, Efrem esprime questi concetti con la sua arte, delicata e robusta allo stesso tempo, impregnata di reminiscenze bibliche. “La Chiesa ci ha dato il pane vivo, al posto di quegli azimi che aveva dato l’Egitto. Maria ci ha dato il pane che nutre veramente, invece del pane della fatica che Eva ci aveva procurato”.
Un illustre studioso di Efrem e di tutta l’antica letteratura cristiana in lingua siriaca (una lingua molto simile a quella che parlava Gesù, l’aramaico), ha detto che per questo Padre della Chiesa la Vergine Santa è per lui una persona alla quale si sente intimamente legato e verso la quale si ritiene obbligato da un debito di immensa riconoscenza per il contributo offerto dalla Madonna alla salvezza dell’umanità. Efrem si sente attratto dalla Madonna.
Il mistero che promana dalla sua figura lo riempie di ammirazione e di stupore: “Nessuno, o Signore sa come chiamare la madre tua. Se la chiama Vergine, vi è la presenza del Figlio; se la chiama sposa, si rende conto che nessuno l’ha conosciuta. Un prodigio è la Madre tua! Il seno della madre tua ha sovvertito l’ordine delle cose. Il Creatore di tutte le cose vi entrò ricco e ne uscì mendicante. C’è un bambino nell’utero e il sigillo verginale rimase illeso. O grande portento!”. Efrem, pur esprimendosi con immacolato rispetto, si rivolge a Lei con quella confidenza da cui nasce la preghiera fiduciosa, come quella che riportiamo di seguito a conclusione della nostra presentazione del pensiero mariologico di Efrem il Siro, e che sembra anticipare di secoli, altre preghiere accorate alla Madre di Dio, composte da altri santi:
“O Maria, nostra mediatrice, in te il genere umano ripone tutta la sua gioia. Da te attende protezione. In te solo trova il suo rifugio. Ed ecco, anch’io vengo a te con tutto il mio fervore, perché non ho coraggio di avvicinarmi a tuo Figlio: pertanto imploro la tua intercessione per ottenere salvezza. O tu che sei compassionevole, o tu che sei la Madre del Dio di misericordia, abbi pietà di me”.

Roberto SPATARO

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO: ESISTENZA ETERNA DELLO SPIRITO

http://www.myriobiblos.gr/texts/italian/christou_insegnamento_4.html

PANAGIOTIS CHRISTOU

L’INSEGNAMENTO DI SAN BASILIO SUL SANTO SPIRITO

Π. Κ Χρήστου, Θεολογικά Μελετήματα 2,
Γραμματεία του Δ’ αιώνος, Θεσσαλονίκη, 1975

4. Esistenza eterna dello Spirito

San Basilio, come molti altri Padri greci della stessa epoca, riconduce la teologia ad una triadologia e non sviluppa la triadologia come un prodotto del pensiero filosofico, ma come una verità empirica. Parte dalle ipostasi concrete, attive nel mondo, per raggiungere l’unità di Dio.
Le ipostasi divine si manifestano in diverse maniere e in diversi luoghi ma sono apparse in particolari attività in maniera più totale; il Padre nella creazione, il Figlio nell’opera della rigenerazione e lo Spirito nella vita della Chiesa. Il Figlio e lo Spirito sono venuti nel mondo in un senso reale. Alcuni Padri, come Cirillo di Gerusalemme (26) e Gregorio il Teologo (27) ad esempio, parlano della venuta, o dell’incarnazione dello Spirito. Anche Basilio parla della discesa e della dimora nell’uomo dello Spirito anche se non usa lo stesso vocabolario.
La causalità provoca in Dio la distinzione delle persone che occupano un determinato posto nella Trinità. Il Padre è ingenerato, il Figlio generato e lo Spirito procede (28); i loro attributi distintivi corrispondenti sono la paternità, la filialità e la santificazione (29). Ma dal momento che il termine gennasthai esprime globalmente un modo di derivazione in maniera comprensibile, non è la stessa cosa per quanto riguarda il termine ekporeuesthai poiché tale termine non descrive precisamente l’origine dello Spirito. È questa la ragione per cui san Basilio afferma che lo Spirito procede in maniera ineffabile (30) dal Padre; la processione designa la familiarità e preserva un modo d’esistenza inesprimibile. Tuttavia egli non dubita mai sulla personalità dello Spirito.
In nessuna epoca i Padri, chiunque essi fossero, hanno dichiarato che lo Spirito procede anche dal Figlio. Certi passi di Cirillo d’Alessandria, parlando della derivazione dello Spirito dal Figlio, fanno allusione non alla causa ma alla sua missione; l’intera Trinità partecipa alla sua missione tramite un’energia comune poiché tutte le energie divine sono comuni all’insieme della Trinità. Il fatto che le due ipostasi derivino solo dal Padre crea l’impressione facilmente dissipabile della monarchia dell’ipostasi paterna. Ma le proprietà del Figlio e dello Spirito non sono certo ritenute inferiori a quelle del Padre; esse non sono effettivamente distinte che in rapporto alla causa che deve rimanere rigorosamente unica per evitare ogni specie di dualismo, ma esse non lo sono in rapporto alla natura increata. Le ipostasi non sono prima, seconda e terza; esse sono d’uguale valore – e non numerate -, sono designate dal loro santo nome, un solo Dio, Padre, un solo ingenerato, il Figlio, un solo Santo Spirito. Ogni genere di subordinazione conduce al politeismo. (31)
Queste distinte ipostasi sono legate in tal maniera che alcuna può essere concepita senza le altre e che ciascuna presuppone le altre due. Esse costituiscono tre persone perfette, inseparabilmente unite: « Poiché dov’è presente il Santo Spirito là è anche il Cristo e dov’è il Cristo anche il Padre è presente » (32). In tal modo che chiunque non crede nello Spirito non può certamente credere al Figlio e chi non crede al Figlio non può certamente credere in Dio Padre (33).
In che consiste l’unità delle ipostasi? Prima di tutto essa può consistere nella comune ousia. Secondo Aristotele, ousia può significare due cose: a) quant’è comune a tutti e non può essere percepito che dall’intelletto e b) l’esistenza individuale. In alcune sue lettere, san Basilio impiega due espressioni aristoteliche per definire l’ousia (nel primo senso) e l’ipostasi (ousia nel secondo senso) (34). Di queste categorie non è completamente soddisfatto perché la logica aristotelica esige delle divisioni e delle classificazioni ch’egli rigetta assolutamente perché inapplicabili a Dio. A volte caratterizza le ipostasi come realtà aventi la stessa ousia, homoousios (35). Egli è conforme al dogma niceno ma cerca d’integrare questa nozione nelle strutture della triadologia della scuola di Cappadocia nella quale ousia non si pone ad un livello più elevato rispetto alle persone, come se fosse una sorta di sorgente dalla quale le persone trarrebbero la loro origine.
Il termine ousia, inoltre, infonde di primo acchito l’impressione d’una realtà materiale e creata, benché il suo uso in teologia ne abbia fatto divenire un termine particolare. La maniera con la quale san Basilio evita d’applicare il termine homoousios al Santo Spirito può spiegarsi considerando le sue esitazioni davanti al termine ousia, per le ragioni menzionate e per l’altra ragione che la stessa parola era utilizzata dai pneumatomachi per designare una subordinazione. San Basilio non si serve di tal termine se non quando è assolutamente indispensabile. I suoi principi teologici non gli permettevano d’insistere troppo sull’ homoousios. Egli non vuole dare l’impressione che Dio consiste in questa o quell’ ousia, perché è incomprensibile e non può essere definito. Non esplica l’homoousios identificando l’essenza e l’ipostasi poiché la persona si confonderebbe, ma distinguendo l’essenza dall’ipostasi, ciò che stabilisce la distinzione delle persone. Così, in quanto ousia, permane l’illimitata e incomprensibile visione di Dio. Per evitare ogni malinteso, san Basilio scarta deliberatamente il termine homoousios per quanto concerne il Santo Spirito, come farà ulteriormente il secondo concilio ecumenico. Secondo quest’ottica, la Trinità non è composta da una pluralità di ousia, ma è costituita da tre persone definite. Poiché le persone hanno il loro valore e la loro individuale dignità – uguale per tutte e tre – il Santo Spirito possiede lo stesso onore delle altre persone della Trinità, egli è homotimos.
San Basilio è più a suo agio quando impiega i termini physis e theotês: « Il Padre, il Figlio e il Santo Spirito hanno la stessa natura e sono un solo Dio »(36). Il Santo Spirito è « una natura divina e santa »(37). Natura è il termine che meglio conviene alla persona perché non descrive la costituzione materiale d’una cosa ma caratterizza il modo d’esistenza.
San Basilio non attribuisce allo Spirito il nome di Dio. Atanasio ha motivato questo rifiuto per la dispensazione dell’oikonomia e Gregorio il Teologo l’ha giustificato per ragioni di prudenza. Ma quest’ultimo a volte è rimasto turbato da tale riserva e gli ha apertamente chiesto fino a quando nasconderà la luce sotto il moggio (38). Altri hanno considerato Basilio progressista per quanto riguarda il punto in oggetto mentre gli ariani lo ritenevano modernista per delle ragioni contrarie. Le opinioni secondo le quali san Basilio ha formulato il suo insegnamento trinitario, sia per ragioni d’opportunismo politico sia per simpatia per gli homeousiani, non sembrano rispondere alla situazione di fatto. Vi sono altre ragioni teologiche importanti. Nel sistema teologico di Basilio, troviamo Dio (= il Padre), Dio da Dio (= il Figlio) e Colui che procede da Dio (= lo Spirito). Non dubita che i tre siano Dio; ma se nomina con logica le tre persone divine, teme d’essere accusato di adottare tre dei perché sarebbe costretto a porli in un certo ordine progressivo: primo, secondo e terzo; egli teme inoltre di distruggere il carattere unico della casualità nella Trinità. Per questa ragione, preferisce dare alle tre persone i nomi che le distinguono: Padre, Figlio e Santo Spirito. Il nome del Santo Spirito significa parecchie cose, tra le altre quella ch’Egli è Dio e ciò rivela che egli accetta l’ homoousios. Lo ha chiaramente dichiarato in conversazioni private da quanto ne afferma Gregorio il Teologo (39). Inoltre quanto ha detto sullo Spirito era comunque più di quanto altri facevano. Infatti, altri denominavano il Santo Spirito senza impiegare la formula syn to pneumati nella dossologia. Ma se è molto importante chiamare Dio il Santo Spirito, in certe condizioni anche l’uomo viene chiamato Dio! Ecco perché è molto più importante rivolgerGli preghiere coma ad un Dio.
L’unità delle ipostasi della triade è espressa felicemente dall’identificazione della potenza, dell’energia e della volontà. Esiste una corrente indivisa d’energia tra il Padre, il Figlio e lo Spirito: « Così la maniera di conoscere Dio proviene dall’unico Spirito attraverso il Figlio e va all’unico Padre e, inversamente, la naturale bontà, la santificazione e l’ufficio reale vengono dal Padre attraverso il Figlio unigenito verso lo Spirito » (40). L’attività della Trinità è comune benché certe energie paiano a volte separarsi a causa delle ipostasi. Nella creazione, ad esempio, il Padre è la causa iniziale di tutto quanto è creato nel mondo, il Figlio la causa creatrice e lo Spirito la causa perfezionatrice, ma la sorgente è unica. Senza dubbio nessuna ipostasi ha attività imperfetta in modo da rendere necessaria l’attività delle altre. Si tratta d’una volontà unificata; ciascuna ipostasi ha la volontà d’agire in accordo con le altre (41). Soprattutto l’unità delle ipostasi è espressa dalla loro comune sorgente, il Padre, com’è stato precedentemente detto.
San Basilio caratterizza lo Spirito con una perifrasi, come immagine del Figlio (42), perché in Lui e attraverso di Lui gli uomini vedono il Figlio. Le ipostasi si fanno ciascuna rivelatrice delle altre agli uomini; lo Spirito riflette in Se stesso l’immagine del Figlio, il Figlio quella del Padre. Così l’itinerario della conoscenza di Dio parte dallo Spirito, attraverso il Figlio per arrivare al Padre. Ma nella Trinità non esiste un’immagine dello Spirito che lo rende meno conosciuto rispetto alle altre ipostasi. Il Figlio ha parlato del Padre ed è stato manifestato dallo Spirito che ha parlato nel passato ai profeti come oggi parla alla Chiesa. Nelle scritture troviamo abbondanti testimonianze su queste due persone, il Padre e il Figlio. Inoltre, la loro opera è oggettiva – la creazione del mondo e l’istituzione delle condizioni della rigenerazione dell’uomo – e cade immediatamente sotto i sensi. Quanto allo Spirito la Scrittura lo menziona solo occasionalmente. Senza dubbio egli abita nella Chiesa e si fa conoscere attraverso le sue energie ma l’esperienza spirituale acquisita dagli illuminati è spesso poco precisa e non permette una completa comprensione della sua personalità. Per questa ragione i Padri hanno evitato di precisare le sue origini. Pure il termine di « processione », come abbiamo detto altrove, non dissipa la nostra ignoranza del modo della sua esistenza, ignoranza che san Basilio considera d’altronde come senza importanza (43).
È la ragione per cui, interpretando l’origine del Santo Spirito in termini non biblici, abbiamo proceduto con prudenza: « Poiché è tipico dell’uomo pio non dire nulla sullo Spirito Santo su ciò che le scritture tacciono e questo perché è nostra convinzione che l’esperienza e la comprensione a suo riguardo risiedono per noi nel mondo futuro » (44). Era ugualmente prudente quando caratterizzava lo Spirito come homoousios e come Dio, come abbiamo già detto. La Chiesa ha sempre saputo e ha sempre concepito quest’attitudine di prudenza. Benché abbia composto degli inni allo Spirito non ha composto preghiere che gli fossero rivolte ad eccezione di una sola. Nelle sue preghiere a Dio essa chiama in modo generico lo Spirito Santo utilizzando le espressioni: coeterno, di identico valore, di uguale gloria ed homoousios. L’innologia della Chiesa riflette l’insegnamento di Gregorio il Teologo che, nella sua maniera di presentare la divinità dello Spirito era più ardito mentre le preghiere della Pentecoste riflettono l’insegnamento di Basilio il Grande.

NOTE SUL SITO

VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – MARTEDÌ – UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/ord/LetMar/08MARpage.htm

VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – MARTEDÌ

UFFICIO DELLE LETTURE

PRIMA LETTURA
DAL LIBRO DI GIOBBE 3, 1-26

Lamentazioni di Giobbe
Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno;
prese a dire:
Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse:
«E’ stato concepito un uomo!».
Quel giorno sia tenebra,
non se ne curi Dio dall’alto,
né brilli mai su di esso la luce.
Lo rivendichi tenebra e morte,
gli si stenda sopra una nube
e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!
quella notte se la prenda l’oscurità,
non si aggiunga ai giorni dell’anno,
non entri nel conto dei mesi.
Ecco, quella notte sia sterile
e non entri giubilo in essa.
La maledicano quelli che imprecano al giorno,
gli esperti a evocare Leviatan.
Si oscurino le stelle del suo crepuscolo,
speri la luce e non venga;
non veda schiudersi le palpebre dell’aurora,
poiché non mi ha chiuso il varco
del grembo materno,
e non ha nascosto l’affanno agli occhi miei!
E perché non sono morto fin dal seno di mia madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e perché due mammelle, per allattarmi?
Sì, ora giacerei tranquillo,
dormirei e avrei pace
con i re e i governanti della terra,
che si sono costruiti mausolei,
o con i principi, che hanno oro
e riempiono le case d’argento.
Oppure, come aborto nascosto, più non sarei,
o come i bimbi che non hanno visto la luce.
Laggiù i malvagi cessano d’agitarsi,
laggiù riposano gli sfiniti di forze.
I prigionieri hanno pace insieme,
non sentono più la voce dell’aguzzino.
Laggiù è il piccolo e il grande,
e lo schiavo è libero dal suo padrone.
Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene,
che la cercano più di un tesoro,
che godono alla vista di un tumulo,
gioiscono se possono trovare una tomba…
a un uomo, la cui via è nascosta
e che Dio da ogni parte ha sbarrato?
Così, al posto del cibo entra il mio gemito,
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho pace, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento!

Responsorio    Cfr. Gb 3, 24-26; 6, 13
R. Al posto del cibo entra il mio gemito, e i miei ruggiti sgorgano come acqua: ciò che temo mi accade, e quel che mi spaventa mi raggiunge. * Pesa su di me la tua collera, Signore;
V. Non v’è proprio aiuto per me? Anche i miei intimi si sono allontanati!
R. Pesa su di me la tua collera, Signore.

SECONDA LETTURA
DALLE «CONFESSIONI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO
(LIB. 10, 1. 1 – 2, 2; 5. 7; CSEL 33, 226-227. 230-231)

A te, o Signore, chiunque io sia, sono manifesto
Conoscerò te, o mio conoscitore, ti conoscerò come anch’io sono conosciuto (cfr. 1 Cor 13, 12). Forza della mia anima, entra in essa e uniscila a te, per averla e possederla «senza macchia né ruga» (Ef 5, 27). Questa è la mia speranza, per questo oso parlare e in questa speranza gioisco, perché gioisco di cosa sacrosanta. Tutto il resto in questa vita tanto meno richiede di essere rimpianto, quanto più si rimpiange, e tanto più merita di essere rimpianto, quanto meno si rimpiange. «Ma tu vuoi la sincerità del cuore» (Sal 50, 8), poiché chi la realizza, viene alla luce (cfr. Gv 3, 21). Voglio quindi realizzarla nel mio cuore davanti a te nella mia confessione e nel mio scritto davanti a molti testimoni.
Davanti a te, o Signore, è scoperto l’abisso dell’umana coscienza: può esserti nascosto qualcosa in me, anche se m’impegnassi di non confessartelo? Se mi comportassi così, io nasconderei te a me, anziché me a te. Ma ora il mio gemito manifesta che io dispiaccio a me stesso, e che tu rifulgi e piaci e meriti di essere amato e desiderato, al punto che arrossisco di me e rifiuto me per scegliere te, e non bramo di piacere né a te né a me, se non in te.
Dunque, o Signore, tu mi conosci veramente come sono. Ho già espresso il motivo per cui mi manifesto a te. Non faccio questo con parole e voci della carne, ma con parole dell’anima e grida della mente, che il tuo orecchio ben conosce. Quando sono cattivo, l’atto di confessarmi a te non è altro che un dispiacere a me; quando invece sono buono, l’atto di confessarmi a te non è altro che un non attribuire a me questa bontà, poiché, «Signore, tu benedici il giusto» (Sal 5, 13), ma prima lo giustifichi quando è empio (cfr. Rm 4, 5). Perciò, o mio Dio, la mia confessione dinanzi a te avviene in forma tacita e non tacita: avviene nel silenzio, ma è forte il grido dell’affetto.
Tu solo, Signore, mi giudichi; infatti «chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?» (1 Cor 2, 11). Tuttavia c’è qualcosa nell’uomo che non è conosciuto neppure dallo spirito che è in lui. Tu però, Signore, conosci tutto di lui, perché l’hai creato. Io invece, quantunque mi disprezzi davanti a te e mi ritenga terra e cenere, so di te qualcosa che non so di me.
«Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), e perciò, fino a quando sono pellegrino lontano da te, sono più vicino a me stesso che a te, e tuttavia so che tu sei inviolabile in modo assoluto. Ma io non so a quali tentazioni possa resistere e a quali no. Io ho speranza, perché tu sei fedele e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione tu ci darai anche la via d’uscita e la forza per sopportarla (cfr. 1 Cor 10, 13).
Confesserò, dunque, quello che so e quello che non so di me; perché anche quanto so di me, lo conosco per tua illuminazione; e quanto non so di me, lo ignorerò fino a quando la mia tenebra non diventerà come il meriggio alla luce del tuo volto (cfr. Is 58, 10).

«AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE» – SAN BERNARDO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_w.htm#«AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE»

«AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE»

SAN BERNARDO *

San Bernardo (1090-1153) si fece monaco a Citeaux e, tre anni dopo, divenne il primo Abate di Chiara valle. I doni di natura e di grazia hanno conferito a questo letterato, teologo e mistico, un fascino tutto particolare. La sua opera conserva ancora oggi un grande valore spirituale.
Nei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici, grazie anche alla perfezione della forma letteraria, egli ci fa gustare i frutti di una lunga esperienza di vita spirituale.

L’amore basta a se stesso, piace per sé e a motivo di sé; è merito e ricompensa a se stesso. Non cerca all’infuori di sé nessuna causa e nessun frutto: suo frutto è appunto amare. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l’amore purché risalga al suo principio e, ritornato alla sua origine, riversatosi nella sua fonte, attinga sempre da essa per poter fluire perennemente. Di tutti i moti dell’anima, dei sentimenti e degli affetti, l’amore è il solo col quale la creatura può rispondere al suo Creatore, se non da pari a pari, almeno da simile a simile…
L’amore dello Sposo, o meglio lo Sposo che è amore, chiede solo reciprocità d’amore e fedeltà. L’amata dunque deve amari o a sua volta. Come potrebbe non amare lei che è sposa e sposa dell’Amore? Come potrebbe l’Amore non essere amato?
E’ giusto allora che, rinunziando a tutti gli altri affetti, si dia interamente ad un unico amore, lei a cui tocca rispondere all’Amore stesso ricambiando amore. Infatti anche se si effonde tutta in amore, che proporzione ci sarà tra questo suo amore e lo scorrere perenne di quella che è la fonte? Certamente il flusso dell’amore non sgorga con la stessa ricchezza da chi ama e da chi è l’Amore, dall’anima e dal Verbo, dalla sposa e dallo Sposo, dal Creatore e dalla creatura: l’abbondanza della fonte non è certo quella dell’assetato. E allora? Sarà quindi vano, sparirà completamente il desiderio di quella che aspetta le nozze? L’aspirazione di chi attende, l’ardore dell’amante, la fiducia di chi spera saranno delusi perché la sposa non può correre col passo di un gigante, contendere in dolcezza col miele, in mitezza con l’agnello, in candore col giglio, in luminosità col sole, in amore con colui che è Carità? No. Infatti, anche se la creatura ama di meno perché è più piccola, tuttavia può amare con tutta se stessa e dove c’è il tutto nulla manca. Perciò, come ho detto, amare così è una vera unione nuziale: non è infatti possibile volere tanto bene e non essere ricambiati nella stessa misura, in modo che il perfetto connubio consista nel reciproco consenso di due. A meno che qualcuno non obbietti che è l’anima ad essere amata dal Verbo, amata prima e di più. Perciò è prevenuta e superata nell’amore. Beata colei che ha meritato di essere prevenuta e benedetta con tanta tenerezza! Felice quella a cui è stato concesso di sperimentare un abbraccio così soave! Questo non è altro che amore santo e casto, dolce e delicato, amore tanto sereno quanto sincero, amore reciproco tutto intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito e di due non fa più due ma uno solo, come dice Paolo: Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con lui (1 Cor. 6, 17).

* Sermones super Cantica Canticorum, sermo LXXXIII, vol. II – Ed. Cist. Roma 1958 – pp. 300-302.

CONVERSIONE DI SAN PAOLO, 25 GENNAIO – UFFICIO DELLE LETTURE

25 GENNAIO : CONVERSIONE DI SAN PAOLO

(lo so sono in ritardo, ma l’Ufficio si può fare in qualsiasi ora)

UFFICIO DELLE LETTURE

INNO

 O apostoli di Cristo,
colonna e fondamento
della città di Dio!

Dall’umile villaggio
di Galilea salite
alla gloria immortale.

Vi accoglie nella santa
Gerusalemme nuova
la luce dell’Agnello.

La Chiesa che adunaste
col sangue e la parola
vi saluta festante;

ed implora: fruttifichi
il germe da voi sparso
per i granai del cielo.

Sia gloria e lode a Cristo,
al Padre e allo Spirito,
nei secoli dei secoli. Amen

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

SALMO 18 A

I cieli narrano la gloria di Dio, *
    e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio *
    e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Non è linguaggio e non sono parole, *
    di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce *
    e ai confini del mondo la loro parola.

Là pose una tenda per il sole †
    che esce come sposo dalla stanza nuziale, *
    esulta come prode che percorre la via.

Egli sorge da un estremo del cielo †
    e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: *
    nulla si sottrae al suo calore.

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

SALMO 63

Ascolta, Dio, la voce, del mio lamento, *
    dal terrore del nemico preserva la mia vita.
Proteggimi dalla congiura degli empi *
    dal tumulto dei malvagi.

Affilano la loro lingua come spada, †
    scagliano come frecce parole amare *
    per colpire di nascosto l’innocente;

lo colpiscono di sorpresa *
    e non hanno timore.

Si ostinano nel fare il male, †
    si accordano per nascondere tranelli; *
    dicono: «Chi li potrà vedere?».

Meditano iniquità, attuano le loro trame: *
    un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso.

Ma Dio li colpisce con le sue frecce: *
    all’improvviso essi sono feriti,
la loro stessa lingua li farà cadere; *
    chiunque, al vederli, scuoterà il capo.

Allora tutti saranno presi da timore, †
    annunzieranno le opere di Dio *
    e capiranno ciò che egli ha fatto.

Il giusto gioirà nel Signore †
    e riporrà in lui la sua speranza, *
    i retti di cuore ne trarranno gloria.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

SALMO 96

Il Signore regna, esulti la terra, *
    † gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono, *
    giustizia e diritto sono la base del suo trono.

Davanti a lui cammina il fuoco *
    e brucia tutt’intorno i suoi nemici.
Le sue folgori rischiarano il mondo: *
    vede e sussulta la terra.

I monti fondono come cera davanti al Signore, *
    davanti al Signore di tutta la terra.
I cieli annunziano la sua giustizia *
    e tutti i popoli contemplano la sua gloria.

Siano confusi tutti gli adoratori di statue †
    e chi si gloria dei propri idoli. *
    Si prostrino a lui tutti gli dei!

Ascolta Sion e ne gioisce, †
    esultano le città di Giuda *
    per i tuoi giudizi, Signore.

Perché tu sei, Signore, l’Altissimo su tutta la terra, *
    tu sei eccelso sopra tutti gli dei.

Odiate il male, voi che amate il Signore: †
    lui che custodisce la vita dei suoi fedeli *
    li strapperà dalle mani degli empi.

Una luce si è levata per il giusto, *
    gioia per i retti di cuore.
Rallegratevi, giusti, nel Signore, *
    rendete grazie al suo santo nome.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

V. Buono e pietoso è il Signore,
V. lento all’ira e grande nell’amore.

PRIMA LETTURA         

Dalla lettera ai Galati di san Paolo, apostolo 1,11-24
Rivelò a me il suo Figlio perché lo annunziassi

    Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
    In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia- Ma ero sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». E glorificavano Dio a causa mia.

RESPONSORIO         Cfr. Gal 1,11-12; 2 Cor 11,10.7

R. Il vangelo che annunzio non è modellato sull’uomo: * non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
V. La verità di Cristo è in me, poiché vi ho annunziato il vangelo di Dio:
R. non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

SECONDA LETTURA         

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50,477-480)
Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

    Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2,18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12,10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
    Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
    Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
    Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

RESPONSORIO         Cfr. 1 Tm 1,13-14; 1 Cor 15,9

R. Dio mi ha usato misericordia, perché agivo senza saperlo. * La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.
V. Non merito di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
R. La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.

Celebrazione vigiliare

TE DEUM

Noi ti lodiamo, Dio, *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio, *
lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.

Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.

ORAZIONE

    O Dio, che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi anche a noi, che oggi ricordiamo la sua conversione, di camminare sempre verso di te e di essere testimoni della tua verità. Per il nostro Signore.

Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

1...678910...24

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31