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LA PROVVIDENZA DIVINA – Giovanni Damasceno

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20030124_giovanni-damasceno_it.html

LA PROVVIDENZA DIVINA

Giovanni Damasceno, Esposizione della fede ortodossa, 2,29

« La provvidenza consiste nella cura esercitata da Dio nei confronti di ciò che esiste. Essa rappresenta, inoltre, quella volontà divina grazie alla quale ogni cosa è retta da un giusto ordinamento. Se dunque la volontà di Dio è provvidenza, tutto quanto avviene per suo dettato si realizza necessariamente in maniera bellissima e sempre diversa, nel migliore dei modi possibile. È logico ritenere, infatti, che Dio stesso sia tanto il creatore delle cose quanto colui che le cura e le preserva: non è conveniente né ragionevole immaginare che uno sia il creatore e un altro protegga l’opera del primo. Se così fosse, infatti, essi sarebbero entrambi assolutamente impotenti: l’uno di fare, l’altro di provvedere. Dio, perciò, è colui che ha creato e colui che provvede; la sua capacità di creare e di conservare e di provvedere altro non è se non la sua stessa benigna volontà: infatti tutto ciò che il Signore volle lo fece nel cielo e sulla terra (Sal 134,6) e nessuno può resistere alla sua volontà (Rm 9,19). Tutto quanto egli volle che esistesse, è stato creato. Egli vuole che il mondo esista ed esiste: tutto ciò che vuole, lo crea.
Giustamente, dunque, si può affermare, senza alcun’ombra di dubbio, che Dio provvede, e provvede opportunamente. Solo Dio è buono e sapiente per natura: in quanto è buono, è provvidente (colui che non provvedesse, infatti, non sarebbe neppure buono: anche gli uomini e gli stessi animali provvedono con l’istinto naturale ai loro figli, ed è riprovevole chi non lo fa) e, in quanto è sapiente, cura nel modo migliore tutto ciò che esiste.
Nel considerare attentamente quanto siamo andati osservando, è dunque necessario che noi ammiriamo tutte le opere della provvidenza, le lodiamo tutte, tutte incondizionatamente le accettiamo, sebbene a molti talune cose appaiano ingiuste. La provvidenza di Dio, infatti, non può essere né conosciuta né compresa; e i nostri pensieri e le nostre azioni, come il nostro futuro, sono noti ad essa soltanto. Infatti le cose soggette alla nostra discrezionalità, non vanno ascritte alla provvidenza, ma al libero arbitrio dell’uomo.
In realtà, delle cose che dipendono dalla provvidenza, alcune avvengono grazie alla sua volontà attiva, altre invece attraverso la sua volontà permissiva. In virtù della prima accadono tutte quelle cose che risultano come incontrovertibilmente buone; molte sono, invece, le forme nelle quali si manifesta la volontà permissiva di Dio. Per esempio, quando egli permette che l’uomo giusto s’imbatta nelle calamità, affinché la virtù nascosta in lui si renda visibile anche per gli altri, come accadde nel caso di Giobbe (Gb 1,12). Talvolta, Dio consente che avvenga qualcosa d’ingiusto affinché, attraverso circostanze apparentemente inique, si compia qualcosa di grande e di mirabile: attraverso la croce, ad esempio, egli ha dato la salvezza agli uomini. Inoltre il Signore permette che l’uomo pio sia afflitto da gravi sventure: perché non si allontani, cioè, dalla retta coscienza ovvero, a causa dell’autorità e della grazia concessegli, non precipiti nella superbia, come avvenne in Paolo (2Cor 12,7).
Perché altri ne traggano insegnamento, qualcuno viene dunque talvolta abbandonato da Dio; gli altri così considerando le sue disgrazie, ne ricavano ammaestramento: si osservi, a tal proposito, il caso di Lazzaro e del ricco (Lc 16,19). Spontaneamente, infatti, nel vedere chi soffre, ci si stringe il cuore. Talvolta, poi, Dio consente che qualcuno soffra, non per punire colpe sue o dei suoi antenati, ma perché si manifesti la gloria di qualcun altro: nel caso del cieco nato (cf. Gv 7,3), ad esempio, si doveva rivelare, attraverso la sua guarigione, la gloria del Figlio dell’uomo.
La sofferenza viene inoltre tollerata da Dio onde suscitare negli animi il desiderio di emulazione degli altri: affinché cioè, incoraggiati dalla gloria toccata a chi ha sofferto, gli altri sopportino piamente le avversità, grazie alla speranza della gloria futura e sollecitati dal desiderio dei beni eterni, come accadde ai martiri.
Infine, il Signore permette persino che qualcuno cada in una azione turpe perché abbia modo di liberarsi di qualche vizio più grave. Ad esempio, se qualcuno s’insuperbisce delle sue virtù e delle sue buone azioni Dio lascia che costui cada nella fornicazione affinché divenendo in tal modo consapevole della propria debolezza, diventi umile e cominci a confidare maggiormente nel Signore.
Si deve poi sapere che la scelta delle azioni da compiere dipende da noi; quando queste sono buone, invece, il loro risultato è da attribuire all’aiuto di Dio che giustamente soccorre, nella sua prescienza, coloro che intraprendono il bene con retta coscienza. L’esito delle azioni cattive, al contrario, si deve al disimpegno di Dio che, grazie sempre alla sua virtù di conoscere in anticipo ogni cosa, opportunamente abbandona l’uomo malvagio.
In particolare esistono, da parte di Dio, due diversi tipi di abbandono: quello pratico, cioè educativo; e l’abbandono assoluto, fonte della disperazione. Il primo comporta, per chi lo subisce, raddrizzamento, salvezza, gloria sia per suscitare negli altri emulazione e imitazione, sia per la gloria di Dio. L’abbandono assoluto, per contro, avviene quando, sebbene Dio abbia compiuto ogni cosa per la salvezza di una persona, costei continua nondimeno a rimanere insensibile e incurante del proprio destino, anzi inguaribile; e viene perciò abbandonata, come Giuda (Mt 26,27), all’estrema rovina. Ci sia dunque propizio il Signore, preservandoci da tale abbandono.
Numerosissimi sono poi i metodi della divina provvidenza: non possono esser spiegati a parole né compresi con la mente. Non si deve ignorare che tutte le calamità recano la salvezza di coloro che le sopportano con rendimento di grazie, risultando in tal modo per essi di grande beneficio. Iddio, infatti, secondo la sua volontà antecedente, vuole che tutti si salvino e divengano membri del suo regno (1Tm 2,4): egli non ci ha creato per punirci, ma, essendo buono, perché fossimo partecipi della sua bontà. D’altronde, essendo anche giusto, il Signore vuole però punire i peccatori.
La prima volontà di Dio, dunque, è detta volontà antecedente o benevolenza, poiché deriva direttamente da lui; la seconda, invece, è la volontà conseguente o permissione, avendo origine per causa nostra. Quest’ultima, a sua volta, è duplice: l’una rientra nel piano di Dio ed è educativa ai fini della salvezza; l’altra, cioè quella concernente la disperazione, porta invece, come abbiamo già ricordato, alla più assoluta dannazione. Tali volontà non riguardano quanto dipende da noi.
Delle cose che dipendono da noi, Dio fin da principio vuole e approva quelle buone. Quelle cattive e veramente malvagie, egli non le desidera né direttamente né indirettamente: le permette in ragione del nostro libero arbitrio. Ciò che avvenisse per forza, infatti, non converrebbe alla ragione né potrebbe considerarsi come virtù.
Dio provvede, dunque, a tutto il creato. Attraverso di esso beneficia e istruisce sovente anche servendosi dei demoni, come nel caso di Giobbe o dei porci (Mt 8,30ss). »

DAI « DISCORSI » DI SANT’ANDREA DI CRETA: BENEDETTO COLUI CHE VIENE NEL NOME DEL SIGNORE, IL RE D’ISRAELE

http://www.prayerpreghiera.it/padri/padri.htm

DAI « DISCORSI » DI SANT’ANDREA DI CRETA, VESCOVO

(DISC. 9 SULLE PALME; PG 97,990-994)

BENEDETTO COLUI CHE VIENE NEL NOME DEL SIGNORE, IL RE D’ISRAELE

Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza.
Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. È disceso dal cielo, per farci salire con sé lassù « al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare » (Ef 1,21). Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella spettacolarità, « Non contenderà », dice, « né griderà, né si udrà la sua voce » (Mt 12,19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà.
Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell’ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a se.
Egli salì « verso oriente sopra i cieli dei cieli » (cfr. Sal 67,34) cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con se la natura umana, innalzandola dalle bassezze della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia o meglio di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3,27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese.
Per il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele ».

SANT’EFREM IL SIRO: UN POETA CHE CELEBRA LA BELLEZZA DELLA MADONNA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/catechesi/08-09/01-Efrem_il_Siro.html

SANT’EFREM IL SIRO: UN POETA CHE CELEBRA LA BELLEZZA DELLA MADONNA

Dante, Petrarca, Boccaccio, Manzoni, Testori… una lunghissima lista di poeti che hanno cantato la Madonna nei loro componimenti. Chi non ricorda le parole ispirate di Dante, nella preghiera alla Vergine che San Bernardo pronuncia nel canto XXXIII del Paradiso e che inizia con il celebre verso: “Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio”?
Sembra che nessun grande poeta nella storia della letteratura italiana abbia potuto resistere all’incanto che proviene dalla Madonna. Non ci sorprendiamo. La poesia è traduzione in parole dei frammenti della bellezza che il poeta, con la sua ispirazione, riesce a mettere insieme. La Madonna è la creatura in cui tutta la Bellezza si è raccolta.

Il primo poeta di Maria
Uno dei Padri della Chiesa, vissuti nel IV secolo, è, in ordine cronologico, il primo dei poeti mariani, quello che ha aperto la strada a tanti altri, di tutte le epoche e di tutte le lingue. Questo Padre della Chiesa si chiama Efrem. È un nome inusuale. Infatti egli è siriano, nativo di Nibisi, un’antichissima città che oggi si trova in Iraq. I cristiani della Siria e della Mesopotamia lo hanno sempre ritenuto un grande dottore e, ancora oggi, pur in mezzo alle immani difficoltà che devono affrontare, lo venerano con devozione.
I suoi componimenti, che assommano addirittura tre milioni di versi, sono ricchi di afflato mistico elevato al punto che Efrem è stato chiamato “la cetra dello Spirito Santo”. Se tutte le poesie scritte da Efrem sono dotate di bellezza, quelle in cui parla della Madonna sono veramente incantevoli perché sgorgano da un cuore teneramente filiale e così ad Efrem è stato giustamente attribuito anche il titolo di “il cantore di Maria”.
Efrem non è un teologo speculativo che scopre nuove idee. Egli, piuttosto, riferisce il contenuto tradizionale della fede, soprattutto i racconti della Bibbia, ma riveste questa materia di immagini liriche ed in questa sua capacità risiede il suo valore.

Tutto in me e tutto ovunque
Come i lettori assidui di “Maria Ausiliatrice” ricorderanno, già altri scrittori cristiani prima di Efrem, come Giustino ed Ireneo, avevano paragonato Maria ad Eva per mostrare, attraverso la contrapposizione, il ruolo esercitato dalla Madonna nella storia della salvezza. Efrem riprende lo stesso tema ma lo presenta con immagini poetiche veramente ispirate: “Guarda il mondo: due occhi ha avuto. Eva, l’occhio sinistro, quello cieco; Maria, occhio luminoso, quello destro. Per colpa dell’occhio sinistro si ottenebrò il mondo e rimase buio. Ma mediante Maria, occhio destro, s’illuminò il mondo con la luce celeste che abitò in lei e gli uomini ritrovarono l’unità”.
Quando vuole affermare la verginità di Maria, un articolo della fede alla quale la Chiesa ha sempre aderito, Efrem non propone dei ragionamenti per confutare gli avversari di questa verità, ma canta questo grande mistero rielaborando in modo poetico delle immagini tratte dalla Bibbia, come quella del roveto ardente che non si consuma: “Come il Sinai, io t’ho portato e non fui incendiata dal tuo fuoco tremendo, la tua fiamma non mi consumò”. Forse, tra i cristiani, non c’è celebrazione più dolce ed amata di quella del santo Natale. Tutti ci commuoviamo dinanzi al Presepe, anche le persone più severe e, persino, violente.
Naturalmente questo accade anche al nostro poeta siriano, Efrem, il quale, contemplando gli eventi accaduti a Betlemme, si lascia trasportare dal suo fervore religioso e poetico e mette sulla bocca della Madonna questi versi, una specie di ninna-nanna della Madre di Dio al Suo Bambino, che adora: “Maria effondeva il suo cuore con inimitabili accenti e cantava il suo canto di culla:
«Chi mai diede alla solitaria di concepire e dare alla luce colui che insieme è uno e molti, piccolo e grande, tutto in me e tutto dovunque? Il giorno in cui Gabriele entrò presso di me povera, in un istante mi ha fatto signora ed ancella. Perché io sono ancella della tua divinità, ma anche madre della tua umanità, o Signore e Figlio mio!»”.

Compartecipe della gloria
Qualche volta Efrem aggiunge dei particolari che non sono riportati nei Vangeli. Potremmo dire che si permette delle “licenze poetiche”. Una di queste è veramente felice e appare ragionevolmente vera. Si tratta della credenza secondo la quale il Signore Risorto sia apparso subito a sua Madre. Scrive Efrem: “Va’, di’ ai miei fratelli: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro».
Maria, come fu presente al primo miracolo, così ebbe le primizie della risurrezione dagli inferi”. Molti santi ed alcuni mistici hanno confermato questa opinione, molto radicata nella pietà popolare: Maria, come fu partecipe del dolore del Crocifisso, così per prima dovette gioire della gioia del Risorto. I poeti certe volte sono grandi teologi. Efrem ne è una dimostrazione.

Un prodigio la Madre Tua!
Nel far vibrare le corde del suo cuore, che sembra che non si stanchi mai di celebrare la bellezza e la grandezza di Maria, intuisce che c’è una profonda somiglianza tra la Madonna e la Chiesa. Entrambe sono accomunate da molteplici tratti. Come sempre, Efrem esprime questi concetti con la sua arte, delicata e robusta allo stesso tempo, impregnata di reminiscenze bibliche. “La Chiesa ci ha dato il pane vivo, al posto di quegli azimi che aveva dato l’Egitto. Maria ci ha dato il pane che nutre veramente, invece del pane della fatica che Eva ci aveva procurato”.
Un illustre studioso di Efrem e di tutta l’antica letteratura cristiana in lingua siriaca (una lingua molto simile a quella che parlava Gesù, l’aramaico), ha detto che per questo Padre della Chiesa la Vergine Santa è per lui una persona alla quale si sente intimamente legato e verso la quale si ritiene obbligato da un debito di immensa riconoscenza per il contributo offerto dalla Madonna alla salvezza dell’umanità. Efrem si sente attratto dalla Madonna.
Il mistero che promana dalla sua figura lo riempie di ammirazione e di stupore: “Nessuno, o Signore sa come chiamare la madre tua. Se la chiama Vergine, vi è la presenza del Figlio; se la chiama sposa, si rende conto che nessuno l’ha conosciuta. Un prodigio è la Madre tua! Il seno della madre tua ha sovvertito l’ordine delle cose. Il Creatore di tutte le cose vi entrò ricco e ne uscì mendicante. C’è un bambino nell’utero e il sigillo verginale rimase illeso. O grande portento!”. Efrem, pur esprimendosi con immacolato rispetto, si rivolge a Lei con quella confidenza da cui nasce la preghiera fiduciosa, come quella che riportiamo di seguito a conclusione della nostra presentazione del pensiero mariologico di Efrem il Siro, e che sembra anticipare di secoli, altre preghiere accorate alla Madre di Dio, composte da altri santi:
“O Maria, nostra mediatrice, in te il genere umano ripone tutta la sua gioia. Da te attende protezione. In te solo trova il suo rifugio. Ed ecco, anch’io vengo a te con tutto il mio fervore, perché non ho coraggio di avvicinarmi a tuo Figlio: pertanto imploro la tua intercessione per ottenere salvezza. O tu che sei compassionevole, o tu che sei la Madre del Dio di misericordia, abbi pietà di me”.

Roberto SPATARO
Studium Theologicum Salesianum / Gerusalemme

18 MARZO: SAN CIRILLO DI GERUSALEMME (315-386): RICORDATI DI DIO IN OGNI TEMPO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/03-Marzo/San_Cirillo_di_Gerusalemme.html

18 MARZO: SAN CIRILLO DI GERUSALEMME (315-386),

Vescovo e Dottore della Chiesa:

RICORDATI DI DIO IN OGNI TEMPO

Strano destino quello di Cirillo di Gerusalemme: era un uomo pacifico e suo malgrado venne coinvolto in innumerevoli controversie dottrinali. Era un uomo sincero e cristallino e fu accusato ingiustamente di doppio gioco e di ambiguità. Un vescovo che amava sinceramente la sua comunità e, per motivi dottrinali falsi, venne mandato in esilio ben tre volte.
Ma non è finita. Era un uomo di grande e sincera carità verso gli altri, specialmente i poveri, e fu accusato di dilapidare i beni della Chiesa e di arricchire se stesso. Insomma, lui, Cirillo, uomo mite e tranquillo, dovette vivere in tempi turbolenti per l’ortodossia e la sopravvivenza stessa della Chiesa di Cristo.
Ma visse nonostante le molteplici difficoltà, lottò con coraggio, si difese nella verità e nella carità, predicò con successo alla gente ed infine le sue posizioni dottrinali trionfarono nel Concilio del 381. E la Chiesa, anche grazie a lui, superò la tremenda prova, potenzialmente devastante, della perniciosa eresia ariana che prosperò e imperversò per vari decenni.
Una figura degna di essere ricordata oggi, anche per farci capire quanto è costato in termini di sacrifici, non solo psicologici ma anche fisici, la difesa dell’ortodossia della fede cristiana e quante lotte non indolori ha richiesto la conquista e la difesa, per esempio, del Credo che noi ripetiamo, magari distrattamente, nella Messa domenicale.

Ottimo predicatore, convincente e preparato
Cirillo nacque a Gerusalemme (o dintorni) nel 315 da una buona famiglia cristiana praticante. Essendo anche benestante poté assicurare al giovane una eccellente preparazione culturale. Non sembra che sia stato monaco, ma certamente praticò con impegno l’ascesi di tipo monastico. Di una cosa si è certi: Cirillo era diventato un vero esperto della Scrittura: la prova si ha dalle numerose citazioni che egli ne ha fatto nelle sue opere, segnatamente nelle famose Catechesi, per le quali è universalmente famoso e ammirato ancora oggi.
Fu ordinato sacerdote nel 345, quindi a 30 anni suonati. Fu proprio in questo periodo che egli pronunciò le famose catechesi che servivano da istruzione per i catecumeni.
Istruzioni catechistiche robuste nel contenuto, con ampie e continue citazioni bibliche, semplici nella forma, accessibili a tutti nel linguaggio, appassionate e persuasive nello stile, spiritualmente solide e nutrienti.
Non solo un vero pastore ma anche un ottimo maestro di fede. Insomma si faceva capire da tutti quelli che erano interessati a capire: gente semplice senza tanta istruzione che aveva la volontà di imparare e prepararsi al battesimo, mentre quelli con l’istruzione necessaria non ne avevano tempo (capita anche oggi). E dobbiamo tutto ad uno dei suoi uditori, che non solo fu contento di ascoltarlo, ma ebbe la felicissima intuizione (da lodare nei secoli) di stenografarle. E così sono giunte a noi.
Nel 350 circa, venne ordinato per la sede di Gerusalemme per le mani del vescovo metropolitano Acacio di Cesarea. E da costui arrivò non solo l’unzione episcopale ma anche una pioggia di guai e sofferenze per il buono e mite Cirillo.
Sulla sua persona, sull’elezione e sulla sua ortodossia ci furono (a torto) dei dubbi per il fatto che era stato eletto e ordinato da un vescovo non in odore di santità, ma addirittura di arianesimo. Se all’inizio Acacio di Cesarea sembrava solo simpatizzante ariano poi lo divenne con convinzione.
Dov’era il pericolo di questa eresia, che era stata abbracciata da vescovi, imperatori e altri funzionari statali? Molto semplice: andava alla radice stessa della fede cattolica, cioè a Gesù Cristo. Questi (secondo Ario, il fondatore, e i successori convinti o simpatizzanti tali) non era il Figlio di Dio, la Seconda Persona della Trinità ma era semplicemente un “demiurgo” un “semidio”, uno “simile” al Padre, non certamente “Luce da Luce e della stessa sostanza”, cioè sullo stesso piano. Una eresia, come si vede, micidiale per l’ortodossia: minava alla radice la fede nella Trinità e distruggeva la cristologia: Gesù visto così non poteva essere il Salvatore e Redentore di tutti, perché il suo sacrificio non aveva valore universale non essendo Figlio di Dio. Ario e la sua eresia era già stata condannata nel Concilio di Nicea (325). Qui si affermò solennemente che Gesù Cristo è Figlio di Dio, “della stessa sostanza” del Padre, e si affermò pure che Egli è “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato”.
Ma nonostante la sconfitta conciliare l’arianesimo continuò tramite gli appoggi in alto (imperatori e vescovi) fino ai giorni di Cirillo. Fu grazie all’opera appassionata di personaggi come Atanasio, Ilario, Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio di Nissa (per rimanere in Oriente) che venne ristabilita la supremazia dell’ortodossia.

Difensore della divinità di Cristo
Quando l’arianesimo di Acacio divenne manifesto, volendosi staccare dal suo controllo, Cirillo riaprì la vecchia questione della supremazia della sede metropolitana (anche perché c’era stato un certo riconoscimento di quella di Gerusalemme e quindi…), rivendicò maggiore autonomia per la sede gerosolimitana, sconfessando nei fatti il primato di Cesarea e quindi di Acacio. Questi allora, come risposta, convocò un sinodo, ma Cirillo non vi partecipò neppure perché la decisione era già precostituita, in quanto la maggioranza era ariana. Fu accusato di insubordinazione, di vendita dei beni della Chiesa per nutrire i poveri in tempo di carestia e di… non sostenere le tesi ariane (o, con parola difficile, di essere un “omo-ousiano”).
Risultato già annunciato: la condanna e l’esilio. Ci andrà ben tre volte in circostanze diverse, per cui dei suoi 36 anni di episcopato, ben 16 li passerà in esilio.
Fu nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli (381) che la professione di fede di Nicea fu ripresa e qui (presente anche il grande Gregorio di Nissa) Cirillo dissipò tutti i dubbi che gli si attribuivano (di simpatie ariane, che, per la verità, non ebbe mai) sottoscrivendo e accettando anche il termine “omo-ousios” cioè “della stessa sostanza”, parola che era considerata la sigla dell’ortodossia e quindi dell’anti arianesimo.
Cirillo non era solo intraprendente e brillante nell’educazione religiosa del suo gregge, ma era anche molto sensibile e sollecito verso i poveri. Carità e assistenza ai bisognosi lo accompagnarono sempre.
È rimasto famoso un episodio (che fu anche fonte di accuse per lui) e che, anche se tramandato in modo confuso, ci dà la misura della grandezza morale di Cirillo. Durante una carestia egli vendette, per ricavarne denaro e soccorrere i poveri, alcuni arredi di proprietà della Chiesa. Tra di essi una stoffa preziosa, donata dall’imperatore Costantino ad un vescovo. Questa poi fu rivenduta dal compratore ad un’attrice e riutilizzato come abito di scena. La cosa sembrò scandalosa e naturalmente strumentalizzata dai suoi numerosi avversari ariani. Un simile episodio capitò anche ad Ambrogio da Milano. E questi rispose alle accuse anche stavolta degli ariani che “se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”. Non ci viene tramandata nessuna reazione di Cirillo alle accuse, ma certamente lo spirito che lo animava era lo stesso: nutrire il corpo di Cristo spiritualmente nella catechesi, e aiutarlo anche nel bisogno fisico. Un comportamento da “buon pastore” e da santo.

MARIO SCUDU sdb

ORATIO SANCTI THOMAE AQUINATIS ANTE MISSAM – LATINO – ITALIANO

http://www.preghiamo.org/oratio-sancti-thomae-aquinatis-ante-missam-preghiera-san-tommaso-aquino-prima-comunione.php

ORATIO SANCTI THOMAE AQUINATIS ANTE MISSAM – LATINO – ITALIANO

Omnipotens sempiterne Deus, ecce accedo ad sacramentum unigeniti Filii tui, Domini nostri, Iesu Christi; accedo tamquam infirmus ad medicum vitae, immundus ad fontem misericordiae, caecus ad lumen claritatis aeternae, pauper et egenus ad Dominum caeli et terrae.

Rogo ergo immensae largitatis tuae abundantiam, quatenus meam curare digneris infirmitatem, lavare foeditatem, illuminare caecitatem, ditare paupertatem, vestire nuditatem; ut panem Angelorum, Regem regum et Dominum dominantium, tanta suscipiam reverentia et humilitate, tanta contritione et devotione, tanta puritate et fide, tali proposito et intentione, sicut expedit saluti animae meae.

Da mihi, quaeso, Dominici Corporis et Sanguinis non solum suscipere sacramentum, sed etiam rem et virtutem sacramenti. O mitissime Deus, da mihi Corpus unigeniti Filii tui, Domini nostri, Iesu Christi, quod traxit de Virgine Maria, sic suscipere, ut corpori suo mystico merear incorporari, et inter eius membra connumerari.

O amantissime Pater, concede mihi dilectum Filium tuum, quem nunc velatum in via suscipere propono, revelata tandem facie perpetuo contemplari: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum.

 Amen.

PREGHIERA DI SAN TOMMASO D’AQUINO PRIMA DELLA SANTA COMUNIONE

Dio onnipotente ed eterno, mi accosto al Sacramento del Tuo Unigenito Figlio il Signore nostro Gesù Cristo. Mi accosto come infermo al Medico della vita; come immondo alla Fonte della Misericordia; come cieco alla Luce dell’eterna chiarezza; come povero e miserabile al Signore del cielo e della terra.

Imploro pertanto l’abbondanza della Tua immensa larghezza, perché Tu voglia guarire la mia infermità, lavare le mie sozzure, illuminare la mia cecità, arricchire la mia povertà, coprire la mia nudità, per cui riceva il Pane degli Angeli, il Re dei re, il Signore dei signori, con tale riverenza e umiltà, con tale purezza e fede quale si richiede per la salvezza della mia anima.

Concedimi, Ti prego, di ricevere non solo il Sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, ma anche la realtà e la virtù di questo Sacramento. Dolcissimo Dio, fa’ che io riceva il Corpo del Tuo Unigenito Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, che Egli prese nel seno della Vergine Maria, in modo da essere unito al Suo Corpo mistico e annoverato fra i suoi membri.

Concedimi, Padre amorosissimo, di contemplare infine apertamente e per sempre il Figlio Tuo diletto, che ora mi propongo di ricevere adombrato sotto i veli eucaristici. Tu che vivi e regni, o Dio, insieme con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

 Amen.

BENEDETTO XVI: SANT’AMBROGIO – 7 DICEMBRE – 2007

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20071024_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 24 OTTOBRE 2007

SANT’AMBROGIO – 7 DICEMBRE

Cari fratelli e sorelle,

il santo Vescovo Ambrogio – del quale vi parlerò quest’oggi – morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne Triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. «Noi vedevamo muoversi le sue labbra», attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, «ma non udivamo la sua voce». A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: «Alzati, presto! Ambrogio sta per morire…». Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – «e porse al Santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli» (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita. Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant’anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano. Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell’approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della «scuola alessandrina». In questo modo Ambrogio trasferì nell’ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio. Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: «Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale – dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti – affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini» (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio – che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria – parte dalla lettura dei Libri sacri («i Patriarchi», cioè i Libri storici, e «i Proverbi», vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione. E’ evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano in ricerca e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio. Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo: una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito – racconta Agostino –«il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, il quale prosegue: «Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7). Dalla vita e dall’esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell’Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «E’ necessario – ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 – che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, “affinché non diventi – ed è qui la citazione agostiniana – vano predicatore della Parola all’esterno colui che non l’ascolta di dentro”». Aveva imparato proprio da Ambrogio questo «ascoltare di dentro», questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio. Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di «icona patristica» che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente «il cuore» della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza. Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confessioni 6,3). Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella «lettura a fior di labbra», dove il cuore si impegna a raggiungere l’intelligenza della Parola di Dio – ecco «l’icona» di cui andiamo parlando –, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori. Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte «per mestiere». Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio – egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace. Come l’apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio – che mai si stancava di ripetere: «Omnia Christus est nobis! – Cristo è tutto per noi!» – rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d’amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: «Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, Egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, Egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, Egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza; se temi la morte, Egli è la vita; se desideri il cielo, Egli è la via; se sei nelle tenebre, Egli è la luce … Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l’uomo che spera in Lui!» (La verginità 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.

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GIOVANNI DAMASCENO (4 NOVEMBRE) – BENEDETTO XVI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090506_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 6 MAGGIO 2009

GIOVANNI DAMASCENO (4 NOVEMBRE)

Cari fratelli e sorelle,

vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre – di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890. Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria. Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: “In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?… E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?… E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole” (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede. In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: “Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2)” (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: “Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)” (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: “Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro” (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile. L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dalla nostra colpa, “fosse rinforzata e rinnovata” dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’“essere”, ma nel “bene-essere” (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: “Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)…” E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: “Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio” (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B). Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.

SANT’ ALBERTO MAGNO – 15 NOVEMBRE

http://liturgia.silvestrini.org/santo/122.html

SANT’ ALBERTO MAGNO – 15 NOVEMBRE

VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

BIOGRAFIA
Quando al nome del Santo troviamo l’attributo « Magno », siamo sempre indotti a pensare che si tratti di un grande; Sant’Alberto sicuramente lo è e per diverse ragioni: era nato nella Svevia verso il 1206 da una famiglia della piccola nobiltà. Studiò a Padova dove conobbe l’Ordine dei Frati Predicatori (i Domenicani), aderì a quella famiglia religiosa e perfezionò i suoi studi. Divenne così un uomo veramente enciclopedico. Eletto Vescovo nel 1260, predicava, insegnava, governava la sua diocesi; si occupava di tutto e di tutti e, pur in mazzo a tante occupazione e preoccupazioni, trovava il tempo di farsi Santo. Salì sulle cattedre delle più celebri università della Germania e successivamente in quella celeberrima di Parigi. Gli studenti raggiungevano in anticipo la sede universitaria per ascoltare le sue dotte e brillanti lezioni. I suoi superiori lo inviarono poi, in veste di fondatore, a Colonia per iniziare in quella città una nuova sede universitaria. Ivi incontrò uno studente del tutto speciale e dello stesso suo ordine, si strattava di Tommaso d’Aquino, il quale continuerà l’opera del maestro con eguale zelo e ricchissima cultura. E’ propio vero che i santi generano i Santi!

MARTIROLOGIO
Sant’Alberto, detto Magno, vescovo e dottore della Chiesa, che, entrato nell’Ordine dei Predicatori, insegnò a Parigi con la parola e con gli scritti filosofia e teologia. Maestro di san Tommaso d’Aquino, riuscì ad unire in mirabile sintesi la sapienza dei santi con il sapere umano e la scienza della natura. Ricevette suo malgrado la sede di Ratisbona, dove si adoperò assiduamente per rafforzare la pace tra i popoli, ma dopo un anno preferì la povertà dell’Ordine a ogni onore e a Colonia in Germania si addormentò piamente nel Signore.

DAGLI SCRITTI…
Dal «Commento sul vangelo di Luca» di sant’Alberto Magno, vescovo
Pastore e maestro per l’edificazione del corpo di Cristo

«Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19). Qui sono da sottolineare due cose. La prima é il comando di usare di questo sacramento, quando dice: «Fate questo». La seconda poi é che esso sia il memoriale del Signore che va alla morte per noi. Dice dunque: «Fate questo». Non si poteva infatti comandare nulla di più, nulla di più dolce, nulla di più salutare, nulla di più amabile, nulla di più somigliante alla vita eterna. Cerchiamo di considerare una per una tutte queste qualità. Anzitutto l’Eucaristia é utile per la remissione dei peccati per chi é spiritualmente morto, utilissima poi all’aumento della grazia per chi é spiritualmente vivo. Il salvatore delle nostre anime ci istruisce su ciò che é utile per ricevere la sua santificazione.
Ora la sua santificazione consiste nel suo sacrificio, in quanto nell’oblazione sacramentale si offre per noi al Padre, e si offre a noi in comunione. «Per loro io consacro me stesso» (Gv 17, 19). Cristo, che per mezzo dello Spirito Santo offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente (cfr. Eb 9, 14). Niente noi possiamo fare di più dolce. Che cosa infatti vi potrebbe essere di più delizioso del sacramento che contiene tutte le delizie divine? «Dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, pieno di ogni delizia e gradito a ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; si adattava al guisto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava» (Sap 16, 20-21). Niente poteva essere comandato di più salutare. Questo sacramento infatti é il frutto del legno della vita. Se qualcuno lo riceve con devozione e fede sincera, non gusterà la morte in eterno. «E’ un albero di vita per chi ad essa di attiene, e chi ad essa si stringe é beato» (Pro 3, 18); «Colui che mangia di me, vivrà per me» (Gv 6, 57). Niente ci poté essere comandato di più amabile. Questo infatti é il sacramento che crea l’amore e l’unione. E’ segno del massimo amore dare se stesso in cibo. «Non diceva forse la gente della mia tenda: A chi non ha dato delle sue carni per saziarsi?» (Gb 31, 31); quasi avesse detto: tanto ho amato loro ed essi me, che io volevo trovarmi dentro di loro ed essi ricevermi in sé, di modo che, incorporati a me, diventassero mie membra. Non potevano infatti unirsi più intimamente e più naturalmente a me, né io a loro.
Niente infine ci poteva essere comandato di più connaturale alla vita eterna. Infatti la vita eterna esiste e dura perché Dio si comunica con tutta la sua felicità ai santi che vivono nella condizione di beati.(22, 19; Opera omnia, Parigi 1890-1899, 23, 672-674)

Dal Trattato « La remissione » di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo.
« In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati » (1 Cor 15, 52). Quando dice « noi » Paolo mostra che con lui conquisteremo il dono della futura trasformazione coloro che insieme a lui e ai suoi compagni vivono nella comunione ecclesiale e nella vita santa. Spiega poi la qualità di tale trasformazione dicendo: « E’ necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Cor 5, 53). In costoro allora seguirà la trasformazione dovuta come giusta ricompensa a una precedente rigenerazione compiuta con atto spontaneo e generoso del fedele. Perciò si promette il premio della rinascita futura a coloro che durante la vita presente sono passati dal male al bene.
La grazia prima opera, come dono divino, il rinnovamento di una risurrezione spirituale mediante la giustificazione interiore. Verrà poi la risurrezione corporale che perfezionerà la condizione dei giustificati. L’ultima trasformazione sarà costituita dalla gloria. Ma questa mutazione sarà definitiva ed eterna. Proprio per questo i fedeli passano attraverso le successive trasformazioni della giustificazione, della risurrezione e della glorificazione, perché questa resti immutabile per l’eternità. La prima metamorfosi avviene quaggiù mediante l’illuminazione e la conversione, cioé col passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla giustizia, dalla infedeltà alla fede, dalle cattive azioni ad una santa condotta. Coloro che risuscitano con questa risurrezione non subiscono la seconda morte. Di questi nell’Apocalisse é detto: « Beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione Su di loro non ha potere la seconda morte » (Ap 20, 6). Nel medesimo libro si dice anche: « Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte » (Ap 2, 11). Dunque, come la prima risurrezione consiste nella conversione del cuore, così la seconda morte sta nel supplizio eterno. Pertanto chi non vuol essere condannato con la punizione eterna della seconda morte s’affretti quaggiù a diventare partecipe della prima risurrezione. Se qualcuno infatti durante la vita presente, trasformato dal timore di Dio, si converte da una vita cattiva a una vita buona, passa dalla morte alla vita e in seguito sarà anche trasformato dal disonore alla gloria. (Lib. 2, 11, 2 – 12, 1. 3-4; CCL 91 A, 693-695).

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori, Santi |on 14 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO – APOLOGETICI – LA FEDE NELLE COSE CHE NON SI VEDONO

http://www.augustinus.it/italiano/apologetici.htm

SANT’AGOSTINO – APOLOGETICI

LA FEDE NELLE COSE CHE NON SI VEDONO

Niente di più certo dell’interiore visione dell’animo.
1. 1. Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono. E, in primo luogo, a coloro che la stoltezza ha reso così schiavi degli occhi carnali che giudicano di non dover credere ciò che con quelli non scorgono, va ricordato quante cose non solo credano ma anche conoscano, che pure non possono vedere con tali occhi. Già nel nostro animo, che è di natura invisibile, ce ne sono innumerevoli. Per non parlare di altro, proprio la fede con la quale crediamo o il pensiero con il quale sappiamo di credere o di non credere qualcosa, sono totalmente estranei agli sguardi di codesti occhi; eppure che c’è di più manifesto, di più evidente, di più certo dell’interiore visione dell’animo? Come dunque possiamo non credere ciò che non vediamo con gli occhi del corpo, quando ci accorgiamo di credere o di non credere pur non potendo giovarci degli occhi del corpo?

Nessuna disposizione dell’animo si può vedere con gli occhi del corpo.
1. 2. Ma, essi dicono, queste cose che sono nell’animo, poiché le possiamo percepire con l’animo stesso, non c’è bisogno di conoscerle mediante gli occhi del corpo; quelle, invece, che ci proponete di credere, non le mostrate all’esterno in modo che le conosciamo mediante gli occhi del corpo, né sono interiormente, nel nostro animo, in modo che le vediamo con il pensiero. Questo è quanto dicono: come se si ordinasse a qualcuno di credere nel caso in cui potesse vedere davanti a sé l’oggetto del credere. Di certo, dunque, siamo tenuti a credere ad alcune realtà temporali che non vediamo, per meritarci di vedere anche quelle eterne nelle quali crediamo. Ma, chiunque tu sia , tu che non vuoi credere se non ciò che vedi, ecco, tu vedi con gli occhi del corpo i corpi presenti e vedi con l’animo, poiché sono nel tuo animo, le tue volontà e i tuoi pensieri del momento; ora dimmi, ti prego, la buona disposizione del tuo amico verso di te con quali occhi la vedi? Nessuna disposizione, infatti, si può vedere con gli occhi del corpo. O vedi forse con il tuo animo anche ciò che avviene nell’animo altrui? Ma se non lo vedi, come ricambi a tua volta la benevolenza dell’amico, dal momento che non credi ciò che non sei in grado di vedere? O, per caso, stai per dire che vedi la disposizione altrui dalle sue opere? Dunque, vedrai i fatti e sentirai le parole, ma, circa la disposizione dell’amico, tu sarai costretto a credere ciò che non si può né vedere né sentire. Quella disposizione, infatti, non è né un colore né una forma che si imponga agli occhi, non è un suono o una melodia che penetri negli orecchi, e non una tua disposizione, che sia percepita da un moto del tuo cuore. Non ti resta, pertanto, che credere ciò che non è né visto, né udito, né percepito dentro di te, affinché la tua vita non rimanga vuota, senza alcuna amicizia, o l’amore che hai ricevuto non sia, a tua volta, da te ricambiato. Dove è dunque quel che dicevi, e cioè che non devi credere se non ciò che vedi, all’esterno con il corpo o, all’interno, con il cuore? Ecco, a partire dal tuo cuore tu credi ad un cuore non tuo, e là dove non drizzi lo sguardo della carne e della mente, ci destini la fede. Tu, con il tuo corpo, scorgi il volto dell’amico, con il tuo animo discerni la tua fede: ma la fede dell’amico tu non puoi amarla se, a tua volta, non hai in te quella fede con la quale credi ciò che in lui non vedi. Sebbene l’uomo possa anche ingannare col fingere benevolenza o col nascondere la malvagità o, se non ha intenzione di nuocere, con l’aspettarsi da te qualche vantaggio, tuttavia egli simula perché manca di amore.

Nelle avversità si prova il vero amico.
1. 3. Ma, secondo quanto dici, tu credi all’amico, del quale non puoi vedere il cuore, perché lo hai sperimentato nelle tue situazioni difficili e hai conosciuto quale fosse la sua disposizione d’animo verso di te in occasione dei pericoli in cui non ti ha abbandonato. Forse dunque, a tuo parere, dobbiamo augurarci delle disgrazie per avere la prova dell’amore degli amici verso di noi? E nessuno proverà la felicità che proviene da amici fidatissimi, se non sarà stato infelice per le avversità, ovvero non potrà mai godere dell’amore collaudato di un altro, se non è stato tormentato dal proprio dolore o timore? E allora come si può desiderare, e non piuttosto temere, quella felicità che si prova nell’avere veri amici, quando solo l’infelicità può renderla certa? E tuttavia è indubbio che si può avere un amico anche nelle prosperità, sebbene è nelle avversità che ne abbiamo la prova più certa.

Crediamo al cuore degli amici anche prima di metterlo alla prova.
2. 3. Ma, comunque, per metterlo alla prova, tu non ti affideresti alle tue verifiche, se non credessi. Perciò, siccome tu lo fai per metterlo alla prova, tu credi prima di averne la prova. Di certo infatti, se non dobbiamo credere alle cose non viste, dal momento che crediamo ai cuori degli amici anche quando non ne abbiamo ancora prove certe, e dal momento che, anche quando abbiamo prove – a prezzo dei nostri mali – che sono buoni, anche allora, piuttosto che vedere, crediamo alla loro benevolenza verso di noi, tutto ciò accade soltanto perché in noi è così grande la fede che, in maniera del tutto conseguente, pensiamo di vedere, se si può dire, con i suoi occhi ciò che crediamo. E dobbiamo appunto credere, proprio perché non possiamo vedere.

Se scomparirà la fede, finirà del tutto l’amicizia.

2. 4. Se questa fede fosse eliminata dalle vicende umane, chi non si avvede di quanto scompiglio si determinerebbe in esse e di quale orrenda confusione ne seguirebbe? Se non devo credere a ciò che non vedo, chi infatti sarà riamato da un altro, dal momento che in se stesso l’amore è invisibile ? Pertanto finirà del tutto l’amicizia, perché essa non consiste in altro che nell’amore reciproco. Quale amore infatti si potrà ricevere da un altro, se non si crede affatto che sia stato dato? Con la fine dell’amicizia poi non resteranno saldi nell’animo né i vincoli matrimoniali né quelli di consanguineità né quelli di parentela, poiché anche in essi vi è senz’altro un comune modo di sentire basato sull’amicizia. I coniugi dunque non potranno amarsi a vicenda, quando, non potendo vedere l’amore come tale, l’uno non crederà di essere amato dall’altro. Essi non desidereranno avere figli, poiché non credono che saranno da essi ricambiati. E costoro, se nascono e crescono, ameranno molto di meno i loro genitori, non vedendo nel loro cuore l’amore verso di sé, dato che è invisibile; naturalmente, però, qualora il credere le cose che non si vedono è segno di colpevole impudenza e non di lodevole fede. Che dire poi degli altri vincoli familiari – tra fratelli, tra sorelle, tra generi e suoceri, tra congiunti di qualsivoglia grado di consanguineità e affinità – se l’amore è incerto e la volontà è sospetta, tanto da parte dei genitori verso i figli quanto da parte dei figli verso i genitori, e quindi finché la dovuta benevolenza non è ricambiata, perché non la si ritiene dovuta quando, non vedendola, non si crede che vi sia nell’altro? D’altra parte, se non è ingenua, è quanto meno odiosa questa cautela per la quale noi non crediamo di essere amati per il fatto che non vediamo l’amore di chi ci ama, e pertanto non ricambiamo a nostra volta coloro che non ci riteniamo in dovere di ricambiare. Fino a tal punto perciò le cose umane sono sconvolte, non credendo ciò che non vediamo, da essere distrutte fino alle fondamenta, se non crediamo a nessuna volontà d’uomo, che di certo non possiamo vedere. Tralascio di dire quante cose della pubblica opinione, della storia ovvero di luoghi in cui non sono mai stati credano coloro che ci riprendono per il fatto che crediamo ciò che non vediamo, e come essi non dicano  » non crediamo perché non abbiamo visto « . Se dicessero ciò, infatti, sarebbero costretti a confessare di non avere alcuna certezza sull’identità dei loro genitori, poiché, anche in questo caso, hanno creduto a quanto altri gli raccontavano, senza peraltro essere capaci di mostrarglielo perché era ormai passato; e, pur non conservando alcun ricordo del tempo della loro nascita, tuttavia hanno dato il pieno consenso a coloro che in seguito gliene hanno parlato. Se così non fosse, inevitabilmente si incorrerebbe in un’irriguardosa mancanza di rispetto nei confronti dei genitori, nel momento stesso in cui si cerca di evitare la temerità di credere in quelle cose che non possiamo vedere.

La presenza di indizi chiari ci sprona a credere.
3. 4. Se, dunque, con il non credere ciò che non possiamo vedere crollerà la stessa umana società, perché verrebbe a mancare la concordia, quanto più è necessario prestare fede alle realtà divine, sebbene siano realtà che non si vedono? Se non si prestasse loro fede, non l’amicizia di un uomo qualsiasi ma la stessa suprema religione sarebbe violata, in modo che ne consegue la somma infelicità.
3. 5. Ma, tu dirai, la benevolenza di un amico nei miei confronti, malgrado non possa vederla, tuttavia la posso ricercare attraverso molti indizi; voi, invece, non potete mostrare con nessun indizio le cose che volete che crediamo pur senza averle viste. Intanto, non è di poco conto che tu concedi che si debbano credere alcune cose, anche se non si vedono, quando si è in presenza di chiari indizi; già questo, infatti, è sufficiente per concludere che non ogni cosa che non si vede non deve essere creduta. Ed è così completamente screditato quel presupposto per cui si dice che non dobbiamo credere le cose che non vediamo. Però sbagliano di molto quelli che ritengono che noi crediamo in Cristo senza nessun indizio su di Lui. Quali indizi, infatti, sono più chiari delle cose che ora constatiamo che sono state predette e si sono realizzate?. Voi, dunque, che escludete l’esistenza di indizi perché dobbiate credere, relativamente a Cristo, quelle cose che non avete viste, considerate quelle che vedete. La Chiesa stessa, con parole di materno amore, vi conforta :  » Io, che vedete con meraviglia fruttificare e crescere per tutto il mondo 1, un tempo non fui quale ora mi ravvisate ». Ma, nel tuo seme saranno benedette tutte le genti 2. Quando Dio benediceva Abramo, prometteva me: io infatti mi diffondo fra tutte le genti nella benedizione di Cristo. Che Cristo è il seme di Abramo 3 lo attesta l’ordine di successione delle generazioni. Per riassumere in breve, Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò dodici figli, dai quali è scaturito il popolo di Israele. Giacobbe stesso, anzi, ebbe il nome di Israele. Tra questi dodici figli generò Giuda, da cui è derivato il nome dei Giudei, fra i quali è nata la Vergine Maria, che partorì il Cristo 4. Ed ecco, in Cristo, cioè nel seme di Abramo, vedete che sono benedette tutte le genti e ne restate stupiti; eppure esitate ancora a credere in lui, nel quale piuttosto avreste dovuto temere di non credere. Mettete in dubbio o rifiutate di credere che una vergine abbia partorito, quando piuttosto dovreste credere che così si addiceva a Dio di nascere come uomo? Sappiate, infatti, che anche questo fu predetto mediante il profeta: Ecco una vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiameranno Emmanuele, che vuol dire  » Dio è con noi  » 5. Non metterete, dunque, più in dubbio che una vergine possa partorire, se volete credere in un Dio che nasce e, senza abbandonare il governo del mondo, viene tra gli uomini nella carne, e che possa concedere alla madre la fecondità, senza toglierle l’integrità verginale. Così bisognava che nascesse come uomo, pur restando sempre Dio, perché nascendo sarebbe divenuto per noi Dio. Per questo il Profeta dice di nuovo di Lui: Il tuo trono, Dio, dura per sempre; è scettro di rettitudine lo scettro del tuo regno! Tu hai amato la giustizia e hai detestato l’iniquità; per questo Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali 6. Questa è l’unzione spirituale con la quale Dio unse Dio, cioè il Padre il Figlio: donde sappiamo che Cristo prende il nome da crisma, che significa unzione. Io sono la Chiesa, della quale si parla in quel medesimo salmo, preannunziando come già avvenuto ciò che doveva avvenire: Stette la regina alla tua destra, in abiti d’oro, ornata di vari colori 7, cioè nel segno della sapienza, adornata dalla varietà delle lingue. Ivi mi si dice: Ascolta, o figlia, e guarda, porgi l’orecchio, e dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, perché al re piacque la tua bellezza; poiché Egli è il Signore Dio tuo. A Lui si prostreranno dinanzi le figlie di Tiro con doni, tutti i ricchi del popolo supplicheranno il tuo volto. Tutta la gloria della figlia del re è all’interno; la avvolge un vestito dalle frange d’oro dai vari colori. Le vergini, al suo seguito, saranno condotte al re; a te saranno condotte le sue compagne; saranno condotte in gioia ed esultanza, saranno condotte nel tempio del re. Al posto dei tuoi padri ti sono nati i figli, li farai capi di tutta la terra. Si ricorderanno del tuo nome, di generazione in generazione. Perciò i popoli ti renderanno lode in eterno, nei secoli dei secoli 8.

Adempiute le profezie sulla Chiesa.
3. 6. Se non vedeste questa regina, ormai anche feconda di prole regale; se colei, alla quale fu detto: Ascolta, o figlia, e guarda, non vedesse realizzata la promessa un tempo udita; se colei, alla quale fu detto: Dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, non avesse abbandonato le antiche consuetudini del mondo; se colei alla quale fu detto: Al re piacque la tua bellezza, poiché egli è il Signore Dio tuo, non riconoscesse ovunque che Cristo è Signore; se non vedesse che le città levano preghiere a Cristo ed offrono doni a Lui, del quale le fu detto: A lui si prostreranno dinanzi le figlie di Tiro con i doni; se anche i ricchi non deponessero la loro superbia e non supplicassero l’aiuto della Chiesa, a cui fu detto: Tutti i ricchi del popolo supplicheranno il tuo volto; se non riconoscesse la figlia del re, al quale le fu comandato di dire: Padre nostro, che sei nei cieli 9; e se colei della quale fu detto: Tutta la gloria della figlia del re è all’interno, non si rinnovasse di giorno in giorno nell’intimo 10 attraverso i suoi santi, sebbene colpisca sfavillando anche gli occhi di gente estranea con la fama dei suoi predicatori, che si esprimono in diverse lingue, paragonabili alle frange dorate di un vestito dai vari colori; se, dopoché il suo buon profumo l’ha resa famosa in ogni luogo, giovani vergini non venissero condotte a Cristo per essere consacrate a Lui, del quale e al quale si dice: Le vergini, al suo seguito saranno condotte al re, a te saranno condotte le sue compagne; e, affinché non sembrasse che fossero condotte come prigioniere in un carcere, dice: Saranno condotte in gioia ed esultanza, saranno condotte nel tempio del re; se essa non desse alla luce figli, dai quali avere come dei padri, da farli ovunque suoi reggitori, lei alla quale si dice: Al posto dei tuoi padri ti sono nati i figli, li farai capi di tutta la terra; lei, madre, sovrana e suddita insieme, che confida nelle loro preghiere, per cui fu aggiunto: Si ricorderanno del tuo nome, di generazione in generazione; se, per la predicazione di questi padri, nella quale il suo nome è stato ricordato senza interruzione, moltitudini così grandi non si riunissero in essa e non rendessero incessantemente lode, ciascuna nella sua lingua, alla gloria di colei alla quale si dice: Perciò i popoli ti renderanno lode in eterno, nei secoli dei secoli 11.
Le cose che vedete sono state predette molto tempo prima e si sono compiute con tanta chiarezza. Altrettanto sarà per le cose future.
4. 6. Se queste cose non si rivelassero così evidenti che gli occhi dei nemici non trovano in quale parte volgersi per evitare di essere colpiti da tale evidenza e di essere da essa costretti ad ammetterle manifestamente; allora forse a buon diritto potreste dire che non vi vengono mostrati indizi di sorta, visti i quali possiate credere anche quelle cose che non vedete. Ma se queste cose che vedete sono state predette molto tempo prima e si sono compiute con tanta chiarezza; se la verità stessa vi si mostra sia con i suoi effetti antecedenti sia con quelli che ne sono seguiti, perché crediate quello che non vedete, o resti dell’infedeltà, vergognatevi per le cose che vedete.
4. 7. Guardate me, vi dice la Chiesa; guardate me, che vedete, ancorché non vogliate vedere. Coloro, infatti, che in quei tempi, in terra di Giudea, furono fedeli, appresero direttamente, come realtà presenti, la meravigliosa nascita da una vergine, la passione, la resurrezione, l’ascensione di Cristo, e tutte le cose divine da Lui dette e fatte. Tutto ciò voi non l’avete visto; è per questo che vi rifiutate di credere. Guardate dunque queste cose, prestate attenzione a queste cose, pensate a queste cose che vedete, che non vi sono narrate come fatti del passato, che non vi sono preannunziate come eventi del futuro, ma vi sono mostrate come realtà del presente. Vi pare una cosa vana o insignificante, e ritenete che non sia un miracolo divino o che lo sia ma di poco conto che, nel nome di un crocifisso, accorre tutto il genere umano? Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato della nascita umana di Cristo: Ecco una vergine concepirà e darà alla luce un figlio 12; ma vedete compiuto ciò che la parola di Dio predisse ad Abramo: Nel tuo seme saranno benedette tutte le genti 13. Non avete visto ciò che fu predetto dei miracoli di Cristo: Venite e vedete le opere del Signore, che ha compiuto prodigi sulla terra 14, ma vedete ciò che fu predetto: Il Signore mi disse: Tu sei mio figlio; io oggi ti ho generato: chiedimi e ti darò le genti in eredità, e i confini della terra come tuo possesso 15. Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato della passione di Cristo: Hanno trapassato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa; essi mi hanno osservato e guardato; si sono divise le mie vesti e hanno tirato a sorte sulla mia tunica 16, ma vedete ciò che nello stesso Salmo fu predetto, e che ora appare avverato: Si ricorderanno del Signore e a Lui ritorneranno tutti i confini della terra e lo adoreranno, prostrati davanti a Lui, tutte le stirpi dei popoli, poiché del Signore è il regno ed Egli dominerà sulle genti 17. Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato della resurrezione di Cristo, secondo quanto il Salmo gli fa dire anzitutto riguardo al suo traditore e poi ai suoi persecutori: Uscivano fuori e tutti insieme sparlavano di uno solo; tutti i miei nemici contro di me mormoravano, contro di me meditavano il mio male; una parola iniqua contro di me hanno fatto circolare 18. Ove, per far vedere che nulla valse loro uccidere chi sarebbe risorto, continuò dicendo: Chi dorme non potrà forse rialzarsi? 19 E poco dopo, avendo predetto, mediante la stessa profezia, del suo stesso traditore ciò che sta scritto anche nel Vangelo 20: Chi mangiava il mio pane, alzò sopra di me il calcagno 21, cioè, mi calpestò, subito aggiunse: Ma tu, o Signore, abbi pietà di me e resuscitami, e io li ripagherò 22. Ciò si è avverato: Cristo dormì e si risvegliò, ossia resuscitò; egli che, nella medesima profezia ma in un altro Salmo, dice: Io ho dormito e ho preso sonno; e mi sono levato su, poiché il Signore mi sosterrà 23. È vero, tutto ciò voi non lo avete visto, ma vedete la sua Chiesa, della quale fu detto in modo simile e si è avverato: O Signore mio Dio, a te le genti verranno dall’estremità della terra e diranno:  » In verità i nostri padri adorarono gli idoli menzogneri, che però non sono di nessuna utilità  » 24. Di certo ciò voi lo constatate, sia che lo vogliate sia che non lo vogliate, e, se ancora pensate che gli idoli siano o siano stati di qualche utilità, nondimeno di certo avete sentito che innumerevoli popoli, dopo aver abbandonato, rifiutato o distrutto simili vanità, dicono: In verità i nostri padri adorarono gli idoli menzogneri, che però non sono di nessuna utilità: se l’uomo può fabbricarsi i suoi dèi, ecco, essi non sono dèi 25. E poiché fu detto: A te le genti verranno dall’estremità della terra, non crediate che le genti predette sarebbero venute in un qualche luogo di Dio: capite, se vi riesce, che al Dio dei cristiani, che è sommo e vero Dio, le schiere dei popoli non vengono camminando ma credendo. La stessa cosa infatti fu così predetta da un altro profeta: Il Signore prevarrà su di loro e sterminerà tutti gli dèi dei popoli della terra; e tutte le isole della terra Lo adoreranno, ciascuna nel suo luogo 26. Come quello dice: A te verranno tutte le genti, questo dice: Lo adoreranno, ciascuna nel suo luogo. Dunque, verranno a Lui senza lasciare il loro luogo, perché chi crede in Lui lo troverà nel proprio cuore. Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato dell’ascensione di Cristo: Innalzati, o Dio, sopra i cieli, ma vedete ciò che viene subito dopo: e su tutta la terra sia la tua gloria 27. Tutto quel che, riguardo a Cristo, è avvenuto ed è passato, voi non lo avete visto, ma queste cose, che sono presenti nella sua Chiesa, non potete dire di non vederle. Le une e le altre noi ve le mostriamo come preannunciate, ma non possiamo presentarvele come avvenute e che è possibile vedere, perché non siamo capaci di riportare dinanzi agli occhi le cose passate.

Tanto le cose passate che quelle presenti e future le sentiamo o le leggiamo preannunciate prima che accadano.
5. 8. Ma, come per gli indizi che si vedono crediamo nelle volontà degli amici che non si vedono, così la Chiesa, che ora si vede, di tutte quelle cose che non si vedono ma che sono mostrate in quegli scritti in cui essa stessa è preannunciata, è segno di quelle passate, profezia di quelle future. Perché tanto delle cose passate, che ormai non si possono più vedere, quanto delle cose presenti, che non si possono vedere tutte, non si poteva vedere nulla quando furono preannunciate. Allorché, dunque, le cose preannunziate cominciarono ad accadere, da quelle già accadute a queste che stanno accadendo, tutte le cose predette riguardo a Cristo e alla Chiesa si sono susseguite in una serie ordinata. A questa serie appartengono quelle sul giorno del giudizio, sulla resurrezione dei morti, sull’eterna dannazione degli empi con il diavolo e sull’eterna ricompensa dei giusti con Cristo, cose che, anch’esse preannunciate, accadranno. Perché, dunque, non dovremmo credere le cose passate e quelle future che non vediamo, quando abbiamo come testimoni delle une e delle altre le cose presenti che vediamo e quando, nei libri dei profeti, tanto quelle passate che quelle presenti e future le sentiamo o le leggiamo preannunciate prima che accadano ? A meno che per caso gli infedeli non ritengano che siano state scritte dai cristiani in modo che queste cose, che essi già credevano, avessero un peso maggiore in fatto di autorità, col ritenere che fossero state promesse prima che accadessero.

I Giudei nelle Scritture sono nostri sostenitori, nei cuori nemici, nei libri testimoni.
6. 9. Se hanno questo sospetto, esaminino attentamente i libri dei Giudei, nostri nemici. Vi leggeranno tutte le cose che abbiamo ricordato e troveranno che sono state preannunciate riguardo a Cristo, nel quale crediamo, e alla Chiesa, che vediamo dall’inizio faticoso della fede fino alla beatitudine sempiterna del regno. Ma, quando leggono, non si meraviglino se coloro che detengono questi libri non comprendono tali cose a causa delle tenebre dell’inimicizia. Che essi non avrebbero capito, infatti, era stato predetto dagli stessi profeti; e dunque era necessario che questo, come tutto il resto, si avverasse e che, secondo un segreto ma giusto giudizio di Dio, subissero la pena che avevano meritato. È vero, colui che crocifissero e al quale diedero fiele e aceto, benché pendesse dal legno, per coloro che avrebbe condotto dalle tenebre alla luce avrebbe detto al Padre: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno 28; tuttavia per gli altri che, per più occulte ragioni, avrebbe abbandonato per bocca del profeta tanto tempo prima predisse: Hanno messo fiele nel mio cibo e quando avevo sete mi hanno fatto bere aceto. La loro mensa divenga per essi una trappola, come ricompensa e come motivo di scandalo. Si offuschino i loro occhi, affinché non vedano, e piegato per sempre sia il loro dorso 29. Così, benché i loro occhi siano offuscati, vanno in tutte le parti del mondo con le più illustri testimonianze della nostra causa, di modo che, per mezzo loro, sono confermate queste cose nelle quali invece essi sono smentiti. Ciò fu fatto per evitare che fossero distrutti e che della stessa setta non restasse nulla; ma essa fu dispersa per il mondo, affinché, portando le profezie della grazia a noi riservata, ci fosse dovunque di aiuto per convincere più fermamente gli infedeli. E ciò stesso che dico, sentite come è stato annunciato dal profeta: Non li uccidere – dice – perché non abbiano un giorno a dimenticare la tua legge; disperdili con la tua potenza 30. Dunque non furono uccisi in quanto non dimenticarono quelle cose che presso di loro si leggevano e si udivano. Se infatti, anche senza comprenderle, dimenticassero completamente le Sacre Scritture, verrebbero uccisi nello stesso rito giudaico, perché, non conoscendo nulla delle leggi e dei profeti, i Giudei non sarebbero stati di nessun giovamento. Costoro, dunque, non furono uccisi ma dispersi, affinché, pur non avendo la fede che li salverebbe, tuttavia conservassero la memoria dalla quale ci proviene l’aiuto: nelle Scritture sono sostenitori, nei cuori sono nostri nemici, nei libri testimoni.

La Chiesa si è diffusa mirabilmente in tutto il mondo.
7. 10. Del resto, anche se riguardo a Cristo e alla Chiesa non vi fossero state tante testimonianze precedenti, chi non dovrebbe sentirsi spinto a credere che la divina chiarezza all’improvviso ha cominciato a risplendere per il genere umano quando vediamo che, abbandonati i falsi dèi e distrutte dappertutto le loro statue, demoliti i templi o destinati ad altri usi ed estirpati tanti vani riti dalla ben radicata consuetudine umana, un solo vero Dio è invocato da tutti? E tutto ciò è accaduto per mezzo di un uomo deriso dagli uomini, catturato, legato, flagellato, schiaffeggiato, vituperato, crocefisso, ucciso. Per diffondere il suo insegnamento scelse come discepoli uomini semplici e senza esperienza, pescatori e pubblicani: essi annunziarono la sua resurrezione e ascensione, affermando di averla vista, e, riempiti di Spirito Santo, fecero risuonare questo messaggio in tutte le lingue, pur senza averle imparate. E tra quanti li ascoltarono alcuni credettero, altri non credettero, opponendosi ferocemente alla loro predicazione. In tal modo, in presenza di credenti capaci di lottare per la verità fino alla morte, non contraccambiando con i mali ma sopportandoli, e di vincere non con l’uccidere ma con il morire, il mondo si è talmente mutato in questa religione, i cuori dei mortali, uomini e donne, piccoli e grandi, dotti e ignoranti, sapienti e stolti, potenti e deboli, nobili e non nobili, di rango elevato e umili, si sono così ben convertiti a questo Vangelo e la Chiesa si è diffusa tra tutte le genti ed è cresciuta in modo tale che contro la stessa fede cattolica, non spunta nessuna setta perversa, nessun genere di errore che sia così ostile alla verità cristiana da non aspirare e ambire a gloriarsi del nome di Cristo. Di certo, non si consentirebbe a tale errore di diffondersi sulla terra, se la stessa opposizione non servisse da stimolo per la sana disciplina. Quel crocifisso come avrebbe potuto realizzare cose così grandi, se non fosse Dio fattosi uomo? E tutto ciò, anche se non avesse predetto mediante i Profeti nessuna di queste cose future. Ma, dal momento che un così grande mistero di amore è stato preceduto dai suoi profeti e araldi, dalle cui voci divine fu preannunciato ed è avvenuto così come è stato preannunciato, chi sarebbe così folle da dire che gli Apostoli hanno mentito su Cristo, quando ne annunciarono la venuta così come era stata predetta dai profeti, i quali non tacquero neppure gli eventi che sarebbero veramente accaduti riguardo agli Apostoli? Di essi infatti avevano detto: Non vi è idioma e non vi è discorso in cui non si senta la loro voce; in tutta la terra si sparge il loro strepito e sino ai confini del mondo le loro parole 31. Ciò di certo lo vediamo avverato in tutto il mondo, anche se non abbiamo ancora visto Cristo in carne. Chi pertanto, a meno che non sia accecato da una strana pazzia o non sia duro e inflessibile per una singolare caparbietà, si rifiuterà di credere alle Sacre Scritture, che predissero la fede di tutto il mondo?

Esortazione ad alimentare e accrescere la fede.
8. 11. Quanto a voi, o carissimi, questa fede che avete o che avete cominciato ad avere da poco, si alimenti e cresca in voi. Come infatti sono accaduti gli eventi temporali predetti tanto tempo prima, così accadranno anche le promesse sempiterne. Non vi ingannino né i vani pagani né i falsi Giudei né gli ingannevoli eretici e neppure, all’interno stesso della Chiesa cattolica, i cattivi cristiani, che sono nemici tanto più nocivi quanto più intimi. Perché neppure su questo punto, per non lasciare i deboli nel turbamento, la profezia divina tacque, laddove, nel Cantico dei Cantici, lo sposo parlando alla sposa, cioè Cristo Signore alla Chiesa, dice: Come un giglio in mezzo alle spine, così la mia amata in mezzo alle figlie 32. Non disse in mezzo alle estranee, ma in mezzo alle figlie: chi ha orecchi per intendere, intenda 33. E, quando la rete gettata in mare e piena di pesci di ogni genere, come dice il santo Vangelo, viene tratta a riva, cioè alla fine del mondo, essa si separi dai pesci cattivi col cuore non con il corpo, cioè cambiando i cattivi costumi e non rompendo le sante reti. In modo che i giusti, che ora sembrano mescolati con i reprobi, non ricevano una pena ma una vita eterna, quando sulla spiaggia comincerà la separazione 34.

14 SETTEMBRE: S. GIOVANNI CRISOSTOMO

http://www.sangiuseppedemerode.it/pdf/materiali%20didattici/alessandro/letteratura%20latina%20web/letteratura%20cristiana/s_giovanni_crisostomo.html

14 SETTEMBRE: S. GIOVANNI CRISOSTOMO

Giovanni nacque ad Antiochia da una distinta famiglia attorno all’anno 350. Come consuetudine in quel tempo, Giovanni, educato alla fede dalla pia madre Antusa, rimasta vedova all’età di appena 20 anni, ricevette il battesimo in età adulta, nel 372. Era stato istruito nella Sacra Dottrina insieme a Teodoro, poi vescovo di Mopsuestia. Dapprima condusse in casa della stessa madre una vita di austero ascetismo, che proseguì poi per quattro anni sotto la direzione di un vecchio anacoreta, e per altri due da solo in una regione montuosa nei pressi della città. Costretto dalla salute malferma a ritornare in città, vi venne consacrato diacono nel 381 e sacerdote nel 386. Per 12 anni, fino al 387, ebbe l’incarico della predicazione nella cattedrale conquistandosi fama di magnifico oratore.
Nel 397, alla morte di Nettario, vescovo di Costantinopoli, Giovanni venne eletto suo successore. Di fronte alla ritrosia dell’interessato, l’imperatore lo fece condurre nella capitale con l’astuzia e vi fu consacrato arcivescovo il 26 febbraio 398.
Il nuovo presule diede subito esempio di grande semplicità e modestia di vita, destinando le sue ricchezza alla fondazione di ospedali e all’aiuto dei poveri. Il suo desiderio di eliminare una quantità di abusi nella vita del clero gli meritò presto l’ostilità di alcuni. Quando in un Sinodo ad Efeso fece deporre alcuni vescovi simoniaci e si attirò, per il suo rigore morale, l’ostilità dell’imperatrice Eudossia, i malcontenti incominciarono ad agitarsi contro di lui, sotto la guida dell’ambizioso Teofilo di Alessandria, la cui Chiesa si trovava in contesa con quella di Costantinopoli. Chiamato nel 402 a Costantinopoli per giustificarsi di varie accuse che gli venivano mosse, il vescovo Teofilo passò al contrattacco gettando tutte le colpe su Giovanni Crisostomo, che fu chiamato in tribunale e quindi dichiarato deposto ed esiliato dall’imperatore. Già all’indomani, però, Giovanni venne richiamato, ma i tumulti e gli intrighi resero difficile la sua vita a Costantinopoli.
La tensione tra amici ed avversari del vescovo divenne sempre più forte. Fallito il tentativo di farlo deporre da un altro Sinodo, i suoi avversari ottennero dall’imperatore un nuovo decreto di esilio il 9 giugno 404. Giovanni Crisostomo morì il 14 settembre del 407 in una lontana regione del Ponto.
Il Crisostomo fu anzitutto pastore di anime e predicatore. I suoi contemporanei, e al pari di essi anche le generazioni posteriori, non si stancarono mai di proclamarlo il più grande dei predicatori della Chiesa greca. Pio X lo proclamò patrono dei predicatori cristiani. La sua produzione letteraria oltrepassa quella di tutti gli altri scrittori orientali a noi pervenuta. In Occidente solo Agostino può essergli paragonato. I suoi scritti sono un’inesauribile miniera non solo per i teologi, ma anche per gli archeologi e gli storici della cultura. Quello che conquista nei discorsi del Crisostomo è il loro contenuto e l’efficace esposizione oratoria, che unisce insieme lo spirito cristiano e la venustà ellenica della forma. I suoi sermoni, che duravano a volte anche due ore, non stancano, poiché sono magistralmente ravvivati da immagini e paragoni, si riallacciano negli esordi e nelle conclusioni con eventi contemporanei, e talora sono corredati di digressioni intorno ad argomenti di grande interesse.

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 13 septembre, 2013 |Pas de commentaires »
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