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PREGHIERE DEI PADRI DELLA CHIESA

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PREGHIERE DEI PADRI DELLA CHIESA

La nostra preghiera non deve consistere in atteggiamenti del nostro corpo: gridare, rimanere in silenzio, oppure piegare le ginocchia; dobbiamo piuttosto attendere con un cuore sobrio e vigilante che Dio venga e visiti l’anima introducendosi per tutte le sue vie d’accesso, i suoi sentieri e i suoi sensi.
(S. Macario il Grande – 300-390 ca. – « Dall’Omelia 33″)

Signore, amico degli uomini, a Te ricorro al mio risveglio, cominciando il compito assegnatomi nella tua misericordia: assistimi in ogni tempo ed in ogni cosa; preservami da ogni seduzione mondana, da ogni influenza del demonio; salvami e introducimi nel tuo Regno eterno. Tu sei infatti il mio Creatore, la fonte ed il dispensatore di ogni bene: in te riposa tutta la mia speranza, ed io ti rendo gloria ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Amen.
(S. Macario il Grande « Preghiere »)

Mio Dio, purifica me, peccatore, che non ho mai fatto il bene davanti a Te; liberami dal male e fa che si compia in me la tua volontà: affinché senza timore di condanna, apra le mie labbra indegne e celebri il tuo Santo Nome: Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, nei secoli dei secoli.
Amen.
(S. Macario il Grande « Preghiere »)

Abbi pietà di noi, Signore, abbi pietà di noi, privi di ogni giustificazione, noi peccatori ti rivolgiamo, o nostro Sovrano, questa supplica: abbi pietà di noi. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
Signore, abbi pietà di noi: in te infatti, abbiamo riposto la nostra fiducia; non ti adirare oltremodo con noi, né ricordare i nostri peccati; ma misericordioso come sei, volgi su di noi il tuo sguardo benigno e liberaci dai nostri nemici. Tu infatti sei il nostro Dio e noi siamo il tuo popolo; tutti siamo opera delle tue mani ed abbiamo invocato il tuo nome. Ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Amen.
(S. Macario il Grande « Preghiere »)

Tutti gli esseri ti rendono omaggio, o Dio, quelli che parlano e quelli che non parlano, quelli che pensano e quelli che non pensano. Il desiderio dell’universo, il gemito di tutte le cose, salgono verso di te. Tutto quanto esiste, Te prega e a Te ogni essere che sa vedere dentro la tua creazione, un silenzioso inno fa salire a te.
(S. Gregorio di Nazianzo « Poesie dogmatiche »)

Ti ringrazio, Signore; te ringrazio, solo conoscitore dei cuori, giusto re, pieno di misericordia. Ti ringrazio, o senza principio, Verbo onnipotente, tu che sei sceso sulla terra e ti sei incarnato, Dio mio, e sei divenuto – ciò che non eri – uomo simile a me, senza mutazione, senza venir meno, senza qualsivoglia peccato. Al fine, tu impassibile soffrendo ingiustamente da parte di empi, di concedere a me condannato l’impassibilità nell’imitare i tuoi patimenti, o Cristo mio.
(S. Simeone il Nuovo Teologo « Inni e Preghiere »)

Ora in noi senza indugio discendi, o Spirito Santo, unità sola col Padre e col Figlio: benigno ancora nei cuori effonditi. Bocca, lingua, intelletto, sensi e forze cantino la tua lode. Divampi in noi la fiamma del tuo amore, fino ad accendere chi ci è vicino.
(S. Ambrogio di Milano « Inni »)

Preghiamo che Gesù regni su di noi, che la nostra terra sia liberata dalle guerre e dagli assalti dei desideri carnali e che allora, quando questi saranno cessati, ognuno riposi all’ombra della sua vite, del suo fico, del suo olivo. Sotto la protezione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo riposa l’anima che ha ritrovato in sé la pace della carne e dello spirito. A Dio eterno gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
(Origene « Omelia XXII sul libro dei Numeri »)

Non ricordare più i miei peccati; se ho mancato, per la debolezza della mia natura, in parole, opere e pensieri. Tu perdonami, tu che hai il potere di rimettere i peccati. Deponendo l’abito del corpo, la mia anima sia trovata senza colpa. Più ancora: degnati, o mio Dio, di ricevere nelle tue mani l’anima mia senza colpa e senza macchia quale una gradita offerta.
(S. Gregorio di Nissa « Vita di Santa Macrina »)

Dal cielo è sceso come la luce, da Maria è nato come un germe divino, dalla croce è caduto come un frutto,
al cielo è salito come una primizia. Benedetta sia la tua volontà! Tu sei l’offerta del cielo e della terra, ora immolato e ora adorato. Sei disceso in terra per essere vittima, sei salito come offerta unica, sei salito portando il tuo sacrificio, o Signore.
(S. Efrem il Siro « Inni »)

PRIMA LA BONTÀ ERA NASCOSTA (DA SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE)

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PRIMA LA BONTÀ ERA NASCOSTA (DA SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE)  

dai « Discorsi » di san Bernardo, abate (Disc. 1 per l’Epifania, 1-2; PL 133, 141-143)

Si sono manifestate la bontà e l’umanità di Dio Salvatore nostro (cfr. Tt 2, 11). Ringraziamo Dio che ci fa godere di una consolazione così grande in questo nostro pellegrinaggio di esuli, in questa nostra miseria. Prima che apparisse l’umanità, la bontà era nascosta: eppure c’era anche prima, perché la misericordia di Dio è dall’eternità. Ma come si poteva sapere che è così grande? Era promessa, ma non si faceva sentire, e quindi da molti non era creduta. Molte volte e in diversi modi il Signore parlava nei profeti (cfr. Eb 1, 1). Io – diceva – nutro pensieri di pace, non di afflizione (cfr. Ger 29, 11). Ma che cosa rispondeva l’uomo, sentendo l’afflizione e non conoscendo la pace? Per questo gli annunziatori di pace piangevano amaramente (cfr. Is 33, 7) dicendo: Signore, chi ha creduto al nostro annunzio? (cfr. Is 53, 1). Ma ora almeno gli uomini credono dopo che hanno visto, perché la testimonianza di Dio è diventata pienamente credibile (cfr. Salmo 92, 5). Per non restare nascosto neppure all’occhio torbido, Egli ha posto nel sole il suo tabernacolo (cfr. Salmo 18, 6). Ecco la pace: non promessa, ma inviata; non differita, ma donata; non profetata, ma presente. Dio Padre ha inviato sulla terra un sacco, per così dire, pieno della sua misericordia; un sacco che fu strappato a pezzi durante la passione perché ne uscisse il prezzo che chiudeva in sé il nostro riscatto; un sacco certo piccolo, ma pieno, se ci è stato dato un Piccolo (cfr. Is 9, 5) in cui però « abita corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Col 2, 9). Quando venne la pienezza dei tempi, venne anche la pienezza della divinità. Venne Dio nella carne per rivelarsi anche agli uomini che sono di carne, e perché fosse riconosciuta la sua bontà manifestandosi nell’umanità. Manifestandosi Dio nell’uomo, non può più esserne nascosta la bontà. Quale prova migliore della sua bontà poteva dare se non assumendo la mia carne? Proprio la mia, non la carne che Adamo ebbe prima della colpa. Nulla mostra maggiormente la sua misericordia che l’aver egli assunto la nostra stessa miseria. Signore, che è quest’uomo perché ti curi di lui e a lui rivolga la tua attenzione? (cfr. Salmo 8, 5; Eb 2, 6). Da questo sappia l’uomo quanto Dio si curi di lui, e conosca che cosa pensi e senta nei suoi riguardi. Non domandare, uomo, che cosa soffri tu, ma che cosa ha sofferto lui. Da quello a cui egli giunse per te, riconosci quanto tu valga per lui, e capirai la sua bontà attraverso la sua umanità. Come si è fatto piccolo incarnandosi, così si è mostrato grande nella bontà; e mi è tanto più caro quanto più per me si è abbassato. Si sono manifestate – dice l’Apostolo – la bontà e l’umanità di Dio nostro Salvatore (cfr. Tt 3, 4). Grande certo è la bontà di Dio e certo una grande prova di bontà egli ha dato congiungendo la divinità con l’umanità.

IL SIGNIFICATO ULTRATEMPORALE E ULTRAMONDANO DELLA CROCE – Ireneo di Lione,

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IL SIGNIFICATO ULTRATEMPORALE E ULTRAMONDANO DELLA CROCE

Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 31-34

Alla fine di questo secolo Gesù Cristo si sarebbe manifestato al mondo intero come uomo, egli che è il Verbo di Dio che in sé ricapitola tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Egli unì dunque l’uomo con Dio operò l’unione di Dio con l’uomo; noi uomini non avremmo potuto in alcun modo partecipare all’incorruttibilità se egli non fosse venuto tra noi. Infatti, se l’incorruttibilità fosse rimasta invisibile ed occulta, non ci sarebbe stata di utilità alcuna. Perciò egli si fece visibile, affinché ricevessimo la partecipazione, in ogni senso, a questa incorruttibilità. E perché nella prima creatura, Adamo, noi tutti eravamo stati incatenati alla morte per la disobbedienza, fu necessario che i lacci di morte venissero rotti dall’obbedienza di colui che per noi si era fatto uomo. La morte aveva regnato sulla carne; per mezzo della carne bisognava che essa venisse perciò abolita, e l’uomo venisse liberato dalla sua schiavitù. Per questo, il Verbo si fece carne, affinché il peccato fosse abolito per mezzo della carne – grazie alla quale aveva ottenuto potere, diritto di possesso e dominio – e più non dimorasse in noi. Per questo, il Signore assunse una « corporeità » identica a quella della prima creatura, per combattere in maniera ravvicinata in favore dei padri, e vincere in Adamo colui che in Adamo ci aveva colpiti. Ora da dove procede la sostanza della prima creatura? Dalla volontà, dalla sapienza di Dio e da una terra vergine, perché Dio non aveva ancora fatto piovere, dice la Scrittura, prima che l’uomo fosse stato fatto, e non vi era nessuno che lavorasse la terra (Gen. 2, 5). Dunque, da questa terra, mentre era ancora vergine, Dio prese del fango e ne plasmò l’uomo, capostipite della nostra umanità. Ricapitolando in sé quest’uomo, il Signore assunse la stessa economia della sua « corporeità », nascendo da una Vergine per volontà e sapienza di Dio. Mostrò così l’identità della sua « corporeità » con quella di Adamo e divenne quello ch’era stato descritto all’inizio, cioè l’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1, 26). Come per l’opera di una vergine che aveva disobbedito l’uomo fu ferito, cadde e morì, così per l’opera di una vergine che ha obbedito alla parola di Dio l’uomo è stato rianimato, e dalla Vita ha ricevuto la vita. Il Signore è venuto a cercare la pecorella smarrita, ed era l’uomo che s’era perduto; e se egli non ha assunto una qualunque altra carne umana diversamente plasmata, ma per mezzo di questa stessa Vergine che era della razza di Adamo, ha voluto mantenere la somiglianza con questa nostra carne plasmata, tutto ciò è avvenuto per uno scopo ben preciso: perché Adamo venisse ricapitolato nel Cristo – e così ciò che era mortale venisse assorbito e inghiottito dall’immortalità – ed Eva venisse ricapitolata in Maria e così una Vergine, divenendo l’avvocata di un’altra vergine, distruggesse e cancellasse la disobbedienza di quella vergine con la sua obbedienza verginale. Il peccato ch’era stato commesso per mezzo di un legno, fu distrutto per mezzo dell’obbedienza patita sul legno conformemente alla quale il Figlio dell’uomo, in obbedienza a Dio ` fu inchiodato sul legno: distrusse in tal modo la scienza del male e rivelò e comunicò la scienza del bene. Il male è appunto disobbedire a Dio mentre il bene è obbedirgli. Per questo il Verbo disse per bocca di Isaia profeta, che preannunciava il futuro – erano profeti appunto perché annunciavano il futuro — il Verbo, ripeto, così disse: Io non mi rifiuto, né contesto; ho presentato le mie spalle alle percosse e le mie guance agli schiaffi; non ho sottratto il mio volto all’ignominia degli sputi (Is. 50, 6). Dunque, per quell’obbedienza cui si è sottomesso inchiodato fino alla morte sul legno, egli ha distrutto l’antica disobbedienza commessa per il legno. E poiché è il Verbo di Dio, anche lui onnipotente, che per la sua natura invisibile è presente tra noi in questo universo che egli abbraccia in tutta la sua lunghezza e larghezza, altezza e profondità – infatti, è per opera del Verbo di Dio che tutte le cose quaggiù sono state disposte e strutturate – per questo la crocifissione del Figlio di Dio si è compiuta anche lungo tutt’e quattro queste dimensioni, quando egli ha tracciato sull’universo il segno della sua croce. Infatti, col suo farsi visibile, ha dovuto rendere visibile la partecipazione di questo nostro universo alla sua crocifissione, per mostrare, con la sua forma visibile, l’azione che egli esercita sull’universo visibile: che egli cioè illumina l’altezza cioè tutto ciò che è nel cielo, che contiene la profondità, cioè quanto esiste nelle viscere della terra, che estende la sua lunghezza da oriente a occidente, che governa come nocchiero la regione di Arturo e la larghezza del Mezzogiorno, chiamando d’ogni parte coloro che sono dispersi, alla conoscenza del Padre.  

 

DOMENICA DELLE PALME DALLE OMELIE DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

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DOMENICA DELLE PALME DALLE OMELIE DI SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

In Mt., hom. 66, 1-2. PG 57, 627-628.

Gesù era venuto spesso a Gerusalemme; mai però vi era entrato in modo così solenne. Quale ne è il motivo? All’inizio del suo ministero egli non era molto conosciuto e a quel tempo neppure era prossima l’ora della sua passione. Gesù si mescolava alla folla senza alcuna distinzione, cercando anzi di passare inosservato. Qualora si fosse manifestato troppo presto, non avrebbe riscosso ammirazione, ma l’ira degli avversari sì sarebbe scatenata ben più violenta. Più tardi, invece, quando la croce è alle porte, dà prova sufficiente del suo potere, dispiega in modo più lampante la sua grandezza e compie con maggiore solennità ogni cosa, anche se ciò inasprirà la parte avversa. Ripeto che egli avrebbe potuto fare ciò sin dall’inizio della sua predicazione, ma non sarebbe stato né utile né vantaggioso.
Non considerare la menzione dell’asina poco importante. Quelli che si lasciarono portare via i loro animali, erano povera gente, forse dei contadini. Chi li persuase a non opporsi? Che dico? Neppure aprirono bocca. Insomma, perché acconsentirono oppure tacendo dettero via l’asina?
Nell’uno e nell’altro caso il comportamento di costoro è ugualmente ammirevole: sia lo starsene zitti quando vengono portate via le loro bestie; sia il non opporre resistenza dopo aver chiesto e avuto la spiegazione dagli apostoli: Il Signore ne ha bisogno. E sono tanto più ammirevoli, perché non vedevano il Signore, ma solo i suoi discepoli.
Questo episodio ci insegna che Gesù avrebbe potuto ridurre al silenzio e atterrare i Giudei che stavano per impadronirsi di lui, ma non volle farlo. Non solo, ma in quella circostanza dà anche un altro insegnamento ai discepoli: essi dovranno senza opporsi fare quanto egli chiederà loro, foss’anche la vita stessa. Se quegli sconosciuti hanno ceduto obbedienti, essi dovranno abbandonare tutto senza recriminazioni.
Allorché Gesù entra in Gerusalemme cavalcando un’asina, ci insegna l’umiltà e la moderazione. Egli non viene solo a compiere le profezie e a seminare la parola di verità, ma anche a istituire un modello di vita che si limiti al necessario e si ispiri ad un comportamento onesto.
Ecco perché, quando nasce, non cerca un magnifico palazzo, e neppure una madre ricca e illustre, ma si contenta dell’umile sposa di un carpentiere; nasce in una grotta e viene deposto in una mangiatoia. Per discepoli non sceglie né retori e dotti, né ricchi e nobili ma povera gente di modesta estrazione, del tutto sconosciuta.
Al momento del pasto, a volte si ciba di pane d’orzo, altre volte di quello che manda i discepoli a comprare in piazza, e l’erba gli serve da tavola. Si veste poveramente, come usa la gente del popolo, e non ha neppure una casa. Quando deve spostarsi da un luogo all’altro, fa i viaggi a piedi, tanto da esserne affaticato.
Gesù non ha nessun trono per sedersi né cuscino per posare il capo. Che sia sulla montagna o presso un pozzo – come quando era solo a parlare con la Samaritana – si mette semplicemente a sedere per terra.
Ci dà l’esempio della misura anche nei nostri dolori e nella nostra tristezza: quando piange, versa poche lacrime, in modo che indica i limiti da non oltrepassare e l’equilibrio, da mantenere.
Ecco un altro esempio di semplicità: prevedendo che molti, deboli fisicamente, non potranno sempre viaggiare a piedi, insegna con il suo esempio la moderazione: non è necessario andare a cavallo, non c’è bisogno di muli aggiogati, ma basta un’asina, e così non si eccede oltre il necessario.
Ma vediamo più da vicino questa profezia che si realizza in parole e in atti. Quale è dunque? Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. (Cf Zc 9,9) Gesù non guida carri da guerra, come gli altri re; non impone tributi, non avanza sconvolgente scortato da un corpo di guardia, ma presenta d’ora in poi il modello della mitezza e della moderazione.

LA PREDICA DEL SOLE – AMBROGIO, ESAMERONE, 4,1.2.4

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20030107_ambrogio_it.html

LA PREDICA DEL SOLE – AMBROGIO, ESAMERONE, 4,1.2.4

« Con grande splendore il sole procede nel giorno, inonda la terra di luce e la riscalda. Guardati, uomo, dal fissare lo sguardo nella sua grandezza, perché l’immenso splendore della sua luce non abbacini l’occhio del tuo spirito, come a colui che ha il sole allo zenit e vi fissa lo sguardo: offeso dalla sua luce, subito perde la vista. Se non rivolge altrove il viso e l’occhio, crede di non poter più affatto vedere e di essersi giocato la vista; ma se, invece, distoglie lo sguardo, può ancora godere della sua potenza visiva. Guardati dunque che il suo raggio sorgente non confonda anche il tuo sguardo! …Non fidarti ciecamente del suo magnifico splendore! Il sole è l’occhio del mondo, la gioia del giorno, la bellezza del cielo, la leggiadria della natura, il gioiello della creazione. Pensa sempre, quando lo guardi, al suo Fattore! Loda sempre, quando lo ammiri, il suo autore. Se già questo sole che ha essere e sorte comune con tutte le creature, splende tanto benefico, come deve essere buono il «sole della giustizia»! Se questo sole è così veloce, che nel suo impetuoso corso tra giorno e notte, tutto illumina, come deve essere grande quello che è sempre ovunque, e tutto riempie con la sua maestà! Se è meraviglioso questo che sorse al suo comando, come è meraviglioso al di fuori di ogni misura colui che comanda al sole di arrestarsi, ed esso non avanza più (Gb 9,7), come si legge. Se è grande questo che, ogni giorno nel corso delle ore, se ne viene e se ne va su ogni regione, come deve essere quello che anche quando si umiliò, perché noi potessimo vederlo visibilmente, era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Gv 1,9). Se è incomparabilmente eccellente questo, che pur spesso impallidisce quando la terra si interpone, come deve essere grande la maestà di colui che dice: Ancora una volta farò scuotere la terra! (Ag 2,6). La terra nasconde questo sole, mentre non potrebbe reggere quando l’altro sole la scuote, se non fosse sostenuta dalla sua volontà. E se è un danno per il cieco non vedere la dolce luce di questo sole, quale danno sarà per il peccatore, privato delle opere della «luce vera», patire le tenebre di una notte eterna!… Con la voce dei suoi doni, così sembra che gridi la natura: buono è il sole, ma è solo mio servo, non mio padrone. È buono, perché è il promotore, ma non il creatore della mia fecondità. È buono perché nutre, ma non causa i miei frutti. A volte addirittura esso brucia i miei prodotti; spesso addirittura mi è dannoso, e mi lascia a mani vuote. Non per ciò io sono ingrata a questo mio collaboratore: mi è stato dato a vantaggio e utilità, con me è sottoposto alla fatica, con me è soggetto alla caducità, con me è sottomesso alla schiavitù della corruzione; con me sospira, con me si duole aspettando che venga l’adozione in figli e la redenzione del genere umano, che renda possibile anche a noi la liberazione dalla schiavitù. Al mio fianco esso loda il Creatore, al mio fianco inneggia al Signore Dio nostro. E quando più ricchi sono i suoi benefici, io ne partecipo insieme con lui. Se il sole è benedizione, è benedizione pure la terra, sono benedizione anche i miei alberi da frutto, benedizione le bestie, benedizione gli uccelli. Il navigante sul mare si lagna del sole, e aspira a me. Il pastore sul monte si protegge da lui sotto le mie fronde, si affretta ai miei alberi, le cui ombre lo proteggono nella calura; alle mie sorgenti accorre assetato e stanco. » 

QUELLA PERCEZIONE DELLA CHIESA COME “LUCE RIFLESSA” CHE UNISCE I PADRI DEL PRIMO MILLENNIO E IL CONCILIO VATICANO II

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QUELLA PERCEZIONE DELLA CHIESA COME “LUCE RIFLESSA” CHE UNISCE I PADRI DEL PRIMO MILLENNIO E IL CONCILIO VATICANO II

L’ultimo Concilio riconosce che il punto sorgivo della Chiesa non è la Chiesa stessa, ma la presenza viva di Cristo che edifica personalmente la Chiesa. La luce che è Cristo si riflette come in uno specchio nella Chiesa

del cardinale Georges Cottier, op  

Nell’ormai prossimo 2012 cadranno i cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. A mezzo secolo di distanza, quello che è stato un avvenimento maggiore della vita della Chiesa continua a suscitare dibattiti – che probabilmente si intensificheranno nei prossimi mesi – su quale sia l’interpretazione più adeguata di quella assemblea conciliare. Le dispute di carattere ermeneutico, certo importanti, rischiano però di diventare controversie per addetti ai lavori. Mentre può interessare a tutti, soprattutto nel momento presente, riscoprire quale sia stata la sorgente ispiratrice che ha animato il Concilio Vaticano II. La risposta più comune riconosce che quell’evento era mosso dal desiderio di rinnovare la vita interiore della Chiesa e adattare anche la sua disciplina alle nuove esigenze per riproporre con nuovo vigore la sua missione nel mondo attuale, attenta nella fede ai «segni dei tempi». Ma per andare più alla radice, occorre cogliere quale era il volto più intimo della Chiesa che il Concilio si proponeva di riconoscere e ripresentare al mondo, nel suo intento di aggiornamento. Il titolo e le prime righe della costituzione dogmatica conciliareLumen gentium, dedicata alla Chiesa, sono in questo senso illuminanti nella loro chiarezza e semplicità: «Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa». Nell’incipit del suo documento più importante, l’ultimo Concilio riconosce che il punto sorgivo della Chiesa non è la Chiesa stessa, ma la presenza viva di Cristo che edifica personalmente la Chiesa. La luce che è Cristo si riflette come in uno specchio nella Chiesa. La coscienza di questo dato elementare (la Chiesa è il riflesso nel mondo della presenza e dell’agire di Cristo) illumina tutto ciò che l’ultimo Concilio ha detto sulla Chiesa. Il teologo belga Gérard Philips, che della costituzione Lumen gentium fu il principale redattore, mise in evidenza proprio questo dato all’inizio del suo monumentale commento al testo conciliare. Secondo lui, «la costituzione sulla Chiesa adotta sin dall’inizio la prospettiva cristocentrica, prospettiva che si affermerà istantaneamente nel corso di tutta l’esposizione. La Chiesa ne è profondamente convinta: la luce delle genti si irradia non da essa, ma dal suo divino Fondatore: pure, la Chiesa sa bene che, riflettendosi sul suo volto, questo irradiamento raggiunge l’umanità intera» (La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II: storia, testo e commento della costituzione Lumen gentium, Jaca Book, Milano 1975, v. I, p. 69). Una prospettiva di sguardo ripresa fin nelle ultime righe dello stesso commento, nelle quali Philips ripeteva che «non sta a noi profetare sul futuro della Chiesa, sui suoi insuccessi e sviluppi. Il futuro di questa Chiesa, di cui Dio ha voluto fare il riflesso di Cristo, Luce dei Popoli, sta nelle Sue mani» (ibid. v. II, p. 314). La percezione della Chiesa come riflesso della luce di Cristo accomuna il Concilio Vaticano II ai Padri della Chiesa, che fin dai primi secoli ricorrevano all’immagine del mysterium lunae, il mistero della luna, per suggerire quale fosse la natura della Chiesa e l’agire che le conviene. Come la luna, «la Chiesa splende non di propria luce, ma di quella di Cristo» («fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine»), dice sant’Ambrogio. Mentre per Cirillo d’Alessandria «la Chiesa è circonfusa dalla luce divina di Cristo, che è l’unica luce nel regno delle anime. C’è dunque una sola luce: in quest’unica luce splende tuttavia anche la Chiesa, che non è però Cristo stesso». In questo senso, merita attenzione la valutazione offerta di recente dallo storico Enrico Morini in un intervento ospitato sul sito www.chiesa.espressonline.it curato da Sandro Magister. Secondo Morini – che è professore di Storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università di Bologna – il Concilio Vaticano II si è posto «nella prospettiva della più assoluta continuità con la tradizione del primo millennio, secondo una periodizzazione non puramente matematica ma essenziale, essendo il primo millennio di storia della Chiesa quello della Chiesa dei sette Concili, ancora indivisa […]. Promuovendo il rinnovamento della Chiesa il Concilio non ha inteso introdurre qualcosa di nuovo – come rispettivamente desiderano e temono progressisti e conservatori – ma ritornare a ciò che si era perduto». L’osservazione può creare equivoci, se viene confusa con il mito storiografico che vede la vicenda storica della Chiesa come una progressiva decadenza e un allontanamento crescente da Cristo e dal Vangelo. Né si possono accreditare contrapposizioni artificiose per le quali lo sviluppo dogmatico del secondo millennio non sarebbe conforme alla Tradizione condivisa durante il primo millennio dalla Chiesa indivisa. Come ha evidenziato il cardinale Charles Journet, rifacendosi anche al beato John Henry Newman e al suo saggio sullo sviluppo del dogma, il depositum che abbiamo ricevuto non è un deposito morto, ma un deposito vivente. E tutto ciò che è vivente si mantiene in vita sviluppandosi. Allo stesso tempo, va colta come un dato oggettivo la corrispondenza tra la percezione della Chiesa espressa nella Lumen gentium e quella già condivisa nei primi secoli del cristianesimo. La Chiesa non viene cioè presupposta come un soggetto a sé stante, prestabilito. La Chiesa rimane al dato che la sua presenza nel mondo fiorisce e permane come riconoscimento della presenza e dell’azione di Cristo. La Trasfigurazione, mosaico della prima metà dell’XI secolo del monastero di Hosios Loukas, Daphni, Grecia La Trasfigurazione, mosaico della prima metà dell’XI secolo del monastero di Hosios Loukas, Daphni, Grecia A volte, anche nella nostra più recente attualità ecclesiale, questa percezione del punto sorgivo della Chiesa sembra per molti cristiani offuscarsi, e sembra avvenire una sorta di rovesciamento: da riflesso della presenza di Cristo (che con il dono del Suo Spirito edifica la Chiesa) si passa a percepire la Chiesa come una realtà materialmente e idealmente impegnata ad attestare e realizzare da sé la propria presenza nella storia. Da questo secondo modello di percezione della natura della Chiesa, che non è conforme alla fede, discendono conseguenze concrete. Se, come si deve, la Chiesa si percepisce nel mondo come riflesso della presenza di Cristo, l’annuncio del Vangelo non può che avvenire nel dialogo e nella libertà, rinunciando a ogni mezzo di coercizione sia materiale che spirituale. È la strada indicata da Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam Suam, pubblicata nel 1964, che esprime perfettamente lo sguardo sulla Chiesa proprio del Concilio. Anche lo sguardo che il Concilio ha rivolto sulle divisioni tra i cristiani e poi sui credenti delle altre religioni, rifletteva la stessa percezione della Chiesa. Così anche la richiesta di perdono per le colpe dei cristiani, che ha stupito e fatto discutere in seno al corpo ecclesiale quando fu presentata da Giovanni Paolo II, è perfettamente consonante con la coscienza di Chiesa fin qui descritta. La Chiesa chiede perdono non per seguire logiche di onorabilità mondana. Ma perché riconosce che i peccati dei suoi figli offuscano la luce di Cristo che essa è chiamata a lasciar riflettere sul suo volto. Tutti i suoi figli sono peccatori chiamati per l’azione della grazia alla santità. Una santificazione che è sempre dono della misericordia di Dio, il quale desidera che nessun peccatore – per quanto orribile sia il suo peccato – venga ghermito dal maligno nella via della perdizione. Così si comprende la formula del cardinal Journet: la Chiesa è senza peccato, ma non senza peccatori. Il riferimento alla vera natura della Chiesa come riflesso della luce di Cristo ha anche immediate implicazioni pastorali. Purtroppo, nell’attuale contesto, si registra la tendenza di vescovi a esercitare il proprio magistero attraverso pronunciamenti per via mediatica, in cui spesso si forniscono prescrizioni, istruzioni e indicazioni su cosa devono o non devono fare i cristiani. Come se la presenza dei cristiani nel mondo fosse il prodotto di strategie e prescrizioni e non sorgesse dalla fede, cioè dal riconoscimento della presenza di Cristo e del suo messaggio. Forse, nel mondo attuale, sarebbe più semplice e confortante per tutti poter ascoltare pastori che parlano a tutti senza dare per presuppostala fede. Come ha riconosciuto Benedetto XVI durante la sua omelia a Lisbona il 11 maggio 2010, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia e ciò, purtroppo, è sempre meno realista».

 

02 GENNAIO – BASILIO MAGNO E GREGORIO NAZIANZENO

http://liturgia.silvestrini.org/santo/114.html

02 GENNAIO – BASILIO MAGNO E GREGORIO NAZIANZENO

Vescovi e Dottori della Chiesa, santi

BIOGRAFIA

San Gregorio Nazianzeno San Basilio nacque nel 330 a Cesarea di Cappadocia da genitori santi. Di buona educazione letteraria e di egregie virtù, prese a condurre vita di eremitica, ma nel 370 fu fatto vescovo della sua città. Il tema che ricorreva più spesso e con più forza era quello della carità, dell’aiuto ai fratelli bisognosi. Lottò contro gli Ariani e scrisse eccellenti opere, specialmente le regole monastiche che ancor oggi sono seguite da moltissimi monaci orientali. Morì povero, come era vissuto, nell’anno 379.

Tra i primi e più preziosi amici di S. Basilio, notiamo S. Gregorio Nazianzeno: essi si stimolavano a vicenda alla pratica delle virtù e all’acquisto della scienza. Nato come S. Basilio nel 330 a Nazianzo da nobili genitori, sopravvisse una decina d’anni all’amico. Uomo di studio e poeta, per la sua eccellente dottrina ed eloquenza ricevette l’appellativo di « teologo ». Intraprese molti viaggi a scopo di istruzione e seguì poi nel deserto l’amico Basilio. Ma fu poi ordinato sacerdote e vescovo di Costantinopoli. Ma a causa delle fazioni che dividevano la sua chiesa, si ritirò a Nazianzo dove spirò nel 390.

MARTIROLOGIO Memoria dei santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, vescovi e dottori della Chiesa. Basilio, vescovi di Cesarea in Cappadocia, detto Magno per dottrina e sapienza, insegnò ai suoi monaci la meditazione delle Scritture,e il lavoro nell’obbedienza e nella carità fraterna e ne disciplinò la vita con regole da lui stesso composte; istruì i fedeli con insigni scritti e rifulse per la cura pastorale dei poveri e dei malati; morì il primo gennaio. Gregorio, suo amico, vescovo di Sàsima, quindi di Costantinopoli e infine di Nazianzo, difese con grande ardore la divinità del Verbo e per questo motivo fu chiamato anche il Teologo. Si rallegra la Chiesa nella comune memoria di così grandi dottori.

DAGLI SCRITTI…

San Basilio Magno Dai « Discorsi » di san Gregorio Nazianzeno, vescovo Eravamo ad Atene, partiti dalla stessa patria, divisi, come il corso di un fiume, in diverse regioni per brama d’imparare, e di nuovo insieme, come per un accordo, ma in realtà per disposizione divina. Allora non solo io mi sentivo preso da venerazione verso il mio grande Basilio per la serietà dei suoi costumi e per la maturità e saggezza dei suoi discorsi , ma inducevo a fare altrettanto anche altri che ancora non lo conoscevano. Molti però già lo stimavano grandemente, avendolo ben conosciuto e ascoltato in precedenza. Che cosa ne seguiva? Che quasi lui solo, fra tutti coloro che per studio arrivavano ad Atene, era considerato fuori dell’ordine comune, avendo raggiunto una stima che lo metteva ben al di sopra dei semplici discepoli. Questo l’inizio della nostra amicizia; di qui l’incentivo al nostro stretto rapporto; così ci sentimmo presi da mutuo affetto. Quando, con il passare del tempo, ci manifestammo vicendevolmente le nostre intenzioni e capimmo che l’amore della sapienza era ciò che ambedue cercavamo, allora diventammo tutti e due l’uno per l’altro: compagni, commensali, fratelli. Aspiravamo a un medesimo bene e coltivavamo ogni giorno più fervidamente e intimamente il nostro comune ideale. Ci guidava la stessa ansia di sapere, cosa fra tutte eccitatrice d’invidia; eppure fra noi nessuna invidia, si apprezzava invece l’emulazione. Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all’altro di esserlo. Sembrava che avessimo un’unica anima in due corpi . Se non si deve assolutamente prestar fede a coloro che affermano che tutto è in tutti, a noi si deve credere senza esitazione, perché realmente l’uno era nell’altro e con l’altro.

 

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 2 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

STUDI MARIANI / MARIA e i PADRI della CHIESA: LA SANTITA’ DI MARIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/studi/06-07/010-Santita_di_Maria.html

STUDI MARIANI / MARIA e i PADRI della CHIESA:  LA SANTITA’ DI MARIA

La più antica preghiera cristiana indirizzata alla Madonna è stata scoperta in Egitto. È diventata una delle più celebri antifone mariane:

« Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, o Santa Madre di Dio. Nelle nostre necessità non respingere le nostre suppliche, ma liberaci sempre da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta ». Risale all’inizio del terzo secolo ed in Egitto, proprio in questo periodo, viveva Origene (185-254), che era nato ad Alessandria, la grande metropoli, la seconda città dell’Impero Romano, per importanza e per numero di abitanti.

Un’intelligenza superiore Marco, discepolo di Pietro ed autore del secondo Vangelo, vi aveva annunciato la Buona Novella e fondato una comunità cristiana che non cessava di segnalarsi per la vitalità e la crescita. Origene era un personaggio di spicco di questa Chiesa. Dotato di una intelligenza straordinaria, è stato paragonato ad una specie di Platone dell’antichità cristiana. Nonostante la grande penuria di mezzi materiali che nell’antichità ostacolava l’attività scrittoria, egli ha composto un numero impressionante di libri, giunti a noi solo in parte. Per le sue doti di intelligenza e, soprattutto, di pietà, il suo vescovo Demetrio lo nominò direttore di una scuola di teologia, dove i catecumeni venivano preparati al Battesimo. Questa scuola si chiamava Didaskaleion. Origene possedeva una vasta cultura, che spaziava dalla filosofia alle lingue antiche. La sua passione era la Bibbia. Sin da bambino, accanto a suo padre, Leonide, un fervente cristiano che morirà martire, ne aveva imparato moltissimi brani a memoria.

Un metodo nuovo Origene commentò quasi tutti i Libri della Sacra Scrittura ed adoperò un metodo per interpretare la Bibbia che ebbe grande successo: l’allegoria. Per mezzo di questo metodo, il lettore, guidato dallo Spirito Santo, riesce a cogliere un significato nascosto, superiore, profondo in ogni parola della Bibbia. Nutriti da questo alimento, i cristiani si perfezionano sempre più e diventano, come Origene diceva, “spirituali”, per assomigliare sempre di più al Verbo divino. Nessuna meraviglia che Origene abbia visto nella Madonna il modello di tutti i cristiani che desiderano elevarsi dalla terra al cielo. In altre parole, Origene, commentando i passi del Vangelo che parlano della Madonna, ne ha messo in evidenza la sua eccellente santità. Valga ad esempio questa citazione, tratta dalle Omelie sul Vangelo di Luca, quando Origene interpreta allegoricamente le “montagne” della Giudea attraversate da Maria per andare a trovare sua cugina Elisabetta. “Era necessario anche che Maria, dopo il colloquio con l’angelo, salisse verso la montagna e dimorasse sulle vette. Per questo sta scritto: In quei giorni Maria si alzò e si recò alla montagna. Essa doveva ugualmente, poiché non era pigra nello zelo, affrettarsi sollecitamente e, ripiena di Spirito Santo, essere condotta sulle vette ed essere protetta dalla potenza di Dio, dalla cui ombra era stata ricoperta”. Le cime delle colline di Giuda sono il simbolo dei vertici nella vita spirituale. La Madonna, in quanto ripiena di Spirito Santo che è il promotore della santità, ne ha raggiunto dunque le sommità.

La discepola perfetta Tra i Padri della Chiesa (anche se questo titolo solo parzialmente può essere attribuito ad Origene, in quanto ha insegnato delle dottrine poi considerate erronee dalla Chiesa), Origene è il primo che mette in evidenza questo elemento della teologia e della devozione mariana: la Madonna come perfetta discepola di Cristo. Quando pensiamo e parliamo della Madonna, infatti, noi possiamo avere due diversi approcci. Il primo consiste nell’esaltare i suoi privilegi e perciò ricorrere alla sua potente intercessione. Il secondo, invece, sottolinea le virtù morali e teologali della Madonna, che pertanto viene considerata un modello, supremo, da imitare. Entrambi gli atteggiamenti sono importanti ed utili. Origene, senza dimenticare il primo, ha evidenziato anche il secondo e gli siamo grati. Talvolta, però, e solo molto raramente, la sua presentazione delle virtù della Madonna non è convincente, anche per inappropriato uso dell’allegoria. Che cosa rappresenta la “spada che trafigge l’anima di Maria”, secondo la profezia di Simeone nel Tempio? Per Origene è il simbolo delle incertezze e delle inquietudini che agiteranno l’anima della Madonna. Ecco il suo commento all’episodio della Presentazione nel Tempio: “E anche l’anima tua – di te, che sai di aver generato senza intervento di uomo, in stato di verginità, di te che hai udito da Gabriele: lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà – sarà trafitta dalla spada dell’infedeltà, sarà ferita dalla punta aguzza del dubbio. Pensieri contradditori ti dilanieranno quando vedrai che colui che avevi sentito chiamare «figlio di Dio» e sapevi essere nato senza intervento di uomo, è crocifisso e sta per morire, tormentato dai supplizi degli uomini”.

Secondo Origene, la fede della Madonna ha conosciuto dunque il dubbio. La redenzione di Cristo è universale Perché Origene incorre in questo errore? Perché la riflessione teologica della Chiesa non aveva ancora approfondito adeguatamente l’Immacolata Concezione di Maria. Maria, agli occhi di Origene, necessitava della Redenzione di Cristo e dunque, affetta dal peccato, aveva mancato in qualcosa. “Se la Vergine non subì lo scandalo durante la passione del Signore, Gesù non morì per i suoi peccati”. Origene pone dunque un problema giusto: la Redenzione di Cristo è universale, tutte le creature ne hanno beneficiato, compresa sua Madre. La soluzione che dà è però inesatta. Occorrerà attendere l’intuizione di un altro acuto teologo, vissuto molti secoli dopo, Duns Scoto, un francescano. La Redenzione di Cristo nei confronti della Madonna precede la sua concezione. Il fuoco di Grazia che divampa dalla Passione di Cristo ha eccezionalmente forgiato la santità perfetta della Madonna, esente da ogni dubbio e tanto più da ogni peccato, già prima della sua venuta all’esistenza. A parte questa “nota stonata”, Origene canta sempre le lodi di Maria. Egli è, per esempio, il primo ad adoperare un termine che i nostri fratelli cristiani dell’Oriente, cattolici ed ortodossi, amano molto per parlare della Madonna: panaghía, cioè “tutta santa”. A chi obiettava che nel Vangelo alcune espressioni di Gesù sembrerebbero mostrare una certa freddezza di Gesù verso sua Madre, Origene oppone un argomento risolutore: “Se Maria è stata proclamata beata dallo Spirito Santo, per bocca di Elisabetta, come il Signore avrebbe potuto rinnegarla?”. E, soprattutto, Origene, commentando le parole del Signore sulla Croce “ecco tuo figlio”, invita tutti i discepoli a fare come Giovanni, ad assomigliare a Gesù, dunque a farsi santi, per essere accolti come figli di e da Maria. “Chiunque infatti è perfetto, non è più lui a vivere, ma in lui vive Cristo; perciò quando si parla di lui a Maria, si dice: «ecco il tuo figlio, cioè Gesù Cristo»”. Seguendo questo insegnamento impartito da Origene, la devozione a Maria si salda con la ragione più profonda dell’essere cristiani, puntare alla “perfezione”, secondo l’espressione amata dal dottore alessandrino, o, praticare “la misura alta della vita cristiana”, per dirla con le parole coniate da un altro grandissimo devoto della Madonna, il Papa Giovanni Paolo II. Insomma, Maria e la santità: un binomio inscindibile.

Roberto SPATARO

SAN GIOVANNI DAMASCENO SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA – 4 DICEMBRE

http://www.santiebeati.it/dettaglio/30250

SAN GIOVANNI DAMASCENO SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA

4 DICEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

DAMASCO, 650 – 749

Nacque intorno al 675 a Damasco (da cui Damasceno) in Siria. Suo padre era ministro delle finanze. Colto e brillante, divenne consigliere e amico del Califfo cioè il prefetto arabo che guidava la regione. La frequentazione del monaco siciliano Cosmo, portato schiavo a Damasco, determinò in lui il desiderio di ritirarsi a vita solitaria, in compagnia del fratello, futuro vescovo di Maiouna. Andò dunque a vivere nella «laura» di San Saba, piccolo villaggio di monaci a Gerusalemme, dove ricevette l’ordinazione sacerdotale e in virtù della sua profonda preparazione teologica, ebbe l’incarico di predicatore titolare nella basilica del Santo Sepolcro. Tra le sue opere accanto agli inni e ai trattati teologici dedicati alla Madonna, è autore del compendio di teologia «Fonte della conoscenza» e de i «Tre discorsi in favore delle sacre immagini». Teologo illuminato e coltissimo, si meritò il titolo di «San Tommaso dell’Oriente». Nel 1890 Leone XIII lo ha proclamato dottore della Chiesa. (Avvenire)

Patronato: Pittori Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall’ebraico

Martirologio Romano: San Giovanni Damasceno, sacerdote e dottore della Chiesa, che rifulse per santità e dottrina e lottò strenuamente con la parola e con gli scritti contro l’imperatore Leone l’Isaurico in difesa del culto delle sacre immagini. Divenuto monaco nel monastero di Mar Saba vicino a Gerusalemme, si dedicò qui alla composizione di inni sacri fino alla morte. Il suo corpo fu deposto in questo giorno.

Catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì 6 maggio 2009

Cari fratelli e sorelle, vorrei parlare oggi di Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica – rivestita forse già dal padre – di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto le sue numerose Omelie. La sua memoria liturgica è celebrata il 4 Dicembre. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890. Di lui si ricordano in Oriente soprattutto i tre Discorsi contro coloro che calunniano le sante immagini, che furono condannati, dopo la sua morte, dal Concilio iconoclasta di Hieria (754). Questi discorsi, però, furono anche il motivo fondamentale della sua riabilitazione e canonizzazione da parte dei Padri ortodossi convocati nel II Concilio di Nicea (787), settimo ecumenico. In questi testi è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio nel seno della Vergine Maria. Giovanni Damasceno fu inoltre tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione delle immagini. Scrive il Damasceno: « In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?… E l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane di vita non è materia?… E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole » (Contra imaginum calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90). Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione (epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede. In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. Enumerando, per esempio, coloro le cui reliquie o immagini sono degne di venerazione, Giovanni precisa nel suo terzo discorso in difesa delle immagini: « Anzitutto (veneriamo) coloro fra i quali Dio si è riposato, egli solo santo che si riposa fra i santi (cfr Is 57,15), come la santa Madre di Dio e tutti i santi. Questi sono coloro che, per quanto è possibile, si sono resi simili a Dio con la loro volontà e per l’inabitazione e l’aiuto di Dio, sono detti realmente dèi (cfr Sal 82,6), non per natura, ma per contingenza, così come il ferro arroventato è detto fuoco, non per natura ma per contingenza e per partecipazione del fuoco. Dice infatti: Sarete santi, perché io sono santo (Lv 19,2) » (III, 33, col. 1352 A). Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: « Dio, che è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i] sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon) » (II, 2, PG 94, col. 865A). E per chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: « Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton) dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro futuro » (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile. L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dall anostra colpa, « fosse rinforzata e rinnovata » dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non solo nell’ »essere », ma nel « bene-essere » (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°). Con trasporto appassionato Giovanni spiega: « Era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e, fosse indicata e insegnata concretamente la strada della virtù (didachthenai aretes hodòn), che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna… Apparve così all’orizzonte della storia il grande mare dell’amore di Dio per l’uomo (philanthropias pelagos)… » E’ una bella espressione. Vediamo, da una parte, la bellezza della creazione e, dall’altra, la distruzione fatta dalla colpa umana. Ma vediamo nel Figlio di Dio, che discende per rinnovare la natura, il mare dell’amore di Dio per l’uomo. Continua Giovanni Damasceno: « Egli stesso, il Creatore e il Signore, lottò per la sua creatura trasmettendole con l’esempio il suo insegnamento… E così il Figlio di Dio, pur sussistendo nella forma di Dio, abbassò i cieli e discese… presso i suoi servi… compiendo la cosa più nuova di tutte, l’unica cosa davvero nuova sotto il sole, attraverso cui si manifestò di fatto l’infinita potenza di Dio » (III, 1. PG 94, coll. 981C-984B). Possiamo immaginare il conforto e la gioia che diffondevano nel cuore dei fedeli queste parole ricche di immagini tanto affascinanti. Le ascoltiamo anche noi, oggi, condividendo gli stessi sentimenti dei cristiani di allora: Dio vuole riposare in noi, vuole rinnovare la natura anche tramite la nostra conversione, vuol farci partecipi della sua divinità. Che il Signore ci aiuti a fare di queste parole sostanza della nostra vita.

Autore: Benedetto XVI

 

S.LEONE MAGNO – PRIMO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

http://www.monasterovirtuale.it/la-patristica/s.-leone-magno-omelie-sul-santo-natale.html

S.LEONE MAGNO – PRIMO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

I – Gioia universale per la immacolata nascita del Signore

Oggi, dilettissimi, è nato il nostro Salvatore: rallegriamoci! Non è bene che vi sia tristezza nel giorno in cui si nasce alla vita, che, avendo distrutto il timore della morte, ci presenta la gioiosa promessa dell’eternità. Nessuno è escluso dal prendere parte a questa gioia, perché il motivo del gaudio è unico e a tutti comune: il nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, è venuto per liberare tutti, senza eccezione, non avendo trovato alcuno libero dal peccato. Esulti il santo, perché si avvicina al premio. Gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono. Si rianimi il pagano, perché è chiamato alla vita. Il Figlio di Dio, nella pienezza dei tempi che il disegno divino, profondo e imperscrutabile, aveva prefisso, ha assunto la natura del genere umano per riconciliarla al suo Creatore, affinché il diavolo, autore della morte, fosse sconfitto, mediante la morte con cui prima aveva vinto. In questo duello, combattuto per noi, principio supremo fu la giustizia nella più alta espressione. Il Signore onnipotente, infatti, non nella maestà che gli appartiene, ma nella umiltà nostra ha lottato contro il crudele nemico. Egli ha opposto al nemico la nostra stessa condizione, la nostra stessa natura, che in lui era bensì partecipe della nostra mortalità, ma esente da qualsiasi peccato. E’ estraneo da questa nascita quel che vale per tutti gli altri: «Nessuno è mondo da colpa, neppure il fanciullo che ha un sol giorno di vita». Nulla della concupiscenza della carne è stato trasmesso in questa singolare nascita; niente è derivato ad essa dalla legge del peccato. E’ scelta una vergine regale, appartenente alla famiglia di David, che, destinata a portare in seno tale santa prole, concepisce il figlio, Uomo-Dio, prima con la mente che col corpo. E perché, ignara del consiglio superno, non si spaventi per una inaspettata gravidanza, apprende dal colloquio con l’angelo quel che lo Spirito Santo deve operare in lei. Ella non crede che sia offesa al pudore il diventare quanto prima genitrice di Dio. Colei a cui è promessa la fecondità per opera dell’Altissimo, come potrebbe dubitare del nuovo modo di concepire? La sua fede, già perfetta, è rafforzata con l’attestazione di un precedente miracolo: una insperata fecondità è data a Elisabetta, perché non si dubiti che darà figliolanza alla Vergine chi già ha concesso alla sterile di poter concepire.

II – La mirabile economia del mistero del Natale Dunque il Verbo di Dio, Dio egli stesso e Figlio di Dio, che «era in principio presso Dio, per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza del quale neppure una delle cose create è stata fatta», per liberare l’uomo dalla morte eterna si è fatto uomo. Egli si è abbassato ad assumere la nostra umile condizione senza diminuire la sua maestà. E’ rimasto quel che era e ha preso ciò che non era, unendo la reale natura di servo a quella natura per la quale è uguale al Padre. Ha congiunto ambedue le nature in modo tate che la glorificazione non ha assorbito la natura inferiore, né l’assunzione ha sminuito la natura superiore. Perciò le proprietà dell’una e dell’altra natura sono rimaste integre, benché convergano in una unica persona. In questa maniera l’umiltà viene accolta dalla maestà, la debolezza dalla potenza, la mortalità dalla eternità. Per pagare il debito, proprio della nostra condizione, la natura inviolabile si è unita alla natura che è soggetta ai patimenti, il vero Dio si è congiunto in modo armonioso al vero uomo. Or questo era necessario alle nostre infermità, perché avvenisse che l’unico e identico Mediatore di Dio e degli uomini da una parte potesse morire e dall’altra potesse risorgere. Pertanto si deve affermare che a ragione il parto del Salvatore non corruppe in alcun modo la verginale integrità; anzi il dare alla luce la Verità fu la salvaguardia del suo pudore. Tale natività, dilettissimi, si addiceva a Cristo, «virtù di Dio e sapienza di Dio»; con essa egli è uguale a noi quanto all’umanità, è superiore a noi quanto alla divinità. Se non fosse vero Dio non porterebbe la salvezza, se non fosse vero uomo non ci sarebbe di esempio. Perciò dagli angeli esultanti si canta nella nascita del Signore: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli» e viene annunciata «la pace in terra agli uomini di buona volontà» . Essi, infatti, comprendono che la celeste Gerusalemme sta per essere formata da tutte le genti del mondo. Or quanto gli umili uomini devono rallegrarsi per quest’opera ineffabile della divina misericordia, se gli angeli eccelsi tanto ne godono?

III – La vita della nuova creatura Pertanto, dilettissimi, rendiamo grazie a Dio Padre mediante il suo Figlio nello Spirito Santo, poiché la sua grande misericordia, con cui ci ha amato, ha avuto di noi pietà. «Quando ancora noi eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha vivificati con Cristo» per essere in lui una nuova creatura e una nuova opera. Dunque spogliamoci del vecchio uomo e dei suoi atti . Ora che abbiamo ottenuto la partecipazione alla generazione di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, reso consorte della natura divina, non voler tornare con una vita indegna all’antica bassezza. Ricorda di quale capo e di quale corpo sei membro. Ripensa che, liberato dalla potestà delle tenebre, sei stato trasportato nella luce e nel regno di Dio. Per il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito santo: non scacciare da te con azioni cattive un sì nobile ospite e non ti sottomettere di nuovo alla schiavitù del diavolo, perché ti giudicherà secondo verità chi ti ha redento nella misericordia, egli che vive e regna col Padre e lo Spirito santo nei secoli dei secoli. Amen.

 

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