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La festa di “Saint Charbel Makhlouf” monaco libanese

La festa di “Saint Charbel Makhlouf” monaco libanese, cade in Libano la terza domenica di luglio, in Francia (segnalata dal santoral) ed in Italia non segnalata dal santoral, cade oggi, ho preso questa biografia dal sito italiano: « Santi Beati e Testimoni »perché il sito libanese mi da i testi solamente in francese ed inglese (ed arabo), io ho seguito costantemente il sito e ho postato delle preghiere spesso sul mio Blog francese. il link sotto: « Famille Saint Charbel »:

Giuseppe Makhluf, nacque nel villaggio di Biqa ’Kafra il più alto del Libano nell’anno 1828. Rimasto orfano del padre a tre anni, passò sotto la tutela dello zio paterno. A 14 anni già si ritirava in una grotta appena fuori del paese a pregare per ore (oggi è chiamata “la grotta del santo”).
Egli pur sentendo di essere chiamato alla vita monastica, non poté farlo prima dei 23 anni, visto l’opposizione dello zio, quindi nel 1851 entrò come novizio nel monastero di ‘Annaya dell’Ordine Maronita Libanese. Cambiò il nome di battesimo Giuseppe in quello di Sarbel che è il nome di un martire antiocheno dell’epoca di Traiano.
Trascorso il primo anno di noviziato fu trasferito da ‘Annaya al monastero di Maifuq per il secondo anno di studi. Emessi i voti solenni il 1° novembre 1853 fu mandato al Collegio di Kfifan dove insegnava anche Ni’matallah Kassab la cui Causa di beatificazione è in corso.
Nel 1859 fu ordinato sacerdote e rimandato nel monastero da ‘Annaya dove stette per quindici anni; dietro sua richiesta ottenne di farsi eremita nel vicino eremo di ‘Annaya, situato a 1400 m. sul livello del mare, dove si sottopose alle più dure mortificazioni.
Mentre celebrava la s. Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino e recitando la bellissima preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché il 24 dicembre lasciò questo mondo.
A partire da alcuni mesi dopo la morte si verificarono fenomeni straordinari sulla sua tomba, questa fu aperta e il corpo fu trovato intatto e morbido, rimesso in un’altra cassa fu collocato in una cappella appositamente preparata, e dato che il suo corpo emetteva del sudore rossastro, le vesti venivano cambiate due volte la settimana. Nel 1927, essendo iniziato il processo di beatificazione, la bara fu di nuovo sotterrata. Nel 1950 a febbraio, monaci e fedeli videro che dal muro del sepolcro stillava un liquido viscido, e supponendo un’infiltrazione d’acqua, davanti a tutta
la Comunità monastica fu riaperto il sepolcro; la bara era intatta, il corpo era ancora morbido e conservava la temperatura dei corpi viventi. Il superiore con un amitto asciugò il sudore rossastro dal viso del beato Sarbel e il volto rimase impresso sul panno.
Sempre nel 1950 ad aprile le superiori autorità religiose con una apposita commissione di tre noti medici riaprirono la cassa e stabilirono che il liquido emanato dal corpo era lo stesso di quello analizzato nel 1899 e nel 1927. Fuori la folla implorava con preghiere la guarigione di infermi lì portati da parenti e fedeli ed infatti molte guarigioni istantanee ebbero luogo in quell’occasione. Si sentiva da più parti gridare Miracolo! Miracolo! Fra la folla vi era chi chiedeva la grazia anche non essendo cristiano o non cattolico.
Il papa Paolo VI il 5 dicembre 1965 lo beatificò davanti a tutti i Padri Conciliari durante il Concilio Ecumenico Vaticano II. 


Autore:
Antonio Borrelli 

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Publié dans:Santi |on 24 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

La gioia, carità squisita – Lettera di Albino Luciani a Santa Teresa di Lisieux

dal sito: 

http://www.santamelania.it/

La gioia, carità squisita 

Lettera di Albino Luciani a Santa Teresa di Lisieux

In una delle lettere indirizzate idealmente ad alcune grandi figure del passato in una raccolta intitolata “Illustrissimi”, l’allora Patriarca di Venezia – il Cardinale Albino Luciani, futuro papa Giovanni Paolo I per soli 33 giorni – si rivolge alla Santa di Lisieux, sottolineandone la grandezza e la forza e invitando i cristiani a imitarla nella carità semplice e quotidiana, che ha un grande valore agli occhi di Dio e fa la differenza nella vita di coloro che incontriamo nel nostro cammino.

 Cara piccola Teresa,

Avevo diciassette anni, quando lessi la vostra autobiografia. Fu per me un colpo di fulmine. « Storia di un fiorellino di maggio » l’avevate definita. A me parve la storia di una « spranga d’acciaio » per la forza di volontà, il coraggio e la decisione, che da essa sprizzavano. Scelta una volta la strada della completa dedizione a Dio, niente v’ha più sbarrato il passo: né malattia, né contraddizioni esterne, né nebbie e tenebre interiori. Me ne ricordai, quando mi portarono ammalato al sanatorio, in anni in cui, penicillina e antibiotici non essendo ancora stati inventati, al degente si prospettava, più o meno vicina, la morte.Mi vergognai di provare un po’ di paura: « Teresa ventitreenne, fino allora sana e piena di vitalità, mi dissi, fu inondata di gioia e di speranza, quando sentì salire alla bocca la prima emottisi. Non solo, ma, attenuando il male, ottenne di portare a termine il digiuno con regime di pane secco e acqua, e tu vuoi metterti a tremare? Sei sacerdote, svegliati, non fare lo sciocco! ».Rileggendovi, in occasione del centenario della nascita (1873-1973), mi colpisce invece il modo con cui avete amato Dio e il prossimo. Sant’Agostino aveva scritto: « Andiamo a Dio non col camminare, ma con l’amare ». Anche Voi chiamate la vostra strada « via dell’amore ». Cristo aveva detto: « Nessuno viene a me, se il Padre mio non l’attira ». In perfetta linea con queste parole, Voi vi siete sentita come un « uccellino senza forza e senz’ali »; in Dio, invece, avete visto l’aquila, che scendeva per portarvi alle altezze sulle proprie ali. Chiamaste la grazia divina « ascensore », che vi innalzava a Dio presto e senza fatica, essendo Voi « troppo piccola per salire l’aspra scala della perfezione ».Ho scritto sopra: « senza fatica ». Intendiamoci: ciò, sotto un aspetto; sotto un altro invece… Siamo agli ultimi mesi; la vostra anima avanza in una specie di galleria oscura, non vede niente di quel che prima vedeva chiaramente. « La fede, Voi scrivete, non è più un velo, ma un muro! ». Le sofferenze fisiche sono tali da farvi dire: « Se non avessi avuto la fede, mi sarei data la morte ». Ciononostante, continuate a dire con la volontà al Signore che lo amate: « Canto la felicità del Paradiso, ma senza provar gioia; canto semplicemente che voglio credere ». Le ultime vostre parole sono state: « Mio Dio, io vi amo! ».All’amore misericordioso di Dio vi eravate offerta come vittima. Tutto ciò non vi impediva di godere delle cose belle e buone: prima dell’ultima malattia con gioia dipingeste, scriveste poesie e piccoli drammi sacri, interpretandone qualche parte con gusto di fine attrice. Nell’ultima malattia, in un momento di ripresa, chiedeste dei pasticcini al cioccolato. Non avevate paura delle vostre stesse imperfezioni, neppure di esservi talvolta addormentata per stanchezza durante la meditazione (« i bambini piacciono alle mamme anche quando dormono »!).Amando il prossimo, vi sforzaste di rendere i piccoli servigi utili ma inosservati, e di preferire, semmai, le persone che vi davano noia e meno incontravano il vostro genio. Dietro il loro volto poco simpatico cercavate il volto simpaticissimo di Cristo. E non ci s’accorgeva di questo sforzo e di questa ricerca: « Quant’è mistica in cappella e nel lavoro, scriveva di Voi la priora, altrettanto è buffa e piena di trovate, fino a farci scoppiar dal ridere, in ricreazione ». Queste poche linee, che ho tracciate, son ben lontane dal contenere il vostro completo messaggio ai cristiani. Bastano, tuttavia, a segnar alcune direttive per noi. Il vero amor di Dio si sposa con la ferma decisione presa e, al bisogno, rinnovata.L’indeciso Enea del Metastasio, che dice: « Intanto confuso, nel dubbio funesto, non parto, non resto » non era stoffa da vero amore di Dio. Più adatto, semmai, il vostro compatriota maresciallo Foch, che durante la battaglia della Marna, telegrafava: « Il centro del nostro esercito cede, la sinistra si ritira, ma io attacco lo stesso! ». Un po’ di combattività e di amore al rischio non guasta nell’amore al Signore. Voi ce l’avevate: non per niente sentiste in Giovanna d’Arco una « sorella d’armi ».Nell’Elisir d’amore di Donizetti basta la « furtiva lacrima », spuntata sulle ciglia di Adina, a rassicurare e fare beato l’innamorato Nemorino. Dio non si accontenta di sole furtive lacrime. Una lacrima esterna in tanto gli piace, in quanto ad essa corrisponde dentro, nella volontà, una decisione. Così è anche delle opere esterne: esse piacciono al Signore, solo se corrisponde loro un amore interno. Il digiuno religioso aveva addirittura fatto sterminio sulle facce dei Farisei, ma a Cristo non piacquero quelle smunte facce, perché trovava che il cuore dei Farisei era lontano da Dio. Voi avete scritto: « L’amore non deve consistere nei sentimenti, ma nelle opere ». Avete però soggiunto: « Dio non ha bisogno delle nostre opere, ma solo del nostro amore ». Perfetto!Con Dio si può amare un sacco di altre belle cose. A un patto: niente sia amato contro o sopra o nella stessa misura di Dio. In altre parole: l’amore a Dio non dev’essere esclusivo, ma prevalente, almeno nell’estimazione.Giacobbe un giorno si innamorò di Rachele: per averla, prestò servizio ben sette anni, che « gli parvero, dice
la Bibbia, pochi giorni, talmente l’amava » e Dio non ebbe niente a ridire, anzi approvò e benedisse.
Spruzzare d’acqua santa e benedire tutti gli amori di questo mondo è un’altra cosa. Purtroppo, tenta di farlo oggi qualche teologo, il quale, influenzato dalle idee di Freud, Kinsey e Marcuse, inneggia alla « nuova morale sessuale ». Se non vogliono la confusione e lo spappolamento, invece che a questi teologi, i cristiani dovranno guardare al Magistero della Chiesa, che gode di speciale assistenza sia per conservare intatta la dottrina di Cristo sia per adattarla in modo conveniente ai tempi nuovi. Cercare il volto di Cristo nel volto del prossimo è l’unico criterio che ci garantisca di amare sul serio tutti, superando antipatie, ideologie e mere filantropie.
Un giovanotto, ha scritto il vecchio arcivescovo Perini, batte una sera alla porta di una casa: ha l’abito delle feste, un fiore all’occhiello, ma, dentro, il cuore gli batte forte: chissà come la ragazza ed i suoi familiari accoglieranno la domanda di matrimonio ch’egli viene timidamente a fare?
Ad aprire viene la ragazza in persona. Un’occhiata e il rossore, il piacere evidente (manca la « furtiva lacrima ») della signorina lo rassicurano, il cuore gli s’allarga. Entra; c’è la madre della ragazza; gli sembra signora simpaticissima, gli verrebbe voglia d’abbracciarla addirittura. C’è il padre, l’ha incontrato cento volte, ma stasera gli appare trasfigurato da una luce speciale. Più tardi arrivano i due fratelli; braccia al collo, saluti calorosi.Si chiede Perini: cosa succede in questo giovanotto? Cosa sono tutti questi amori spuntati all’improvviso come funghi? Risposta: non si tratta di amori, ma di un amore solo: ama la ragazza e l’amore portato a lei lo diffonde su tutti i suoi parenti. Chi ama sul serio Cristo non può rifiutarsi di amare gli uomini, che di Cristo sono fratelli. Anche se brutti, cattivi e noiosi, l’amore li deve un po’ trasfigurare.
Amore spicciolo. Spesso è l’unico possibile. Non ho mai avuto l’occasione di gettarmi nelle acque di un torrente per salvare un pericolante; spessissimo sono stato richiesto di prestare qualcosa, di scrivere lettere, di dare modeste e facili indicazioni. Non ho mai incontrato un cane idrofobo per via; invece, tante noiose mosche e zanzare; mai avuto persecutori che mi bastonassero, ma tante persone che mi disturbano col parlare forte in strada, col volume della televisione troppo alzato o magari col fare un certo rumore nel mangiare la minestra.Aiutare come si può, non prendersela, essere comprensivi, mantenersi calmi e sorridenti (il più possibile!) in queste occasioni, è amare il prossimo senza retorica, ma in modo pratico. Cristo ha molto praticato questa carità. Quanta pazienza nel sopportare i litigi che gli Apostoli facevano tra di loro! Quanta attenzione a incoraggiare e lodare: « Mai trovata tanta fede in Israele » dice del Centurione e della Cananea. « Voi siete rimasti con me anche nei momenti difficili » dice agli Apostoli. E una volta chiede per piacere la barca a Pietro.« Sire di ogni cortesia » lo dice Dante. Sapeva mettersi nei panni degli altri, soffriva con loro. Proteggeva, difendeva oltre che perdonare i peccatori: così Zaccheo, così l’adultera, così
la Maddalena.
Voi, a Lisieux, avete camminato dietro i suoi esempi; noi dovremmo fare altrettanto nel mondo.Carnegie racconta di quella signora, che un giorno fece trovare ai suoi uomini, marito e figli, la tavola ben preparata e infiorata, ma con un pugnetto di fieno su ogni piatto. « Cosa? Fieno ci dài oggi? » le dissero. « Oh, no, rispose, vi porto subito il pranzo. Ma lasciate che vi dica una cosa: da anni vi faccio la cucina, cerco di varare, una volta il risotto, un’altra il brodo, ora l’arrosto, ora l’umido, ecc. Mai che diciate: “Ci piace”, “sei stata brava!”. Dite per piacere una parola, non sono di sasso! Non si può lavorare senza un riconoscimento, un incoraggiamento, per il solo re di Prussica! ». Può essere spicciola anche la carità sprivatizzata o sociale. C’è in atto uno sciopero giusto: può darsi che esso porti disagio a me, che non sono direttamente interessato alla vertenza. Accettare il disagio, non mormorare, sentirsi solidali con dei fratelli, che lottano per la difesa dei loro diritti, è pure carità cristiana. Poco notata, non per questo meno squisita.
Una gioia mescolata all’amore cristiano. Appare già nel canto degli Angeli a Betlemme. Fa parte dell’essenza del Vangelo, che è « novella lieta ». E’ caratteristica dei grandi santi: « Un Santo triste, diceva Santa Teresa d’Avila, è un triste santo ». « Qui da noi, soggiungeva San Domenico Savio, ci si fa santi con l’allegria ».
La gioia può diventare carità squisita, se comunicata, come appunto Voi facevate nelle ricreazioni del Carmelo, agli altri.L’irlandese della leggenda che, morto improvvisamente, si avviò al tribunale divino, era non poco preoccupato: il bilancio della vita gli si rivelava piuttosto magro. C’era una fila davanti a lui, stette a vedere e a sentire. Dopo aver consultato il gran registro, Cristo disse al primo nella fila: « Trovo che avevo fame, e tu mi hai dato da mangiare. Bravo! Passa in Paradiso! ». Al secondo: « Avevo sete e tu m’hai dato da bere ». A un terzo: « Ero in carcere e m’hai visitato ». E così via.
Per ognuno, che veniva spedito in Paradiso, l’irlandese faceva un esame e trovava di che temere: lui, non aveva dato né da mangiare né da bere, non aveva visitato né carcerati né malati. Venne il suo turno, tremava, guardando Cristo, che stava esaminando il registro. Ma ecco che Cristo alza gli occhi e gli dice: « Non c’è scritto molto. Però qualcosa hai fatto anche tu: ero mesto, sfiduciato, avvilito: sei venuto, m’hai raccontato delle barzellette, m’hai fatto ridere e ridato coraggio. Paradiso! ». E’ una facezia, d’accordo, ma sottolinea che nessuna forma di carità va trascurata o sottovalutata. Teresa, l’amore che avete portato a Dio (e al prossimo per amor di Dio) fu veramente degno di Dio. Così dev’essere l’amore nostro: fiamma, che si alimenta di tutto ciò che in noi è grande e bello; rinuncia a tutto ciò, che in noi è ribelle; vittoria, che ci prende sulle proprie ali e ci porta in regalo ai piedi di Dio. Giugno 1973 

Publié dans:Santi |on 24 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Dalle «Orazioni» attribuite a santa Brigida

dal sito: 

http://www.maranatha.it/Ore/solenfeste/0723letPage.htm

dall’Ufficio delle letture di questa mattina:

Seconda Lettura
Dalle «Orazioni» attribuite a santa Brigida
(Oraz. 2; Revelationum S. Birgittae libri 2; Roma 1628, pp. 408-410
)

Elevazione della mente a Cristo Salvatore


Sii benedetto, Signor mio Gesù Cristo, per aver predetto prima del tempo la tua morte, per aver trasformato in modo mirabile, durante l’ultima Cena, del pane materiale nel tuo corpo glorioso, per averlo distribuito amorevolmente agli apostoli in memoria della tua degnissima passione, per aver lavato loro i piedi con le tue mani sante e preziose, dimostrando così l’immensa grandezza della tua umiltà.
Onore a te, Signor mio Gesù Cristo, per aver sudato sangue dal tuo corpo innocente nel timore della passione e della morte, operando tuttavia la nostra redenzione che desideravi portare a compimento, mostrando così chiaramente il tuo amore per il genere umano.
Sii benedetto, Signor mio Gesù Cristo, per essere stato condotto da Caifa e per aver permesso nella tua umiltà, tu che sei giudice di tutti, di essere sottoposto al giudizio di Pilato.
Gloria a te, Signor mio Gesù Cristo, per essere stato deriso quando, rivestito di porpora, sei stato coronato di spine acutissime, e per aver sopportato con infinita pazienza che il tuo volto glorioso fosse coperto di sputi, che i tuoi occhi fossero velati, che la tua faccia fosse percossa pesantemente dalle mani sacrileghe di uomini iniqui.
Lode a te, Signor mio Gesù Cristo, per aver permesso con tanta pazienza di essere legato alla colonna, di essere flagellato in modo disumano, di essere condotto coperto di sangue al giudizio di Pilato, di esserti mostrato come un agnello innocente condotto all’immolazione. Onore a te, Signor mio Gesù Cristo, per esserti lasciato condannare nel tuo santo corpo, ormai tutto inondato di sangue, alla morte di croce; per aver portato con dolore la croce sulle tue sacre spalle, e per aver voluto essere inchiodato al legno del patibolo dopo essere stato trascinato crudelmente al luogo della passione e spogliato delle tue vesti.
Onore a te, Signore Gesù Cristo, per aver rivolto umilmente, in mezzo a tali tormenti, i tuoi occhi colmi di amore e di bontà alla tua degnissima Madre, che mai conobbe il peccato, né mai consentì alla più piccola colpa, e per averla consolata affidandola alla protezione fedele del tuo discepolo.
Benedizione eterna a te, Signor mio Gesù Cristo, per aver dato, durante la tua mortale agonia, la speranza del perdono a tutti i peccatori, quando hai promesso misericordiosamente la gloria del paradiso al ladrone che si era rivolto a te.
Lode eterna a te, Signor mio Gesù Cristo, per ogni ora in cui hai sopportato per noi peccatori sulla croce le più grandi amarezze e sofferenze; infatti i dolori acutissimi delle tue ferite penetravano orribilmente nella tua anima beata e trapassavano crudelmente il tuo cuore sacratissimo, finché, venuto meno il cuore, esalasti felicemente lo spirito e, inclinato il capo, lo consegnasti in tutta umiltà nelle mani di Dio Padre, rimanendo poi, morto, tutto freddo nel corpo.
Sii benedetto, Signor mio Gesù Cristo, per aver redento le anime col tuo sangue prezioso e con la tua santissima morte, e per averle misericordiosamente ricondotte dall’esilio alla vita eterna. Sii benedetto, Signor mio Gesù Cristo, per aver lasciato che la lancia ti perforasse, per la nostra salvezza, il fianco e il cuore, e per il sangue prezioso e l’acqua che da quel fianco sono sgorgati per la nostra redenzione.
Gloria a te, Signor mio Gesù Cristo, per aver voluto che il tuo corpo benedetto fosse deposto dalla croce ad opera dei tuoi amici, fosse consegnato nelle braccia della tua addolorata Madre e da lei avvolto in panni, e che fosse rinchiuso nel sepolcro e custodito dai soldati. Onore eterno a te, Signor mio Gesù Cristo, per essere risuscitato dai morti il terzo giorno e per esserti incontrato vivo con chi ha prescelto; per essere salito, dopo quaranta giorni, al cielo, alla vista di molti, e per aver collocato lassù, tra gli onori, i tuoi amici che avevi liberati dagli inferi.
Giubilo e lode eterna a te, Signore Gesù Cristo, per aver mandato nel cuore dei discepoli lo Spirito Santo e per aver comunicato al loro spirito in immenso e divino amore.
Sii benedetto, lodato e glorificato nei secoli, mio Signore Gesù, che siedi sul trono nel tuo regno dei cieli, nella gloria della tua maestà, corporalmente vivo con tutte le tue santissime membra, che prendesti dalla carne della Vergine. E così verrai nel giorno del giudizio per giudicare le anime di tutti i vivi e di tutti i morti: tu che vivi e regni col Padre e con lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

Publié dans:Santi |on 23 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Edith Stein tra ebraismo e cristianesimo

du site:

http://www.nostreradici.it/Edith-ebrecris.htm

Edith Stein tra ebraismo e cristianesimo
Piero Stefani
(*) 

Un grande esempio di ebraicità e di cristianità vissute fino in fondo. La nostra sorella Edith ci dona – insieme alla luminosa testimonianza della sua fine – pagine di alta spiritualità che ci svelano non una doppia appartenenza, ma un naturale compimento, illuminando contemporaneamente molti aspetti delle autentiche radici della fede cristiana.

 Per indicare sinteticamente l’intera realtà dello sterminio nazista si fa ricorso a termini come Olocausto, Shoà o Auschwitz[1]. La prima è una parola giustamente sempre meno in uso, in quanto dotata di antiche risonanze sacrali del tutto inadeguate per indicare un evento in cui  le vittime non furono offerte su nessun altare (anche perché, in caso contrario, Hitler diverrebbe, di fatto, una specie di involontario sacerdote). Shoà in ebraico significa «catastrofe», si tratta quindi di un termine «laico» e, in quanto tale, meno inadeguato per indicare le caratteristiche estreme assunte dal genocidio nazista. Auschwitz-Birkenau fu il più grande campo di concentramento e di sterminio costruito dal potere hitleriano. La rete dei Lager fu molto ampia e articolata; la loro tipologia fondamentale si distingueva però  in due grandi forme: una miriade di campi e sottocampi disseminati in molte zone dell’Europa occupata dai nazisti, dove avversari politici, prigionieri di guerra, partigiani, delinquenti comuni, omosessuali, testimoni di Geova e così via erano sfruttati, non di rado fino alla morte, erogando un lavoro da schiavi; e i campi di sterminio di Treblinka, Belzec, Sobibor, Maidanek, Chelmno  (tutti situati nell’area polacca) costruiti esclusivamente per eliminare gli ebrei, essi erano quindi letteralmente «fabbriche di morte». Auschwitz-Birkenau fu l’una e l’altra cosa; con i suoi numerosi sottocampi fu un sistema produttivo coatto  in cui vennero brutalmente sfruttati ebrei e non ebrei, mentre a Birkenau, oltre al campo femminile, sorgevano anche le camere a gas e i crematori per lo sterminio. 

Ad  Auschwitz ebrei e non ebrei furono  presenti in gran numero; si trattò quindi di un luogo in cui è impossibile affermare che tutti gli ebrei si trovassero  dalla parte  delle vittime e tutti i non ebrei  fossero situati dal lato dei carnefici: il regime nazista fece vittime tra gli ebrei, tra i cristiani appartenenti a varie confessioni e tra i seguaci di altre ideologie, fossero essi russi, polacchi, francesi, italiani, avversari politici o altro ancora. Tali considerazioni non devono però far credere che vi sia stata un’uguaglianza di trattamento  tra tutti gli altri e gli ebrei. In realtà l’unico gruppo che può essere  davvero accostato agli  ebrei furono gli zingari (circa 250.000 vittime); solo questi due popoli furono infatti colpiti a morte per il loro semplice esserci, solo a loro fu imputato il delitto di esistere. Nei loro riguardi si può parlare perciò fondatamente di «soluzione finale»; fossero neonati o ultranovantenni il trattamento era lo stesso: l’annientamento (che per queste categorie non produttive era per di più immediato). Nel corso della Shoà vennero uccisi  un milione e mezzo di bimbi ebrei. Furono invece solo le  circostanze o l’adesione a determinate  ideologie a trasformare gli altri perseguitati in avversari da  sfruttare e, infine, da eliminare. Non si può inoltre dimenticare che la stessa condizione di appartenenza al popolo ebraico dipendeva  non già dai sentimenti o dalle convinzioni degli interessati, bensì da leggi razziali  stabilite arbitrariamente dal regime nazista. Il fatto che una persona, per qualsiasi motivo, non si identificasse più con l’ebraismo non significava nulla rispetto ai parametri con cui i nazisti stabilivano i confini della razza ebraica. In particolare il cambio di religione, un fattore soggettivo e spirituale, non poteva giocare nessun ruolo nella pseudodefinizione razzistica  di ebrei proposta dai nazisti. 

Per comprendere il modo in cui Edith Stein (la filosofa e carmelitana canonizzata nell’ottobre del 1998  da Giovanni Paolo II) si situa  nel cuore del rapporto tra ebrei e cristiani non si può in alcun modo prescindere dalla sua morte avvenuta ad Auschwitz nel 1942. Questa circostanza oggettiva deve essere vista innanzitutto in riferimento alla definizione estrinseca di appartenenza a una supposta  razza ebraica elaborata dai nazisti e alla loro volontà di annientamento  di tutti coloro che rientravano in quel novero.  Vista in questo suo versante oggettivo non c’è quindi alcuna ragione per distinguere la morte di Edith, non solo da quella della sorella Rosa, anche lei deportata dal carmelo di Echt  e uccisa ad Auschwitz, ma neppure da quella di sei milioni di altri ebrei. Per quel che riguarda  le circostanze della sua morte, inoltre, non si sa nulla di preciso. Le testimonianze di due sopravvissuti a quel medesimo trasporto (J. Van Rijk e J. Veffer) affermano soltanto di aver visto sul marciapiede di Auschwitz-Birkenau delle donne vestite da religiose e che quel gruppo superò la selezione, venendo probabilmente annientato subito dopo.
La Stein fu uccisa dai nazisti semplicemente perché, secondo il loro  modo di vedere, ella apparteneva a una razza, quella ebraica, che non aveva il diritto di vivere. Morendo in tal modo Edith non fece altro che condividere l’anonimo destino di morte del suo popolo. Il  ruolo assunto dalla vita e dalla morte della filosofa ebrea e carmelitana Edith Stein in relazione all’attuale rapporto tra cristiani ed ebrei dipende, dunque, non già dalle modalità della sua morte, bensì solo dal versante soggettivo, cioè dalla maniera in cui ella visse sia la propria appartenenza al popolo ebraico sia la propria conversione al cattolicesimo e dalla modalità con cui giudicò la persecuzione  nazista.
 
Non vi è alcun dubbio che nella parte finale della vita di Edith Stein nel suo animo albergassero due convinzioni parimenti radicate: da un lato in lei si stagliava  in modo forte e netto il senso di appartenenza al popolo ebraico, dall’altro parimenti salda appariva la persuasione che sulla maggior parte del suo popolo pesasse la colpa di aver rifiutato Gesù e quindi di aver chiuso la porta alla pienezza della verità. Quest’ultimo convincimento fu quello tipico di una lunga tradizione antigiudaica cristiana, la quale naturalmente non condivideva però il primo presupposto: il grande significato attribuito all’appartenenza ebraica. In Edith l’ebraicità, intesa anche nel suo senso più concreto e «carnale», infatti conservò sempre un significato altamente positivo: «essere ebrei» scrisse in una lettera all’amica filosofa Hedwig Conrad-Martius «non significa solo appartenere a un popolo determinato, a una data nazione: significa appartenere attraverso il sangue a un popolo sul quale la mano di Dio si è posata per sempre, un popolo che il Dio Vivente ha fatto suo e che ha segnato con il suo sigillo».  Ciò non toglie che,  secondo lei, la vita del suo  popolo  fosse contraddistinta dalla colpa. Secondo la testimonianza di una consorella dopo lo scoppio dei brutali violenze antiebrariche della cosiddetta «Notte dei cristalli» (novembre 1938)
la Stein avrebbe detto: «È l’ombra della croce che si abbatte sul mio popolo ! Oh, se adesso potesse capire! È il compimento della maledizione che il mio popolo ha invocato su se stesso. Caino deve essere perseguitato, ma guai a chi tocca Caino».
 

Per comprendere come Edith concepì il suo rapporto con la propria  matrice ebraica non vi è via migliore che intendere l’espressione nel senso più letterale possibile: guardare come visse il legame con sua madre. La nota scrittrice cattolica tedesca Gertrud von Le Fort  ha affermato a proposito della Stein: «Dai nostri incontri, ho conservato soprattutto il ricordo dell’amore di Edith per la madre, di come si preoccupava del suo benessere spirituale: avrebbe tanto voluto che si facesse cristiana… Non saprei dire se Dio abbia esaudito questo voto».  L’ingresso nel carmelo da parte di Edith, avvenuto nel 1933, provocò una forte lacerazione tra lei e la madre a cui pur continuò a restar molto legata. A tal proposito la scena più patetica  avvenne quando la figlia, subito prima di partire definitivamente per il carmelo, accompagnò la mamma ottantaquattrenne in sinagoga per celebrare la festa autunnale delle Capanne; sulla via del ritorno la madre domandò:«”Era bello il sermone ?” “Certo”. “Si può dunque essere pii, pur restando ebrei ?” “Certo, se non si conosce altro”». In questo scambio di battute c’è già tutto: per Edith solo l’adesione a Cristo completa il proprio essere ebrei. Tre anni dopo, quando stava per fare il rinnovamento dei voti,
la Stein avverte nettamente al suo fianco la presenza della madre provando la sensazione che  adesso ella tutto comprenda; qualche ora dopo verrà a sapere che sua mamma è morta proprio in quello stesso giorno. In seguito, Edith rifiuterà sempre di dar credito alla falsa voce che parlava di una conversione in extremis  della madre; sapeva infatti che ella restò, fino all’ultimo, legata alla sua fede ebraica, ma si dimostrò altresì sicura che la sua incrollabile fiducia in Dio le avrà «meritato  la misericordia del suo Giudice, presso il quale sarà il mio sostegno più fedele». Tuttavia la madre, come ogni altro ebreo non credente in Cristo, ha vissuto, secondo la figlia, una fede incompleta («Certo, se non si conosce altro»).
 

Edith Stein si è chiesta più volte la ragione di questa non accettazione ebraica di Gesù; in proposito una volta scrisse: «La credenza nel Messia è praticamente scomparsa oggi negli ebrei, anche in quelli credenti. E quasi allo stesso modo la fede nella vita eterna. È per questo che non sono riuscita a far capire a mia madre né la mia conversione, né il mio ingresso nella vita religiosa». L’osservazione  merita di essere approfondita. Per quanto la considerazione possa sconcertare qualche cristiano, si può dire che per lungo tempo fu proprio la fede messianica a costituire il massimo ostacolo all’accoglimento di Gesù da parte degli ebrei.  Infatti se, secondo la prevalente visione ebraica, il re Messia è definito come colui che riscatta il popolo ebraico dal suo esilio e porta il mondo intero all’età messianica, cioè all’epoca in cui lo shalom (la pace piena e completa) contraddistinguerà la convivenza umana, è evidente che Gesù non  fu il Messia. Inoltre, la  spaventosa guerra  che si stava combattendo nel mondo intero e il dispiegarsi della più terribile  tra le tante persecuzioni abbattutasi sugli ebrei  dimostravano inequivocabilmente quanto il Messia fosse ancora lontano dal sopraggiungere. L’età messianica per gli ebrei infatti non riguarda i cieli, ma la terra. Edith Stein invece, scostandosi  dalla visione ebraica, sembra concepire il messianismo in chiave spirituale vedendolo come partecipazione alla croce  e alla resurrezione di  Cristo.  L’adesione al cristianesimo della Stein è posta eminentemente all’insegna della croce; nella sua ultima opera Scientia Crucis, pensando alla via carmelitana, scrive: «L’unione nuziale dell’anima con Dio è lo scopo per il quale è stata redenta dalla Croce e trovando il suo compimento nella Croce, l’anima è segnata per l’eternità dal sigillo della croce». La croce è interpretata da Edith in senso quasi esclusivamente oblativo e sacrificale, cioè come partecipazione attiva dell’anima alla redenzione compiuta da Cristo. Uno degli scopi dell’offerta, vista in chiave soprannaturale, fu la salvezza del popolo ebraico: «Ho fiducia che, dall’eternità, mia madre vegli sulla mia famiglia e che il Signore abbia accettato l’offerta della mia vita per tutti. Penso in continuazione alla regina Ester, che venne presa dal seno del suo popolo, per insorgere di fronte al re a favore di questo popolo. Io sono una piccola Ester, molto povera e molto debole, ma il re che mi ha scelto è onnipotente e infinitamente misericordioso». Nel suo Testamento redatto il 9 giugno 1939 aveva scritto che la sua vita e la sua morte erano offerte a gloria di Dio per il bene della santa Chiesa e dell’ordine carmelitano e «in espiazione per il rifiuto della fede da parte del  popolo ebreo, affinché il Signore sia accolto dai suoi e venga il suo regno di gloria». 

Tutta questa spiritualità dell’offerta dipende dal presupposto che «uno dei pensieri fondamentali di ogni vita religiosa» è «intercedere per i peccatori attraverso una sofferenza liberamente accettata e gioiosa, partecipando così alla redenzione del mondo». Si tratta di una visione teologica che, pur non intaccando in nulla la nobiltà e la sincerità di quell’oblazione, appare ormai sempre più lontana dal modo contemporaneo di concepire la fede e ancor più dalla maniera di guardare al popolo d’Israele la cui sorte – come ha affermato il concilio Vaticano II – non  è in realtà  gravata da nessuna atavica colpa. Anche per questo il pensiero di Edith Stein non  può esserci  di aiuto per sviluppare l’attuale dialogo cristiano-ebraico,  il che non toglie che la sua morte da ebrea e la sua vita da credente in Cristo siano entrambe  accolte e custodite per l’eternità nel mistero di Dio 

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SAN LORENZO DA BRINDISI

dal sito:

http://www.enrosadira.it/santi/l/lorenzob.htm

 

 SAN LORENZO DA BRINDISI 

 

San Lorenzo da Brindisi si chiamava in realtà Giulio Cesare Russo e nacque nella città pugliese il 22 luglio 1559 da Guglielmo Russo ed Elisabetta Masella. Ancora fanciullo divenne orfano di padre. Studiò nelle scuole esterne dei Francescani Conventuali di San Paolo Eremita in Brindisi. Tra il 1565 e il 1567 prese l’abito dei conventuali, passando così alla scuola per oblati e candidati alla vita religiosa. L’usanza dei Conventuali di far predicare i fanciulli in alcune solennità fa iniziare la sua predicazione pubblica. La morte della madre oltre che a lasciarlo solo crea a Giulio notevoli difficoltà economiche,senza per questo ricevere l’aiuto dei parenti, neppure di quel Giorgio Mezosa, che è suo insegnante presso i Conventuali. Il ragazzo quattordicenne si trasferisce allora a Venezia presso uno zio sacerdote, direttore di una scuola privata e curatore dei chierici di San Marco, potendo così proseguire gli studi e maturare la vocazione nell’ordine dei Cappuccini Minori. Il 18 febbraio 1575 veste l’abito francescano e gli è imposto dal vicario provinciale, padre Lorenzo da Bergamo, il suo stesso nome: da quel momento sarà padre Lorenzo da Brindisi. A Padova a seguì gli studi di logica e filosofia e nuovamente a Venezia quelli di teologia. Il 18 dicembre 1582 è ordinato sacerdote. Nel 1589 diviene Vicario Generale dell’Ordine in Toscana, nel 1594 Provinciale di Venezia, nel 1596 secondo Definitore Generale, nel 1598 Vicario Provinciale in Svizzera, nel 1599 nuovamente Definitore Generale. Sempre nel 1599 è posto a guida dei missionari che i cappuccini, su invito del Pontefice, inviano in Germania. Nell’ottobre del 1601 il sacerdoteo chiese di essere uno dei quattro cappellani dediti all’assistenza spirituale delle truppe cattoliche nella guerra contro i turchi. Fu quindi destinato all’accampamento imperiale di Albareale in Ungheria, dove giunse il 9 ottobre e dove si distinse per l’aiuto e per la fermezza durante l’attacco turco. Il 24 maggio 1602, padre Lorenzo, viene eletto Vicario Generale dell’Ordine, con l’impegno di visitare tutte le province dell’ordine. Nel triennio del suo generalato, può tornare anche a Brindisi (1604) dove decide la costruzione di una chiesa con annesso monastero di clausura trovando i finanziatori nel duca di Baviera, nella principessa di Caserta ed in altre personalità conosciute durante i suoi viaggi in Europa, mentre il terreno è quello della sua casa natale. Nel 1618 è a Napoli dove viene convinto dai patrizi napoletani a recarsi in Spagna per esporre al re Filippo III le malversazioni del vicerè don Pietro Giron, duca di Ossuna. Il 26 maggio 1619, evitato l’agguato di sicari ed ostacoli di varia natura, padre Lorenzo viene ricevuto alla corte di Filippo III. Al termine del colloquio col sovrano per conferma le sue parole profetizza al re la propria morte imminente e che se il sovrano non avesse provveduto ai propri sudditi, sarebbe deceduto entro due anni. Il 22 luglio del 1619, probabilmente avvelenato, il frate brindisino moriva. Il 31 marzo 1621, come profetizzato, si spegneva anche Filippo III, che aveva ignorato le richieste napoletane e aveva favorito il vicerè Ossuna. Nel 1783 Padre Lorenzo viene beatificato da papa Pio VI e nel 1881 canonizzato da papa Leone XIII. Nel 1959 viene proclamato dottore della chiesa, col titolo di « doctor apostolicus », da papa Giovanni XXIII.

Publié dans:Santi |on 21 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

San Camillo de Lellis, esempio attuale di carità

SCUSATE NON SO PERCHÉ VIENE COSÌ, FORSE STANNO FACENDO DEI LAVORI PER MIGLIORARE I BLOG, dal sito:

http://www.zenit.org/article-11479?l=italian

 San Camillo de Lellis, esempio attuale di carità 
La Chiesa lo ha festeggiato il 18 luglio 

 CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 20 luglio 2007 (ZENIT.org).-

Ci sono santi che resistono davvero al passare del tempo. Non importa quanti secoli ci possano dividere: alcuni di loro hanno vissuto lotte e difficoltà che anche noi, centinaia di anni dopo, possiamo sperimentare. E’ il caso di San Camillo de Lellis, la cui festa è stata celebrata il 18 luglio. Benedetto XVI lo ha già osservato, citando San Camillo nella sua prima Enciclica, “Deus caritas est”, tra San Francesco d’Assisi, San Giovanni della Croce, Madre Teresa di Calcutta e altri come “modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà”. Ciò che rende San Camillo unico è che fino a 32 anni nessuno avrebbe pensato che quel giovane strano e tormentato avrebbe potuto avere un destino così glorioso.Camillo de Lellis nacque nel 1550, figlio di un soldato mercenario. Sua madre morì quando era ancora un bambino. Il padre non era un grande modello: non gli importava da quale parte combatteva; prese perfino parte al sacco di Roma nel 1527.Cresciuto in quella che nel gergo moderno si chiamerebbe una “famiglia disfunzionale”, Camillo ricevette una scarsa istruzione e aveva una spiccata propensione per il gioco d’azzardo. Per pagare i suoi debiti seguì le orme paterne, diventando un mercenario. In uno dei suoi momenti peggiori, perse la spada, il fucile e le munizioni – gli strumenti del mestiere. Era povero nel corpo e nello spirito.

La conversione di Camillo non avvenne dalla mattina alla sera. Cercò di unirsi ai Francescani, fallì e ritornò alle vecchie abitudini. Si alzò e ricadde molte volte prima di iniziare a percorrere la giusta via.

Roma ebbe un ruolo importante nella sua conversione. Arrivò all’ospedale di San Giacomo degli Incurabili cercando cure per i suoi piedi, che lo tormentavano sin da piccolo. In cambio si offrì di assistere i malati e i morenti.

Dedicando tempo, amore e attenzione ai malati, iniziò a guarire spiritualmente e fisicamente. Smise di giocare d’azzardo e la sua malattia si affievolì.

La Provvidenza inviò a Camillo uno straordinario direttore spirituale: San Filippo Neri incontrò il giovane e lo prese sotto la sua protezione.

Camillo vide che voleva diventare qualcosa di più, per poter offrire di più. Andò a scuola, imparando la grammatica tra i ragazzi del Collegio Romano Gesuita. Apprese non sono le lettere, ma anche l’umiltà.

Venne ordinate sacerdote nel 1584 e fondò un ordine, i Fratelli della Buona Morte. Anche se curava i malati e i poveri, dedicava speciale attenzione a confortare i morenti.

Il suo passato gli fu utile. Nessun caso era troppo lontano per interessarsene, perché si ricordava quanto fosse stato perso egli stesso. Poteva riconosce i segni delle dipendenze immediatamente e in questo modo era capace di capire e di aiutare la gente che sarebbe stata trascurata da altri.

Nella “Deus Caritas Est”, il Santo Padre ha riflettuto sul fatto che i santi dimostrano che “chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino”.

L’“autoaiuto” di San Camillo si centrava sul vedere Gesù negli altri piuttosto che nel rimuginare su se stesso, consiglio che si adatta bene alla nostra epoca.

I Fratelli della Buona Morte in zone disastrate o ospedali erano facilmente identificabili dalle croci rosse che indossavano sul davanti del loro abito.

Ancora oggi,
la Croce Rossa è sinonimo di aiuto medico, anche se l’origine del simbolo moderno sembra diversa. Il fondatore della Croce Rossa moderna, Henri Dunant, era svizzero. Testimoniò la sofferenza dei feriti durante la battaglia di Solferino nel 1859 e reclutò gli abitanti dei villaggi vicini per prendersene cura.

L’iniziativa di Dunant venne ratificata durante
la Convenzione di Ginevra e la croce rossa su sfondo bianco, il contrario rispetto alla bandiera svizzera, venne scelta come simbolo in onore delle origini di Dunant.

Siano i due simboli collegati o meno, per mezzo millennio la croce rossa ha portato speranza agli afflitti e sollievo ai sofferenti. 

Publié dans:Santi |on 20 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Oggi Sant’Alessio

dal sito: 

http://www.santiebeati.it/dettaglio/63150

Oggi Sant’Alessio 

 Fattosi povero, da patrizio qual era, Alessio trascorreva le notti sotto una scala sul colle romano dell’Aventino. In quel luogo Papa Onorio III gli dedicò nel 1217 una chiesa, scelta ancora oggi per molti matrimoni che si celebrano nell’Urbe. Ma quella della scala è soltanto una delle due tradizioni esistenti sul santo. Secondo quella siriaca, infatti, il giovane fuggì la sera delle nozze per recarsi a Edessa, dove visse da mendicante e morì. La variante greco-romana introduce il ritorno a Roma (raffigurato nelle pitture della chiesa inferiore della basilica San Clemente). Qui Alessio visse sempre da mendico e non venne riconosciuto dal padre. Fu Papa Innocenzo a scoprirne l’identità e a comunicarla ai genitori, che, straziati, si recarono al capezzale del figlio ormai morente. Una scena spesso raffigurata nell’arte. Della figura di Alessio si è impadronita anche la letteratura. (Avvenire) 

Patronato:Mendicanti  Etimologia:Alessio = protettore, difensore, dal greco 

E’ presente nel Martirologio Romano.  Tutto sommato la vita di s. Alessio si può descrivere con poche frasi, ma sono le varie narrazioni del tempo antico, che ne arricchiscono lo svolgimento in buona parte leggendario.
Vi sono tre versioni della ‘Vita’: la leggenda siriaca, la leggenda greca, la leggenda latina, che hanno trasformato la semplice e umile vita di un uomo di Dio, mendicante e asceta del V secolo, in un fiorito racconto che è stato oggetto di opere teatrali e di poesia, sia in Oriente che in Occidente.
La leggenda siriaca, la prima composta fra il 450 e il 475, il cui manoscritto più antico risale alla fine del V secolo, narra di un giovane e ricco abitante della nuova Roma cioè Costantinopoli, il quale la sera delle nozze si era allontanato di nascosto imbarcandosi per l’Oriente.
Giunto ad Edessa, città dell’odierna Siria, che nel IV-V secolo era un centro di cultura cristiana (Scuola di Edessa), finché nel VII secolo passò ai musulmani, qui si mise a chiedere l’elemosina con altri mendicanti sull’uscio della chiesa.
Quello che raccoglieva di giorno, lo distribuiva di sera ai poveri della città, per il suo ascetismo venne chiamato Mar-Riscia (uomo di Dio); persone incaricate dal padre di ritrovarlo, giunti anche ad Edessa, non riuscirono ad identificarlo in quel mendicante lacero ed emaciato.
Dopo 17 anni, quando si sentì morire, il giovane mendicante rivelò al sacrestano della chiesa la sua vera identità ed origine, il quale una mattina lo trovò morto sul sagrato.
Il sacrestano si precipitò dal vescovo Rabula (412-435) e lo supplicò di non far confondere nella fossa comune, il corpo di quel santo uomo, il vescovo allora si recò al cimitero per esumarlo, ma trovò solo le misere vesti, il corpo era scomparso.
Nel secolo IX comparve documentata la leggenda greca o bizantina, la quale trasformava significativamente quella siriaca. Prima di tutto dava un nome al giovane chiamandolo Aléxios (Alessio) che significa “difensore” o “protettore”, situando la sua nascita a Roma e non più in Oriente e datando la sua morte al 17 luglio, al tempo degli imperatori fratelli Arcadio e Onorio (395-408).
La leggenda narra che un’icona della Vergine Maria nella chiesa di Edessa (oggi secondo la tradizione, venerata nella chiesa romana di Sant’Alessio sull’Aventino), ordinò al sacrestano di far entrare in chiesa quel mendicante da considerarsi un santo, la voce si diffuse rapidamente fra il popolo dei fedeli, che presero a venerarlo.
Alessio cui non piacevano gli onori, fuggì imbarcandosi per Tarso, ma i venti prodigiosamente lo fecero approdare sulle coste italiane ad Ostia; questo fatto fu preso da Alessio come un’indicazione divina, pertanto decise di farsi ospitare come uno straniero povero nella casa paterna a Roma.
Il padre memore del figlio lontano e in difficoltà, senza riconoscerlo lo accolse con benevolenza in casa, dove Alessio rimase per 17 anni, dormendo in un sottoscala fra le umiliazioni e gli scherni dei servi.
Quando Alessio sentì che la sua fine era vicina, decise di scrivere le avventure e le origini della sua vita su un rotolo, quando morì le campane di Roma si misero a suonare a festa e fu udita una voce divina che diceva: “Cercate l’uomo di Dio affinché egli preghi per Roma”, così fu scoperto il corpo del santo, ancora con il rotolo in mano, che solo gli imperatori Arcadio ed Onorio riuscirono a sfilarglielo e leggere.
Della leggenda latina non si hanno documentazioni prima del secolo X, comparve prima in Spagna e verso l’ultimo quarto del secolo a Roma.
Qui il culto fu diffuso dall’arcivescovo metropolita di Damasco Sergio, il quale costretto a fuggire a seguito dell’invasione dei Saraceni, si stabilì presso la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino, qui fondò una comunità monastica mista, dove i greci osservavano
la Regola di s. Basilio e i latini quella di s. Benedetto.
Questa comunità rivestì una grande importanza in quel tempo e fra l’altro rielaborò la leggenda greca di s. Alessio in una versione che diventò la tradizione dominante in Occidente, tale da essere inserita nella “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varagine.
Le diversità apportate nella leggenda latina sono: la chiesa dove Alessio si sarebbe dovuto sposare divenne la stessa basilica dove il santo sarebbe stato sepolto; la mancata sposa, che la sera precedente le nozze accettò di vivere in castità, si chiamò chi sa perché Adriatica; il rotolo con scritta la sua vita, fu tolto di mano non dagli imperatori, ma dal papa stesso, presenti gli straziati genitori Eufemiano e Aglae, che finalmente seppero che quel mendicante in abiti da pellegrino, vissuto nella loro casa, era l’amato figlio.
Questa nuova versione latina ispirò canti popolari e leggende che i contadini si tramandavano da padre in figlio.
Nel 1217 papa Onorio III dedicò la chiesa di S. Bonifacio anche al leggendario s. Alessio; dell’antica chiesa, dopo i vari rifacimenti non è rimasto quasi nulla, nell’attuale basilica barocca, c’è
la Cappella di S. Alessio e in essa è contenuto un frammento lungo circa un metro della scala sotto la quale il santo dormiva, il frammento sovrasta la statua in marmo, raffigurante s. Alessio sul letto di morte, vestito da pellegrino di Santiago, opera dello scultore Antonio Bergondi, seguace del Bernini.
Testimonianza artistica sulla sua vita è il ciclo di affreschi di fine XI secolo, situato nella chiesa inferiore di San Clemente a Roma; in questo ciclo compaiono già gli attributi che lo identificano, come la scala, il bastone da pellegrino, la lettera nella mano serrata dalla morte, che verranno poi ripresi dai tanti artisti che lo hanno raffigurato nei secoli successivi.
A conclusione è opportuno notare come il numero 17 compaia più volte nella vita di s. Alessio; 17 sono gli anni passati ad Edessa e 17 quelli trascorsi a Roma in casa de padre; il 17 luglio è la data ritenuta della sua morte, come pure egli viene celebrato in Oriente il 17 marzo e in Occidente il 17 luglio.
Ancora oggi nella Basilica di S. Alessio sull’Aventino, molte coppie di sposi vogliono qui celebrare il loro matrimonio. 

Autore: Antonio Borrelli 

Publié dans:Santi |on 17 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Bonaventura da Bagnoregio

dal sito:

http://www.riflessioni.it/enciclopedia/bonaventura.htm

Enciclopedia


Bonaventura da Bagnoregio

Catalogo libri di Bonaventura da Bagnoregio
 

Bonaventura da Bagnoregio, santo e dottore della Chiesa (Bagnoregio 1221-Lione 1274). Da bambino fu miracolosamente guarito da San Francesco; si recò poi a Parigi per compiervi i suoi studi e seguì le lezioni di Alessandro di Hales, di Giovanni de
La Rochelle e di Eudes Rigault. In questo periodo entrò nell’ordine dei frati minori e approfondì lo studio di
Sant’Agostino, non trascurando però le dottrine aristoteliche. Nel 1248 divenne baccelliere e fu espositore della Sacra Scrittura; dal 1253 al 1254 spiegò le Sentenze di Pietro Lombardo e conseguì la licenza, ma solo nel 1257, per la lotta allora in corso all’università parigina contro i regolari, ebbe il titolo di maestro. Dovette però abbandonare l’insegnamento per la sua nomina a ministro generale del suo ordine, carica che Bonaventura occupò con grande zelo e dignità fino al 1273, quando Gregorio X lo elevò alla sacra porpora. Partecipò al Concilio di Lione, dedicandosi con grande entusiasmo all’unità delle Chiese, ma qui lo colse la morte. Sisto IV lo elevò agli onori dell’altare nel 1482 e lo dichiarò dottore della Chiesa e nel 1588 Sisto V lo mise sullo stesso piano di dignità con San Tommaso, dichiarandolo Ecclesiae doctor eximius et egregius. Delle opere di Bonaventura esiste un’edizione critica a cura dei frati minori di Quaracchi: S. Bonaventurae opera omnia (1883-1902). Fra di esse, per la loro particolare importanza, si ricordano: Commentarii in quattuor libros Sententiarum Petri Lombardi, Itinerarium mentis in Deum, De reductione artium ad theologiam, De triplici via, Collationes in Hexaemeron, Breviloquium, De donis Spiritus Sancti, De scientia Christi. Bonaventura è il filosofo dell’amore. Il fine della vita dell’uomo è l’amore di Dio; il cammino che vi conduce è illustrato dalla teologia e costituisce l’itinerarium dell’anima verso Dio. Ma in questo cammino interviene inevitabilmente anche la filosofia. Essa è intesa da Bonaventura in stretta unità e al tempo stesso in chiara distinzione con la teologia. Filosofia e teologia sono in stretta relazione e si completano l’una con l’altra. Nell’uomo vi è un’invincibile tendenza al bene infinito, ma la conoscenza che l’uomo ha di questo bene è, in Terra, ancora imperfetta. La certezza di questo bene si esprime nella fede, l’incertezza della conoscenza di questo bene si manifesta nella filosofia. Tuttavia la filosofia stessa si presenta come necessaria proprio all’interno della logica dell’amore. Chi ama vuol conoscere l’oggetto che ama e le ragioni del suo amore. Nulla è più dolce di questo bisogno del cuore. E questo cammino, da un lato tutto umano, perché volto alla ricerca delle ragioni, dall’altro tutto religioso, perché sorretto e reso possibile soltanto da una divina illuminazione, è l’itinerarium mentis in Deum. In questo cammino, le cose si presentano come segni dell’amore di Dio. Il compito dell’uomo è interpretare tali segni. Ora tale interpretazione, nello spirito della tradizione francescana, si presenta come una sorta di purificazione, come un atteggiamento mistico che l’uomo deve assumere. Attraverso questa purificazione sarà possibile passare dalle creature al Creatore, sia perché in ogni cosa è presente in qualche modo Dio, sia perché qualsiasi operazione intellettuale di ricerca suppone una contemporanea illuminazione divina. Si capisce quindi il senso dell’ontologismo di Bonaventura. L’argomento ontologico di S. Anselmo viene senz’altro accettato, né potrebbe essere diversamente. Infatti per Bonaventura l’esistenza di Dio non è la conclusione a cui si perviene attraverso un atto di conoscenza, ma, al contrario, la nostra conoscenza di Dio è possibile solo in quanto Lui è già presente in noi. La nostra conoscenza presuppone la sua esistenza. Questo non significa tuttavia che noi cogliamo l’essenza di Dio, così come la visione del mondo quale espressione di Dio non implica la conoscenza delle rationes aeternae. Si potrebbe dire che noi vediamo non tanto Dio e le leggi eterne del mondo, quanto piuttosto che noi vediamo in Deo et in rationibus aeternis l’intera natura. 

FILOSOFIA: GRADI DELLA VIA MISTICA
L’uomo ha un triplice occhio, l’occhio della carne, l’occhio della ragione e quello della contemplazione. Di qui scaturiscono i tre momenti dell’ascesa mistica di Bonaventura. Anzitutto si ritrova Dio nel mondo sensibile, poi nella nostra
anima, infine lo si coglie direttamente nell’esperienza mistica dell’adorazione. Ma poiché ciascuno di questi momenti si divide in due fasi, la prima in cui si coglie la traccia dell’agire divino, la seconda in cui si coglie l’agire divino, i gradi dell’ascesa mistica bonaventuriana sono sei. In tale contesto si inserisce la soluzione di problemi tipici dell’epoca, come la discussione sulle facoltà dell’anima, sull’eternità del mondo e sul problema dell’individuazione. L’anima è essenzialmente unica, ma possiede diverse funzioni. Intelletto potenziale e intelletto agente sono due funzioni distinte, ma non nel senso che l’uno sia solo potenza e l’altro sia solo atto. La loro distinzione non implica opposizione, ma anzi suppone correlazione, ché altrimenti non si spiegherebbe l’unità dell’intelletto né sarebbe possibile l’astrazione che fa passare dal dato sensibile a quello intellegibile. 

FILOSOFIA: CONCILIAZIONE ARISTOTELICO-AGOSTINIANA
Nella teoria dell’astrazione ci troviamo di fronte a uno dei tentativi di conciliazione, consueti in Bonaventura, tra tradizione aristotelica e pensiero agostiniano. Infatti l’astrazione è un processo necessario alla conoscenza del sensibile, e qui la sensazione è aristotelicamente una passione, ma non è necessaria per giungere alla conoscenza del soprasensibile, e qui compare la tradizione agostiniana della conoscenza come pura azione dell’anima. Quanto al mondo, esso, dal punto di vista di Bonaventura, non può assolutamente essere eterno; e ciò, diversamente che per
S. Tommaso, non solo per ragioni di fede, ma anche per motivi razionali; poiché se così non fosse si cadrebbe in un’infinita serie di contraddizioni. Infatti, come sarebbe possibile pensare a un mondo infinito quanto al tempo, ma la cui durata contemporaneamente si prolunga con il trascorrere dei giorni? Oppure come si potrebbe ammettere che due infiniti tra loro identici, in quanto entrambi infiniti, come il numero delle rivoluzioni lunari e quello delle rivoluzioni solari siano in realtà diversi, e precisamente l’uno dodici volte superiore all’altro? Esistono dunque motivi di ragione che portano a concludere alla non eternità del mondo e alla sua creazione nel tempo. Infine, per quanto concerne il problema dell’individuazione, Bonaventura afferma che tale principio non consiste nella materia (che tra l’altro egli vede presente in ogni creatura, compresi gli angeli), ma nella pluralità di forme che nell’unione con la materia determinano l’individuo nella sua specificità. Proprio questa soluzione del problema dell’individuazione consente a Bonaventura di affermare recisamente la sostanzialità dell’anima e la profonda unità di anima e corpo. Di qui si intende come la libertà e l’immortalità siano proprietà specifiche dell’anima, e come si possano anche intendere i condizionamenti che possono provenire allo stesso operare spirituale da parte esterna. Nell’anima si ritrova una tendenza all’infinito che è la garanzia della sua libertà. Proprio perché nessun oggetto finito costituisce un suo oggetto adeguato, l’anima è libera. Infatti nessun bene finito può condizionare l’uomo, né alcuna condizione particolare è richiesta per indirizzarsi verso quel bene infinito che è Dio. Termini come libertà e volontà vengono così a corrispondersi. Infatti non è la conoscenza, non è cioè l’intelletto che ci indirizza a Dio, ma è una tendenza naturale, che per un atto di volontà si decide di seguire. Ed è ancora questa tendenza naturale all’infinito che testimonia dell’immortalità dell’anima. La sua tendenza alla beatitudine, che non può essere se non eterna e la semplicità del suo operare, che esclude ogni possibilità di corruzione, provano l’immortalità dell’anima. La sinderesi, la tendenza naturale al bene presente nell’uomo, si rivela così come il segno di quell’invito che Dio fa all’uomo per un cammino di amore che in Lui culmini. 

FILOSOFIA: INFLUENZE ESTERNE E ORIGINALITÀ
La filosofia di Bonaventura risente di una molteplicità di tradizioni, che ricomprendono sia il pensiero di
Aristotele sia quello di Avicenna, di Avicebron e di Sant’Agostino. In certi punti si potrebbe persino cogliere un certo eclettismo. Ciò che in ogni caso è profondamente originale è il modo con cui Bonaventura affronta l’insieme dei problemi. Il suo fu chiamato un misticismo teorico, proprio perché il nucleo più profondo del suo pensiero è quello che lo ricollega alla tradizione agostiniana e allo spirito autenticamente francescano. Ma egli rivive personalmente questa tradizione mistica dotandola di un impianto dottrinale e teorico. Ciò detto, occorre riconoscere che non esiste per Bonaventura alcun sistema dialettico vero se non a partire dalla fede. La radicale eteronomia della filosofia e della natura che da questi principi deriva, in quanto tutto, dal pensiero alla natura, trova origine e significato solo all’interno di Dio; non culmina tuttavia in una svalutazione della filosofia e della natura, ma anzi in un loro riconoscimento quali gradini per giungere fino a Dio. Bonaventura è il filosofo dell’amore non solo perché egli vede nell’anima umana una tendenza infinita che la spinge verso l’amore di Dio, ma anche per quell’amoroso rispetto con cui egli si volge al creato, inteso come espressione di Dio. E questa è la fedeltà ultima e più profonda allo spirito del misticismo francescano. 

 

Publié dans:Santi |on 15 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

SAN BENEDETTO – LA SANTA REGOLA – Capitolo VII – L’umiltà

dal sito:

 

http://www.maranatha.it/Testi/TestiVari/Testi2Text.htm#VI

 

SAN BENEDETTO –

LA SANTA REGOLA 

 

Capitolo VII – L’umiltà  

1.  La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: « Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato ». 

2. Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, 

3. dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: « Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me ». 

4. E allora? « Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre ». 

5. Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, 

6. bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli. 

7. Non c’è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l’umiltà si sale. 

8. La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo; 

9. noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l’anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire. 

10.  Dunque il primo grado dell’umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, 

11.    si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all’inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti. 

12.   In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, 

13.   l’uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli. 

14.   E’ ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: « Dio scruta le reni e i cuori » 

15.   come pure: « Dio conosce i pensieri degli uomini ». 

16.   Poi aggiunge: « Hai intuito di lontano i miei pensieri » 

17.   e infine: « Il pensiero dell’uomo sarà svelato dinanzi a te ». 

18.   Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: « Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia ». 

19.   Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che
la Scrittura ci dice: « Allontanati dalle tue voglie » 

20. e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà. 

21.   Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui
la Scrittura dice: « Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell’inferno » 

22. e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: « Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza ». 

23. Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: « Ogni mio desiderio sta davanti a te ». 

24. Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere. 

25. Per questa ragione
la Scrittura prescrive: « Non seguire le tue voglie ». 

26. Se dunque « gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi » 

27. e se « il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio », 

28. se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi, 

29. bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e, 

30. pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: « Hai fatto questo e ho taciuto ». 

31.   Il secondo grado dell’umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri, 

32. ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: « Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato ». 

33. Cosa » pure un antico testo afferma: « La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio ». 

34. Terzo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l’Apostolo dice: « Fatto obbediente fino alla morte ». 

35. Il quarto grado dell’umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell’esercizio dell’obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza 

36. e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura:  » Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato ». 

37. E ancora: « Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore ». 

38. E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: « Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello ». 

39. Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: « E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato », 

40. mentre altrove
la Scrittura dice: « Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l’argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni ». 

41.   E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: « Hai posto degli uomini sopra il nostro capo ». 

42. Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l’altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due, 

43. come l’Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie. 

44. Il quinto grado dell’umiltà consiste nel manifestare con un’umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell’animo o le colpe commesse in segreto, 

45. secondo l’esortazione della Scrittura, che dice: « Manifesta al Signore la tua via e spera in lui ». 

46. E anche: « Aprite l’animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia », 

47. mentre il profeta esclama: « Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa. 

48. Ho detto: « confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore » e tu hai perdonato la malizia del mio cuore ». 

49. Il sesto grado dell’umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l’obbedienza, 

50. ripetendo a se stesso con il profeta: « Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te ». 

51.   Il settimo grado dell’umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell’esserne convinto dal profondo del cuore, 

52. umiliandosi e dicendo con il profeta: « Ora io sono un verme e non un uomo, l’obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe »; 

53. « Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso » 

54. e ancora: « Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge ». 

55. L’ottavo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l’esempio dei superiori e degli anziani. 

56. Il nono grado dell’umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato, 

57. perché
la Scrittura insegna che « nelle molte parole non manca il peccato » 

58. e che « l’uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra ». 

59. Il decimo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: « Lo stolto nel ridere alza la voce ». 

60. L’undicesimo grado dell’umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce, 

61.   come sta scritto: « Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare ». 

62. Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, 

63. in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi; 

64. e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, 

65. ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: « Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo ». 

66. E ancora con il profeta: « Mi sono sempre curvato e umiliato ». 

67. Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; 

68. per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all’abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; 

69. in altre parole non più per timore dell’inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. 

70. Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati. 

 

 

Publié dans:Santi |on 11 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Sant’Atanasio – 2.5.07

per Sant’Atanasio ho trovato solo (il meglio) dal sito « Santi e beati »: 

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23100

Atanasio, nato ad Alessandria d’Egitto nel 295, è la figura più drammatica e sconvolgente della ricca galleria dei Padri della Chiesa. Caparbio difensore della ortodossia durante la grande crisi ariana, immediatamente dopo il concilio di Nicea, pagò la sua eroica resistenza alla dilagante eresia con ben cinque esili inflittigli dagli imperatori Costantino, Costanzo, Giuliano e Valente. Ario, un sacerdote uscito dal seno stesso della Chiesa d’Alessandria, negando l’uguaglianza sostanziale tra il Padre e il Figlio, minacciava di colpire al cuore il cristianesimo. Infatti, se il Cristo non è il Figlio di Dio, e non è egli stesso Dio, a che cosa si riduce la redenzione dell’umanità?
In un mondo che si risvegliò improvvisamente ariano, secondo la celebre frase di S. Girolamo, restava ancora in piedi un grande lottatore, Atanasio, elevato trentatreenne alla prestigiosa sede episcopale di Alessandria. Aveva la tempra del lottatore e quando c’era da dar battaglia agli avversari era il primo a partire con la lancia in resta: « Io mi rallegro di dovermi difendere », scrisse nella sua Apologia per la fuga. Atanasio di coraggio ne aveva da vendere, ma sapendo con chi aveva a che fare (tra le tante accuse mossegli dai suoi denigratori ci fu quella di aver assassinato il vescovo Arsenio, che poi risultò vivo e vegeto!), non stava ad aspettare in casa che lo venissero ad ammanettare. Talvolta le sue fughe hanno del rocambolesco. Egli stesso ce ne parla con molto brio.
Trascorse i suoi due ultimi esili nel deserto, presso gli amici monaci, questi simpatici anarchici della vita cristiana, che pur rifuggendo dalle normali strutture dell’organizzazione sociale ed ecclesiastica, si trovavano bene in compagnia di un vescovo autoritario e intransigente come Atanasio. Per essi il battagliero vescovo di Alessandria scrisse una grande opera,
la Storia degli ariani, dedicata ai monaci, di cui ci restano poche pagine, sufficienti tuttavia per rivelarci apertamente il temperamento di Atanasio: sa di parlare con uomini che non intendono metafore e allora dice pane al pane: sbeffeggia l’imperatore, chiamandolo con nomignoli irrispettosi e mette in burletta gli avversari; ma parla con calore e slancio delle verità che gli premono, per strappare i fedeli alle grinfie dei falsi pastori.
Durante le numerose involontarie peregrinazioni fu anche in Occidente, a Roma e a Treviri, dove fece conoscere il monachesimo egiziano, come stato di vita organizzato in maniera del tutto originale nel deserto, presentando il monaco ideale, nella suggestiva figura di un anacoreta, S. Antonio, di cui scrisse la celebre Vita, che si può considerare una specie di manifesto del monachesimo.

santatanasio.jpg 

Publié dans:Santi |on 2 mai, 2007 |Pas de commentaires »
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