Archive pour la catégorie 'Santi'

SAN LUCA EVANGELISTA – 18 OTTOBRE

http://www.santiebeati.it/dettaglio/21800

SAN LUCA EVANGELISTA

18 OTTOBRE

ANTIOCHIA DI SIRIA – ROMA (?) – PRIMO SECOLO DOPO CRISTO

Figlio di pagani, Luca appartiene alla seconda generazione cristiana. Compagno e collaboratore di san Paolo, che lo chiama «il caro medico», è soprattutto l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli. Al suo Vangelo premette due capitoli nei quali racconta la nascita e l’infanzia di Gesù. In essi risalta la figura di Maria, la «serva del Signore, benedetta fra tutte le donne». Il cuore dell’opera, invece, è costituito da una serie di capitoli che riportano la predicazione da Gesù tenuta nel viaggio ideale che lo porta dalla Galilea a Gerusalemme. Anche gli Atti degli Apostoli descrivono un viaggio: la progressione gloriosa del Vangelo da Gerusalemme all’Asia Minore, alla Grecia fino a Roma.
Protagonisti di questa impresa esaltante sono Pietro e Paolo. A un livello superiore il vero protagonista è lo Spirito Santo, che a Pentecoste scende sugli Apostoli e li guida nell’annuncio del Vangelo agli Ebrei e ai pagani. Da osservatore attento, Luca conosce le debolezze della comunità cristiana così come ha preso atto che la venuta del Signore non è imminente. Dischiude dunque l’orizzonte storico della comunità cristiana, destinata a crescere e a moltiplicarsi per la diffusione del Vangelo. Secondo la tradizione, Luca morì martire a Patrasso in Grecia.

Patronato: Artisti, Pittori, Scultori, Medici, Chirurghi
Etimologia: Luca = nativo della Lucania, dal latino

Emblema: Bue
Martirologio Romano: Festa di san Luca, Evangelista, che, secondo la tradizione, nato ad Antiochia da famiglia pagana e medico di professione, si convertì alla fede in Cristo. Divenuto compagno carissimo di san Paolo Apostolo, sistemò con cura nel Vangelo tutte le opere e gli insegnamenti di Gesù, divenendo scriba della mansuetudine di Cristo, e narrò negli Atti degli Apostoli gli inizi della vita della Chiesa fino al primo soggiorno di Paolo a Roma.
I medici-chirurghi sono cristianamente sotto la protezione dei Santi Cosma e Damiano, i martiri guaritori anargiri vissuti nel III secolo e attivi gratuitamente in Siria. Anche altri santi “minori “ sono invocati, specialmente per alcune branche specialistiche come l’oculistica e l’odontoiatria. Ma il principe patrono della categoria è, senza ombra di dubbio, San Luca evangelista, che una lunga tradizione vuole originario di Antiochia, tanto da essere denominato “il medico antiocheno”.
Come è noto, tale importante città, che corrisponde all’attuale Antakia nella Turchia sudorientale, fu fondata quale capitale del regno di Siria nel 301 a.C.; vi fiorì una numerosa colonia giudaica e fu poi sede di una delle più antiche comunità cristiane. Luca, il cui nome è probabilmente abbreviazione di Lucano, vi nacque come pagano, ma diventò proselita o quanto meno simpatizzante della religione ebraica.
Egli non era discepolo di Gesù di Nazaret; si convertì dopo, pur non figurando nemmeno come uno dei primitivi settantadue discepoli. Diventò membro della comunità cristiana antiochena, probabilmente verso l’anno 40. Fu poi compagno di San Paolo (Tarso, inizio I° secolo/ forse 8 d.C.-Roma, 67 ca.) in alcuni suoi viaggi. Lo si trova con l’apostolo delle genti a Filippi, Gerusalemme e Roma. Sostanzialmente suo discepolo, condivise la visione universale paolina della nuova religione e, allorché decise di scrivere le proprie opere, lo fece soprattutto per le comunità evangelizzate da Paolo, ossia in genere per convertiti dal paganesimo. Si incontrò tuttavia anche con San Giacomo il Minore, capo della Chiesa di Gerusalemme, con San Pietro, più a lungo con San Barnaba e forse con San Marco.
La qualifica di medico attribuita a Luca viene confermata, secondo gli studiosi, dall’esame interno delle sue opere. La sua cultura e la preparazione specifica erano sicuramente note tra le comunità di cui faceva parte; potrebbe addirittura avere curato la Madre del Signore. Certamente la sua cultura generale e la sua esperienza degli uomini erano piuttosto notevoli. Prove ne siano lo stile e l’uso della lingua greca nonché la struttura stessa dei suoi scritti: il terzo Vangelo e gli Atti degli Apostoli. La data di composizione degli Atti viene fatta risalire agli anni 63-64, quella del Vangelo ad un anno o due prima. Luca coltivava anche l’arte e la letteratura. Un’antica tradizione lo vuole addirittura autore di alcune “Madonne” che si venerano ancora ai nostri giorni, come in Santa Maria Maggiore a Roma.
Egli è il solo evangelista a dilungarsi sull’infanzia di Gesù ed a narrare episodi della vita della Madonna che gli altri tre non hanno riferito. Le fonti della sua narrazione furono i racconti dei discepoli e delle donne che vissero al seguito di Gesù; quasi sicuramente i Vangeli di Matteo e di Marco, che lui conosceva. Con la precisione cronologica e spesso geografica con la quale riferì delle vicende del Vangelo, così egli, insieme a tanta passione, raccontò negli Atti i primi passi della comunità cristiana dopo la Pentecoste.
Per alcuni studiosi Luca avrebbe scritto parecchio nella regione della Beozia, regione dell’antica Grecia confinante a sud con il golfo di Corinto e l’Attica. Tale regione fu sede di regni importanti come quello di Tebe. Per i Greci addirittura l’evangelista sarebbe morto in quei luoghi all’età di ottantaquattro anni, senza essersi mai sposato e senza avere avuto figli. Per altri invece egli sarebbe morto in Bitinia, regione nord-occidentale dell’odierna Turchia.
Per la verità nulla di certo si sa della vita di Luca dopo la morte di San Paolo. Addirittura non si conosce sicuramente se egli abbia terminato la propria esistenza terrena con una morte naturale oppure come martire appeso ad un olivo. Ovviamente ignoto è il luogo della prima sepoltura. Vi sono tre città soprattutto che si appellano ad una tradizione di traslazione del corpo dell’evangelista: Costantinopoli, Padova e Venezia. Sono città quindi intorno alle quali e dalle quali si diffuse il suo culto. Recentissimi studi avrebbero dimostrato che sue sono le spoglie mortali, eccezione fatta per il capo, conservate a Padova nella basilica benedettina di Santa Giustina. In tale città veneta sarebbero giunte per sottrarle alla distruzione degli iconoclasti e là già nel XIV secolo fu per loro costruita una cappella ed un’Arca, detta appunto di San Luca.
II simbolo di San Luca evangelista è il vitello, animale sacrificale. II 18 ottobre viene celebrata nella Chiesa universale la sua solennità, la solennità di Colui che Dante ha definito lo “scriba della mansuetudine di Cristo” per il predominio, nel suo Vangelo, di immagini di mitezza, di gioia e di amore.

Autore: Mario Benatti

Publié dans:Santi, Santi Evangelisti |on 17 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

SCRITTI DEI SANTI SULL’ADORAZIONE – SANTA TERESA D’AVILA – 15 OTTOBRE (m)

http://www.adorazioneeucaristica.it/scrittiteresaavila.htm

SCRITTI DEI SANTI SULL’ADORAZIONE

SANTA TERESA D’AVILA – 15 OTTOBRE (m)

«Mentre l’anima è ben lontana dall’aspettarsi di vedere qualcosa, e non le passa neppure per la mente, d’un tratto le si presenta tutta intera la visione che sconvolge le potenze e i sensi, riempiendola di timore e di turbamento, per poi darle una pace deliziosa e l’anima si ritrova con la cognizione di tali sublimi verità da non aver più bisogno di alcun maestro.»
“Niente ti turbi, niente ti spaventi. Tutto passa, Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto.
Chi ha Dio ha tutto. Dio solo basta.”
…Considerate, o Eterno Padre, che tanti flagelli, strapazzi e penosissime sofferenze non sono cose da dimenticarsi. Ed è dunque possibile, Creator mio, che un cuore tanto affettuoso come il vostro, sopporti che si faccia così poco conto, come ai nostri giorni, di ciò che vostro Figlio ha effettuato con tanto amore, unicamente per contentarvi e per obbedire ai vostri comandi, quando gli ingiungeste di amarci fino a lasciarsi nel SS. Sacramento, che ora gli eretici oltraggiano, distruggendo i suoi tabernacoli e demolendo le sue chiese?
Forse che vostro Figlio deve fare qualche altra cosa per contentarvi? Non ha Egli già fatto tutto? Non è forse bastato che durante la sua vita gli mancasse perfino ove posare la testa, continuamente sommerso nelle tribolazioni? Bisogna proprio che oggi venga privato anche delle sue chiese, ove convoca i suoi amici, di cui conosce la debolezza, e sa che in mezzo alle loro prove hanno bisogno di essere fortificati con quel cibo che loro dispensa? Non ha forse già soddisfatto abbastanza per il peccato di Adamo? Possibile che ogni qualvolta noi torniamo ad offendervi, la debba sempre pagare questo innocentissimo Agnello? Non lo permetterete più, o mio sovrano Signore! Si plachi ormai la vostra divina Maestà! Non ché considerare i nostri peccati, ricordate che a redimerci fu il vostro Figlio sacratissimo. Ricordate i suoi meriti, i meriti della sua gloriosissima Madre, quelli di tanti santi e di tanti martiri che sono morti per Voi!
…Gesù, dicendo al Padre dacci oggi il nostro pane quotidiano, sembra che domandi questo pane soltanto per un giorno, cioè per la durata di questo mondo, che può dirsi appunto di un giorno. Egli lo chiede anche per gli infelici che si danneranno e che nell’altra vita non lo potranno più godere. Se questi sventurati si lasciano vincere dal demonio, non è certo per colpa sua, perché Egli nella lotta non cessa mai d’incoraggiarli. Per questo essi non avranno mai di che scusarsi, né mai da lamentarsi dell’Eterno Padre se ha loro tolto quel pane quando ne avevano più bisogno. Suo Figlio infatti dice: Giacché, Padre, ha da essere per un giorno, permetti di passarmelo in schiavitù.
Il Padre ce lo dette e lo mandò nel mondo per sua propria volontà; ed ora per sua propria volontà il Figlio non vuole abbandonare il mondo, felice di rimanere con noi a maggior gaudio dei suoi amici e a confusione dei suoi avversari. Questo, secondo me, è il motivo per cui ha ripetuto oggi; questa la ragione per cui il Padre ci elargì quel Pane divinissimo, e ci dette in alimento perpetuo la manna di questa sacratissima Umanità. Noi ora la possiamo trovare quando vogliamo, per cui se moriamo di fame è unicamente per colpa nostra. L’anima troverà sempre nel SS. Sacramento, sotto qualsiasi aspetto lo consideri, grandi consolazioni e delizie; e dopo aver cominciato a gustare il Salvatore, non vi saranno prove, persecuzioni e travagli che non sopporterà facilmente.
…Un giorno, appena comunicata, mi fu dato d’intendere che il corpo sacratissimo di Cristo viene ricevuto nell’interno dell’anima dallo stesso suo Padre. Compresi chiaramente che le tre divine Persone sono dentro di noi e che il Padre gradisce molto l’ offerta che gli facciamo di suo Figlio, perché gli si offre la possibilità di trovare in Lui le sue delizie e le sue compiacenze anche sulla terra. Nell’anima abbiamo soltanto la divinità, non l’umanità, perciò l’offerta gli è così cara e preziosa, che ce ne ricompensa con immensi favori.
Compresi pure che il Padre lo riceve in sacrificio anche se il sacerdote è in peccato, salvo che all’infelice non sono concessi i favori come alle anime in grazia. E ciò, non perché manchi al Sacramento la virtù d’influire, dipendendo essa dalla compiacenza con cui il Padre accetta il sacrificio, ma per difetto di chi lo riceve, a quel modo che non è per difetto del sole se i suoi raggi non riverberano quando cadono sulla pece come quando battono sul cristallo. Se ora mi dovessi spiegare, mi farei meglio comprendere. Sono cose che importa molto conoscere. Grandi misteri avvengono nel nostro interno al momento della comunione. Il male è che questi nostri corpi non ce li lasciano godere!
…Se il temperamento o qualche infermità non permettono di pensare alla passione del Signore per essere troppo penosa, nessuno vieta di far compagnia a Gesù risorto, giacché l’abbiamo così vicino nel SS. Sacramento, in cui si trova glorificato. No, non si regge a tener sempre fisso il pensiero nei grandi tormenti che Gesù ha sofferto. Ma qui si può contemplarlo non già afflitto e dilacerato, versante sangue da ogni parte, stanco dei viaggi, perseguitato da quelli a cui ha fatto del bene e disconosciuto dai suoi stessi apostoli, ma rifulgente di gloria e privo di dolori, stimolante gli uni, animante gli altri, e nostro compagno nel SS. Sacramento, per il quale ci permette di pensare che, in procinto di salire al cielo, non si sia sentito di allontanarsi da noi neppure un poco.
Eppure, o mio Dio, io mi sono allontanata da Voi nella speranza di meglio servirvi!… Quando vi abbandonavo con il peccato, almeno non vi conoscevo, ma conoscervi, Signore, e credere di meglio avanzare abbandonandovi!… Oh che falsa strada avevo preso, Signore! Anzi, ero del tutto fuori strada! Ma Voi avete raddrizzato i miei passi, e dacché vi vedo a me vicino, vedo pure ogni bene. Non mi è più venuta una prova che, mirandovi innanzi ai tribunali, non abbia sopportato facilmente. Tutto si può sopportare con un amico così buono, con un così valoroso capitano che per primo entrò nei patimenti.
Egli aiuta e incoraggia, non viene mai meno, è un amico fedele. Per me, specialmente dopo quell’inganno, ho sempre riconosciuto e tuttora riconosco che non possiamo piacere a Dio, né Dio accorda le sue grazie se non per il tramite dell’Umanità sacratissima di Cristo, nel quale ha detto di compiacersi. Ne ho fatta molte volte l’esperienza, e me l’ha detto Lui stesso, per cui posso dire di aver veduto che per essere a parte dei segreti di Dio, bisogna passare per questa porta.
…Accostandoci al santissimo Sacramento con grande spirito di fede e di amore, una sola comunione credo che basti per lasciarci ricche. E che dire di tante? Ma sembra che ci accostiamo al Signore unicamente per cerimonia: ecco perché ne caviamo poco frutto. – O mondo miserabile che accechi chi vive in te, onde non veda i tesori che potrebbe acquistare con l’eterne ricchezze!…
“Mi baci coi baci di sua bocca!” Signore del cielo e della terra!… Possibile che così intimamente si possa godervi fin da questa vita mortale, e che così bene lo Spirito Santo ce lo dia a conoscere con queste parole dei Cantici che noi non vogliamo ancora capire? Oh, le delizie che voi riservate alle anime secondo queste parole! Quali tenerezze! Quali soavità!
Una sola di esse dovrebbe bastarci per liquefarci in Voi. Siate benedetto, Signore! No, non sarà mai per Voi che subiremo delle perdite. Per quali vie, per quanti mezzi ci dimostrate il vostro amore! Con le sofferenze, con i tormenti, con la vostra morte si dura, con la pazienza con cui ogni giorno sopportate e perdonate le ingiurie. E quasi ciò non bastasse lo dimostrate ancora con le parole che in questi Cantici rivolgete all’anima che vi ama, insegnandole a ripeterle pure a Voi. Sono parole che feriscono così al vivo, che senza il vostro aiuto, non saprei proprio come, sentendole, si possano sopportare.
…«C’è un modo in cui il Signore parla all’anima e a me sembra un segno sicurissimo della sua opera: è la visione intellettuale. Ha luogo così nell’intimo dell’anima e sembra di udire così chiaramente e al tempo stesso segretamente, con l’udito spirituale, pronunciare proprio dal Signore quelle parole, che lo stesso modo di intendere, insieme con ciò che la visione opera, rassicura e dà la certezza che il demonio non può intromettersi minimamente. I grandi effetti che lascia sono, appunto, motivo di crederlo; se non altro c’è la sicurezza che non procede dall’immaginazione, sicurezza che con un po’ di avvertenza si può sempre avere per le seguenti ragioni.
La prima perché c’è una evidente differenza circa la chiarezza del linguaggio: nelle parole di Dio essa è tale che ci si rende conto anche di una sola sillaba mancante e si ha il ricordo preciso del diverso modo in cui tale parole ci sono state dette.
La seconda, perché spesso non si pensava nemmeno a ciò a cui le parole si riferiscono – intendo dire che vengono all’improvviso, a volte anche mentre si sta in conversazione – e spesso riguardano cose mai pensate né credute possibili.
La terza, perché nelle parole di Dio l’anima è come una persona che ode, mentre in quelle dell’immaginazione è come una persona che va componendo a poco a poco ciò che ella stessa desidera udire.
La quarta, perché le parole sono assai diverse, e una sola di quelle divine fa capire molto più di quello che il nostro intelletto non potrebbe mettere insieme in così breve spazio di tempo. La quinta, perché insieme con le parole, spesso, in un modo che io non saprei spiegare, si comprende assai più di quello che significano, benché senza suoni».
…«Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha bisogno d’appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di sé, e molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata.
Ma questo non avviene molto di frequente; pertanto, al sopraggiungere di impegni, persecuzioni, sofferenze, quando non si può avere più tanta quiete, o in caso di aridità, Cristo è un ottimo amico, perché vedendolo come uomo, soggetto a debolezze e a sofferenze, ci è di compagnia.
Prendendoci l’abitudine, poi, è molto facile sentircelo vicino, anche se alcune volte avverrà di non poter fare né una cosa né l’altra. Per questo è bene non adoperarci a cercare consolazioni spirituali; qualsiasi cosa succeda, stiamo abbracciati alla croce, che è una grande cosa.
Il Signore restò privo di consolazione; fu lasciato solo nelle sue sofferenze; non abbandoniamolo noi, perché egli ci aiuterà a salire più in alto meglio di quanto avrebbe potuto fare ogni nostra diligenza e si allontanerà quando lo riterrà conveniente o quando vorrà trarre fuori l’anima da se stessa. Dio si compiace molto nel vedere un’anima prendere umilmente per mediatore suo Figlio e amarlo tanto che, pur volendo Sua Maestà elevarla a un altissimo grado di contemplazione, se ne riconosce indegna, dicendo con san Pietro: Allontanatevi da me, Signore, perché sono uomo peccatore (Lc 5,8)».

Publié dans:Santi, santi scritti |on 14 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

14 OTTOBRE: CALLISTO I PAPA

http://www.ecodelnulla.it/callisto-i-papa

14 OTTOBRE: CALLISTO I PAPA

Banchieri di Dio

di Emanuele Giusti,

Nella Vita del Sommo Pontefice San Callisto I Papa, don Giovanni Bosco ci parla di un uomo specchiato. Prodigo di miracoli, Callisto I dispensa guarigioni e converte frotte di pagani. Con la sagacia del nibbio si districa in un tempo ancora incerto per i cristiani, il regno dell’imperatore Alessandro, ultimo della dinastia dei Severi; ma si posa con la grazia della colomba sui personaggi in cui s’imbatte, riuscendo a seminare nei loro cuori i virgulti del Vangelo. Intorno al 222 la sua opera di proselitismo si fa troppo prorompente e passa il segno: ad un cenno dell’imperatore, Callisto viene incarcerato e martirizzato. Il suo corpo è gettato in un pozzo mentre la sua anima ascende al Regno dei Cieli. I suoi successori e i fedeli seguaci di Cristo, illuminati dal suo santo esempio di difensore dell’ortodossia e campione della fede, lo ricorderanno soprattutto per le maestose catacombe che da lui prendono il nome. Questo, almeno, è ciò che Don Bosco ci fa sapere.
Ma non fu Severo Alessandro a decretare il martirio di Callisto, dato che egli era salito al trono, tredicenne, solo in quell’anno. I suoi tutori erano occupati in ben altre beghe che non nel sedare un pontefice iperattivo e troppe erano state le assurdità del predecessore, l’incredibile Eliogabalo, per cominciare il nuovo regno massacrando cristiani. Probabilmente Callisto trovò la morte durante una sollevazione popolare. Don Bosco sbagliò per l’inevitabile pressappochismo storico di chi studiava su martirologi e storie ecclesiastiche, o volle glissare su dati che non hanno senso – quando non fanno danno – nell’economia di un’agiografia. In particolare non si servì, o non poté servirsi, di documenti che rendono in tinte ben diverse la figura di Callisto I. Sono le parole di un antipapa, Ippolito di Roma, che a Callisto si oppose con cieca e lunga determinazione.
Il cristianesimo era una religione giovane, priva di capi ma ricca di teste. La fragilità della Chiesa d’allora lasciava che chiunque avesse un minimo d’idee, d’eloquenza e d’autorità potesse dire la sua sulla natura del Cristo, di cui non era neppure chiaro da che parte venisse, se dall’indice di Dio o dal ventre di Maria (né se da qualche parte effettivamente venisse). Questa singolare libertà d’espressione generava una quantità innominabile di sette più o meno eterodosse il cui spettacolo, ai nostri occhi profani, è spesso motivo di confusione. La gerarchia di un’istituzione non ancora riconosciuta dalla legge non aveva speranze di emendare se stessa in modo efficace e tantomeno il vescovo di Roma aveva modo di dare concreto seguito al suo giudizio, quando condannava chicchessia per le sue idee in materia di fede. Alle scomuniche si rispondeva facilmente con gli scismi e le eresie fioccavano. È proprio nel seno di questo continuo e mutevole dibattito teologico e politico che s’inserisce la rancorosa descrizione che Ippolito ci fa di Callisto papa e uomo. Della sua opera in greco Refutatio omnium haeresium, meglio conosciuta come Philosophumena, il brillante Ippolito dedica un ampio capitolo del libro IX ad una filippica contro Callisto. Seguendo lo spirito dell’opera, attenta e capillare inquisizione di ogni eresia e superstizione presente e passata, Ippolito si scaglia contro dottrina teologica e politica penitenziale di questo papa indegno: oltre ad avallare e condividere l’eresia di Noeto (il cosiddetto monarchianismo modale) e tutti i suoi derivati, questo Callisto è lassista contro adulterio e fornicazione, favorevole al matrimonio del clero, nonché doppio, subdolo e manipolatore. Per rincarare la dose, dice Ippolito, quel papa Zefirino che lo designò suo successore era un asino ignorante, un avido imbecille. Ma per completare il quadro completamente negativo di un uomo che avversò fino allo scisma e che continuò ad odiare anche da morto, Ippolito riesuma da sotto la dignità papale la gioventù di Callisto. Il candido ritratto dipinto da Don Bosco, già qui sfregiato dalla dura critica dottrinale di Ippolito, trova adesso la sua ferita maggiore.
Al volgere del secondo secolo della nostra era, quando il figlio degenere di Marco Aurelio, Commodo, dava scandalo all’impero combattendo nell’arena, Callisto era uno degli schiavi di Carpoforo, famiglio dell’imperatore e seguace di Cristo. Secondo una consuetudine ben radicata negli usi del tempo, il ricco Carpoforo aveva concesso al suo schiavo una grossa somma di denaro da investire. Con questo cospicuo peculium Callisto avviò una banca di deposito e prestito, nel rione della Piscina Pubblica, sotto l’Aventino; volle dedicare i suoi servizi alle vedove e agli orfani e, naturalmente, a tutti i confratelli cristiani. I clienti accorrevano a versare il loro denaro nelle sue mani, rassicurati dal vigile Carpoforo, il cui nome era una garanzia. Ma ben presto, non è ben chiaro come, Callisto dilapidò il patrimonio ricevuto e perse anche il denaro dei depositi. Quando subodorò che qualcuno aveva spifferato a Carpoforo quanto male gli andassero gli affari, spaventato dall’ira del padrone che in lui aveva riposto fiducia e fama, Callisto si fece uccel di bosco. Fuggì fino a Porto, presso Ostia, e s’imbarcò sulla prima nave in partenza: sarebbe andato dovunque fosse diretta, pur di sfuggire alle grinfie dei creditori e del padrone. Ma Carpoforo, messo in guardia da quanto sapeva, gli aveva dato la caccia, indovinandone la meta. L’imbarcazione scelta dallo schiavo come estremo rifugio era ancorata in mezzo alla rada, e il suo nocchiere manovrava senza fretta; Callisto distinse chiaramente Carpoforo che si sbracciava sul molo e, sentendosi braccato, decise per il suicidio. Si diede al mare senza pensarci due volte, ma i marinai, messi in allarme da Carpoforo, si calarono in acqua e arpionarono il tentato suicida, così restituito al padrone. Questi lo spedì alle macine, ma ben presto si lasciò convincere a rilasciare Callisto. I creditori, convinti che lo schiavo avesse ancora i loro soldi, avevano interceduto per lui; ma sarebbero rimasti con un palmo di naso, perché Callisto era completamente al verde.
Ben sapendo di essere spacciato, il futuro papa cercò di nuovo la morte, stavolta con un’azione a dir poco spettacolare. Aspettò il sabato successivo, entrò in una sinagoga e cominciò a insultare pesantemente gli ebrei, disturbando le sacrosante letture talmudiche. I giudei lo fecero nero come un fico di Cartagine e lo trascinarono davanti al prefetto urbano, Fusciano. Quell’odioso Callisto, dicevano gli ebrei, aveva violato il loro diritto di culto, interrompendo i loro riti, perché cristiano. Carpoforo, di nuovo messo sul chi vive dai rapidi rumores dell’Urbe, si era precipitato ai ginocchi di Fusciano, implorandolo di non ascoltare i perfidi giudei. Callisto non era un cristiano, ma semplicemente un bancarottaro fraudolento, che cercava di non pagare i suoi debiti nella maniera più infida, morendo. Convinto più dalla rabbia degli ebrei che dalle ambigue parole di Carpoforo, che forse faceva i suoi interessi di padrone, Fusciano spedì Callisto nelle miniere di Sardegna, ad metalla. Con la condanna, Carpoforo aveva perso ogni diritto su di lui. Prigioniero dei lavori forzati, ora Callisto era un uomo libero. Ma la Sardegna non l’avrebbe visto a lungo. Presto il presbitero Giacinto avrebbe condotto là una spedizione salvifica per conto dell’amante di Commodo, la cristiana e dissoluta Marcia. La donna aveva chiesto al pontefice di allora, Vittore, di redigere una lista di cristiani da prelevare e restituire alla libertà; approfittando dell’eccezionale evento, Callisto riuscì a farsi passare per cristiano, o quantomeno a convincere Giacinto a salvarlo, nonostante Vittore avesse consapevolmente escluso il suo nome dalla lista. Vittore non fu contento dell’astuzia sfacciata di Callisto ma, uomo compassionevole, decise di dargli una pensione e di collocarlo ad Anzio. Morto Vittore, il suo successore, Zefirino – l’imbecille – richiamò Callisto e gli assegnò la gestione di quel che nell’opinione dell’uomo che lo riscoprì, Giovan Battista de Rossi, era il principale e più famoso cimitero della comunità paleocristiana di Roma, le catacombe presso la porta Appia – dette appunto di San Callisto. Il malandrino avrebbe poi scalato la gerarchia della Chiesa, certo facendo uso delle sue arti melliflue, fino al soglio pontificio. Questa è l’avvelenata versione dell’antipapa Ippolito.
Dal dibattito che sorse alla metà del XIX secolo sulla paternità del Philosophoumena emerse, nel 1853, la vincente opinione di Ignaz von Dollinger, eminente teologo e storico tedesco, che l’attribuiva appunto ad Ippolito, anche contro il parere del de Rossi, che lo voleva di Tertulliano, e di chi ne aveva curato la prima edizione critica, uscita dalle stampe di Oxford nel 1851. Il lavorio sul testo di Ippolito, inizialmente attribuito ad Origene, permise di discernere la realtà dei fatti, dietro il velo di astio steso dall’antipapa. Con ogni probabilità, Callisto non aveva perso il denaro per sua colpa, non tentò di suicidarsi né con l’acqua né con gli ebrei (da cui anzi forse doveva riscuotere dei debiti), non si finse mai cristiano ma sempre lo fu sinceramente e non poté non avere doti significative se, tra i molti altri dotti seguaci, Zefirino lo scelse come suo successore. Inoltre, aldilà dello scontro dottrinario, è possibile che i dissapori tra Callisto e Ippolito nascessero principalmente dal fatto che essi erano i capi romani di due comunità cristiane differenti per lingua, Callisto di quella latina e Ippolito di quella greca.
Ippolito non era in difetto di testi che predicassero contro l’usura. Senza azzardare un contatto decisivo con Aristotele, che la stigmatizza nell’Etica Nicomachea, già il Vangelo secondo Luca si esprime negativamente su di essa; colpisce e fa riflettere sulla mutabilità, nel tempo, della percezione morale delle attività umane da parte dell’uomo stesso – di quanto il giusto sia una categoria costruita culturalmente – il fatto che agli occhi di Ippolito, Callisto era un uomo malvagio perché falso, ipocrita, intrigante, dissimulatore ed eretico, perché l’accusava a sua volta di eresia, perché aveva il cuore riempito di veleno. Perché aveva perso tutto il denaro suo ed altrui, perché aveva tentato il suicidio per futili motivi e perché si era salvato con l’inganno. Ma non perché era stato banchiere, quando un banchiere era sempre anche un usuraio.

 

Publié dans:Papi, Santi, Santi: memorie facoltative |on 13 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

SAN DIONIGI VESCOVO E MARTIRE III SEC. – 9 OTTOBRE

http://www.lacabalesta.it/testi/santi/dionigi.html

SAN DIONIGI VESCOVO E MARTIRE III SEC. – MEMORIA: 9 OTTOBRE

Primo Vescovo di Parigi, III secolo

Di questo Santo, spesso confuso con Dionigi l’Areopagina, che fu convertito da San Paolo, sappiamo poco di certo. Inviato da papa Fabiano ad evangelizzare la Gallia, fu decapitato a Parigi poco dopo la metà del III secolo insieme ai compagni Rustico ed Eleuterio.
Varie leggende sorsero intorno alla sua morte. Secondo alcuni fu flagellato e arrostito; mentre era incarcerato, venne Cristo stesso a porgergli l’ostia. Infine fu decapitato sulla collina di Mont Martre; dopo la decapitazione prese la sua testa e si avviò verso il luogo della sepoltura.

San Dionigi
Miniatura francese del 1250: San Dionigi in carcere riceve la Comunione da Gesù
I due compagni, di cui non parlano le fonti più antiche, sono visti oggi come personificazioni legate al nome del Santo, Dionigi, cioè letteralmente « Consacrato al dio Dioniso » (Bacco): Eleuterio è « Libero » (altro nome del dio Bacco) e Rustico « dei campi ». La scena in cui Dionigi prende in mano la sua testa sembra un’interpretazione ingenua dell’iconografia tradizionale, in cui il martire per decapitazione regge la propria testa fra le mani.
Verso la metà del V secolo Santa Genoveffa fece edificare a Parigi una prima chiesa dedicata a San Dionigi. Nel 639 re Dagoberto sistemò le reliquie in una grande chiesa abbaziale che divenne il centro spirituale della monarchia francese.
È patrono della casa reale di Francia; protegge contro il « mal francese » (la sifilide) e i morsi dei cani rabbiosi. Viene rappresentato in abito vescovile, con la propria testa fra le mani.

È uno dei quattrordici « Santi Ausiliatori ».

 

Publié dans:Santi |on 9 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

PAOLO DI TARSO EDUCATORE E MAESTRO

http://www.stpauls.it/coopera/0906cp/0906cp18.htm

PAOLO DI TARSO EDUCATORE E MAESTRO

L’Apostolo delle genti ha saputo portare il Vangelo con ardente novità. Ma è stato anche essere un grande formatore di cristiani. Nei suoi scritti troviamo insegnamenti ancora validi su come educare i giovani.
Paolo ha davvero molto da dirci, oltre che per aver messo al centro della sua vita Gesù Cristo, anche per il grande lascito all’umanità, di cui tutti siamo chiamati a farne tesoro.
Paolo di Tarso fu essenzialmente un operatore della parola, e in lui si incontrano e si fondono due grandi civiltà della parola: quella greca e quella ebraica. Dopo l’evento di Damasco nascono la predicazione di Cristo, la comunicazione dell’annuncio salvifico, l’educazione ai valori umani ed ai principi etici universali. Predicare, comunicare, educare: sono le tre azioni principali legate alla parola, che in Paolo trovano piena e feconda concretizzazione.
Paolo « parla », dunque. Ma, per noi, soprattutto « scrive »: allora la scrittura non era diffusa e le conoscenze venivano tramandate oralmente dagli anziani ai giovani.
Nel bimillenario della sua nascita, vogliamo rileggere in chiave educativa le Lettere scritte dall’Apostolo delle genti, per prendere più piena consapevolezza del suo pensiero, pedagogico in particolare, e per attualizzare, nell’oggi e in maniera feconda, il suo insegnamento..

Paolo educatore appassionato
Paolo è stato un educatore. Maestro di umanità, di virtù, di valori: « magister » nel senso più autentico del termine. Il libro degli Atti ci racconta come nelle primitive comunità cristiane c’erano dei « maestri » (didscaloi), cioè persone dedite all’insegnamento (e impegnate nello studio). « C’erano nella Chiesa di Antiochia profeti e maestri: Barnaba, Simone detto Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno di infanzia di Erode il tetrarca, e Saulo » (At 13,1).
L’insegnamento per un credente di quel tempo nasceva dallo studio delle Scritture. Studio che a Paolo non è servito soltanto per rafforzare la sua cultura personale, ma anche a far maturare l’intera personalità dell’uomo nuovo, che si era manifestato in lui. Il corpus delle sue Lettere, ci consegna una eredità pedagogica, davvero ricca che interpella anche la scuola d’oggi. Quelle stesse sollecitazioni educative rivolte da Paolo all’uomo del suo tempo, rimangono, dopo duemila anni, di pregnante attualità.
San Paolo è insieme teologo e filosofo: nel suo discorso nell’Areopago di Atene (At 17,16-34) si rivolge ad un attento uditorio di filosofi epicurei, che esaltavano la cultura dell’effimero e del piacere, e di filosofi stoici con la loro visione panteistica del mondo. Con le ammonizioni, le esortazioni, le indicazioni, ha dimostrato di essere anche un valente pedagogo. Passione per l’uomo, quale immenso capolavoro di Dio, ma anche attenzione per i suoi problemi comportamentali nella quotidianità dell’agire.
Ma Paolo è anche un esempio da imitare, perché ha accompagnato la predicazione della Parola con la testimonianza della vita. I paradigmi fondamentali del suo stile pedagogico sono la conoscenza e l’ascolto. Ascoltare la voce dello Spirito e conoscere una Persona, Cristo il Risorto. Non quindi una dottrina o una teoria, sebbene affascinanti e coinvolgenti, ma una Persona.
Ma in Paolo è fondamentale anche l’ascolto degli altri, ovvero dei ragionamenti dei cosiddetti « gentili », e la conoscenza dei fatti, delle circostanze, degli eventi per portarli a sostegno dei suoi convincimenti. In lui è sempre presente l’incontro con l’altro, il dialogo con gli altri. Ad Atene con il discorso all’Areopago, egli si apre al diverso, allo scettico, alla cultura dominante nella città greca. Incontra gli altri, che non sono ancora cristiani, non per strapparli alla loro cultura ed imporne una nuova, antitetica rispetto alla loro, ma per discutere, argomentare e colloquiare. Paolo adotta i loro punti di vista sui quali innesterà, con dolcezza e senza forzature, la vera e propria azione di cambiamento.
Paolo dialoga con le culture del suo tempo, dialoga con i collaboratori, primo tra tutti con Tito e Timoteo, ai quali indirizza tre lettere; dialoga con la gente comune, da convertire al cristianesimo.
Tenendo conto della sua matrice giudaica, della sua lingua greca, della sua prerogativa di civis romanus, Paolo è l’uomo delle tre culture.
Gli Atti degli Apostoli (19,9ss) riferiscono dell’incontro di Paolo con i giovani a Efeso e dell’insegnamento « a tutti quelli, giudei e greci, che abitavano in Asia nella scuola di Tiranno », un noto retore della città. Insegnamento che « durò per due anni », Nelle ore più calde della giornata. Instancabile educatore, dunque. Annunciando il Vangelo parla ovunque: nelle sinagoghe dei giudei e nelle piazze e nelle scuole delle città pagane. Inoltre Paolo, è bene sottolinearlo, non soltanto parla ma anche scrive, rivolgendosi ad intere comunità.
Il messaggio pedagogico di San Paolo non poggia, quindi, solo sulla tradizione (parádosis), cioè sulla trasmissione verbale di un annuncio codificato da altri (Paolo non ha mai incontrato direttamente Gesù Cristo), ma viene anche rafforzato dalla sapienza (sophia), dalla intelligenza di argomentare per iscritto le verità del kerygma, sia per gli iniziati (i pagani da convertire), sia per i più progrediti nella fede, che hanno già conosciuto la bontà misericordiosa di Dio.
La tradizione e l’intelligenza sapienziale stanno, quindi, alla base del suo insegnamento, che è rivolto soprattutto a consolidare forti legami tra le generazioni.

I consigli per i giovani
Circa il rapporto educativo tra i genitori ed i figli, che troviamo troviamo dei riferimenti specifici nelle Lettere inviate alle comunità di Corinto, di Colossi e di Efeso, e al suo collaboratore Timoteo.
Nella Seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12,14), Paolo si sofferma sul tema del « sostentamento ». Considerato non solo dal punto di vista materiale, ma anche morale. I genitori ad essere invitati a sostenere i figli e non viceversa. I padri non esauriscono mai i loro compiti di guida, sostegno e incoraggiamento.
La Lettera ai Colossesi (Col 3,20s) contiene una doppia esortazione educativa. La prima è rivolta ai figli: sono chiamati, in modo categorico, ad ubbidire ai genitori, ciò è gradito al Signore.
L’ubbidienza raccomandata ai giovani verso i genitori non è servile, di cieca sottomissione, ma una assunzione di reciproca responsabilità. Vive nell’affetto reciproco, nella stima e nello scambievole aiuto. Giacché anche gli adulti hanno qualcosa da apprendere da una corretta relazione.
Si ubbidisce non sotto la paura di eventuali punizioni o, viceversa, con la prospettiva di una ricompensa, bensì come bisogno interiore per rafforzare la propria personalità. Con Simone Weil, potremmo dire che « l’ubbidienza è un bisogno vitale dell’anima umana » ed inoltre « essendo un nutrimento necessario all’anima, chiunque ne sia definitivamente privo, è malato ».

L’esortazione per i genitori
La seconda esortazione educativa è rivolta ai padri. Il « non provocate » sta per « non esasperate », che presuppone il dialogo tra le generazioni, tra gli adulti e i giovani. A sua volta il dialogo favorisce, anzi richiede e pretende il confronto, quindi offre la disponibilità a rivedere le proprie posizioni, che non inficia l’autorevolezza. L’espressione « non si perdano di coraggio » equivale a « non scoraggiate ». Lo scoraggiamento porta dritto dritto al disinteresse ed elimina, peggio annulla, tutti le gratificazioni che sono essenzialmente di natura morale>>.
Non va dimenticata la circostanza che le riunioni cristiane (le ekklesìai) attestate nelle Lettere paoline, avvenivano in case private. La casa è, quindi, per Paolo il luogo naturale dell’incontro (talvolta anche dello scontro) tra i padri e i figli, lo spazio entro il quale far circolare ammonizioni, esortazioni, raccomandazioni.
Nei versetti 6,1-4 della Lettera agli Efesini, ritorna il richiamo all’obbedienza dei figli nei confronti dei genitori da praticare nel nome del Signore, un’esortazione con la quale Paolo sottolinea l’obbedienza di figli di Cristo, che si ottiene già con la grazia del battesimo.
L’ammonizione « non esasperate » (quasi identica al « non scoraggiate » di Colossesi) è posta in modo diretto, non è un semplice consiglio. L’esasperazione provoca l’ira, che arriva a sfociare anche in « bestemmie e oltraggi ». Torna qui la necessità del dialogo, dell’incontro, delle relazioni tra le persone.
Nella Prima Lettera a Timoteo, nei versetti 5,1-8, si scopre un’altra indicazione educativa.
L’invito è rivolto agli anziani ed ai giovani. Gli uni e gli altri membri della stessa famiglia. Gli anziani sono i padri e le madri, i fratelli e le sorelle sono i figli. In questi versetti Paolo riprende il valore del quarto comandamento, già esaminato nella Lettera agli Efesini (6,1-3). L’ammonimento di Paolo non è solo morale, ma questa volta anche materiale. Ai genitori in difficoltà va restituito, ovvero contraccambiato il bene ricevuto da piccoli.
Questo scambio di doni per Paolo non va inteso come compassione, commiserazione, bensì come la pietas romana, come riconoscimento, presa d’atto, dei doveri dei figli verso i genitori. La compassione diventa, allora, com-passione, cioè capacità di condivisione, di partecipazione l’uno con l’altro.

L’eredità pedagogica di Paolo
Ed è indubbio che anche l’educazione per essere valida ed efficace, deve togliere di mezzo la durezza del cuore, la casualità dei gesti, l’estemporaneità degli interventi: insomma tutto ciò che può essere d’ostacolo alla crescita umana dei figli, e dei giovani in genere. I quali per essere educati (nel senso di educati bene), debbono essere continuamente destinatari di esortazioni e di orientamenti.
Correzione (paideia) ed ammonizioni (nuthesia) sono vocaboli particolarmente forti nel linguaggio biblico. La paideia è la disciplina che usa tutti i mezzi per riportare i figli sulla retta via; l’ammonizione è il richiamo fatto con parole. Il binomio paideia-nuthesia indica, dunque, l’opera educativa del pedagogo delle scuole greco-romane, che però deve essere temperata nel Signore: anche per l’educazione il modello da imitare è sempre Cristo.
Nella Lettera agli Ebrei (attribuita a Paolo solo a partire dal secondo secolo), si legge che « ogni correzione sul momento, è vero, appare causa non di gioia, ma di dolore, ma più tardi porta in cambio un frutto pacifico di giustizia » (Eb 12,11). Chi ti vuol bene – recita un adagio popolare – ti fa piangere, chi ti vuol male, invece, ti fa ridere.
La correzione, dunque, non va intesa come costrizione (fare o non fare una cosa), ma come aiuto a non rimanere imbrigliati nell’errore, a risollevarsi e a riprendere la giusta via.
Come per San Paolo, il grande desiderio del Beato Alberione era di raggiungere tutti, per formare l’uomo a immagine di Cristo.
Come per San Paolo, il grande desiderio del Beato Alberione era di raggiungere tutti,
per formare l’uomo a immagine di Cristo.

Paolo, un modello da imitare
Quale conclusione si può trarre da questi brevi cenni tratti dall’epistolario paolino sull’educazione? San Paolo rimane un modello educativo da riscoprire. Un apostolo anche per il nostro tempo: egli è per noi un faro di luce, che rischiara le tetre ombre del disagio che vive oggi la scuola.
L’educazione al vero, al bene, al bello non è forse il cardine di quel pensiero pedagogico, che affonda le sue radici nella matrice personalistica cristiana sviluppatasi lungo il secolo scorso?
E allora possiamo concludere con l’esortazione rivolta da San Paolo ai Filippesi: « Tutto quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica » (Fil 4,8-9).

Teobaldo Guzzo 

Publié dans:San Paolo, Santi |on 6 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : SAN MATTEO APOSTOLO – 21 SETTEMBRE

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060830_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 agosto 2006

SAN MATTEO APOSTOLO – 21 SETTEMBRE

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.
Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.
Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano … non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo – “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

 

BENEDETTO XVI ANGELUS – SANTA MONICA

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/angelus/2009/documents/hf_ben-xvi_ang_20090830_it.html

BENEDETTO XVI

ANGELUS – SANTA MONICA

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo

Domenica, 30 agosto 2009

Cari fratelli e sorelle!

Tre giorni fa, il 27 agosto, abbiamo celebrato la memoria liturgica di santa Monica, madre di sant’Agostino, considerata modello e patrona delle madri cristiane. Di lei molte notizie ci vengono fornite dal figlio nel libro autobiografico Le confessioni, capolavoro tra i più letti di tutti i tempi. Qui apprendiamo che sant’Agostino bevve il nome di Gesù con il latte materno e fu educato dalla madre nella religione cristiana, i cui princìpi gli rimarranno impressi anche negli anni di sbandamento spirituale e morale. Monica non smise mai di pregare per lui e per la sua conversione, ed ebbe la consolazione di vederlo ritornare alla fede e ricevere il battesimo. Iddio esaudì le preghiere di questa santa mamma, alla quale il Vescovo di Tagaste aveva detto: “È impossibile che un figlio di tante lacrime vada perduto”. In verità, sant’Agostino non solo si convertì, ma decise di abbracciare la vita monastica e, ritornato in Africa, fondò egli stesso una comunità di monaci. Commoventi ed edificanti sono gli ultimi colloqui spirituali tra lui e la madre nella quiete di una casa di Ostia, in attesa di imbarcarsi per l’Africa. Ormai santa Monica era diventata, per questo suo figlio, “più che madre, la sorgente del suo cristianesimo”. Il suo unico desiderio era stato per anni la conversione di Agostino, che ora vedeva orientato addirittura verso una vita di consacrazione al servizio di Dio. Poteva pertanto morire contenta, ed effettivamente si spense il 27 agosto del 387, a 56 anni, dopo aver chiesto ai figli di non darsi pena per la sua sepoltura, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all’altare del Signore. Sant’Agostino ripeteva che sua madre lo aveva “generato due volte”.
La storia del cristianesimo è costellata di innumerevoli esempi di genitori santi e di autentiche famiglie cristiane, che hanno accompagnato la vita di generosi sacerdoti e pastori della Chiesa. Si pensi ai santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, entrambi appartenenti a famiglie di santi. Pensiamo, vicinissimi a noi, ai coniugi Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini, vissuti tra la fine del XIX secolo e la metà del 1900, beatificati dal mio venerato predecessore Giovanni Paolo II nell’ottobre del 2001, in coincidenza con i vent’anni dell’Esortazione Apostolica Familiaris consortio. Questo documento, oltre ad illustrare il valore del matrimonio e i compiti della famiglia, sollecita gli sposi a un particolare impegno nel cammino di santità, che, attingendo grazia e forza dal Sacramento del matrimonio, li accompagna lungo tutta la loro esistenza (cfr n. 56). Quando i coniugi si dedicano generosamente all’educazione dei figli, guidandoli e orientandoli alla scoperta del disegno d’amore di Dio, preparano quel fertile terreno spirituale dove scaturiscono e maturano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Si rivela così quanto siano intimamente legati e si illuminino a vicenda il matrimonio e la verginità, a partire dal loro comune radicamento nell’amore sponsale di Cristo.
Cari fratelli e sorelle, in quest’Anno Sacerdotale, preghiamo perché, “per intercessione del Santo Curato d’Ars, le famiglie cristiane divengano piccole chiese, in cui tutte le vocazioni e tutti i carismi, donati dallo Spirito Santo, possano essere accolti e valorizzati” (dalla Preghiera per l’Anno Sacerdotale). Ci ottenga questa grazia la Santa Vergine, che ora insieme invochiamo.

 

27 AGOSTO: SANTA MONICA – MADRE DI TANTE LACRIME

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/07-Luglio/Santa_Monica.html

27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387)

MONICA: MADRE DI TANTE LACRIME

Molte mamme di oggi non vivono tempi facili.
Non è stato facile nemmeno per Monica, la santa che ricordiamo nel mese di agosto. Anche lei ha dovuto tribolare non poco per il figlio Agostino.
Con un figlio adolescente in casa è difficile dormire sempre sonni tranquilli. Questo perché alcuni comportamenti dei figli sono fonte di apprensione e di preoccupazioni, di angoscia e di lacrime.
Educare un figlio o una figlia adolescente nella civiltà contadina e pre-industriale riservava meno problemi di oggi. La nostra società post-moderna (e qualcuno aggiunge anche post-cristiana) si qualifica per la sua forte connotazione consumistica. E nel grande mare del consumismo i giovani nuotano molto bene, grazie al sostegno finanziario dei genitori, spesso acriticamente generosi. Con i soldi facili (talvolta troppo facili) a portata di mano e con una personalità ancora non strutturata in quanto a valori e forza di volontà, l’adolescente cade più facilmente vittima dell’uso e dell’abuso del fumo, dell’alcol e della droga, dei divertimenti aggressivi e pericolosi, dei comportamenti devianti sfocianti, talvolta, nella prostituzione e nell’Aids. E i primi a essere angosciati e distrutti da queste tragedie sono i genitori.
Alcune mamme versano lacrime per i figli persi perché vittime delle sette pseudo religiose, o schiavi dei giochi d’azzardo, o diventati succubi delle cattive compagnie che li porteranno alla devianza sociale e ai guai con la legge. Altre piangono per i figli in carcere per propria colpa o all’ospedale per malattie incurabili di cui non hanno colpa.
Aspettate il prossimo fine settimana con la cosiddetta “febbre del sabato sera”, e ci sarà qualche mamma che in ansia aspetterà il ritorno del figlio o della figlia dalla discoteca (lo “sballo” settimanale). Purtroppo qualcuna cambierà la propria ansia in lacrime e dolore: il figlio che aspetta non tornerà più perché è già entrato nelle statistiche delle “vittime del sabato sera”.
A tutte queste mamme in difficoltà Monica, madre anche lei, può essere di aiuto e di conforto, di speranza e di esempio. Il figlio Agostino riconobbe che grande merito della propria conversione era della madre, grazie alle sue continue preghiere e alle tante lacrime versate. Si riferiva a questo fatto quando, nelle famose Confessioni, scrisse: “Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca”. E le tante lacrime erano di Monica e quel figlio che non poteva perire era lui stesso, Agostino.

MONICA VINSE IL VINO E CONVERTÌ IL MARITO
Monica nacque a Tagaste nell’odierna Algeria del nord, nell’anno 331, da genitori cristiani, ma che non erano eccessivamente preoccupati di dare una seria educazione cristiana ai figli (come molti genitori oggi). Se nel caso di Agostino l’educatrice alla fede e alla vita cristiana di ogni giorno fu la madre Monica, per quest’ultima fu invece la nutrice di famiglia, che aveva già tenuto in braccio suo padre.
Questa donna era quindi parte della famiglia, ben voluta, di ottima condotta e saggezza. E possiamo immaginare anche un po’ anziana. Agostino fa un grande elogio di lei: “Era energica nel punire con santa severità quando era opportuno e ricca di saggezza nell’istruire”. La dottrina del permissivismo in educazione, seguita da non pochi genitori ed educatori di oggi, non faceva parte del bagaglio di questa nutrice: era severa ma con saggezza, correggeva ma con tatto, sapeva anche punire ma con giustizia. Nei migliori trattati di pedagogia non deve mancare un capitolo sui “castighi” e giustamente. Questo anche perché il peccato originale e le sue conseguenze sono una verità di fede, e non è stato ancora cancellato (o superato) dalla tecnologia moderna. Del resto di castighi ne parlava un super educatore come Don Bosco, che di ragazzi se ne intendeva. Dice Agostino che la nutrice di sua madre era saggia nell’istruire e coscienziosa quando doveva correggerla.
Monica non era nata santa, lo diventò con pazienza, con costanza ed umiltà. Nella sua vita non riscontriamo, come in altre sante, una partenza bruciante sulla strada della perfezione evangelica fin da fanciulla. Aveva i propri difetti e difficoltà che seppe superare. Un esempio: a Monica piaceva il vino. E non poco. L’aveva raccontato lei stessa, nella sua grande umiltà, al figlio Agostino. Questo è segno di santità: “Quando i genitori credendola sobria, le ordinavano secondo i costumi, di andare ad attingere vino, ella, prima di versare il vino nel fiasco… ne beveva un pochino”. Solo un po’, naturalmente. All’inizio. Ma bevi oggi, bevi domani, la debolezza era diventata un’abitudine negativa, una schiavitù (oggi si direbbe una dipendenza).
La nutrice, alla quale non sfuggiva nulla e che aveva intuito tutto, ebbe il coraggio di intervenire. Un giorno, bisticciando con la ragazza le rinfacciò quella debolezza chiamandola “ubriacona”. Qualche “padroncina” di oggi avrebbe minacciato rappresaglie feroci o addirittura il licenziamento per quella “vecchia domestica” che osava tanto e non si faceva gli affari suoi. Monica invece accettò la verità anche se le faceva male, riconobbe l’abitudine non lodevole, e se ne liberò. Anche questo è santità.

TANTE PREGHIERE E LACRIME PER IL FIGLIO AGOSTINO
Nel 353 Monica andò sposa ad un certo Patrizio, romano, dal quale avrà tre figli. Questi non era cristiano, aveva un carattere un po’ violento e non era nemmeno un buon esempio di fedeltà. Una donna meno forte e convinta nella fede cristiana avrebbe invocato subito la separazione o il divorzio. Monica no, voleva rimanere fedele al proprio matrimonio (“nella buona e nella cattiva sorte”) ma senza chiudere gli occhi sulle “malefatte” del suo compagno di vita.
E così la seconda battaglia che lei vinse, dopo il vino, fu quella del marito. Battaglia paziente, dolorosa, lunga, ma vittoriosa: riuscì infatti a guadagnare al Signore anche lui. Questi morirà nel 371, dopo essere diventato buon cristiano grazie alla preghiera incessante, alle lacrime e alla pazienza della moglie Monica. Scrisse Agostino: “Così non ebbe più da piangere quelle sue infedeltà che aveva dovuto tollerare quando egli non era ancora credente”. Anche questo è santità.
Ma la più grande sofferenza e nello stesso tempo la più grande gioia a Monica arriveranno dal figlio Agostino. Lei stessa l’aveva educato cristianamente, con la parola e con l’esempio, gli aveva messo nel cuore e sulle labbra fin da bambino il nome di Gesù, che nonostante tutte le peripezie filosofiche ed esistenziali, non dimenticherà mai.
Già qualche anno prima della morte del marito, quel figlio tanto intelligente le dava molte preoccupazioni. Sarà lei stessa che nel 371 lo manderà a Cartagine a proseguire gli studi. E sarà nello stesso anno che Agostino incomincerà la convivenza (come si vede era molto “moderno”) con una donna, dalla quale, l’anno dopo, avrà anche un figlio, Adeodato. Questa scelta fuori dal matrimonio fu per Monica un duro colpo: vedeva infatti il figlio allontanarsi dagli insegnamenti che gli aveva dato e anche dalle regole della propria fede cristiana (era nel frattempo passato all’eresia manichea). Per questi motivi, tornato a Tagaste lei, pur tra le lacrime, in un primo tempo non volle riaverlo in casa, finché confortata da un sogno, lo riammise presso di sé.

AGOSTINO CONVERTITO: MISSIONE COMPIUTA
Nel 375 Agostino si trasferì a Cartagine per insegnarvi eloquenza, mentre dopo l’incontro col vescovo manicheo Fausto, cominciava la sua crisi filosofica. Monica continuò sempre a invitarlo al ritorno alla vera fede, e non cesserà mai di pregare, tra le lacrime, per la conversione del figlio.
Questi invece, con uno stratagemma, riuscì a sfuggirle, imbarcandosi nottetempo per Roma (383), dove, dopo aver superato una lunga malattia, cominciò ad insegnare eloquenza e retorica. Finché ottenne un posto, tramite il prefetto di Roma Simmaco, a Milano.
Forse Agostino credeva che più andava verso nord, più la madre rimaneva… lontana. E si sbagliava di grosso. Monica non aveva ormai nessun interesse, nessuna preoccupazione, nessun obiettivo terreno che la sua conversione. E questo amore, anche se tra le lacrime, non si lasciava spaventare dalle distanze e dai disagi che comportavano i viaggi di allora. E così Monica, per amore del figlio prodigo, fuggito lontano, dopo aver viaggiato con il mare in tempesta, arrivò nell’anno 385 a Milano, accompagnata da Navigio, fratello di Agostino.
Qui la Mano Provvidenziale di Dio li aspettava entrambi con l’incontro con il vescovo della città, Ambrogio “un uomo di Dio”, e un “vescovo noto in tutto il mondo”. Tutti e due seguirono le sue omelie, tutte e due rimasero molto bene impressionati (anche se Agostino all’inizio badava più alla forma retorica che alla sostanza). Ambrogio predicava, Monica pregava (e faceva opere di carità), Agostino pensava, e passava di crisi in crisi e di filosofia in filosofia, dal manicheismo allo scetticismo, dai neo accademici e ai neoplatonici. La grazia di Dio intanto, per vie misteriose come sempre, lavorava su tutti.
La tanto sospirata conversione di Agostino arrivò alla fine del 386, e con il battesimo suo (e del figlio Adeodato) per mano del vescovo Ambrogio nella Pasqua del 387. Questo era il sigillo sul grande travaglio di Agostino nella sua ricerca della verità, e la fine delle tante preghiere e lacrime di Monica per lui. Missione compiuta. Non aveva altri obiettivi terreni. Il Paradiso, questa volta, non poteva più attendere.
Alcuni mesi dopo il battesimo infatti progettarono di tornare in patria. Arrivati ad Ostia tutti e due, madre e figlio convertito, ebbero la famosa estasi di cui si parla nelle Confessioni. Era un piccolo saggio (di Dio) e assaggio per loro di vita eterna, che cambiò la prospettiva di vita per entrambi. Così Agostino riferisce le ultime parole della madre: “C’era una cosa sola per la quale desideravo rimanere un poco su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto a fare qui?”. Infatti moriva poco dopo, sempre a Ostia, all’età di 56 anni, mentre Agostino ne aveva 33, e stava per cominciare la sua prodigiosa opera. Grazie alla perseveranza, alla pazienza, al coraggio, alle preghiere e alle “tante lacrime” di una grande donna e di una grande madre, Monica.
MARIO SCUDU, sdb

NULLA È LONTANO DA DIO
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).

MONICA E AGOSTINO IN ESTASI A OSTIA
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).
Pochi giorni prima che lei morisse… accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli… C’era un grande silenzio… Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X). 

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 26 août, 2014 |Pas de commentaires »

“SENZA LA DOMENICA NON POSSIAMO VIVERE”

http://www.primeroscristianos.com/it/index.php/speciali/item/1189-la-celebrazione-dell-eucaristia-nella-chiesa-primitiva/1189-la-celebrazione-dell-eucaristia-nella-chiesa-primitiva

“SENZA LA DOMENICA NON POSSIAMO VIVERE”

Così vivevano l’Eucaristia i primi cristiani

Testimonianza degli Apologisti e dei Padri della Chiesa

San Giustino (165d.C.)
San Giustino spiega come veniva celebrata l’Eucaristia nei primi tempi
Si leggono le memorie degli Apostoli e gli scritti dei Profeti. Quando il lettore ha terminato, quello che presiede prende la parola per incitare ed esortare all’imitazione di cose tanto belle. Dopodiché ci alziamo e preghiamo per noi… e per tutti gli altri ovunque siano, affinché siamo trovati giusti nella nostra vita e nelle nostre azioni e siamo fedeli ai comandamenti, per raggiungere la salvazione eterna.
Dunque si porta a chi presiede il pane ed una coppa con vino ed acqua mescolati. Chi presiede li prende ed innalza lodi e gloria al Padre dell’universo, nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e ringrazia lungamente per averci giudicati degni di questi doni. Quando chi presiede ha concluso l’azione di grazia ed il popolo ha risposto “amen”, quelli che fra noi si chiamano diaconi distribuiscono a tutti i presenti il pane ed il vino “eucaristizzati”.
“A nessuno è lecito partecipare all’Eucaristia, se non crede vere le cose che predichiamo e non si è purificato in quel bagno che dà la remissione dei peccati e la rigenerazione, e non vive come Cristo ci insegnò. Poiché non mangiamo questi alimenti come se fossero pane comune o una bevanda ordinaria, ma proprio come Cristo, nostro salvatore, si fece carne e sangue a causa della nostra salvazione, allo stesso modo abbiamo imparato che il cibo su cui fu recitata l’azione di grazia, che contiene le parole di Gesù e con cui si alimenta e trasforma il nostro sangue e la nostra carne, è precisamente la carne ed il sangue di quello stesso Gesù che si incarnò.
Gli apostoli, in effetti, nel loro trattati chiamati Vangeli, ci raccontano che così fu loro ordinato, quando Gesù, prendendo il pane e rendendo grazie disse “Fate questo in memoria di me. Questo è il mio corpo”. E dopo, prendendo allo stesso modo nelle sue mani il calice, rese grazie e disse “Questo è il mio sangue”, dandolo poi a loro solamente. Da allora continuiamo a ricordarci gli uni gli altri queste cose. E quelli fra noi che hanno molti beni accorriamo in aiuto di altri che non ne hanno, e rimaniamo così uniti. E ogni volta che presentiamo le nostre offerte lodiamo il Creatore di tutto per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo e dello Spirito Santo”. (San Giustino, Lettera ad Antonino Pio, Imperatore, anno 155)

San Cirillo di Alessandria (444 d.C.)
Padre della Chiesa, il quale dedicò la sua vita a mostrare che Gesù è vero Dio e vero uomo, davanti alle eresie del suo tempo. Nel Commento al Vangelo di San Giovanni dice:
“Il corpo di Cristo vivifica quelli che ne partecipano: allontana la morte facendosi presente in noi, soggetti a questa, e caccia la corruzione, perché contiene in sé la virtualità necessaria per annullarla totalmente”. (San Cirillo di Alessandria, Commento al Vangelo di S. Giovanni, 5).
San Cirillo impiega la similitudine con la cera per spiegare l’unione del nostro corpo con Cristo nell’Eucaristia
“Così, come quando uno unisce due pezzi di cera e li fonde attraverso il fuoco, e dai due si forma una cosa sola, così anche, grazia alla partecipazione nel Corpo di Cristo e nel suo prezioso Sangue, Lui si unisce a noi e noi a Lui” (San Cirillo di Alessandria, Commento al Vangelo di S. Giovanni, 10).

Sant’Ambrogio di Milano
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano (nato a Treviri verso l’anno 340 e deceduto a Milano nel 397), introdusse in occidente la lettura meditata delle Scritture, per far sì che penetri nel cuore, una pratica oggi conosciuta come “lectio divina”.
[Nella Comunione] “il Corpo di Cristo non ci è offerto come premio, bensì come comunicazione della grazia e della vita celestiale” (Sant’Ambrogio, in Catena Aurea, vol.VI, p.447).

Sant’Agostino
“Nessuno dà da mangiare ai convitati la propria persona; ma questo è ciò che fa Cristo il Signore: Egli stesso è allo stesso tempo anfitrione, cibo e bevanda”

Altre testimonianze
Plinio
Plinio non tardò nell’applicare la proibizione delle eterìe in un caso particolare che si presentò nell’autunno del 112. La Bitinia era piena di cristiani. “È una moltitudine di tutte le età e condizioni, sparsa in ogni città, nei villaggi e nei campi”, scrive all’imperatore.
Continua dicendo di aver ricevuto denunce da parte dei fabbricanti di amuleti religiosi, disturbati dai Cristiani che predicavano l’inutilità di tali “gingilli”. Aveva istituito una specie di inchiesta per conoscere bene i fatti, ed aveva scoperto che quelli che avevano “l’abitudine di riunirsi in un giorno fissato, prima del sorgere del sole, di cantare un inno a Cristo come a un dio, di impegnarsi con giuramento a non commettere crimini, a non perpetrare né ladrocini né saccheggi né adulteri, a rispettare la parola data. Loro hanno anche l’abitudine di riunirsi per mangiare il loro cibo che, nonostante i pettegolezzi, non è altro che cibo ordinario ed innocuo”. I cristiani non avevano smesso di riunirsi nemmeno dopo l’editto del governatore che riconfermava l’interdizione delle eterìe.

Curato d’Ars
“Più beati dei santi dell’Antico Testamento, non solo possediamo Dio nella grandezza della sua immensità, in virtù della quale si trova in ogni cosa, ma addirittura lo abbiamo con noi, come nel seno di Maria per nove mesi, come sulla croce. Più fortunati perfino dei primi cristiani, che facevano cinquanta o sessanta leghe di cammino per sperimentare della gioia di vederlo; noi lo possediamo in ogni parrocchia, qualsiasi di queste può godere a piacimento di una compagnia tanto dolce. Oh, popolo felice!” (Curato d’Ars, Sermone sul Corpus Christi).

Benedetto XVI
“Senza la domenica non possiamo vivere: è ciò che professavano i primi cristiani, anche a costo della vita, e noi siamo chiamati a ripetere lo stesso quest’oggi” (Bemedetto XVI, Angelus 22 maggio 2005).

San Josemaría Escrivá
Perseveravano tutti nella dottrina degli Apostoli, nella comunicazione della frazione del pane, nelle preghiere. Così ci descrivono le Scritture la condotta dei primi cristiani: congregati dalla fede degli Apostoli in una perfetta unità, partecipando all’Eucaristia, unanimi nella preghiera. Fede, Pane, Parola.
Gesù, nell’Eucaristia, è indumento sicuro della sua presenza nelle nostre anime; del suo potere, che sostiene il mondo; delle sue promesse di salvazione, che aiuteranno affinché la famiglia umana, quando arrivi la fine dei tempi, abiti perpetuamente nella casa del Cielo, intorno a Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo: Trinità Beatissima, Dio Unico. È tutta la nostra fede che si pone in azione quando crediamo in Gesù, nella sua presenza reale sotto le casualità del pane e del vino (È Cristo che passa, n. 153):

Catechismo della Chiesa
“Frazione del pane perché questo rito, proprio del banchetto ebraico, fu utilizzato da Gesù quando benediceva e distribuiva il pane come capofamiglia (cf Mt 14,19; 15,36; Mc 8,6.19), soprattutto nell’Ultima Cena (cf Mt 26,26; 1 Co 11,24). In questo gesto i discepoli lo riconosceranno dopo la Resurrezione (Lc 24,13-35), e con questa espressione i primi cristiani nominarono le proprie assemblee eucaristiche (cf At 2,42.46; 20,7.11). Con questo si vuole significare che tutti coloro che mangiano di questo unico pane, spezzato, che è Cristo, entrano in comunione con Lui e formano con Lui un solo corpo (cf 1 Co 10,16-17).

Tratto da:
Orar con los primeros critstianos
Gabriel Larrauri (Ed. Planeta)

BENEDETTO XVI: SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20091021_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 21 ottobre 2009

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.
In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: “Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato”, scrive il santo Abate “ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca” (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.
Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è “miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)”. Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, “scorre come il miele”. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca – l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima”, confessa, “se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù”. E conclude: “Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!
In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. “O santa Madre, – egli esclama – veramente una spada ha trapassato la tua anima!… A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio” (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: “per Mariam ad Iesum”, attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del “Dottore mellifluo” la sublime preghiera a Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …” (Paradiso 33, vv. 1ss.).
Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”. Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.
Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. “Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, – egli dice – pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…” (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).

 

1...34567...51

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31