Santa Teresa del Bambino Gesù

dal sito « Santi Beati e Testimoni:
Santa Teresa di Gesù Bambino (di Lisieux) Vergine e dottore della Chiesa
Alençon (Francia), 2 gennaio 1873 – Lisieux, 1° ottobre 1897
Sensibilissima e precoce, fin da bambina decise di dedicarsi a Dio. Entrò nel Carmelo di Lisieux e nel solco della tradizione carmelitana scoprì la sua piccola via dell’infanzia spirituale, ispirata alla semplicità e all’umile confidenza nell’amore misericordioso del Padre. Puosta dalla vocazione contemplativa nel cuore della Chiesa, si aprì all’ideale missionario, offrendo a Dio le sue giornate fatte di fedeltà e di silenziosa e gioiosa offerta per gli apostolo del Vangelo. I suoi pensieri, raccolti sotto il titolo Storia di un’anima, sono la cronaca quotidiana del suo cammino di identificazione con l’Amore. Con San Francesco Saverio è patrona delle missioni. (Mess. Rom.)
Patronato: Missionari, Francia
Etimologia: Teresa = cacciatrice, dal greco; oppure donna amabile e forte, dal tedesco
Emblema: Giglio, Rosa
E’ presente nel Martirologio Romano. Memoria di santa Teresa di Gesù Bambino, vergine e dottore della Chiesa: entrata ancora adolescente nel Carmelo di Lisieux in Francia
Si arrampica a Milano sul Duomo fino alla Madonnina, a Pisa sulla Torre, e a Roma si spinge anche nei posti proibiti del Colosseo. La quattordicenne Teresa Martin è la figura più attraente del pellegrinaggio francese, giunto in Roma a fine 1887 per il giubileo sacerdotale di Leone XIII. Ma, nell’udienza pontificia a tutto il gruppo, sbigottisce i prelati chiedendo direttamente al Papa di poter entrare in monastero subito, prima dei 18 anni. Cauta è la risposta di Leone XIII; ma dopo quattro mesi Teresa entra nel Carmelo di Lisieux, dove l’hanno preceduta due sue sorelle (e lei non sarà l’ultima).
I Martin di Alençon: piccola e prospera borghesia del lavoro specializzato. Il padre ha imparato l’orologeria in Svizzera. La madre dirige merlettaie che a domicilio fanno i celebri pizzi di Alençon. Conti in ordine, leggendaria puntualità nei pagamenti come alla Messa, stimatissimi. E compatiti per tanti lutti in famiglia: quattro morti tra i nove figli. Poi muore anche la madre, quando Teresa ha soltanto quattro anni.
In monastero ha preso il nome di suor Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, ma non trova l’isola di santità che s’aspettava. Tutto puntuale, tutto in ordine. Ma è scadente la sostanza. La superiora non la capisce, qualcuna la maltratta. Lo spirito che lei cercava, proprio non c’è, ma, invece di piangerne l’assenza, Teresa lo fa nascere dentro di sé. E in sé compie la riforma del monastero. Trasforma in stimoli di santificazione maltrattamenti, mediocrità, storture, restituendo gioia in cambio delle offese.
E’ una mistica che rifiuta il pio isolamento. La fanno soffrire? E lei è quella che « può farvi morir dal ridere durante la ricreazione », come deve ammettere proprio la superiora grintosa. Dopodiché, nel 1897 – giusto cent’anni fa – lei è già morta, dopo meno di un decennio di vita religiosa oscurissima. Ma è da morta che diviene protagonista, apostola, missionaria. Sua sorella Paolina (suor Agnese nel Carmelo) le ha chiesto di raccontare le sue esperienze spirituali, che escono in volume col titolo Storia di un’anima nel 1898. Così la voce di questa carmelitana morta percorre la Francia e il mondo, colpisce gli intellettuali, suscita anche emozioni e tenerezze popolari che Pio XI corregge raccomandando al vescovo di Bayeux: « Dite e fate dire che si è resa un po’ troppo insipida la spiritualità di Teresa. Com’è maschia e virile, invece! Santa Teresa di Gesù Bambino, di cui tutta la dottrina predica la rinuncia, è un grand’uomo ». Ed è lui che la canonizza nel 1925.
Non solo. Nel 1929, mentre in Urss trionfa Stalin, Pio XI già crea il Collegio Russicum, allo scopo di formare sacerdoti per l’apostolato in Russia, quando le cose cambieranno. Già allora. E come patrona di questa sfida designa appunto lei, suor Teresa di Gesù Bambino.
Autore: Domenico Agasso
dal sito:
http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=10395&theme=3&size=A
25/09/2007 12:29
VIETNAM-VATICANO
Il cardinale Van Thuan, dalla prigione verso l’altare
Accolta con gioia la notizia del via libera al processo di canonizzazione. Per 13 anni in carcere, celebrava messa con tre gocce di vino. Un testimone esemplare della fede per la sua gente e per tutto il mondo cattolico.
Hanoi (AsiaNews) – E’ stata accolta con gioia in Vietnam, la notizia che Benedetto XVI ha accolto la richiesta di aprire la causa di beatificazione del cardinale Nguyen Van Thuan, che nel suo Paese, più ancora che nel resto del mondo cattolico, è considerato uno straordinario esempio di fedeltà alla Chiesa ed un operatore di pace e giustizia.
Coloro che lo hanno conosciuto lo ricordano come un testimone, che ha sacrificato 13 anni della sua vita nelle prigioni del regime comunista del suo Paese. Testimone della fede in Dio, protettore per la Chiesa. “Ho letto – padre Francis racconta ad AsiaNews – il libro che il cardinale ha scritto in prigione. Ogni giorno che vi ha trascorso celebrava la messa tenendo nelle mani tre piccole gocce di vino. Il suo libro – prosegue – è stato tradotto in otto lingue, così oggi tanta gente ha la possibilità di leggerlo. Personalmente, conservo l’immagine di una persona pensosa che lavorava, pregava e perdonava chiunque lo avesse minacciato e gli avesse fatto del male”.
“Con tutto il cuore – aggiunge Lan, una catechista della diocesi di Saigon – ha lavorato duramente e con entusiasmo per la missione della Chiesa. Il cardinale Nguyen Van Thun è un santo esempio per i cattolici del Vietnam e di tutto il mondo”.
In effetti, i cattolici vietnamiti sono convinti che nella sua vita il card. Van Thuan sia stato un testimone di fedeltà. Anche in prigione o sotto il controllo del regime comunista, ha sempre pregato e perdonato questi “fratelli”. Le sue sofferenze fisiche e spirituali sono testimonianza di pace e giustizia del cristiano. Anche quando è stato presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace ha aiutato i poveri che vivono nelle zone depresse del mondo. Lo stesso Consiglio ha definito il cardinale Van Thuan “testimone della Chiesa per la pace e la speranza del popolo. Ha trascorso 13 anni in prigione, ma nella sua vita era lucido, saggio e fervente”.
L’annuncio della decisione del Papa di consentire al Pontificio consiglio di procedere nel lavoro di esame per la canonizzazione è stato dato dal cardinale Renato Martino, successore del card. Van Thuan, il 9 settembre, quarto anniversario della morte del porporato.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-11976?l=italian
Gli ultimi momenti di suor Lucia di Fatima nel ricordo della Superiora del Carmelo
Suor Maria a Celina di Gesù Crocifisso, del Convento di Coimbra
COIMBRA/ROMA, lunedì, 24 settembre 2007 (ZENIT.org).- Entrata nel Monastero di Santa Teresa di Coimbra (Portogallo), il 25 marzo 1941, suor Lucia ha sempre occupato la stessa cella e “da lì volò in cielo”, afferma la Superiora del Carmelo, suor Maria Celina di Gesù Crocifisso.
Lo scorso venerdì, a Roma, i numerosi invitati alla presentazione del libro “L’ultima veggente di Fatima. I miei colloqui con suor Lucia” (Edizioni Rai-Eri e Rizzoli, Milano 2007, pp. 196, Euro 17,50), scritto dal Cardinale Tarcisio Bertone con il Vaticanista del Tg1, Giuseppe De Carli, hanno potuto assistere, in esclusiva, alla proiezione di un video-reportage sul Convento di Coimbra dove ha vissuto la religiosa.
Dal 1950 passò stabilmente a far parte della comunità, avendo professato il 13 maggio dell’anno precedente la professione dei voti solenni. Prese il nome di suor Maria di Gesù e del Cuore Immacolato. In clausura si occupò di diversi incarichi: ortolona, responsabile della dispensa e di una parte del guardaroba.
Realizzato lo scorso luglio da Elena Balestri e da De Carli, “grazie alla Santa Sede”, nel reportage di 8 minuti circa la troupe ha filmato la comunità di 20 claustrali, ripresa durante “l’ora sesta”.
Le immagini si snodano al di là della clausura, nello spazio della ricreazione; si vede la passeggiata delle carmelitane nel giardino e nell’orto, la sosta davanti alla Madonna di Fatima e del Bambino Gesù di Praga, il parlatoio dove suor Lucia ha incontrato i Cardinali Albino Luciani (1977), Joseph Ratzinger (1997) e in tre volte successive, dal 2000 al 2003, Tarcisio Bertone.
Toccanti le immagini della cella, dove tutto è rimasto come allora: la scritta sulla porta “Cuore Immacolato di Maria. Il mio cuore immacolato sarà il tuo rifugio”; il letto dove è morta con una grande foto che la ritrae abbracciata alla Superiora, in mano il messaggio di Giovanni Paolo II.
E ancora: un agnellino di peluche, dono di un sacerdote italiano; statuette di pastorelli e della Vergine; una poltrona; la sedia a rotelle; la semplice scrivania con i dizionari da consultare nel suo quotidiano esercizio di scrittura; un rosario; un altoparlante per ascoltare la messa e per partecipare ai momenti di preghiera delle claustrali.
Per milioni di devoti di Fatima, i luoghi dove suor Lucia ha trascorso quasi 57 anni della sua vita “sono misteriosi. In tv – commentano i realizzatori del reportage – abbiamo visto la veggente a Fatima in occasione dei pellegrinaggi dei Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II, e la sua ultima apparizione è dell’ottobre 2000, mentre recita, dal coro alto del monastero, una decina del rosario in collegamento con Piazza San Pietro”.
Superiora di suor Lucia per sei anni – la ultima in ordine di tempo – suor Maria Celina ha accolto la troupe televisiva insiema a suor Maria del Carmine, consorella della veggente di Fatima per 52 anni e che accompagnò suor Lucia di Fatima, il 13 febbraio del 2000, per la beatificazione dei suoi cuginetti Giacinta e Francesco Marto, presieduta da Giovanni Paolo II.
Dalle conversazioni con le due religiose emerge la vita di raccoglimento, di solitudine e silenzio di suor Lucia, lontana dalla curiosità della gente: “All’esterno come tutte, all’interno come nessuna”.
“Quando sono entrata – ha ricordato suor Maria del Carmine – ci ho impiegato ben 8 giorni a riconoscere suor Lucia. Poi una suora mi ha detto: ‘Madre se ti portassi un pezzetto di pane da mangiare la notte?’ E io mi sono detta che di sicuro non poteva essere quella. E invece era lei”.
Durante il rosario quotidiano, lungo un vialetto al termine del quale si trova la statua della Vergine, “suor Lucia – ha spiegato la Superiora – spesso sgridava i pastorelli: voi siete andati in cielo e mi avete lasciata da sola”.
Di seguito riportiamo il testo del dialogo con suor Maria Celina.
Secondo lei, Lucia ha visto la Madonna anche altre volte?
Lei non parlava volentieri di questo. Negli ultimi anni invece raccontava della straordinaria esperienza del 1917. Ma non diceva io, bensì i “pastorelli”: si riferiva sempre a loro. L’immagine di Nostra Signora non era come lei la voleva. A volte le sembrava brutta, non corrispondeva all’incisività del suo ricordo, non era quella che l’artista aveva ricavato dalla sua descrizione. E’ un pò quello che è accaduto a santa Bernadette.
E a chi obiettava di un quarto segreto, di un segreto non svelato, suor Lucia che cosa rispondeva?
Che non sono mai contenti; che compiano quello che è stato chiesto dalla Madonna, che è la cosa più importante. Quando qualcuno osservava: ‘suor Lucia, dicono che c’è un altro segreto” [...], lei guardava ironicamente. “Se c’è – ribatteva – che me lo rivelino: Io non ne conosco altri”.
Che tipo di suora era Lucia?
Era una persona che emanava allegria. Io ho vissuto con lei 28 anni e ho notato una persona che più avanzava con l’età e più ritrovava un’infanzia evangelica. Sembrava di nuovo la bambina che nella Cova da Iria aveva avuto le apparizioni. Più il corpo diventava pesante, più lo spirito diventava leggero.
Si è spenta a poco a poco, quasi dolcemente?
Quando ha avuto bisogno di aiuto abbiamo messo il suo letto al centro della cella e noi tutte attorno, insieme con il vescovo di Leiria-Fatima. Io ero in ginocchio accanto a lei. Suor Lucia ha guardato tutte e alla fine ha guardato me, per ultima. E’ stato uno sguardo lungo, ma c’era nei suoi occhi una luce profonda, che porto nella mia anima.
Lei la sente ancora vicina?
La prego sempre e so che lei prega per noi. Ci sono cose che non hanno bisogno di parole: basta un gesto, un pensiero. Prima suor Lucia aveva il problema dell’udito. Adesso non ce l’ha più. Adesso lei capisce tutto anche senza parole.
dal sito:
http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=156157
La Chiesa celebra la memoria dei martiri coreani
tutto 103 cristiani, quasi tutti laici, uccisi in odio alla fede tra il 1839 e il 1867. Giovanni Paolo II li proclamò Santi il 6 maggio del 1984 durante una Messa solenne a Seoul. Il servizio di Sergio Centofanti.
Il cristianesimo arriva in terra coreana dalla Cina nel 1600, attraverso il libro del missionario gesuita Matteo Ricci “La vera dottrina di Dio”. “Una comunità unica nella storia della Chiesa – ha affermato Giovanni Paolo II – perché … fondata unicamente da laici”. Pur senza sacerdoti, la comunità coreana guidata dai laici era piena di fervore e di coraggio.
I sovrani coreani del 1800 consideravano il cristianesimo “una follia” e ordinarono lo sterminio di tutti i seguaci di quella “religione straniera” che predicava l’amore dei nemici nel nome di un Dio crocifisso. Si calcola che in meno di un secolo di feroci persecuzioni furono alcune decine di migliaia i martiri cristiani: uomini, donne, vecchi, bambini, ricchi, poveri, nobili e gente del popolo, che nonostante atroci torture non vollero rinnegare la fede.
Nell’omelia per la canonizzazione dei 103 martiri coreani Giovanni Paolo II ricordò che a una ragazza diciassettenne, Agatha Yi, e al fratello minore, venne riferita la falsa notizia secondo cui i genitori avrebbero rinnegato la fede. “Il fatto che i miei genitori abbiano tradito o meno è cosa loro – rispose la giovane – Per quanto ci riguarda, noi non possiamo tradire il Signore del cielo che abbiamo sempre servito”. A queste parole, altri sei cristiani adulti si consegnarono volontariamente nelle mani dei magistrati per affrontare il martirio.
Andrea Kim è stato il primo sacerdote martire della Corea: arrestato, viene portato davanti al re, rifiutando ogni lusinga di fronte alle richieste di abiura. Torturato, viene decapitato il 16 settembre 1846 a Seoul. Aveva 25 anni. Poco prima di morire aveva inviato ai compagni di fede una lettera dal carcere in cui diceva che i cristiani portano un “nome glorioso”. “Ma a che cosa gioverebbe – si chiedeva – avere un così grande nome senza la coerenza della vita?”. Andrea Kim era convinto che “la Chiesa cresce in mezzo alle tribolazione”. Ma “sebbene le potenze del mondo la opprimano e la combattano, tuttavia non potranno mai prevalere”. Il martire coreano incoraggiava con queste ultime parole i suoi fratelli: “Abbracciate la volontà di Dio e con tutto il cuore sostenete il combattimento per Gesù, re del cielo … vi prego di camminare nella fedeltà; e alla fine entrati nel cielo, ci rallegreremo insieme”.
dal sito on line del giornale « Avvenire »
IL VANGELO NELLA CITTÀ
Mentre cresce l’attesa per la visita del Papa, il 21 ottobre prossimo, il capoluogo campano torna a confrontarsi con il significato spirituale e civile dell’evento miracoloso
«Napoli, Gennaro ci insegna l’eroismo della quotidianità»
Si è rinnovato ieri il prodigio della liquefazione del sangue del patrono. Un santo – ha detto il cardinale Sepe – esemplare per quanti, anche oggi, si impegnano per la verità e la giustizia. «Chiesa, avamposto di chi vuole costruire il bene comune»
Da Napoli Valeria Chianese
Ha portato le ampolle col sangue di san Gennaro sul sagrato della Cattedrale – scioltosi ieri mattina alle 9,35. Con esse il cardinale arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe ha benedetto i fedeli, in un abbraccio simbolico e commosso alla città e alla diocesi che il Papa gli ha affidato un anno fa. È il prodigioso segno della liquefazione del sangue del santo patrono, da secoli legato a Napoli, «che manifesta la vicinanza e la predilezione del Signore per questa amata e sofferente terra che, benedetta da Dio, tenta con ogni sforzo, in mezzo a mille difficoltà, di rendere pura, visibile e trasparente la sua fede in Gesù Cristo», ha esordito nell’omelia il cardinale, in memoria di chi – come Gennaro – si è lasciato morire per amore della verità e della giustizia, poi addentrandosi nell’analisi lucida, sia pur dolorosa, della realtà di Napoli, con parole che possono illuminare anche altre situazioni del Paese.
«Sulla nostra città e sulla nostra regione si dicono tante parole che ormai rischiano l’usura – ha detto Sepe -. Anche le più terribili e drammatiche sembrano avere perso forza espressiva: sono diventate anch’esse come occhi appannati, che non riescono a mettere esattamente a fuoco la realtà. Consumiamo aggettivi e inventiamo iperbole per dare forza ai nostri discorsi, per renderli efficaci e suggestivi. Nessuna città è forse al centro di così tanti discorsi e dibattiti come lo è Napoli; ma senza lo spessore giusto e la visione chiara e oggettiva, essa rischia di mandare in scena, a proprio danno, la vuota rappresentazione di una fiera delle parole fine a sé stessa, in cui promesse e pronunciamenti, dichiarazioni e prese di posizione, vengono triturate come polvere – ha denunciato il cardinale -. C’è crisi di valori, c’è crisi di certezze. Ma l’uomo non può dimettersi dalla propria dignità e lasciarla imbrattata da chi semina odio. Nessuno più riesce a sopportare l’aria malefica di una violenza che avvelena uomini e cose. Non ne possiamo più del perdurar e di questo ammasso di scorie, che sporca di sangue le nostre città».
Quindi l’appello alle istituzioni civili, tutte presenti tra i tremila fedeli che gremivano la Cattedrale: «Davanti a noi tante sfide non impossibili, ma sappiamo che questa città ha bisogno di impegni concreti, che sappiano rispondere alle esigenze e alle urgenze soprattutto dei più poveri, dei più deboli, dei giovani. Laddove si guarda realmente agli interessi della comunità e di ogni singola persona, a partire dai bisogni primari del lavoro, della casa, dei giovani, della salute, dei servizi, la comunità ecclesiale va considerata come una forza già in campo, pronta ad assecondare e a sostenere ogni tipo di progetto, da qualunque parte venga. La Chiesa non è e non vuole essere l’ultimo baluardo a difesa della città, ma intende farsi primo e visibile avamposto di tutto ciò che è positivo e giusto, per contribuire a realizzare il bene comune».
Così Sepe ha lanciato ancora una volta un forte appello alla mobilitazione chiedendo ai napoletani di trasformarsi in «eroi della quotidianità» sull’esempio di quanto già fa la Chiesa che mette in campo i suoi e le sue donne, le sue deboli strutture. «Napoli – ha continuato – deve specchiarsi nella propria bellezza umana, culturale, religiosa. Se, come capita per tante altre metropoli, è la città dell’emergenza, occorre prendere atto che l’emergenza chiama alla mobilitazione. E chiama tutti, senza eccezioni. Non c’è ragione per ricercare, mediocremente, qualche angolo di riparo, magari rassegnandosi a considerare endemici e incurabili i suoi mali. Ora più che mai la città ha bisogno di investire sul sano coraggio, sull’impegno e sulla fiducia di tutti. Per questo non occorrono eroi, ma è necessaria la pratica assidua e concreta di un eroismo della quotidianità, discreto e faticoso, ma efficace per sanare un tessuto lacerato in alcune sue parti».
«La visita del Santo Padre – ha poi detto, riferendosi all’arrivo di Benedetto XVI il 21 ottobre a Napoli – è una provvidenziale occasione per dare nuovo slancio a una terra che già l’amato predecessore, il servo di Dio Giovanni Paolo II, pose la centro del suo indimenticabile pellegrinaggio di sedici anni fa. Da un Papa all’altro Napoli è chiamata a misurare la propria capacità di ritornare ad essere ogni giorno di più protagonista di un proprio futuro di giustizia, di pace e di libertà. Altro che male inguaribile – ha concluso in uno slancio di speranza -: Napoli è pronta a prendere in mano la sua storia e il suo futuro. Di inguaribile per questa città resta solo la grande capacità di amare».
conosciamo tutti l’ « evento » del miracolo, ma conosciamo la persona? io, per esempio, no, la sua storia la leggo per la prima volta, dal sito:
http://www.santiebeati.it/dettaglio/29200
San Gennaro Vescovo e martire – Patronato Napoli – (festa per Napoli – mf)
Fra i santi dell’antichità è certamente uno dei più venerati dai fedeli e se poi consideriamo che questi fedeli, sono primariamente napoletani, si può comprendere per la nota estemporaneità e focosa fede che li distingue, perché il suo culto, travalicando i secoli, sia giunto intatto fino a noi, accompagnato periodicamente dal misterioso prodigio della liquefazione del suo sangue, che tanto attira i napoletani.
Prima di tutto il suo nome diffuso in Campania e anche nel Sud Italia, risale al latino ‘Ianuarius’ derivato da ‘Ianus’ (Giano) il dio bifronte delle chiavi del cielo, dell’inizio dell’anno e del passaggio delle porte e delle case.
Il nome era in genere attribuito ai bambini nati nel mese di gennaio “Ianuarius”, undicesimo mese dell’anno secondo il calendario romano, ma il primo dopo la riforma del II secolo d.C.
Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, perché Ianuarius che significa “consacrato al dio Ianus” non era il suo nome, che non ci è pervenuto, ma il gentilizio corrispondente al nostro cognome.
Vi sono ben sette antichi ‘Atti’, ‘Passio’, ‘Vitae’, che parlano di Gennaro, fra i più celebri gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”. Da questi documenti si apprende che Gennaro nato a Napoli? nella seconda metà del III secolo, fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani per la cura, che impiegava nelle opere di carità a tutti indistintamente; si era nel primo periodo dell’impero di Diocleziano (243-313), il quale permise ai cristiani di occupare anche posti di prestigio e una certa libertà di culto.
Nella sua vecchiaia però, sotto la pressione del suo cesare Galerio (293), firmò ben tre editti contro i cristiani, provocando una delle più feroci persecuzioni, colpendo la Chiesa nei suoi membri e nei suoi averi per impedirle di soccorrere i poveri e spezzare così il favore popolare.
E in questo contesto s’inserisce la storia del martirio di Gennaro; egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la comunità cristiana di Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo; Sosso fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, per le funzioni religiose che quotidianamente venivano celebrate nonostante i divieti.
In quel periodo il vescovo di Benevento Gennaro, accompagnato dal diacono Festo e dal lettore Desiderio, si trovavano a Pozzuoli in incognito, visto il gran numero di pagani che si recavano nella vicinissima Cuma ad ascoltare gli oracoli della Sibilla Cumana e aveva ricevuto di nascosto anche qualche visita del diacono di Miseno (località tutte vicinissime tra loro).
Gennaro saputo dell’arresto di Sosso, volle recarsi insieme ai suoi due compagni Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere e anche con alcuni scritti, per esortarlo insieme agli altri cristiani prigionieri a resistere nella fede.
Il giudice Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio.
Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere sbranati dagli orsi, in un pubblico spettacolo. Ma durante i preparativi il proconsole Dragonio, si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri cristiani nel Foro di Vulcano, presso la celebre Solfatara di Pozzuoli.
Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione; era usanza dei cristiani dell’epoca di cercare di raccogliere corpi o parte di corpi, abiti, ecc. per poter poi venerarli come reliquie dei loro martiri.
I cristiani di Pozzuoli, nottetempo seppellirono i corpi dei martiri nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse sui 35 anni, come pure giovani, erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi “Catacombe di S. Gennaro”, per volontà dal vescovo di Napoli, s. Giovanni I e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo.
Le reliquie degli altri sei martiri, hanno una storia a parte per le loro traslazioni, ma in maggioranza ebbero culto e spostamento nelle loro zone di origine.
Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due ampolline contenenti il sangue del martire; a ricordo delle tappe della solenne traslazione vennero erette due cappelle: S. Gennariello al Vomero e San Gennaro ad Antignano.
Il culto per il santo vescovo si diffuse fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini.
Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne come già detto, meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti; nel 472 ad esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo nei terremoti e nelle eruzioni, e mentre aumentava il culto per s. Gennaro, diminuiva man mano quello per s. Agrippino vescovo, fino allora patrono della città di Napoli; dal 472 s. Gennaro cominciò ad assumere il rango di patrono principale della città.
Durante un’altra eruzione nel 512, fu lo stesso vescovo di Napoli, s. Stefano I, ad iniziare le preghiere propiziatorie; dopo fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di S. Restituta (prima cattedrale di Napoli), una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII, venne eretto il Duomo; riponendo nella cripta il cranio e la teca con le ampolle del sangue.
Questa provvidenziale decisione, preservò le suddette reliquie, dal furto operato dal longobardo Sicone, che durante l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, allora fuori della cinta muraria della città, asportando le altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo.
Le ossa restarono in questa città fino al 1156, quando vennero traslate nel santuario di Montevergine (AV), dove rimasero per tre secoli, addirittura se ne perdettero le tracce, finché durante alcuni scavi effettuati nel 1480, casualmente furono ritrovate sotto l’altare maggiore, insieme a quelle di altri santi, ma ben individuate da una lamina di piombo con il nome.
Il 13 gennaio 1492, dopo interminabili discussioni e trattative con i monaci dell’abbazia verginiana, le ossa furono riportate a Napoli nel succorpo del Duomo ed unite al capo ed alle ampolle. Intanto le ossa del cranio erano state sistemate in un preziosissimo busto d’argento, opera di tre orafi provenzali, dono di Carlo II d’Angiò nel 1305, al Duomo di Napoli.
Successivamente nel 1646 il busto d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue, furono poste nella nuova artistica Cappella del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343).
La teca assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo, racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione del sangue avviene solo in quella più grande.
Le altre reliquie poste in un’antica anfora, sono rimaste nella cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale. San Gennaro è conosciuto in tutto il mondo, grazie anche al culto esportato insieme ai tantissimi emigranti napoletani, suoi fedeli, non solo per i suoi prodigiosi interventi nel bloccare le calamità naturali, purtroppo ricorrenti che colpivano Napoli, come pestilenze, terremoti e le numerose eruzioni del vulcano Vesuvio, croce e vanto di tutto il Golfo di Napoli; ma anche per il famoso prodigio della liquefazione del sangue contenuto nelle antiche ampolle, completamente sigillate e custodite in una nicchia chiusa con porte d’argento, situata dietro l’altare principale, della già menzionata Cappella del Tesoro.
Il Tesoro è oggi custodito in un caveau di una banca, essendo ingente e preziosissimo, quale testimonianza dei doni fatti al santo patrono da sovrani, nobili e quanti altri abbiano ricevuto grazie per sua intercessione, o alla loro persona e famiglia o alla città stessa.
Le chiavi della nicchia, sono conservate dalla Deputazione del Tesoro di S. Gennaro, da secoli composta da nobili e illustri personaggi napoletani con a capo il sindaco della città. Il miracolo della liquefazione del sangue, che è opportuno dire non è un’esclusiva del santo vescovo, ma anche di altri santi e in altre città, ma che a Napoli ha assunto una valenza incredibile, secondo un antico documento, è avvenuto per la prima volta nel lontano 17 agosto 1389; non è escluso, perché non documentato, che sia avvenuto anche in precedenza.
Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in cui il busto ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle, vengono portati in processione, insieme ai busti d’argento dei numerosi santi compatroni di Napoli, anch’essi esposti nella suddetta Cappella del Tesoro, dal Duomo alla Basilica di S. Chiara, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli, e qui dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito; la seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione, una volta avveniva nella Cappella del Tesoro, ma per il gran numero di fedeli, il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove anche qui dopo ripetute preghiere, con la presenza del cardinale arcivescovo, autorità civili e fedeli, avviene il prodigio tra il tripudio generale.
Avvenuta la liquefazione la teca sorretta dall’arcivescovo, viene mostrata quasi capovolgendola ai fedeli e al bacio dei più vicini; il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave.
Una terza liquefazione avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale, non è sempre avvenuto, esiste un diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli, anche le volte che il sangue non si è sciolto, oppure con ore e giorni di ritardo, oppure a volte è stato trovato già liquefatto quando sono state aperte le porte argentee per prelevare le ampolle; il miracolo a volte è avvenuto al di fuori delle date solite, per eventi straordinari.
Il popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio, un auspicio positivo per il futuro della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli, ha convinto la maggioranza dei fedeli, che anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione semmai di una vita più cristiana.
Del resto questo “miracolo ballerino”, imprevedibile, è stato oggetto di profondi studi scientifici, l’ultimo nel 1988, con i quali usando l’esame spettroscopico, non potendosi aprire le ampolline sigillate da tanti secoli, si è potuto stabilire la presenza nel liquido di emoglobina, dunque sangue.
La liquefazione del sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto, che a Pozzuoli, contemporaneamente al miracolo che avviene a Napoli, la pietra conservata nella chiesa di S. Gennaro, vicino alla Solfatara e che si crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa.
Pur essendo venuti tanti papi a Napoli in devoto omaggio e personalmente baciarono la teca lasciando doni, la Chiesa è bene ricordarlo, non si è mai pronunciata ufficialmente sul miracolo di s. Gennaro.
Papa Paolo VI nel 1966, in un discorso ad un gruppo di pellegrini partenopei, richiamò chiaramente il prodigio: “…come questo sangue che ribolle ad ogni festa, così la fede del popolo di Napoli possa ribollire, rifiorire ed affermarsi”.
Autore: Antonio Borrelli
dal sito:
UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE San Giovanni Crisostomo
“Crisostomo”, vale a dire “bocca d’oro”, fu il soprannome dato a Giovanni a motivo del fascino suscitato dalla sua arte oratoria. Nato ad Antiochia in una data non precisabile tra il 344 e il 354, Giovanni si dedicò agli studi di retorica sotto la direzione del celebre Libanio; pare che questi lo stimasse a tal punto da rispondere a chi gli chiedeva chi volesse come suo successore: “Giovanni, se i cristiani non me lo avessero rubato!” Dopo aver ricevuto il battesimo, Giovanni frequentò la cerchia di Diodoro, il futuro Vescovo di Tarso: nel gruppo di discepoli che si radunavano attorno a costui imparò a leggere le Scritture secondo il metodo antiocheno, attento alla spiegazione letterale dei testi, e compì i primi passi lungo quel cammino spirituale che lo condurrà a lasciare la città e a vivere alcuni anni in solitudine sul monte Silpio, nei pressi di Antiochia.
Rientrato in città, fu ordinato diacono dal Vescovo Melezio nel 381 e, cinque anni più tardi, presbitero dal Vescovo Flaviano, che gli fu maestro non solo di eloquenza, ma anche di carità e saldezza nella fede. Furono anni di intensa predicazione: Giovanni commentava le Scritture secondo i principi esegetici della scuola antiochena, aliena da ogni allegorismo e sostanzialmente fedele alla lettera del testo biblico. La predicazione di Giovanni si traduceva sovente in esortazione morale: ora, veniva presa di mira la passione per gli spettacoli che eccitava i cristiani di Antiochia, ora la rilassatezza dei costumi. Con grande zelo esorta a radicare la propria vita di credenti nella conoscenza delle Scritture, a vivere un’intensa vita spirituale senza ritenere che essa sia riservata soltanto ai monaci, a praticare la carità nella cura sollecita per il “sacramento del fratello”. “È un errore mostruoso credere che il monaco debba condurre una vita più perfetta, mentre gli altri potrebbero fare a meno di preoccuparsene … Laici e monaci devono giungere a un’identica perfezione” (Contro gli oppositori della vita monastica 3, 14). Nel 397 Giovanni fu chiamato a Costantinopoli quale successore del Patriarca Nettario. Nella capitale dell’impero il nuovo Patriarca si dedicò con grande zelo alla riforma della Chiesa: depose i Vescovi simoniaci, combatté l’usanza della coabitazione di preti e diaconesse, predicò contro l’accumulo delle ricchezze nelle mani di pochi e contro l’arroganza dei potenti, e destinò gran parte dei beni ecclesiastici a opere di carità. Anche a Costantinopoli continua il suo ministero di predicatore della Parola e di operatore di pace. La sua opera di evangelizzazione si estende ai goti e ai fenici. Intransigente quando la fede è minacciata, predica l’amore per il peccatore e per il nemico. “Il popolo lo applaudiva per le sue omelie e lo amava”, afferma lo storico Socrate (Storia ecclesiastica 6, 4).
Tutto questo gli procurò molti amici e molti nemici: amato dai poveri come un padre, fu osteggiato dai potenti, che vedevano in lui una temibile minaccia per i loro privilegi. L’inimicizia nei suoi confronti crebbe con l’ascesa al potere dell’imperatrice Eudossia. Costei, nel 403, con l’appoggio del Patriarca di Alessandria, Teofilo, indisse un processo contro Giovanni e lo fece deportare e condannare all’esilio. Il decreto di condanna fu revocato dopo poco tempo e Giovanni poté rientrare in diocesi, ma solo per pochi mesi. Durante la celebrazione della Pasqua del 404 le guardie imperiali fecero irruzione nella cattedrale della città provocando uno spargimento di sangue; vi furono disordini per diversi giorni. Poco dopo la festa di Pentecoste, Giovanni fu arrestato e nuovamente condannato all’esilio. Per evitare mali ulteriori, il Patriarca lasciò la casa episcopale uscendo da una porta secondaria; si congedò dai Vescovi riuniti in sacrestia e fece chiamare la diaconessa Olimpia e le sue compagne, che conducevano una vita comunitaria a servizio della chiesa nella casa accanto a quella del Vescovo. “Venite, figlie, ascoltatemi. Per me è giunta la fine, lo vedo. Ho terminato la corsa e forse non vedrete più il mio volto” (Palladio, Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo, 10). Con queste parole il padre si accomiata dalle sue figlie spirituali. Giovanni fece appello al papa Innocenzo I, che ne riconobbe l’innocenza; ma ciò nonostante fu costretto a lasciare Costantinopoli. Alla sua partenza vi furono tumulti in città: venne appiccato fuoco a una chiesa adiacente al palazzo del senato e questo fornì un pretesto alle autorità imperiali per arrestare e perseguitare i seguaci di Giovanni. Questi fu confinato a Cucuso, una piccola città dell’Armenia, ma anche in questo luogo sperduto era raggiunto dalle manifestazioni di affetto dei suoi fedeli, e così i suoi nemici provvidero a farlo partire per una sede ancora più lontana. Avrebbe dovuto raggiungere Pizio, sul Ponto, ma morì lungo il viaggio, a Comana, stremato dalle marce forzate a cui era stato sottoposto. Era il 14 settembre 407.
“Gloria a Dio in tutto: non smetterò di ripeterlo, sempre dinanzi a tutto quello che mi accade!” (Lettere a Olimpia, 4). In queste parole troviamo condensata la testimonianza di Giovanni; anche in mezzo alle molte tribolazioni che occorre attraversare per entrare nel regno dei cieli (cf. At 14, 22), Giovanni “Boccadoro” ci insegna a cogliere la luce della risurrezione che già si sprigiona dalla croce e a portare la croce nella luce del Cristo risorto. Allora ogni discepolo può proclamare con gioia: “Gloria a Dio in tutto!”. Il Martirologio romano, come pure i sinassari orientali, hanno iscritto la festa di Giovanni al 27 gennaio, anniversario del ritorno del corpo a Costantinopoli. Attualmente nel calendario romano la sua festa è celebrata il 13 settembre. Nello stesso giorno la festa è celebrata presso i siri. La Chiesa bizantina lo festeggia anche il 30 gennaio, insieme a San Basilio e a San Gregorio di Nazianzo, e il 13 novembre, giorno del suo ritorno dall’esilio. In Oriente si incontrano molti monasteri a lui dedicati. Dottore della Chiesa, Giovanni circonda con i Santi Atanasio, Ambrogio e Agostino, la Cattedra del Bernini nell’abside della Basilica Vaticana. Papa Giovanni XXIII pose il Concilio Vaticano II sotto la sua protezione.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-11836?l=italian
La luce dell’oscurità di Madre Teresa (Parte I)
Padre Kolodiejchuk parla della sua unione con Gesù
ROMA, lunedì, 10 settembre 2007 (ZENIT.org).- Madre Teresa di Calcutta sapeva di essere unita a Gesù sia nei momenti in cui provava amore, sia nei momenti di aridità, perché la sua mente era fissa solo ed esclusivamente su di Lui.
La fondatrice delle Missionarie della Carità aveva espresso questa realtà in una lettera indirizzata al suo direttore spirituale, ora resa pubblica – insieme a molte altre lettere – in un volume intitolato “Come Be My Light”, edito e presentato da padre Brian Kolodiejchuk.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Kolodiejchuk, sacerdote Missionario della Carità e postulatore della causa di canonizzazione della beata Madre Teresa di Calcutta, parla del suo nuovo libro e della vita interiore di Madre Teresa, tenuta finora nascosta al mondo.
La straordinaria vita interiore di Madre Teresa è stata rivelata per lo più dopo la sua morte. A parte i colloqui con i suoi direttori spirituali, come era la sua vita, soprattutto la sofferenza del suo buio spirituale, celato a tutti coloro che la conoscevano?
Padre Kolodiejchuk: Nessuno aveva idea della sua vita interiore perché i suoi direttori spirituali non rendevano note queste lettere. I gesuiti ne possedevano alcune, altre erano custodite presso la residenza arcivescovile e padre Joseph Neuner, un altro direttore spirituale, ne aveva altre.
Queste lettere sono state scoperte quando siamo andati alla ricerca di documenti utili alla causa.
Quando era in vita, Madre Teresa aveva chiesto che il suo materiale biografico non venisse reso pubblico.
Aveva chiesto all’Arcivescovo Ferdinand Perier di Calcutta di non rivelare a un altro Vescovo di come le cose fossero iniziate. Aveva detto: “Per favore non dargli nulla dell’inizio, perché se le persone conoscessero l’inizio, come per le locuzioni, allora l’attenzione si sposterebbe su di me e non su Gesù”.
Continuava a ripetere: “Opera di Dio. Questa è opera di Dio”.
Persino le sorelle più vicine a lei non avevano idea della sua vita interiore. Molte pensavano che doveva avere una grande intimità con Dio per poter andare avanti nonostante le difficoltà relative all’Ordine e alla povertà materiale in cui viveva.
Il libro parla del voto segreto che Madre Teresa fece nei primi momenti della sua vocazione, quando promise di non negare a Dio nulla, pena il peccato mortale. Che ruolo ha avuto questo nella sua vita?
Padre Kolodiejchuk: Madre Teresa ha formulato questo voto, di non rifiutare mai nulla a Dio, nel 1942.
Subito sono seguite le sue lettere ispirate da Gesù. In una di queste, se non in entrambe, Gesù – mettendo alla prova il suo voto – dice: “Ti rifiuterai di fare questo per me?”.
Il voto quindi fa da sfondo alla sua vocazione. Poi si vede nelle lettere ispirate che Gesù chiarisce la sua chiamata.
Ella quindi va avanti perché sa cosa Gesù vuole da lei. È motivata dal pensiero di questo desiderio e di questo dolore relativi al fatto che i poveri non conoscono Gesù e quindi non lo cercano.
Questo è uno dei pilastri che l’ha sostenuta nei momenti di prova del buio. Sulla base della sua certezza nella chiamata e di questo suo voto, può affermare in una delle lettere: “Ero al punto di crollare, allora mi sono ricordata del voto e questo mi ha fatto andare avanti”.
Vi è stata molta polemica sulle “notti oscure” di Madre Teresa. Nel suo libro lei le descrive come il “martirio del desiderio”. Questo elemento della sete di Dio, in generale, non è stato colto. Ce lo può descrivere?
Padre Kolodiejchuk: Un buon libro che conviene leggere per comprendere alcune di queste cose è quello di padre Thomas Dubay: “Fire Within”.
Nel suo libro, padre Dubay parla del dolore della perdita e del dolore del desiderio, e afferma che il dolore del desiderio è maggiore.
Come spiega padre Dubay, il dolore derivante dal desiderio di una vera unione con Dio, costituisce lo stato di purgatorio chiamato la notte oscura. Dopo questa fase, l’anima passa ad uno stadio di estasi e di vera unione con Dio.
Il periodo purgativo di Madre Teresa sembra esserci stato durante il suo periodo di formazione a Loreto.
Ai tempi della sua professione, affermava di essere spesso accompagnata dal buio. Le sue lettere di quel periodo, sono tipiche di chi si trova nella notte oscura.
Padre Celeste Van Exem, suo direttore spirituale, ha detto che forse nel 1946 o 1945 lei era già vicina all’estasi.
Dopo quel periodo, quando le difficoltà di fede sono terminate, sono arrivate le ispirazioni e le locuzioni.
Più tardi, ha scritto a padre Neuner spiegando: “E poi lei sa come è andata a finire. Come se Nostro Signore si fosse dato a me in pienezza. La dolcezza, la consolazione e l’unione di quei 6 mesi sono passate fin troppo in fretta”.
Quindi Madre Teresa ha avuto sei mesi di unione intensa, dopo le locuzioni e l’estasi. Ella si trovava già nella autentica unione trasformante. A quel punto l’oscurità è tornata.
Ma adesso il buio che viveva, si collocava nell’ambito di quell’unione con Dio. Pertanto non è che quell’unione che aveva sperimentato fosse svanita. Aveva invece perso la consolazione dell’unione, alternando tra il dolore di quella perdita e il desiderio profondo; un’autentica sete.
Come ha detto padre Dubay: “Talvolta la contemplazione è deliziosa; altre volte assume la forma di una forte sede di lui”. Ma in Madre Teresa, a parte un mese del 1958, la consolazione dell’unione non è riapparsa.
C’è una lettera in cui dice: “No, Padre, non sono sola, ho il Suo buio, ho il Suo dolore, ho un terribile anelito per Dio. Amare e non essere amata; io so di essere unita a Gesù, perché la mia mente è fissa solo ed esclusivamente su di lui”.
La sua esperienza di oscurità nell’unione è molto rara persino tra i santi, perché per la maggior parte di essi, il periodo finale è caratterizzato da una unione priva di oscurità.
La sua sofferenza, quindi, per usare un termine del teologo domenicano padre Reginald Garrigou-Lagrange, è riparatrice dei peccati altrui, più che purificatrice dei propri. Ella è unita a Gesù attraverso una fede e un amore tali da farle condividere la Sua esperienza nell’Orto del Getsemani e sulla croce.
Madre Teresa disse che la sofferenza nell’Orto degli ulivi era peggiore della sofferenza sulla croce. E adesso sappiamo quale era il fondamento di tale affermazione: aveva compreso l’amore di Gesù per le anime.
L’importante è che si tratti di unione e, come ha evidenziato Carlo Zaleski nel suo articolo pubblicato su First Things, questo tipo di prova è piuttosto nuovo. È un’esperienza inedita per i santi degli ultimi 100 anni: la sofferenza derivante dalla sensazione di non avere fede e di non credere nella religione.
dal sito « AsiaNews »:
http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=10223&size=A
05/09/2007 12:11
VATICANO
Il papa ricorda Madre Teresa, “autentica discepola di Cristo”
Benedetto XVI ha spronato i missionari, le missionarie della carità e tutta la Chiesa a seguire il suo esempio. Un augurio anche al convegno voluto da Bartolomeo I sull’ecologia nell’Artico. Gregorio di Nissa, l’essere cristiano e l’amore a Dio e ai poveri. La catechesi di oggi dedicata all’insegnamento di Gregorio di Nissa per il quale la perfezione dell’uomo sta nell’imitare Dio nell’amore.
Città del Vaticano (AsiaNews) – All’udienza del papa non poteva mancare oggi, 10° anniversario della sua morte e festa liturgica della beata, un ricordo del pontefice per Madre Teresa. Salutando un folto gruppo di missionari e missionarie della Carità, presenti in piazza san Pietro con i loro collaboratori, Benedetto XVI ha detto loro: “Cari amici la vita e la testimonianza di questa autentica discepola di Cristo, di cui proprio oggi celebriamo la memoria liturgica, sono un invito a voi e a tutta la Chiesa a servire sempre Dio nei poveri e bisognosi. Continuate a seguire il suo esempio e siate dappertutto strumenti della divina Misericordia”.
Con una voce rauca – “un po’ danneggiata”, ha detto all’inizio, chiedendo scusa ai fedeli, che hanno risposto con un applauso – il papa ha anche ricordato un convegno sulla cura dell’ambiente nell’Artico, promosso da Bartolomeo I, Patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli, che egli stesso aprirà domani in Groenlandia.
Parlando in inglese, ha detto: Desidero salutare tutti i partecipanti, i vari leader religiosi e gli scienziati e assicuro loro il mio sostegno per i loro sforzi. La cura delle risorse dell’acqua e l’attenzione ai cambiamenti climatici sono una questione di grande importanza per ‘intera famiglia umana. Incoraggiato dalla crescente attenzione ai bisogni e le necessità di preservare l’ambiente, invito tutti voi a unirvi a me nella preghiera e nell’impegno per un maggior rispetto per le meraviglie della creazione di Dio”.
Nella catechesi, dove il papa sta presentando alcune figure dei Padri della Chiesa, Benedetto XVI si è soffermato oggi su alcuni insegnamenti di Gregorio di Nissa e sulla sua concezione “molto elevata” dell’uomo, il cui fine – secondo Gregorio – è di “rendersi simile a Dio” e ciò avviene attraverso l’amore. “Quando l’uomo ama – ha spiegato il pontefice – egli coopera con Dio a modellare in sé la divina immagine”.
Questo amore è indirizzato a Dio, ma anche ai poveri. “Gregorio – ha detto il papa – ricorda che Cristo è presente anche nei poveri e per questo essi non devono essere mai oltraggiati” E citando un brano del Padre della Chiesa ha aggiunto: “Non disprezzare costoro che giacciono stesi… Considera chi sono e scoprirai qual è la loro dignità: essi ci rappresentano la persona del Salvatore”.
Benedetto XVI ha anche sottolineato il valore della parola “cristiano” per Gregorio di Nissa: “Cristiano è uno che porta il nome di Cristo e quindi dovrebbe assimilarsi a Cristo. Nel nome cristiano portiamo una grande responsabilità”. “Il cristiano – ha aggiunto – deve esaminare sempre nel suo intimo i propri pensieri, le proprie parole, le proprie azioni, per vedere s esse sono rivolte a Cristo o se si allontanano da lui”.
“Per progredire verso la perfezione – ha poi aggiunto il papa – e portare in sé l’amore di Dio, l’uomo deve rivolgersi con fiducia a Dio, ispirandosi alla preghiera del Signore”.