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BENEDETTO XVI – BEDA IL VENERABILE – 25 MAGGIO

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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 febbraio 2009

BEDA IL VENERABILE – 25 MAGGIO

Cari fratelli e sorelle,

il Santo che oggi avviciniamo si chiama Beda e nacque nel Nord-Est dell’Inghilterra, esattamente in Northumbria, nell’anno 672/673. Egli stesso racconta che i suoi parenti, all’età di sette anni, lo affidarono all’abate del vicino monastero benedettino perché venisse educato: “In questo monastero – egli ricorda – da allora sono sempre vissuto, dedicandomi intensamente allo studio della Scrittura e, mentre osservavo la disciplina della Regola e il quotidiano impegno di cantare in chiesa, mi fu sempre dolce o imparare o insegnare o scrivere” (Historia eccl. Anglorum, V, 24). Di fatto, Beda divenne una delle più insigni figure di erudito dell’alto Medioevo, potendo avvalersi dei molti preziosi manoscritti che i suoi abati, tornando dai frequenti viaggi in continente e a Roma, gli portavano. L’insegnamento e la fama degli scritti gli procurarono molte amicizie con le principali personalità del suo tempo, che lo incoraggiarono a proseguire nel suo lavoro da cui in tanti traevano beneficio. Ammalatosi, non smise di lavorare, conservando sempre un’interiore letizia che si esprimeva nella preghiera e nel canto. Concludeva la sua opera più importante la Historia ecclesiastica gentis Anglorum con questa invocazione: “Ti prego, o buon Gesù, che benevolmente mi hai permesso di attingere le dolci parole della tua sapienza, concedimi, benigno, di giungere un giorno da te, fonte di ogni sapienza, e di stare sempre di fronte al tuo volto”. La morte lo colse il 26 maggio 735: era il giorno dell’Ascensione.
Le Sacre Scritture sono la fonte costante della riflessione teologica di Beda. Premesso un accurato studio critico del testo (ci è giunta copia del monumentale Codex Amiatinus della Vulgata, su cui Beda lavorò), egli commenta la Bibbia, leggendola in chiave cristologica, cioè riunisce due cose: da una parte ascolta che cosa dice esattamente il testo, vuole realmente ascoltare, comprendere il testo stesso; dall’altra parte, è convinto che la chiave per capire la Sacra Scrittura come unica Parola di Dio è Cristo e con Cristo, nella sua luce, si capisce l’Antico e il Nuovo Testamento come “una” Sacra Scrittura. Le vicende dell’Antico e del Nuovo Testamento vanno insieme, sono cammino verso Cristo, benché espresse in segni e istituzioni diverse (è quella che egli chiama concordia sacramentorum). Ad esempio, la tenda dell’alleanza che Mosè innalzò nel deserto e il primo e secondo tempio di Gerusalemme sono immagini della Chiesa, nuovo tempio edificato su Cristo e sugli Apostoli con pietre vive, cementate dalla carità dello Spirito. E come per la costruzione dell’antico tempio contribuirono anche genti pagane, mettendo a disposizione materiali pregiati e l’esperienza tecnica dei loro capimastri, così all’edificazione della Chiesa contribuiscono apostoli e maestri provenienti non solo dalle antiche stirpi ebraica, greca e latina, ma anche dai nuovi popoli, tra i quali Beda si compiace di enumerare gli Iro-Celti e gli Anglo-Sassoni. San Beda vede crescere l’universalità della Chiesa che non è ristretta a una determinata cultura, ma si compone di tutte le culture del mondo che devono aprirsi a Cristo e trovare in Lui il loro punto di arrivo.
Un altro tema amato da Beda è la storia della Chiesa. Dopo essersi interessato all’epoca descritta negli Atti degli Apostoli, egli ripercorre la storia dei Padri e dei Concili, convinto che l’opera dello Spirito Santo continua nella storia. Nei Chronica Maiora Beda traccia una cronologia che diventerà la base del Calendario universale “ab incarnatione Domini”. Già da allora si calcolava il tempo dalla fondazione della città di Roma. Beda, vedendo che il vero punto di riferimento, il centro della storia è la nascita di Cristo, ci ha donato questo calendario che legge la storia partendo dall’Incarnazione del Signore. Registra i primi sei Concili Ecumenici e i loro sviluppi, presentando fedelmente la dottrina cristologica, mariologica e soteriologica, e denunciando le eresie monofisita e monotelita, iconoclastica e neo-pelagiana. Infine redige con rigore documentario e perizia letteraria la già menzionata Storia Ecclesiastica dei Popoli Angli, per la quale è riconosciuto come “il padre della storiografia inglese”. I tratti caratteristici della Chiesa che Beda ama evidenziare sono: a) la cattolicità come fedeltà alla tradizione e insieme apertura agli sviluppi storici, e come ricerca della unità nella molteplicità, nella diversità della storia e delle culture, secondo le direttive che Papa Gregorio Magno aveva dato all’apostolo dell’Inghilterra, Agostino di Canterbury; b) l’apostolicità e la romanità: a questo riguardo ritiene di primaria importanza convincere tutte le Chiese Iro-Celtiche e dei Pitti a celebrare unitariamente la Pasqua secondo il calendario romano. Il Computo da lui scientificamente elaborato per stabilire la data esatta della celebrazione pasquale, e perciò l’intero ciclo dell’anno liturgico, è diventato il testo di riferimento per tutta la Chiesa Cattolica.
Beda fu anche un insigne maestro di teologia liturgica. Nelle Omelie sui Vangeli domenicali e festivi, svolge una vera mistagogia, educando i fedeli a celebrare gioiosamente i misteri della fede e a riprodurli coerentemente nella vita, in attesa della loro piena manifestazione al ritorno di Cristo, quando, con i nostri corpi glorificati, saremo ammessi in processione offertoriale all’eterna liturgia di Dio nel cielo. Seguendo il “realismo” delle catechesi di Cirillo, Ambrogio e Agostino, Beda insegna che i sacramenti dell’iniziazione cristiana costituiscono ogni fedele “non solo cristiano ma Cristo”. Ogni volta, infatti, che un’anima fedele accoglie e custodisce con amore la Parola di Dio, a imitazione di Maria concepisce e genera nuovamente Cristo. E ogni volta che un gruppo di neofiti riceve i sacramenti pasquali, la Chiesa si “auto-genera”, o con un’espressione ancora più ardita, la Chiesa diventa “madre di Dio”, partecipando alla generazione dei suoi figli, per opera dello Spirito Santo.
Grazie a questo suo modo di fare teologia intrecciando Bibbia, Liturgia e Storia, Beda ha un messaggio attuale per i diversi “stati di vita”: a) agli studiosi (doctores ac doctrices) ricorda due compiti essenziali: scrutare le meraviglie della Parola di Dio per presentarle in forma attraente ai fedeli; esporre le verità dogmatiche evitando le complicazioni eretiche e attenendosi alla “semplicità cattolica”, con l’atteggiamento dei piccoli e umili ai quali Dio si compiace di rivelare i misteri del Regno; b) i pastori, per parte loro, devono dare la priorità alla predicazione, non solo mediante il linguaggio verbale o agiografico, ma valorizzando anche icone, processioni e pellegrinaggi. Ad essi Beda raccomanda l’uso della lingua volgare, com’egli stesso fa, spiegando in Northumbro il “Padre Nostro”, il “Credo” e portando avanti fino all’ultimo giorno della sua vita il commento in volgare al Vangelo di Giovanni; c) alle persone consacrate che si dedicano all’Ufficio divino, vivendo nella gioia della comunione fraterna e progredendo nella vita spirituale mediante l’ascesi e la contemplazione, Beda raccomanda di curare l’apostolato – nessuno ha il Vangelo solo per sé, ma deve sentirlo come un dono anche per gli altri – sia collaborando con i Vescovi in attività pastorali di vario tipo a favore delle giovani comunità cristiane, sia rendendosi disponibili alla missione evangelizzatrice presso i pagani, fuori del proprio paese, come “peregrini pro amore Dei”.
Ponendosi da questa prospettiva, nel commento al Cantico dei Cantici Beda presenta la Sinagoga e la Chiesa come collaboratrici nella diffusione della Parola di Dio. Cristo Sposo vuole una Chiesa industriosa, “abbronzata dalle fatiche dell’evangelizzazione” – è chiaro l’accenno alla parola del Cantico dei Cantici (1, 5), dove la sposa dice: “Nigra sum sed formosa” (Sono abbronzata, ma bella) –, intenta a dissodare altri campi o vigne e a stabilire fra le nuove popolazioni “non una capanna provvisoria ma una dimora stabile”, cioè a inserire il Vangelo nel tessuto sociale e nelle istituzioni culturali. In questa prospettiva il santo Dottore esorta i fedeli laici ad essere assidui all’istruzione religiosa, imitando quelle “insaziabili folle evangeliche, che non lasciavano tempo agli Apostoli neppure di prendere un boccone”. Insegna loro come pregare continuamente, “riproducendo nella vita ciò che celebrano nella liturgia”, offrendo tutte le azioni come sacrificio spirituale in unione con Cristo. Ai genitori spiega che anche nel loro piccolo ambito domestico possono esercitare “l’ufficio sacerdotale di pastori e di guide”, formando cristianamente i figli ed afferma di conoscere molti fedeli (uomini e donne, sposati o celibi) “capaci di una condotta irreprensibile che, se opportunamente seguiti, potrebbero accostarsi giornalmente alla comunione eucaristica” (Epist. ad Ecgberctum, ed. Plummer, p. 419)
La fama di santità e sapienza di cui Beda godette già in vita, valse a guadagnargli il titolo di “Venerabile”. Lo chiama così anche Papa Sergio I, quando nel 701 scrive al suo abate chiedendo che lo faccia venire temporaneamente a Roma per consulenza su questioni di interesse universale. Dopo la morte i suoi scritti furono diffusi estesamente in Patria e nel Continente europeo. Il grande missionario della Germania, il Vescovo san Bonifacio (+ 754), chiese più volte all’arcivescovo di York e all’abate di Wearmouth che facessero trascrivere alcune sue opere e glie­le mandassero in modo che anch’egli e i suoi compagni potessero godere della luce spirituale che ne emanava. Un secolo più tardi Notkero Galbulo, abate di San Gallo (+ 912), prendendo atto dello straordinario influsso di Beda, lo paragonò a un nuovo sole che Dio aveva fatto sorgere non dall’Oriente ma dall’Occidente per illuminare il mondo. A parte l’enfasi retorica, è un fatto che, con le sue opere, Beda contribuì efficacemente alla costruzione di una Europa cristiana, nella quale le diverse popolazioni e culture si sono fra loro amalgamate, conferendole una fisionomia unitaria, ispirata alla fede cristiana. Preghiamo perché anche oggi ci siano personalità della statura di Beda, per mantenere unito l’intero Continente; preghiamo affinché tutti noi siamo disponibili a riscoprire le nostre comuni radici, per essere costruttori di una Europa profondamente umana e autenticamente cristiana. 

SAN PACOMIO ABATE – 9 MAGGIO – ALTO EGITTO, 287 – 347

http://www.santiebeati.it/dettaglio/52450

(vedere anche sul sito:

http://it.cathopedia.org/wiki/San_Pacomio#Scritti )

SAN PACOMIO ABATE

9 MAGGIO

ALTO EGITTO, 287 – 347

Nacque nell’Alto Egitto, nel 287, da genitori pagani. Arruolato a forza nell’esercito imperiale all’età di vent’anni, finì in prigione a Tebe con tutte le reclute. Protetti dall’oscurità, la sera alcuni cristiani recarono loro un po’ di cibo. Il gesto degli sconosciuti commosse Pacomio, che domandò loro chi li spingesse a far questo. «Il Dio del cielo» fu la risposta dei cristiani. Quella notte Pacomio pregò il Dio dei cristiani di liberarlo dalle catene, promettendogli in cambio di dedicare la propria vita al suo servizio. Tornato in libertà, adempì al voto aggregandosi a una comunità cristiana di un villaggio del sud, l’attuale Kasr-es-Sayad, dove ebbe l’istruzione necessaria per ricevere il battesimo. Per qualche tempo condusse vita da asceta, dedicandosi al servizio della gente del luogo, poi si mise per sette anni sotto la guida di un vecchio monaco, Palamone. Durante una parentesi di solitudine nel deserto, una voce misteriosa lo invitò a fissare la sua dimora in quel luogo, al quale presto sarebbero convenuti numerosi discepoli. Alla morte dell’abate Pacomio, i monasteri maschili erano nove, più uno femminile. Del santo restò sconosciuto il luogo della sepoltura. (Avvenire)

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Nella Tebaide, in Egitto, san Pacomio, abate, che, ancora pagano, spinto da un gesto di carità cristiana nei confronti dei soldati suoi compagni con lui detenuti, si convertì al cristianesimo, ricevendo dall’anacoreta Palémone l’abito monastico; dopo sette anni, per divina ispirazione, istituì molti cenobi per accogliere fratelli e scrisse per i monaci una regola divenuta famosa.
Come ti converto uno che non crede? Con l’esempio di una carità viva. Prendete un giovanotto pagano, arruolato a forza nell’esercito imperiale e subito fatto prigioniero insieme a tutte le reclute. Pensate allo sconcerto, alla delusione e alla sofferenza dei giorni di prigionia, insieme all’incertezza di quella che sarà la sua sorte. Immaginate l’incontro furtivo nella notte con alcuni uomini, che di nascosto vengono a confortarlo, sfamarlo e incoraggiarlo e che, insieme all’aiuto materiale, gli sussurrano parole di Cielo e dicono di fare tutto ciò in nome del “Dio dei cristiani”. Il giovanotto ne resta così colpito ed ammirato da rivolgersi all’ancora ignoto “Dio dei cristiani”, promettendo di dedicare a lui tutta la sua vita se riuscirà a liberarsi da quelle catene. E quando ciò avviene, al giovanotto restando solo due cose da fare: imparare a credere in quel Dio che lo ha liberato e, poi, studiare il modo per sciogliere il suo voto. E’ questa, in sintesi, l’origine dell’esperienza religiosa di San Pacomio, nato nell’Alto Egitto nel 287 e convertitosi al cristianesimo come abbiamo appena descritto. Dopo il battesimo, la vita spirituale di Pacomio cerca modi per esprimersi: prima all’interno di una comunità cristiana di cui si mette a servizio, quasi a voler subito mettere in pratica l’insegnamento di carità che quegli sconosciuti cristiani gli avevano trasmesso in carcere; poi attraverso l’esperienza eremitica, cioè l’incontro con Dio nella solitudine del deserto, di cui il grande Antonio è stato maestro un secolo prima. Pacomio, però, apre una strada nuova: all’imitazione di Gesù, solo nel deserto, in un rapporto esclusivo con il Padre e alle prese con le tentazioni del demonio, egli preferisce imitare Gesù che vive con i suoi discepoli ed insegna loro a pregare. Ecco nascere così attorno a lui un’interessante ed inedita esperienza di monachesimo: il cenobitismo o vita comune, dove la disciplina e l’autorità sostituiscono l’anarchia degli anacoreti. Quindi, non più e non solo la solitudine degli eremiti precedenti,con le astinenze, i digiuni e le penitenze corporali che li caratterizzano ma che possono anche nascondere l’insidia della bizzarria e dell’orgoglio; piuttosto, una comunità cristiana sul modello di quella fondata da Gesù con gli apostoli, basata sulla comunione nella preghiera, nel lavoro e nella refezione e concretizzata nel servizio reciproco. Il documento su cui Pacomio vuole regolare la vita della comunità è la Sacra Scrittura, che i monaci imparano a memoria e recitano a bassa voce mentre svolgono il loro lavoro: un contatto diretto con Dio attraverso il “sacramento della Parola”. Pacomio muore il 14 maggio 346, lasciando in eredità una decina di monasteri, di cui un paio anche femminili. Il luogo della sua sepoltura è sempre stato sconosciuto, perché un punto di morte aveva raccomandato al discepolo più fedele di seppellirlo in un posto segreto, per evitare la venerazione dei suoi seguaci.

Autore: Gianpiero Pettiti

Publié dans:Santi, SANTI - CENOBITISMO |on 8 mai, 2015 |Pas de commentaires »

L’AVVENTURA DI SERAFINO DI SAROV, MAESTRO DI SPIRITUALITÀ NON SOLO PER GLI ORTODOSSI.

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2013/08/lavventura-di-serafino-di-sarov.html

L’AVVENTURA DI SERAFINO DI SAROV

MAESTRO DI SPIRITUALITÀ NON SOLO PER GLI ORTODOSSI.

(Michele Evdokimov) San Serafino di Sarov, con san Sergio di Radonetz (XIV secolo) e, più vicino a noi, con san Silvano del Monte Athos (morto nel 1938), è uno dei santi russi più venerati, almeno tra i più conosciuti in Occidente. L’irradiamento della santità non conosce frontiera. All’inverso, san Francesco d’Assisi, san Benedetto da Norcia e santa Teresa di Lisieux sono i santi d’Occidente più amati in Russia. L’irradiamento della santità si fonda raramente su un’opera scritta. Se all’infuori di alcuni Insegnamenti spirituali Serafino non lascia scritti, tuttavia l’irradiamento del monaco di Sarov scaturito dalle profondità della foresta russa, ha superato rapidamente quell’ambito per diffondersi nel mondo. Certe sue frasi sulla pace interiore, sulla gioia della risurrezione, e altre ancora, sono entrate in un linguaggio comune a molti cristiani di tutte le confessioni.
È l’uomo della parola orale. La sua notorietà si fonda soprattutto sul celebre Colloquio con Motovilov riguardante l’acquisizione dei doni dello Spirito Santo. Esso forma un’opera di grande originalità, di un’estrema elevazione mistica, capace di segnalare nuove vie di accesso al mistero di Dio, un mistero pieno di luce e di bellezza nello Spirito Santo.
Il Figlio e lo Spirito, queste «due mani del Padre», diceva sant’Ireneo, sono chiamati ad agire in perfetta armonia nel mondo. Il genio di Serafino è stato quello di essere condotto, per grazia, a correggere, a riequilibrare questa armonia a vantaggio dello Spirito, che era allora assai misconosciuto e i cui carismi non erano affatto vissuti nella loro potenza di trasfigurazione.
Al cuore di questo Colloquio c’è dunque l’acquisizione dei doni dello Spirito. Si tratta meno di pronunciare parole, di dare un insegnamento, che non di condividere un’esperienza di trasformazione interiore. Accolto con serietà, questo messaggio non può non provocare un cambiamento del nostro essere, per quanto impercettibile. Il desiderio stesso di pregare, di unirsi a Dio, non è già il segno che lo Spirito è all’opera nel cuore del credente? Infatti, «nessuno può dire “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Corinzi, 12, 3).
La preghiera è un’avventura, quella di un esploratore che si immerge negli abissi del cuore e vi incontra l’ospite invisibile. Lontano da ogni moralismo attivista, ci dice Serafino, essa è un’attesa vigilante, appassionata, uno spazio di silenzio scavato nel fondo di sé per liberare il posto a colui che «viene verso di noi».
Serafino ha una sua maniera di proporre come fine della vita cristiana l’acquisizione dei doni dello Spirito, e non la sola messa in pratica dei fondamenti della morale. Alcuni criteri palpabili permettono di misurarne gli effetti: la gioia, soprattutto quella data dalla certezza della risurrezione; la pace interiore, quali che siano gli sconvolgimenti della vita; la semplicità del cuore che si dedica alla sapienza; la luce, che è la manifestazione dello Spirito in un’anima aperta alla sua pienezza.
Pregare con i santi significa unirsi al nugolo dei testimoni che circondano il trono di Dio, lasciarsi trascinare verso la gloria indicibile. Essi vengono dalla grande tribolazione, «hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Apocalisse, 7, 14).
Il patriarca Cirillo
Venerato in tutta la Russia e amato in Occidente, san Serafino di Sarov è considerato dagli ortodossi modello di vita cristiana. Nel giorno della sua festa, il 1° agosto scorso, il patriarca di Mosca, Cirillo, ha esortato i fedeli a guardare all’esempio di questo santo per mantenere la purezza della mente, «in modo che il nostro cuore sia sempre aperto alle persone e al bene». San Serafino, ha aggiunto, «ha acquisito queste virtù con la preghiera, il digiuno, la solitudine, e in modo particolare con l’umiltà e l’amore per le persone. Dio, in risposta a questa prodezza, lo rese angelico, perché solo la potenza di Dio può fare questo e dà la possibilità di vivere la vita che ha vissuto san Serafino di Sarov. Attraverso le sue preghiere Dio ci preservi da ogni male».

Al santo monaco è dedicato un libro, in vendita da alcune settimane, dal quale riprendiamo il testo introduttivo scritto dall’autore dell’opera, un sacerdote ortodosso (Serafino di Sarov, 15 meditazioni, Milano, Piero Gribaudi editore, 2013, pagine 92, 
L’Osservatore Romano

SANT’ ATANASIO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA, 2 MAGGIO 295-373

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23100

SANT’ ATANASIO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

2 MAGGIO

295-373

Vescovo di Alessandria d’Egitto, fu l’indomito assertore della fede nella divinità di Cristo, negata dagli Ariani e proclamata dal Concilio di Nicea (325). Per questo soffrì persecuzioni ed esili. Narrò la vita di Sant’Antonio abate e divulgò anche in Occidente l’ideale monastico. (Mess. Rom.)

Etimologia: Atanasio = immortale, dal greco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Memoria di sant’Atanasio, vescovo e dottore della Chiesa, di insigne santità e dottrina, che ad Alessandria d’Egitto dai tempi di Costantino fino a quelli dell’imperatore Valente combattè strenuamente per la retta fede e, subite molte congiure da parte degli ariani, fu più volte mandato in esilio; tornato infine alla Chiesa a lui affidata, dopo aver lottato e sofferto molto con eroica pazienza, nel quarantaseiesimo anno del suo sacerdozio riposò nella pace di Cristo.
L’epoca in cui visse sant’Atanasio fu di grande crisi della ortodossia, cioè della Dottrina autentica. Siamo intorno al 360. In quel periodo (così come oggi) la Verità cattolica rischiava di scomparire. Celebre è la frase di san Girolamo che descriveva quei tempi: «E il mondo, sgomento, si ritrovò ariano».
In tale contesto, sant’Atanasio non si piegò. Egli era un giovane vescovo di Alessandria d’Egitto. Rimase talmente solo a difendere la purezza della Dottrina che per quasi mezzo secolo la sopravvivenza della Fede autentica in Gesù Cristo si trasformò in una diatriba tra chi era per e chi non per Atanasio.
Qualche cenno biografico. Egli nacque ad Alessandria nel 295. Nel 325 presenziò al celebre Concilio di Nicea, in qualità di diacono di Alessandro ch’era vescovo di Alessandria. Concilio famoso quello di Nicea perché fu lì che venne solennemente proclamata la Fede nella Divinità di Cristo in quanto consustanziale al Padre. Fu lì che fu stabilita la definizione per intendere l’uguaglianza del Figlio con il Padre: homoousius, che vuol dire “della stessa sostanza”. Attenzione a questa definizione (homoousius) perché questa sarà la sostanza del contendere.
Torniamo alla vita di sant’Atanasio. Il 17 aprile del 328 morì il vescovo Alessandro e il popolo di Alessandria d’Egitto chiese a gran voce Atanasio come vescovo. Fu vescovo per ben 46 anni, ma furono 46 anni durissimi, 46 anni di lotta contro l’eresia ariana e contro gli ariani. Questi ovviamente rifiutavano proprio ciò che il Concilio di Nicea aveva detto di Gesù, il termine homoousius, che, come ho già ricordato, vuol dire: della stessa sostanza del Padre.
Il comportamento degli ariani di quel tempo è indicativo per capire quanto le vicende che toccarono a sant’Atanasio siano straordinariamente attuali. Sant’Ilario di Poitiers (315-367) racconta che gli ariani ebbero sempre la scaltrezza di rifiutare ogni scontro dogmatico in merito alla questione della natura di Gesù perché sapevano che le loro tesi non potevano essere fondate sulla Tradizione né sul Magistero definito. Si limitavano a fare ciò che solitamente fa chi non sa controbattere in una discussione: invece di rispondere sugli argomenti, calunnia. La discussione dottrinale veniva spesso trasformata in conflitto su questioni personali. Il povero sant’Atanasio fu accusato delle più grandi nefandezze: di aver imbrogliato, di aver violentato una donna, di aver ucciso, di minare all’unicità della Chiesa. Una tecnica che non passa mai di moda. D’altronde il demonio è sempre lo stesso e ha sempre la stessa monotona fantasia.
Gli ariani però non si limitarono a questo. Operarono anche con grande astuzia. Prima di tutto cercarono di occupare quante più sedi episcopali e poi lanciarono quello che successivamente è stato definito come semiarianesimo. Altra tecnica tipica delle eresie: una volta condannate, riemergono proponendo un compromesso tra la verità e l’errore. Gli ariani propagandarono la necessità di sostituire il termine stabilito dal Concilio di Nicea, homoousion, con il termine homoiousion. Differenza di una sola lettera, minimale, ma che cambiava tutto. Infatti, il primo termine (homoousion) significa “della stessa sostanza”, il secondo termine (homoiousion) significa “simile in essenza”. Traducendo si capisce quanto la differenza non sia di poco conto.
Mentre molti vescovi si lasciarono convincere da questo compromesso terminologico, che era cedimento sulla Dottrina, sant’Atanasio tenne fermo, resistette come un leone. Subì l’esilio per almeno cinque volte, ma non cedette. E – come si suol dire – non era tipo che la mandasse a dire né che parlasse alle spalle. Si sentiva il dovere di difendere le anime per cui non lesinò un linguaggio polemico per mostrare a tutti quanto fossero in errore e quanto fossero pericolosi i semiariani, che invece agli occhi di molti sembravano innocui. Se la prendeva anche con chi voleva accettare il compromesso dottrinale. Sentite cosa diceva a riguardo: «Volete essere figli della luce, ma non rinunciate ad essere figli del mondo. Dovreste credere alla penitenza, ma voi credete alla felicità dei tempi nuovi. Dovreste parlare della Grazia, ma voi preferite parlare del progresso umano. Dovreste annunciare Dio, ma preferite predicare l’uomo e l’umanità. Portare il nome di Cristo, ma sarebbe più giusto se portaste il nome di Pilato. Siete la grande corruzione, perché state nel mezzo. Volete stare nel mezzo tra la luce e il mondo. Siete maestri del compromesso e marciate col mondo. Io vi dico: fareste meglio ad andarvene col mondo ed abbandonare il Maestro, il cui regno non è di questo mondo».
Nel 335 a Tiro, in Palestina, fu convocato un sinodo per dirimere la controversia e dunque per decidere quale atteggiamento avere nei confronti di ciò che affermava sant’Atanasio. Il concilio definì il Vescovo di Alessandria con questi termini: “arrogante”, “superbo” e “uomo che vuole la discordia”. Il papa Giulio I (?-352) cercò di difenderlo, ma poi di lì a non molto morì e il povero sant’Atanasio fu nuovamente attaccato.
Intanto anche il potere politico si accaniva contro di lui: l’imperatore Costanzo l’odiava. Fu convocato un concilio ad Arles e qui si costrinsero i vescovi a sottoscrivere una condanna di sant’Atanasio. Chi si opponeva difendendolo veniva mandato in esilio, fu il caso di Paolino di Treviri. Stessa sorte toccò anche al papa legittimo Liberio (?-366), che venne sostituito da un antipapa, Felice.
Fu allora che accadde ciò che viene ricordato come “caduta” di un Papa. Liberio, per ottenere il potere e tornare a Roma come papa legittimo, decise anch’egli di accettare l’ambigua definizione semiariana, eppure fino ad allora si era distinto per una convinta definizione dell’homoousius del Concilio di Nicea.
Altri concili segnarono il trionfo dell’eresia: quelli non ecumenici di Rimini e di Seleucia, siamo nel 359. Ma era prevedibile che per come era stato trattato sant’Atanasio e soprattutto per come era stata rinnegata la vera Fede il castigo fosse alle porte. All’imperatore Costanzo, morto nel 360, successe Giuliano detto “l’apostata” (330-363), che arrivò a ripudiare il Battesimo cercando di restaurare il paganesimo.
Non passò molto tempo e il nuovo imperatore Valente, così come il nuovo papa Damaso, capirono che sant’Atanasio aveva ragione e lo riabilitarono. L’intrepido difensore della Fede cattolica morì il 2 maggio del 373.
Ancora due cose vanno messe in rilievo. La prima: ai tempi di sant’Atanasio a difendere la Fede ci fu solo lui e una piccola comunità, i vescovi dell’Egitto e della Libia. Solo loro seppero mantenere accesa la luce della fede. La seconda: è significativo che colui che combatté da solo contro l’eresia ariana, non fu mai un teologo. La sua grande sapienza teologica, più che dagli studi, gli venne dall’incontro con i suoi maestri cristiani che testimoniarono il martirio durante le persecuzioni di Diocle­ziano; e soprattutto dall’incontro con il grande sant’Antonio. Ario, invece, raccoglieva grande consenso per la sua grande preparazione biblica e teologica. Era insomma come tanti teologi che oggi vanno per la maggiore nei dibattiti, nelle prime pagine dei quotidiani e nei talk-show televisivi. Atanasio però sapeva quanto qui stesse l’insidia del demonio. Nella sua celebre Vita di Antonio egli riporta un insegnamento del suo grande maestro: «[...] i demoni sono astuti e pronti a ricorrere ad ogni inganno e ad assumere altre sembianze. Spesso fingono di cantare i salmi senza farsi vedere e citano le parole della Scrittura. [...]. A volte assumono sembianze di monaci, fingono di parlare come uomini di fede per trarci in inganno mediante un aspetto simile al nostro e poi trascinano dove vogliono le vittime dei loro inganni».

Autore: Corrado Gnerre

SANTA CATERINA DA SIENA VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA, PATRONA D’ITALIA, 29 APRILE

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20900

SANTA CATERINA DA SIENA VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA, PATRONA D’ITALIA

29 APRILE

Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380

«Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d’Italia, celebre. Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua «  »cella »" di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno «  »Caterinati »". Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. (Avvenire)

Patronato: Italia, Europa (Giovanni Paolo II, 1/10/99)
Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco
Emblema: Anello, Giglio

Martirologio Romano: Festa di Santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, che, preso l’abito delle Suore della Penitenza di San Domenico, si sforzò di conoscere Dio in se stessa e se stessa in Dio e di rendersi conforme a Cristo crocifisso; lottò con forza e senza sosta per la pace, per il ritorno del Romano Pontefice nell’Urbe e per il ripristino dell’unità della Chiesa, lasciando pure celebri scritti della sua straordinaria dottrina spirituale.
Quando si pensa a santa Caterina da Siena vengono in mente tre aspetti di questa mistica nella quale sono stati stravolti i piani naturali: la sua totale appartenenza a Cristo, la sapienza infusa, il suo coraggio. I due simboli che caratterizzano l’iconografia cateriniana sono il libro e il giglio, che rappresentano rispettivamente la dottrina e la purezza. L’insistenza dell’iconografia antica sui simboli dottrinali e soprattutto il capolavoro de Il Dialogo della Divina Provvidenza (ovvero Libro della Divina Dottrina), l’eccezionale Epistolario e la raccolta delle Preghiere sono stati decisivi per la proclamazione a Dottore della Chiesa di santa Caterina, avvenuta il 4 ottobre 1970 per volere di Paolo VI (1897-1978), sette giorni dopo quella di santa Teresa d’ Avila (1515–1582).
Caterina (dal greco: donna pura) vive in un momento storico e in una terra, la Toscana, di intraprendente ricchezza spirituale e culturale, la cui scena artistica e letteraria era stata riempita da figure come Giotto (1267–1337) e Dante (1265–1321), ma, contemporaneamente, dilaniata da tensioni e lotte fratricide di carattere politico, dove occupavano spazio preponderante le discordie fra guelfi e ghibellini.

La vita
Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell’Oca) il 25 marzo 1347: è la ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’ Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali.
Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate, dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio…
Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle «mantellate» (dal mantello nero sull’abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità.
Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.
Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20).
Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo -MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie…

Le lettere
Le lettere, che la mistica osa scrivere al Papa in nome di Dio, sono vere e proprie colate di lava, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile, tutto cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore: sospinge nel divino la realtà contingente, immergendo, con una iridescente e irresistibile forza d’amore, uomini e circostanze nello spazio soprannaturale. Ecco allora che le sue epistole sono un impasto di prosa e poesia, dove gli appelli alle autorità, sia religiose che civili, sono fermi e intransigenti, ma intrisi di materno sentire: «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito muliebre è in grado di palesare.
La poesia di colei che scrive al Papa «Oimé, padre, io muoio di dolore, e non posso morire» è costituita da sublimi altezze e folgoranti illuminazioni divine, ma nel contempo, conoscendo che cosa sia il peccato e dove esso conduca, tocca abissi di indicibile nausea, perché Caterina intinge il pensiero nell’inchiostro della realtà tutta intera, quella fatta di bene e male, di angeli e demoni, di natura e sovranatura, dove il contingente si incontra e si scontra nell’Eterno.

Per la causa di Cristo
Una brulicante «famiglia spirituale», formata da sociae e socii, confessori e segretari, vive intorno a questa madre che pungola, sostiene, invita, con forza e senza posa, alla Causa di Cristo, facendo anche pressioni, come pacificatrice, su casate importanti come i Tolomei, i Malavolti, i Salimbeni, i Bernabò Visconti…
Lotte con il demonio, levitazioni, estasi, bilocazioni, colloqui con Cristo, il desiderio di fusione in Lui e la prima morte di puro amore, quando l’amore ebbe la forza della morte e la sua anima fu liberata dalla carne… per un breve spazio di tempo.
I temi sui quali Caterina pone attenzione sono: la pacificazione dell’Italia, la necessità della crociata, il ritorno della sede pontificia a Roma e la riforma della Chiesa. Passato il periodo della peste a Siena, nel quale non sottrae la sua attenta assistenza, il 1° aprile del 1375, nella chiesa di Santa Cristina, riceve le stimmate incruente. In quello stesso anno cerca di dissuadere i capi delle città di Pisa e Lucca dall’aderire alla Lega antipapale promossa da Firenze che si trovava in urto con i legati pontifici, che avrebbero dovuto preparare il ritorno del Papa a Roma. L’anno seguente partì per Avignone, dove giunse il 18 giugno per incontrare Gregorio XI (1330–1378), il quale, persuaso dall’intrepida Caterina, rientrò nella città di san Pietro il 17 gennaio 1377. L’anno successivo morì il Pontefice e gli successe Urbano VI (1318–1389), ma una parte del collegio cardinalizio gli preferì Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII (1342– 1394, antipapa), dando inizio al grande scisma d’Occidente, che durò un quarantennio, risolto al Concilio di Costanza (1414-1418) con le dimissioni di Gregorio XII (1326–1417), che precedentemente aveva legittimato il Concilio stesso, e l’elezione di Martino V (1368–1431), nonché con le scomuniche degli antipapi di Avignone (Benedetto XIII, 1328–1423) e di Pisa (Giovanni XXIII, 1370–1419).
All’udienza generale del 24 novembre 2010 Benedetto XVI ha affermato, riferendosi proprio a santa Caterina: «Il secolo in cui visse – il quattordicesimo – fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento».
Amando Gesù («O Pazzo d’amore!»), che descrive come un ponte lanciato tra Cielo e terra, Caterina amava i sacerdoti perché dispensatori, attraverso i Sacramenti e la Parola, della forza salvifica. L’anima di colei che iniziava le sue cocenti e vivificanti lettere con «Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo», raggiunge la beatitudine il 29 aprile 1380, a 33 anni, gli stessi di Cristo, nel quale si era persa per ritrovare l’autentica essenza.

Autore: Cristina Siccardi 

Publié dans:Santi, Santi Patroni |on 29 avril, 2015 |Pas de commentaires »

CORAZZA DI S. PATRIZIO – PREGHIERA DI SAN PATRIZIO

http://apologetica-cattolica.net/preghiera/item/54-san-patrizio.html

CORAZZA DI S. PATRIZIO – PREGHIERA  DI SAN PATRIZIO

Io associo oggi a me la forza possente dell’invocazione della Trinità: io credo la Trinità nell’Unità, il Creatore dell’universo.
Io associo oggi a me la forza della Nascita di Cristo con il suo Battesimo, la forza della sua Crocifissione e della sua Sepoltura, la forza della sua Resurrezione e della sua Ascensione, la forza della sua Venuta per il Giudizio Universale.
Io associo oggi a me la forza dell’amore dei cherubini, nell’ obbedienza degli angeli, nella speranza della resurrezione e della ricompensa, nelle preghiere dei Patriarchi, nelle predizioni dei profeti, nella predicazione degli Apostoli, nella fede dei Confessori, nell’innocenza delle sante Vergini, nelle imprese degli uomini giusti.
Io associo oggi a me: la forza del Cielo, la luce del sole, il fulgore della luna, lo splendore del fuoco, la velocità del lampo, la rapidità del vento, la profondità del mare, la stabilità della terra, la saldezza delle rocce.
Io associo oggi a me: la forza del Signore per guidarmi, il potere di Dio per sollevarmi, la saggezza di Dio per insegnarmi, l’occhio di Dio per custodirmi, l’orecchio di Dio per udirmi, la parola di Dio per darmi di parlare, la mano di Dio per guidarmi, la via di Dio perché stia davanti a me, lo scudo di Dio per proteggermi, l’esercito di Dio per custodirmi dai tranelli dei diavoli, dalle tentazioni del vizio, dalle passioni della natura, da chiunque mi voglia del male, che sia vicino o lontano, solo o con molti.
Io invoco oggi tutte queste forze contro ogni crudele e impietoso potere che si opponga al mio corpo e alla mia anima, contro le stregonerie di falsi profeti, contro le leggi nere del paganesimo, contro le leggi false degli eretici, contro la pratica dell’idolatria, contro i sortilegi di streghe, dei maghi e dei druidi, contro ogni conoscenza che lega l’anima dell’uomo.
Cristo proteggimi oggi contro il veleno, contro il fuoco, contro l’annegamento, contro ogni ferita mortale, così che io possa avere abbondante ricompensa. Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me, Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra, Cristo quando mi corico, Cristo nel seggio del carro, Cristo sulla poppa della nave, Cristo nel cuore di ogni uomo che mi pensa, Cristo sulle labbra di tutti coloro che parlano di me, Cristo in ogni occhio che mi guarda, Cristo in ogni orecchio che mi ascolta.Io associo oggi a me la forza possente dell’invocazione della Trinità: io credo la Trinità nell’Unità, il Creatore dell’universo.

Mia traduzione da
http://www.newadvent.org/cathen/11554a.htm
Don Tullio Rotondo

Publié dans:preghiere, Santi |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – DISCORSO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI IRLANDA (1989)

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1989/april/documents/hf_jp-ii_spe_19890420_pres-rep-irlanda.html

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II DURANTE LA VISITA UFFICIALE DI S.E. IL SIGNOR PATRICK J. HILLERY, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI IRLANDA

Giovedì, 20 aprile 1989

A Uachataráain Wasal (Caro signor Presidente).
Cad míle fáilte romhat chuig an Vaticáin (centomila volte benvenuto in Vaticano).

1. È per me un grande piacere riceverla oggi. Attraverso la sua persona estendo il mio caloroso saluto all’amatissimo popolo dell’Irlanda che occupa un posto speciale nel cuore del successore dell’apostolo Pietro. Nel disegno di Dio per la sua Chiesa, la predicazione di san Patrizio agli Irlandesi resta una delle esemplificazioni più straordinarie della parabola evangelica del seminatore che uscì fuori a seminare. Il seme cadde su un buon terreno e diede frutto il cento (cf. Mt 13, 8). Il singolare contributo dell’Irlanda all’evangelizzazione dell’Europa e allo sviluppo della cultura europea, come pure alla più recente espansione missionaria della Chiesa, ha forgiato un inscindibile legame tra il suo Paese e la Santa Sede.
Durante la mia memorabile visita del 1979, ho sperimentato di persona la profondità di questa “unione di carità tra l’Irlanda e la Santa Chiesa di Roma” (Homilia ad “Phoenix Park” habita, 1, die 29 sept. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 413). Per questi motivi, considerai la mia visita “il pagamento di un gran debito a Gesù Cristo, Signore della storia e operatore della nostra salvezza” (Homilia ad “Phoenix Park” habita, 1, die 29 sept. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 413). Il nostro incontro di oggi è un solenne riconoscimento e una gioiosa celebrazione di quella autentica amicizia che, da parte mia, abbraccia tutto il popolo di Irlanda, compresi i seguaci di altre tradizioni religiose.
2. L’Irlanda moderna fu fondata su una concezione della società che rispondeva alle più profonde aspirazioni del suo popolo e assicurava il rispetto della dignità e dei diritti di tutti i suoi abitanti. Una tale visione è legata al desiderio dell’effettiva realizzazione dei valori profondamente umani e cristiani che non hanno mai cessato di risuonare nella mente e nel cuore del popolo irlandese. L’Irlanda può certo essere orgogliosa del progresso realizzato. Le difficoltà – anche molto serie – non mancano ma, nel complesso, è una società affabile e cordiale, sicura nell’applicazione delle leggi e radicata nei più alti ideali della giustizia, la libertà e la pace.
Nel consesso internazionale, l’Irlanda occupa un posto di particolare rilievo. Milioni di persone in altre parti del mondo traggono la loro origine da questa terra, e un gran numero di Irlandesi, uomini e donne, della Chiesa, come anche volontari nel lavoro sociale e di sviluppo, prestano il loro servizio in quasi ogni angolo del mondo. Ugualmente notevole è il fatto che il suo Paese ha sempre cercato di essere un membro attivo ed impegnato nelle organizzazioni come l’ONU e la comunità europea.
Lei stesso, come ministro degli esteri ha negoziato l’ingresso dell’Irlanda nella CEE e ha lavorato come vice-presidente della commissione CEE per gli affari sociali. Ho notato nel Jean Monet Lecture da lei tenuto l’anno scorso all’istituto universitario europeo la profondità del suo impegno con l’ideale di una comunità europea che, nello stesso tempo, tiene in considerazione la ricchezza delle sue differenti culture e la singolarità della storia di ciascun popolo. La voce dell’Irlanda nell’Europa e nel mondo è particolarmente adatta ad essere la voce dell’amicizia, della buona volontà e della pace. L’Irlanda può contribuire con la saggia riflessione, calma e imparziale, sulle lezioni della storia, una riflessione fatta nel contesto dell’umanesimo profondamente cristiano che costituisce il suo ethos più autentico.
3. Come vostra eccellenza ben sa, nella Basilica di san Pietro c’è una cappella dedicata al grande irlandese, san Colombano. Il mosaico dietro l’altare mostra Colombano e i suoi discepoli come “peregrinantes pro Christo”, ambasciatori ed araldi del Vangelo di Cristo. Quante volte si è parlato così degli Irlandesi, uomini e donne, che sono stati sempre testimoni di Cristo in tutti i continenti! Il mosaico porta questa iscrizione: “Si tollis libertatem, tollis dignitatem” – se togli la libertà togli la dignità (Epist. n. 4 ad Attela, in S. Columbani opera, Dublin 1957, p. 34). La frase potrebbe essere stata pronunciata non da Colombano agli inizi del VII secolo, ma da uno dei vostri patrioti o da qualcuno oggi che guarda il mondo e costata con tristezza e dolore che non tutti i popoli sono liberi. Accanto alle vecchie forme di oppressione, le società moderne ne conoscono di nuove. Queste nuove servitù sono particolarmente distruttive della dignità umana.
Pensando a questo, durante la mia visita in Irlanda dieci anni fa, parlai di un confronto con valori e orientamenti alieni dalla società irlandese. Le società sviluppate fanno esperienza del fatto che i principi più sacri “sono stati completamente eliminati da false pretese” (Homilia ad “Phoenix Park” habita, 3, die 29 sept. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 415). L’egoismo si sostituisce al coraggio morale e alla solidarietà. Il valore della persona viene allora misurato in termini di avere e non di essere. Come conseguenza, si instaura un clima di grandi e piccole ingiustizie e migliaia di forme di violenza. Quella che viene considerata autentica libertà è in realtà solo una nuova forma di schiavitù.
In simili circostanze, le parole inscritte nella cappella di san Colombano risuonano con forza in tutta la loro saggezza e come avvertimento: se la vera libertà (la volontà di scegliere il bene e la verità) viene perduta, allora sono messi in pericolo il valore e gli inalienabili diritti della persona. L’Irlanda ha le risorse umane e spirituali per procedere nel cammino di un autentico sviluppo, che rispetti e promuova tutte le dimensioni della persona umana, nell’esercizio di una giusta e generosa solidarietà, soprattutto verso i membri più deboli della società. So, eccellenza, che lei condivide questa mia preoccupazione e convinzione. Le assicuro che la mia fervida preghiera per i suoi connazionali riflette la fiducia che l’Irlanda riuscirà ad affrontare positivamente questa sfida.
4. L’Irlanda è saldamente dalla parte della pace, che sta molto a cuore al popolo irlandese. Tuttavia la vita di tutta l’isola è sconvolta da un clima mortale di intimidazione e violenza che ha causato tante sofferenze alle due comunità nell’Irlanda del Nord negli ultimi vent’anni. La violenza che viene perpetrata in Irlanda non offre nessuna soluzione ai problemi reali della società. Non è il metodo scelto democraticamente dal popolo di entrambe le parti. Non porta verità che possa attrarre e convincere la mente e il cuore della gente comune. Il suo solo argomento è il terrore e la distruzione.
Solo una reale volontà di impegnarsi nel dialogo e in coraggiosi gesti di riconciliazione sa risalire alle cause profonde dell’attuale situazione di conflitto. Come ho scritto nel messaggio di quest’anno per la Giornata Mondiale della Pace, dove ci sono l’una accanto all’altra comunità con diverse origini etniche, tradizioni culturali o credo religioso, ciascuna ha diritto alla sua identità collettiva che deve essere salvaguardata e promossa (Nuntius ob diem ad pacem fovemdam dicatum pro a. D. 1989, 3, die 8 dec. 1988: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI, 3 [1988] 1788). Nello stesso tempo tutti dovranno valutare consapevolmente la fondatezza delle loro rivendicazioni alla luce dell’evoluzione storica e della realtà attuale. Non farlo comporterebbe il rischio di rimanere prigionieri del passato e senza prospettive per l’avvenire (Nuntius ob diem ad pacem fovendam dicatum pro a. D. 1989, 11, die 8 dec. 1988: “l. c.”, p. 1788).
Ma il futuro è già davanti a noi. È nei giovani dell’Irlanda, cattolici e protestanti, che vogliono ereditare una terra in pace e una società edificata sulla giustizia e il rispetto per tutti i suoi membri. Quando vedono i giovani d’Europa reagire positivamente alla crescente unità tra i popoli di diversi paesi e tradizioni culturali, forse non chiedono per se stessi la medesima possibilità? Chi può arrogarsi il diritto di negare loro un futuro di libertà?
È un imperativo morale per tutte le parti coinvolte di arrivare a un accordo politico che rispetti i legittimi diritti e le aspirazioni di tutta la popolazione dell’Irlanda del Nord. Non mancano segni di speranza, e noi preghiamo e siamo fiduciosi che un processo guidato dalla ragione e dalla reciproca accettazione metterà fine allo spargimento di sangue e saprà portare a una giusta riconciliazione e una pacifica ricostruzione. Sostenga Iddio la perseveranza e il coraggio di quanti lavorano realisticamente e con amore fraterno perché giunga presto quel giorno.
5. Signor Presidente, ricordo con vivezza alcune belle immagini dell’Irlanda: la naturale bellezza della campagna e la cordialità della sua popolazione; la gioiosa e devota partecipazione di un’immensa moltitudine alla Messa celebrata al Phoenix Park; il nobile entusiasmo di un mare di giovani a Galway; il mio incontro con i responsabili delle altre Chiese e comunità cristiane, e molti altri incontri con individui e gruppi. E sullo sfondo l’immagine delle rovine monastiche di Clonmacnois. I resti parlano della lunga fedeltà a Cristo dell’Irlanda. Le facce delle persone padano chiaramente della fedeltà dell’Irlanda a Cristo oggi e della fiducia con cui l’Irlanda affronta il suo futuro.
La mia felicità nel ricevere la sua persona è perciò profonda e piena di apprezzamento. Ancor di più, noi celebriamo il sesto anniversario delle cordiali e feconde relazioni diplomatiche tra l’Irlanda e la Santa Sede. Il Signore Dio onnipotente continui a benedire queste relazioni, per la sua gloria, per il bene della Chiesa e per la pace e il bene del popolo irlandese.
La ringrazio, signor Presidente, per aver rappresentato qui oggi il suo Paese. Di tutto cuore invoco l’amorosa protezione di Dio su di lei e sui suoi connazionali.

Dia agus Muire libh (Dio e Maria siano con lei).

Beannacht Dé is Muire libh go léir (La benedizione di Dio e di Maria sia con tutti voi).

 

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II, Santi |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

SAN PATRIZIO VESCOVO – 17 MARZO (m.f.)

http://www.santiebeati.it/dettaglio/26400

SAN PATRIZIO VESCOVO

17 MARZO – MEMORIA FACOLTATIVA

BRITANNIA (INGHILTERRA), 385 CA – DOWN (ULSTER), 461

«Arrivato in Irlanda, ogni giorno portavo al pascolo il bestiame, e pregavo spesso nella giornata; fu allora che l’amore e il timore di Dio invasero sempre più il mio cuore, la mia fede crebbe e il mio spirito era portato a far circa cento preghiere al giorno e quasi altrettanto durante la notte, perché allora il mio spirito era pieno di ardore». Patrizio nasce verso il 385 in Britannia da una famiglia cristiana. Verso i 16 anni viene rapito e condotto schiavo in Irlanda, dove rimane prigioniero per 6 anni durante i quali approfondisce la sua vita di fede secondo il brano della Confessione che abbiamo letto all’inizio. Fuggito dalla schiavitù, ritorna in patria. Trascorre qualche tempo con i genitori, poi si prepara per diventare diacono e prete. In questi anni raggiunge probabilmente il continente e fa delle esperienze monastiche in Francia. Ha ormai 40 anni e sente forse la nostalgia di ritornare nell’isola verde. Qui c’è bisogno di evangelizzatori e qualcuno fa il suo nome come vescovo missionario. Egli si prepara, ma la famiglia è restia a lasciarlo partire, mentre degli oppositori gli rimproverano una scarsa preparazione. Nel 432, tuttavia, egli è di nuovo sull’isola. Accompagnato da una scorta, predica, battezza, conferma, celebra l’Eucarestia, ordina presbiteri, consacra monaci e vergini. Il successo missionario è grande, ma non mancano gli assalti di nemici e predoni, e neppure le malignità dei cristiani. Patrizio scrive allora la Confessione per respingere le accuse e celebrare l’amore di Dio che l’ha protetto e guidato nei suoi viaggi così pericolosi. Muore verso il 461. È il patrono dell’Irlanda e degli irlandesi nel mondo.

Patronato: Irlanda
Etimologia: Patrizio = di nobile discendenza, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Trifoglio
Martirologio Romano: San Patrizio, vescovo: da giovane fu portato prigioniero dalla Britannia in Irlanda; recuperata poi la libertà, volle entrare tra i chierici; fatto ritorno nella stessa isola ed eletto vescovo, annunciò con impegno il Vangelo al popolo e diresse con rigore la sua Chiesa, finché presso la città di Down in Irlanda si addormentò nel Signore.

San Patrizio è il patrono e l’apostolo dell’Isola Verde e la sua opera diede tanto frutto; infatti in Irlanda la predicazione del Vangelo non ha avuto nessun martire, sebbene i nativi fossero forti guerrieri e i suoi abitanti sono da sempre fierissimi cristiani.
Patrizio nacque nella Britannia Romana nel 385 ca. da genitori cristiani appartenenti alla società romanizzata della provincia.
Il padre Calpurnio era diacono della comunità di Bannhaven Taberniae, loro città d’origine e possedeva anche un podere nei dintorni.
Il giovane Patrizio trascorse la sua fanciullezza e l’adolescenza in serenità, ricevendo un’educazione abbastanza elevata; a 16 anni villeggiando nel podere del padre, venne fatto prigioniero insieme a migliaia di vittime dai pirati irlandesi e trasferito sulle coste nordiche dell’isola, qui fu venduto come schiavo.
Il padrone gli affidò il pascolo delle pecore; la vita grama, la libertà persa, il ritrovarsi in terra straniera fra gente che parlava una lingua che non capiva, la solitudine con le bestie, resero a Patrizio lo stare in questa terra verde e bellissima, molto spiacevole, per cui tentò ben due volte la fuga ma inutilmente.
Dopo sei anni di servitù, aveva man mano conosciuto i costumi dei suoi padroni, imparandone la lingua e così si rendeva conto che gli irlandesi non erano così rozzi come era sembrato all’inizio.
Avevano un organizzazione tribale che si rivelava qualcosa di nobile e i rapporti tra le famiglie e le tribù erano densi di rispetto reciproco.
Certo non erano cristiani e adoravano ancora gli idoli, ma cosa poteva fare lui che era ancora uno schiavo; quindi era sempre più convinto che doveva fuggire e il terzo tentativo questa volta riuscì.
Si imbarcò su una nave in partenza con il permesso del capitano e dopo tre giorni di navigazione sbarcò su una costa deserta della Gallia, era la primavera del 407, l’equipaggio e lui camminarono per 28 giorni durante i quali le scorte finirono, allora gli uomini che erano pagani, spinsero Patrizio a pregare il suo Dio per tutti loro; il giovane acconsentì e dopo un poco comparve un gruppo di maiali, con cui si sfamarono.
Qui i biografi non narrano come lasciò la Gallia e raggiunse i suoi; ritornato in famiglia Patrizio sognò che gli irlandesi lo chiamavano, interpretò ciò come una vocazione all’apostolato fra quelle tribù ancora pagane e avendo ricevuto esperienze mistiche, decise di farsi chierico e di convertire gl’irlandesi.
Si recò di nuovo in Gallia (Francia) presso il santo vescovo di Auxerre Germano, per continuare gli studi, terminati i quali fu ordinato diacono; la sua aspirazione era di recarsi in Irlanda ma i suoi superiori non erano convinti delle sue qualità perché poco colto.
Nel 431 in Irlanda fu mandato il vescovo Palladio da papa Celestino I, con l’incarico di organizzare una diocesi per quanti già convertiti al cristianesimo.
Patrizio nel frattempo completati gli studi, si ritirò per un periodo nel famoso monastero di Lérins di fronte alla Provenza, per assimilare con tutta la sua volontà la vita monastica, convinto che con questo carisma poteva impiantare la Chiesa tra i popoli celti e scoti, come erano chiamati allora gli irlandesi.
Con lo stesso scopo si recò in Italia nelle isole di fronte alla Toscana, per visitare i piccoli monasteri e capire che metodo fosse usato dai monaci per convertire gli abitanti delle isole.
Non è certo che abbia incontrato il papa a Roma, comunque secondo recenti studi, Patrizio fu consacrato vescovo e nominato successore di Palladio intorno al 460, finora gli antichi testi dicevano nel 432, in tal caso Palladio primo vescovo d’Irlanda avrebbe operato un solo anno, invece è più probabile che sia arrivato nell’isola intorno al 432 e confuso dai cronisti con Patrizio, perché il cognome di Palladio o il suo secondo nome, era appunto Patrizio.
Il metodo di evangelizzazione fu adatto ed efficace, gli irlandesi (celti e scoti) erano raggruppati in un gran numero di tribù che formavano piccoli stati sovrani (tuatha), quindi occorreva il favore del re di ogni singolo territorio, per avere il permesso di predicare e la protezione nei viaggi missionari.
Per questo scopo Patrizio faceva molti doni ai personaggi della stirpe reale ed anche ai dignitari che l’accompagnavano. Il denaro era in buona parte suo, che attingeva dalla vendita dei poderi paterni che aveva ereditato, non chiedendo niente ai suoi fedeli convertiti per evitare rimproveri d’avarizia.
La conversione dei re e dei nobili a cui mirava per primo Patrizio, portava di conseguenza alla conversione dei sudditi. Introdusse in Irlanda il monachesimo che di recente era sorto in Occidente e un gran numero di giovani aderirono con entusiasmo facendo fiorire conventi di monaci e vergini.
Certo non tutto fu facile, le persone più anziane erano restie a lasciare il paganesimo e inoltre Patrizio e i suoi discepoli dovettero subire l’avversione dei druidi (casta sacerdotale pagana degli antichi popoli celtici, che praticavano i riti nelle foreste, anche con sacrifici umani), i quali lo perseguitarono tendendogli imboscate e una volta lo fecero prigioniero per 15 giorni.
Patrizio nella sua opera apostolica ed organizzativa della Chiesa, stabilì delle diocesi territoriali con vescovi dotati di piena giurisdizione, i territori diocesani in genere corrispondevano a quelli delle singole tribù.
Non essendoci città come nell’impero romano, Patrizio seguendo l’esempio di altri santi missionari dell’epoca, istituì nelle sue cattedrali Capitoli organizzati in modo monastico come centri pastorali della zona (Sinodo).
Predicò in modo itinerante per alcuni anni, sforzandosi di formare un clero locale, infatti le ordinazioni sacerdotali furono numerose e fra questi non pochi discepoli divennero vescovi.
Secondo gli “Annali d’Ulster” nel 444, Patrizio fondò la sua sede ad Armagh nella contea che oggi porta il suo nome; evangelizzò soprattutto il Nord e il Nord-Ovest dell’Irlanda, nel resto dell’Isola ebbe dal 439 l’aiuto di altri tre vescovi continentali, Secondino, Ausilio e Isernino, la cui venuta non è tanto chiaro se per aiuto a Patrizio o indipendentemente da lui e poi uniti nella collaborazione reciproca.
Benché il santo vescovo vivesse per carità di Cristo fra ‘stranieri e barbari’ da anni, in cuor suo si sentì sempre romano con il desiderio di rivedere la sua patria Britannia e quella spirituale la Gallia; ma la sua vocazione missionaria non gli permise mai di lasciare la Chiesa d’Irlanda che Dio gli aveva affidato, in quella che fu la terra della sua schiavitù.
Patrizio ebbe vita difficile con gli eretici pelagiani, che per ostacolare la sua opera ricorsero anche alla calunnia, egli per discolparsi scrisse una “Confessione” chiarendo che il suo lavoro missionario era volere di Dio e che la sua avversione al pelagianesimo scaturiva dall’assoluto valore teologico che egli attribuiva alla Grazia; dichiarandosi inoltre ‘peccatore rusticissimo’ ma convertito per grazia divina.
L’infaticabile apostolo concluse la sua vita nel 461 nell’Ulster a Down, che prenderà poi il nome di Downpatrick.
Durante il secolo VIII il santo vescovo fu riconosciuto come apostolo nazionale dell’Irlanda intera e la sua festa al 17 marzo, è ricordata per la prima volta nella ‘Vita’ di s. Geltrude di Nivelles del VII secolo.
Intorno al 650, s. Furseo portò alcune reliquie di s. Patrizio a Péronne in Francia da dove il culto si diffuse in varie regioni d’Europa; in tempi moderni il suo culto fu introdotto in America e in Australia dagli emigranti cattolici irlandesi.

Autore: Antonio Borrelli

San Policarpo

 San Policarpo dans immagini sacre polycarp

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Publié dans:immagini sacre, Santi, santi martiri |on 23 février, 2015 |Pas de commentaires »

S. POLICARPO di SMIRNE (ca. 70-156) – 23 FEBBRAIO

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S. POLICARPO di SMIRNE (ca. 70-156) – 23 FEBBRAIO

S. Policarpo, secondo S. Girolamo, fu ordinato vescovo di Smirne dallo stesso S. Giovanni evangelista, al quale sarebbe succeduto verso l’anno 100. Per oltre cinquant’anni, con zelo e fortezza, governò la sua diocesi, e non è improbabile che esercitasse una certa autorità e un certo prestigio su più vaste zone dell’Asia minore, in quanto egli fu l’ultimo testimone dell’età apostolica.
Nulla sappiamo della patria e della giovinezza di Policarpo che nacque, con tutta probabilità, da genitori cristiani verso il 70. Tranne le notizie fornite dalle lettere di S. Ignazio di Antiochia, e dalla lettera di S. Policarpo ai Filippesi, conosciamo alcuni dettagli della vita di lui da S. Ireneo, vescovo di Lione, che verso il 140 fu suo discepolo, ascoltò le sue istruzioni, raccolse le sue parole, e ne conservò fedelmente il ricordo. Nella lettera che egli mandò al prete Fiorino, che aveva aderito all’eresia dello gnosticismo, scrisse difatti: « Potrei ancora indicare il luogo, il posto preciso dove il beato Policarpo sedeva e insegnava; potrei descrivere come veniva e come andava, ritrarre le fattezze del suo corpo, esporre i discorsi che teneva al popolo, raccontare la familiarità che aveva con l’apostolo Giovanni e con gli altri discepoli che avevano udito il Signore; io potrei dirti infine come ripeteva i loro racconti, e quanto essi avevano udito dalla bocca stessa di Gesù » (Eusebio, St. Eccl., V, 24,16).
S. Policarpo, secondo S. Girolamo, fu ordinato vescovo di Smirne dallo stesso S. Giovanni evangelista, al quale sarebbe succeduto verso l’anno 100. Per oltre cinquant’anni, con zelo e fortezza, governò la sua diocesi, e non è improbabile che esercitasse una certa autorità e un certo prestigio su più vaste zone dell’Asia minore, in quanto egli fu l’ultimo testimone dell’età apostolica.
S. Girolamo afferma difatti che « Policarpo fu il capo di tutta l’Asia ». Quando S. Ignazio d’Antiochia, nel 107. passò da Smirne diretto a Roma per essere sbranato dalle fiere alle quali era stato condannato, fu ricevuto con cuore di vescovo dal giovane Policarpo. Da Troade S. Ignazio gli scrisse una lettera di addio con saggi consigli, come già S. Paolo aveva fatto con Timoteo e Tito: « Abbi cura dell’unità della Chiesa, di cui non vi è nulla di meglio; sopporta tutti come il Signore sopporta te; abbi pazienza e carità con tutti, come del resto fai. Non stancarti nella preghiera; domanda a Dio una sapienza maggiore di quella che hai; vigila con uno spirito insonne; ai singoli parla secondo il metodo di Dio, addossati le infermità di tutti, a somiglianza di un perfetto atleta… Per te io offro a Dio in sacrificio me stesso e le mie catene, quelle catene che tu hai baciato ».
S. Policarpo fece tesoro dei saggi ammaestramenti. Come S. Ignazio, anch’egli scrisse parecchie lettere a privati cristiani e alle chiese asiatiche in difesa della vera fede. A noi è giunta soltanto quella che diresse alla chiesa di Filippi, nella quale egli chiese a quei buoni fedeli notizie riguardo al passaggio del suo amico Ignazio in quella città, ed al martirio di lui. Insieme con la propria lettera egli mandò agli abitanti di Filippi « quante lettere poté avere » del condannato alle belve di cui gli avevano pressantemente fatto richiesta. Nello scritto S. Policarpo insiste specialmente sull’ubbidienza dovuta « ai presbiteri e ai diaconi » che in quel tempo, con probabilità, reggevano collegialmente la piccola comunità.
Nell’ultimo anno di vita il Santo vescovo di Smirne si recò a Roma per accordarsi con il Sommo Pontefice S. Aniceto (+166) sulla data della celebrazione pasquale, che gli asiatici festeggiavano due giorni dopo la Pasqua ebraica, e i romani invece nella domenica seguente, al 14 del mese di Nisan. L’accordo non fu raggiunto, e siccome si trattava di una questione puramente disciplinare, non ne fu turbata la carità, anzi, papa e vescovo si scambiarono vicendevolmente il bacio di pace. Aniceto, per tributare pubblicamente onore a Policarpo, gli permise di celebrare il santo sacrificio nella comunità in vece sua.
A Roma la presenza del vescovo venerando contribuì alla conversione di molti erranti alla verità e all’unità. Dovette avvenire in quell’occasione il famoso incontro con Marcione, scaltro e ricco capo degli gnostici. Quando questi chiese a S. Policarpo se lo conoscesse, egli lo investì aspramente: « O sì, io riconosco il primogenito di Satana ».
Al principio della persecuzione che scoppiò a Smirne sotto il proconsole Stazio Quadrato, S. Policarpo, in seguito a delle pressioni dei fedeli, si ritirò in una casa di campagna non facendo altro giorno e notte che pregare per tutti gli uomini. Tre giorni prima che fosse arrestato, in visione, vide il suo guanciale bruciato dal fuoco. Egli disse a coloro che si trovavano con lui: « Bisogna che io sia arso vivo ». Fu scoperto in seguito alla confessione estorta ad un suo servo mediante la tortura. Il Santo vegliardo, alle guardie che a tarda sera irruppero nella sua casa per arrestarlo, fece servire la cena, e per due ore pregò « per tutta la chiesa cattolica che è nel mondo ». Durante il tragitto egli resistette alle pressioni dell’irenarco Erode che gli diceva: « Che male c’è a dire: Signore Cesare, e sacrificare e compiere le altre cerimonie che si connettono al sacrificio, e così uscire felicemente salvo? ».
All’entrata di Policarpo nello stadio, mentre il popolo gridava, i cristiani udirono dal cielo la voce: « Sii forte, o Policarpo, e d’animo virile ». Condotto davanti al proconsole, il vecchio atleta consentì volentieri a gridare: « Abbasso gli atei », ma si rifiutò di giurare per la divinità dell’imperatore. « Giura e ti libero – insistette il proconsole; – bestemmia Cristo ». Policarpo rispose: « Da ottantasei anni lo servo e in nulla mi ha fatto ingiuria; e come posso bestemmiare il mio rèe, che mi ha salvato? ». Stazio Quadrato mandò il suo banditore a gridare tre volte in mezzo allo stadio: « Policarpo ha confessato di essere cristiano ». La folla dei gentili e dei giudei con rabbia furiosa si pose allora a gridare; « Costui è il maestro dell’Asia, il padre dei cristiani, il distruttore dei nostri dèi, che insegna a molti a non sacrificare, né adorare ».
Condannato ad essere bruciato vivo, Policarpo pregò, legato come un malfattore sulla catasta di legna: « Signore, Dio onnipotente… ti benedico per avermi fatto degno di questo giorno e di questa ora, di prendere parte al numero dei Martiri, mediante il calice del tuo Cristo, alla risurrezione della vita eterna dell’anima e del corpo nell’incorruttibilità dello Spirito Santo ». Le fiamme del rogo lo avvolsero a spira senza ferirlo; il carnefice lo uccise con una pugnalata il 23 febbraio dell’anno 155.
Il Martirio di Policarpo è il più antico tra gli atti dei Martiri che possediamo, e fu scritto in forma di lettera subito dopo la morte del Santo, dalla comunità di Smirne alla chiesa di Filomelio in Frigia.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,

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