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LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI – SAN FRANCESCO DI SALES *

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LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI – SAN FRANCESCO DI SALES *

Francesco di Sales (1567-1622) manifestò fin da giovanissimo i segni della propria vocazione all’apostolato sacerdotale. Fattosi sacerdote dopo di aver frequentato gli studi a Parigi e a Padova, dapprima viene nominato parroco della Chiesa di Ginevra, e si dedica all’evangelizzazione degli abitanti del Chiablese onde ricondurli al cattolicesimo. Nel 1602, viene eletto vescovo di Ginevra, ed è proprio sotto la sua direzione che Santa Giovanna di Chantal fondò la Visitazione. Dolcezza, affabilità, carità ed una delicata bonomia, caratterizzano tutta la sua vita ed i suoi scritti, nascondendo, al tempo stesso, un temperamento bollente che nell’abbandono totale alla grazia di Dio ha saputo trovare il proprio equilibrio e la propria pace. Fra gli usi che dovremmo saper fare della dolcezza, il migliore è quello di applicarla a noi stessi, senza provare mai risentimento né contro di noi, né contro le nostre imperfezioni. Infatti, anche se la ragione vuole che, una volta compiuto un errore, ne siamo contristati e pentiti, tuttavia è necessario non indulgere ad un dispiacere arido ed amaro, stizzoso e collerico. Ne consegue che commettono un grande errore tutti coloro che, dopo la collera, si irritano per essersi irritati, si affliggono della loro stessa afflizione, si stizziscono della propria stizza. In questo modo tengono continuamente il loro cuore immerso ad ammollire nella collera; con la conseguenza che la seconda collera altera la prima, sì da servire di avviamento e di passaggio ad un’altra ancora, alla prima occasione che si dovesse presentare. Senza parlare, poi, del fatto che tali risentimenti, collere, stizze, che proviamo contro noi stessi, tendono all’orgoglio, e la loro origine non è nient’altro che l’amore di sé, amore che si turba e si preoccupa della nostra imperfezione. Il dispiacere che proviamo per le nostre mancanze deve dunque essere pacato, calmo e fermo… Noi possiamo correggerci più con pentimenti sereni e costanti, che non mediante pentimenti pieni di acrimonia, affrettati e collerici; tanto più che tali pentimenti, fatti con impeto, non sono conseguenza diretta della gravità della nostra colpa, bensì delle nostre inclinazioni. Per esempio, colui che predilige la castità, mentre proverà risentimento ed acredine sproporzionati alla mancanza che commetterà contro di essa, fosse anche minima, non farà, invece, che sorridere di una grossolana maldicenza da lui provocata e sostenuta. AI contrario, colui che odia la maldicenza, si tormenterà di essersi reso colpevole di una mormorazione leggera, e non terrà assolutamente conto di una grave mancanza contro la castità, così come di altri errori. Tutto ciò è dovuto esclusivamente al fatto che essi non giudicano la loro coscienza secondo ragione, ma secondo passione. Credetemi, come i rimproveri di un padre, fatti dolcemente e con amore hanno per la correzione del figlio un effetto ben maggiore delle collere e dello sdegno, così quando il nostro cuore commette qualche mancanza è da noi ripreso con rimproveri dolci e suadenti – mostrando nei suoi riguardi più compassione che passione e lo incorraggiamo ad emendarsi – il pentimento che se ne otterrà s’impossesserà maggiormente di esso e lo penetrerà più e meglio di quanto non possa fare un pentimento stizzoso, irritato e tempestoso… Risollevate dunque il vostro cuore con dolcezza quando cadrà, umiliandovi profondamente davanti a Dio perché avete conosciuto la vostra miseria, senza però meravigliarvi in nessun modo della vostra caduta, in quanto non può destare stupore il vedere !’infermità inferma, la debolezza debole, la miseria meschina. Pertanto, detestate con tutte le vostre forze l’offesa da voi fatta a Dio e, con grande coraggio e fiducia nella sua misericordia, riprendete il cammino lungo la strada della virtù che avete abbandonato.

* Introduction à la vie dévote, 3″ parte, cap. IX. Per facilitare la lettura, sono state apportate alcune modifiche di vocabolario

Publié dans:meditazioni, Santi |on 19 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

SAN SERGIO DI RADONEZ EREMITA, EGUMENO – 25 SETTEMBRE

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SAN SERGIO DI RADONEZ EREMITA, EGUMENO

25 SETTEMBRE

Rostov, Russia, 1314 c. – Monastero della Trinità, Serghiev Posad, Russia, 25 settembre 1392

Sergio e i suoi genitori furono scacciati dalla loro casa dalla guerra civile e dovettero guadagnarsi da vivere facendo i contadini a Radonez, a nord-est di Mosca. A vent’anni Sergio inizia un’esperienza di eremitaggio, insieme al fratello Stefano, nella vicina foresta. Presto altri uomini si uniscono a loro e nel 1354 si trasformano in monaci, conducendo vita comune. Nasce così il monastero della Santa Trinità (Troice-Lavra), punto di riferimento per il monachesimo della Russia settentrionale. Sergio fonda anche altre case religiose, direttamente o indirettamente. Nel 1375 rifiuta la sede metropolitana di Mosca, ma continua a usare la sua influenza per mantenere la pace fra i principi rivali. È stato uno dei primi santi russi a cui furono attribuite visioni mistiche. Attraverso il suo discepolo Nil Sorskij si diffuse l’esicasmo, la preghiera del cuore resa celebre dai «Racconti di un pellegrino russo»: «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me». Il monastero della Trinità di Serghiev Posad è ancora oggi meta di pellegrinaggi. Fu canonizzato in Russia prima del 1449. (Avvenire)

Etimologia: Sergio = che salva, custodisce, seminatore, dal latino

Martirologio Romano: Nel monastero della Santissima Trinità a Mosca in Russia, san Sergio di Radonez, che, dopo aver condotto vita eremitica in foreste selvagge, abbracciò la vita cenobitica e, eletto egúmeno, la propagò, mostrandosi uomo mite, consigliere di príncipi e consolatore dei fedeli.

Ascolta da RadioRai:

Sergio e i suoi genitori furono scacciati dalla loro casa dalla guerra civile e dovettero guadagnarsi da vivere facendo i contadini a Radonezh, a nord-est di Mosca. A vent’anni Sergio iniziò una vita da eremita, insieme a suo fratello Stefano, nella vicina foresta; in seguito altri uomini si unirono a loro, e ciò che ci vien detto di questi eremiti ricorda i primi seguaci di san Francesco d’Assisi, specialmente per quanto riguarda il loro atteggiamento verso la natura selvaggia – nonostante le differenze climatiche e di altro genere fra l’Umbria e la Russia centrale. Uno scrittore russo ha detto che il loro capo « odora di fresco legno d’abete ».
Nel 1354 essi si trasformarono in monaci che conducevano una vera e propria vita comune; questo cambiamento provocò dei dissensi che avrebbero potuto spaccare per sempre la comunità se non fosse stato per la condotta disinteressata di san Sergio. Questo monastero della Santa Trinità (Troice-Lavra) divenne per il monachesimo della Russia settentrionale quello che le Grotte di san Teodosio erano state per la provináa di Kiev nel sud. Sergio fondò altre case religiose, direttamente o indirettamente, e la sua fama si diffuse moltissimo; nel 1375 rifiutò la sede metropolitana di Mosca, ma usò la sua influenza per mantenere la pace fra i prinápi rivali. Quando (secondo la tradizione) Dimitrij Donskoj, principe di Mosca nel 1380, lo consultò per chiedere se doveva continuare la sua rivolta armata contro i signori tartari, Sergio lo incoraggiò ad andare avanti: ciò portò alla grande vittoria di Kulikovo. San Sergio è il più amato di tutti i santi russi, non soltanto per l’influenza che ebbe in un periodo critico della storia russa, ma anche per il tipo d’uomo che era. Per il carattere, se non per l’origine, era un tipico « santo contadino »: semplice, umile, serio e gentile, un « buon vicino ». Insegnò ai suoi monaci che servire gli altri faceva parte della loro vocazione, e le persone che indicò loro come modelli erano gli uomini dell’antichità che avevano fuggito il mondo ma aiutavano il loro prossimo; veniva posta un’enfasi particolare sulla povertà personale e comune e sullo sradicamento dell’ostinazione.
San Sergio fu uno dei primi santi russi a cui furono attribuite visioni mistiche (visioni della Beata Vergine connesse con la liturgia eucaristica) e, come in san Serafino di Sarov, talvolta compariva in lui una certa trasfigurazione fisica attraverso la luce. Il popolo lo vedeva come un uomo scelto da Dio, sul quale riposava visibilmente la grazia dello Spirito; ancor oggi molta gente va in pellegriaggio al suo santuario nel monastero della Trinità di Serghiev Posad.
Fu canonizzato in Russia prima del 1449.

Publié dans:Santi, SANTI DELLA CHIESA ORTODOSSA |on 26 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

SAN MELCHISEDECH RE DI SALEM E SACERDOTE – 26 AGOSTO (mf)

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SAN MELCHISEDECH RE DI SALEM E SACERDOTE

26 AGOSTO

II millennio a.C.

“Melchisedech, re di Salem e sacerdote del Dio altissimo” è citato due volte nell’Antico Testamento. Incontrò Abramo, gli offrì pane e vino e lo benedisse. Abramo in cambio gli consegnò la decima del bottino recentemente conquistato (Gn 14,18-20). Quando Gerusalemme diventò capitale del Regno di Israele, il re Davide venne proclamato “sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedech” (Sal 110,4). Tale allusione ad un altro sacerdozio, differente da quello levita, venne utilizzata nella Lettera agli Ebrei: Cristo è sacerdote non per discendenza carnale, ma “alla maniera di Melchisedech” (Eb 6,20). La tradizione cristiana vide in Melchisedech una profezia di Cristo e nell’offerta del pane e del vino la profezia dell’Eucaristia.

Etimologia: Melchisedech = il Re, cioè Dio, è giustizia
Emblema: Pane e vino

Martirologio Romano: Commemorazione di san Melchisedek, re di Salem e sacerdote del Dio altissimo, che salutò Abramo di ritorno dalla vittoria con la sua benedizione, offrendo al Signore un sacrificio santo, una vittima immacolata, e fu visto come prefigurazione di Cristo, re di pace e di giustizia e sacerdote in eterno, senza genealogia.

“Melchisedech, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abramo con queste parole: Sia benedetto Abramo dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici”. Così il libro della Genesi (14,18-20) cita questo misterioso personaggio, vissuto verso il secondo millennio avanti Cristo, re cananeo di Salem, nome arcaico della futura città di Gerusalemme e capitale del re Davide, ed al tempo stesso sacerdote della divinità locale el-’eljòn, cioè “Dio altissimo”.
I segni del pane e del vino, che Melchisedech presentò al patriarca biblico Abramo, per il cristiano divennero segno di un più alto mistero, quello dell’Eucaristia. Proprio in tale nuova luce l’episodio di Melchisedech acquista un nuovo significato rispetto a quello originario. Per l’autore della Genesi infatti l’offerta di pane e vino ad Abramo ed alle sue truppe affamate, di passaggio nel territorio del re di Salem tornando da una spedizione militare contro i quattro sovrani orientali per liberare il nipote Lot, è intesa quale segno di ospitalità, di sicurezza e di permesso di transito. Il territorio di Salem e quindi Gerusalemme saranno infatti strappati come è assai noto ai Gebusei solo secoli dopo dal re Davide. Abramo accettò il benevolo gesto di Melkisedech e ricambiò con la decima del bottino di guerra, così da attuare un sorta di patto bilaterale.
La seconda citazione antico testamentaria è data dal Salmo 110,4, nel quale a proposito del re davidico si dice: “Tu sei sacerdote per sempre, al modo di Melkisedech”, forse per assicurare anche al sovrano di Gerusalemine una qualità sacerdotale, differente dal sacerdozio levitino, in quanto Davide ed i suoi successori appartennero alla tribù di Giuda anziché a quella sacerdotale di Levi.
Sin qui il cuore storico del racconto, per altro non esente da interrogativi e da questioni esegetiche che dilungherebbero però eccessivamente la presente trattazione. E’ invece interessante evidenziare la simbologia che il re di Salem ha acquisito dalla successiva tradizione cristiana.Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei (cap. 7) iniziò infatti ad intravedere in Melchisedech il profilo Gesù Cristo, sacerdote perfetto. Infatti l’autore neotestamentario di tale libro, volendo presentare Cristo come sacerdote in modo unico e nuovo rispetto all’antico sacerdozio ebraico, decise di ricorrere proprio all’antica figura di Melkisedech. Questo nome significa infatti “il Re, cioè Dio, è giustizia”, mentre “re di Salem” vuol dire “re di pace”. Si coniugano così nel re-sacerdote i due doni messianici per eccellenza: la giustizia e la pace. Rimarcando poi il fatto che Abramo si sia lasciato benedire da lui, riconoscendone perciò la supremazia, afferma implicitamente la superiorità del sacerdozio di Melkisedech rispetto a quello di Levi discentente di Abramo. Non resta dunque così che concludere che Cristo, discendente davidico, è “sacerdote in eterno alla maniera di Melkisedech”, proprio come predetto dal Salmo 110. È dunque in questa luce che la tradizione cristiana non esitò a riconoscere nel pane e nel vino offerti dal re di Salem ad Abramo una profezia dell’Eucaristia.
Il celebre padre Turoldo, religioso e poeta del XX secolo, cantò infatti: “Nessuno ha mai saputo di lui, donde venisse, chi fosse suo padre; questo soltanto sappiamo: che era il sacerdote del Dio altissimo. Era figura di un altro, l’atteso, il solo re che ci liberi e ci salvi: un re che preghi per l’uomo e lo ami, ma che vada a morire per gli altri; uno che si offra nel pane e nel vino al Dio altissimo in segno di grazie: il pane e il vino di uomini liberi, dietro Abramo da sempre in cammino”.In quest’ottica Melchisedech entrò a far parte anche del patrimonio liturgico latino, tanto da meritarsi una citazione nel cosiddetto Canone Romano, cioè dopo il Concilio Vaticano II la Preghiera Eucaristica I: “Tu che hai voluto accettare i doni di Abele il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote, volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno”.Ciò comporto una certa influenza anche nell’ambito iconografico ed in tale direzione sono da segnalare i mosaici della basilica romana di Santa Maria Maggiore, risalenti al V secolo, in cui la scena di Melchisedech è stata collocata nei pressi dell’altare al fine di meglio sottolineare il legame intrinseco con l’Eucaristia. Inoltre sulla parete interna della facciata della cattedrale di Reims, XIII secolo, è raffigurato l’incontro tra Abramo e il re sacerdote proprio come se si trattasse della comunione eucaristica. Infine si cita Rubens che nel ‘600 inserì la scena biblica in un arazzo intitolato “Il trionfo dell’Eucaristia”. Il pane e il vino sono infatti ormai definitivamente intesi come quelli deposti sulla tavola dell’ultima cena da Gesù e la spiegazione del loro valore è costituita dalle parole che Cristo stesso pronunziò nella sinagoga di Cafarnao: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. […] Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me io in lui” (Gv 6,51.56).
Venerato come santo, Mechisedech viene ricordato l’8 settembre nel calendario della Chiesa Etiopica, mentre il nuovo Martyrologium Romanum ha inserito in data 26 agosto la “Commemorazione di San Mechisedech, re di Salem e sacerdote del Dio altissimo, il quale benedicendo salutò Abramo che ritornava vittorioso dalla guerra. Offrì a Dio un santo sacrificio, una vittima immacolata. Viene visto come figura di Cristo re di giustizia, di pace e eterno sacerdote, senza genealogia”.

Autore: Fabio Arduino

Publié dans:Santi, Santi: Antico Testamento |on 26 août, 2015 |Pas de commentaires »

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO – BENEDETTO XVI

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20091021.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 21 ottobre 2009

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE – 20 AGOSTO

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.
In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: “Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato”, scrive il santo Abate “ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca” (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.
Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è “miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)”. Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, “scorre come il miele”. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca – l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima”, confessa, “se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù”. E conclude: “Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!
In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. “O santa Madre, – egli esclama – veramente una spada ha trapassato la tua anima!… A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio” (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: “per Mariam ad Iesum”, attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del “Dottore mellifluo” la sublime preghiera a Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …” (Paradiso 33, vv. 1ss.).
Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”. Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.
Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. “Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, – egli dice – pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…” (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71). 

RIFLETTI SULLA POVERTÀ, UMILTÀ E CARITÀ DI CRISTO – LETTERE DI SANTA CHIARA

http://www.maranatha.it/Feriale/santiProprio/0811Page.htm

RIFLETTI SULLA POVERTÀ, UMILTÀ E CARITÀ DI CRISTO – 11 AGOSTO: SANTA CHIARA

Dalla «Lettera alla beata Agnese di Praga» di santa Chiara, vergine

(Ed. I. Omaechevarria, Escritos de Santa Clara, Madrid 1970, pp. 339-341)

Felice certamente chi può esser partecipe del sacro convito, in modo da aderire con tutti i sentimenti del cuore a Cristo, la cui bellezza ammirano senza sosta tutte le beate schiere dei cieli, la cui tenerezza commuove i cuori, la cui contemplazione reca conforto, la cui bontà sazia, la cui soavità ricrea, il cui ricordo illumina dolcemente, al cui profumo i morti riacquistano la vita e la cui beata visione renderà felici tutti i cittadini della celeste Gerusalemme.
Poiché questa visione è splendore di gloria eterna, «riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia» (Sap 7, 26), guarda ogni giorno in questo specchio, o regina, sposa di Gesù Cristo. Contempla continuamente in esso il tuo volto, per adornarti così tutta interiormente ed esternamente, rivestirti e circondarti di abiti multicolori e ricamati, abbellirti di fiori e delle vesti di tutte le virtù, come si addice alla figlia e sposa castissima del sommo Re. In questo specchio rifulge la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità. Contempla lo specchio in ogni parte e vedrai tutto questo.
Osserva anzitutto l’inizio di questo specchio e vedrai la povertà di chi è posto in una mangiatoia ed avvolto in poveri panni. O meravigliosa umiltà, o stupenda povertà! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra è adagiato in un presepio!
Al centro dello specchio noterai l’umiltà, la beata povertà e le innumerevoli fatiche e sofferenze che egli sostenne per la redenzione del genere umano.
Alla fine dello stesso specchio noterai l’umiltà, la beata povertà e le innumerevoli fatiche e sofferenze che egli sostenne per la redenzione del genere umano. Alla fine dello stesso specchio potrai contemplare l’ineffabile carità per cui volle patire sull’albero della croce ed in esso morire con un genere di morte di tutti il più umiliante. Perciò lo stesso specchio, posto sul legno della croce, ammoniva i passanti a considerare queste cose, dicendo: «Voi tutti che passate per la via, considerare e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore!» (Lam 1, 12). Rispondiamo dunque a lui, che grida e si lamenta, con un’unica voce ed un solo animo: «Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima» (Lam 3, 20).
Così facendo ti accenderai di un amore sempre più forte, o regina del Re celeste.
Contempla inoltre le sue ineffabili delizie, le ricchezze e gli eterni onori, sospira con ardente desiderio ed amore del cuore, ed esclama: «Attirami dietro a te, corriamo al profumo dei tuoi aromi» (Ct 1, 3 volg.), o Sposo celeste. Correrò, né verrò meno fino a che non mi abbia introdotto nella tua dimora, fino a che la tua sinistra non stia sotto il mio capo e la tua destra mi cinga teneramente con amore (cfr. Ct 2, 4. 6).
Nella contemplazione di queste cose, ricordati di me, tua madre, sapendo che io ho scritto in modo indelebile il tuo ricordo sulle tavolette del mio cuore, ritenendoti fra tutte la più cara

Publié dans:Santi, santi scritti |on 11 août, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: SANTA CHIARA D’ASSISI – 11 AGOSTO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100915.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 15 settembre 2010

SANTA CHIARA D’ASSISI – 11 AGOSTO

Cari fratelli e sorelle,

una delle Sante più amate è senz’altro santa Chiara d’Assisi, vissuta nel XIII secolo, contemporanea di san Francesco. La sua testimonianza ci mostra quanto la Chiesa tutta sia debitrice a donne coraggiose e ricche di fede come lei, capaci di dare un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa.
Chi era dunque Chiara d’Assisi? Per rispondere a questa domanda possediamo fonti sicure: non solo le antiche biografie, come quella di Tommaso da Celano, ma anche gli Atti del processo di canonizzazione promosso dal Papa solo pochi mesi dopo la morte di Chiara e che contiene le testimonianze di coloro che vissero accanto a lei per molto tempo.
Nata nel 1193, Chiara apparteneva ad una famiglia aristocratica e ricca. Rinunciò a nobiltà e a ricchezza per vivere umile e povera, adottando la forma di vita che Francesco d’Assisi proponeva. Anche se i suoi parenti, come accadeva allora, stavano progettando un matrimonio con qualche personaggio di rilievo, Chiara, a 18 anni, con un gesto audace ispirato dal profondo desiderio di seguire Cristo e dall’ammirazione per Francesco, lasciò la casa paterna e, in compagnia di una sua amica, Bona di Guelfuccio, raggiunse segretamente i frati minori presso la piccola chiesa della Porziuncola. Era la sera della Domenica delle Palme del 1211. Nella commozione generale, fu compiuto un gesto altamente simbolico: mentre i suoi compagni tenevano in mano torce accese, Francesco le tagliò i capelli e Chiara indossò un rozzo abito penitenziale. Da quel momento era diventata la vergine sposa di Cristo, umile e povero, e a Lui totalmente si consacrava. Come Chiara e le sue compagne, innumerevoli donne nel corso della storia sono state affascinate dall’amore per Cristo che, nella bellezza della sua Divina Persona, riempie il loro cuore. E la Chiesa tutta, per mezzo della mistica vocazione nuziale delle vergini consacrate, appare ciò che sarà per sempre: la Sposa bella e pura di Cristo.
In una delle quattro lettere che Chiara inviò a sant’Agnese di Praga, la figlia del re di Boemia, che volle seguirne le orme, parla di Cristo, suo diletto Sposo, con espressioni nunziali, che possono stupire, ma che commuovono: “Amandolo, siete casta, toccandolo, sarete più pura, lasciandovi possedere da lui siete vergine. La sua potenza è più forte, la sua generosità più elevata, il suo aspetto più bello, l’amore più soave e ogni grazia più fine. Ormai siete stretta nell’abbraccio di lui, che ha ornato il vostro petto di pietre preziose… e vi ha incoronata con una corona d’oro incisa con il segno della santità” (Lettera prima: FF, 2862).
Soprattutto al principio della sua esperienza religiosa, Chiara ebbe in Francesco d’Assisi non solo un maestro di cui seguire gli insegnamenti, ma anche un amico fraterno. L’amicizia tra questi due santi costituisce un aspetto molto bello e importante. Infatti, quando due anime pure ed infiammate dallo stesso amore per Dio si incontrano, esse traggono dalla reciproca amicizia uno stimolo fortissimo per percorrere la via della perfezione. L’amicizia è uno dei sentimenti umani più nobili ed elevati che la Grazia divina purifica e trasfigura. Come san Francesco e santa Chiara, anche altri santi hanno vissuto una profonda amicizia nel cammino verso la perfezione cristiana, come san Francesco di Sales e santa Giovanna Francesca di Chantal. Ed è proprio san Francesco di Sales che scrive: “È bello poter amare sulla terra come si ama in cielo, e imparare a volersi bene in questo mondo come faremo eternamente nell’altro. Non parlo qui del semplice amore di carità, perché quello dobbiamo averlo per tutti gli uomini; parlo dell’amicizia spirituale, nell’ambito della quale, due, tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito” (Introduzione alla vita devota III, 19).
Dopo aver trascorso un periodo di qualche mese presso altre comunità monastiche, resistendo alle pressioni dei suoi familiari che inizialmente non approvarono la sua scelta, Chiara si stabilì con le prime compagne nella chiesa di san Damiano dove i frati minori avevano sistemato un piccolo convento per loro. In quel monastero visse per oltre quarant’anni fino alla morte, avvenuta nel 1253. Ci è pervenuta una descrizione di prima mano di come vivevano queste donne in quegli anni, agli inizi del movimento francescano. Si tratta della relazione ammirata di un vescovo fiammingo in visita in Italia, Giacomo di Vitry, il quale afferma di aver trovato un grande numero di uomini e donne, di qualunque ceto sociale che “lasciata ogni cosa per Cristo, fuggivano il mondo. Si chiamavano frati minori e sorelle minori e sono tenuti in grande considerazione dal signor papa e dai cardinali… Le donne … dimorano insieme in diversi ospizi non lontani dalle città. Nulla ricevono, ma vivono del lavoro delle proprie mani. E sono grandemente addolorate e turbate, perché vengono onorate più che non vorrebbero, da chierici e laici” (Lettera dell’ottobre 1216: FF, 2205.2207).
Giacomo di Vitry aveva colto con perspicacia un tratto caratteristico della spiritualità francescana cui Chiara fu molto sensibile: la radicalità della povertà associata alla fiducia totale nella Provvidenza divina. Per questo motivo, ella agì con grande determinazione, ottenendo dal Papa Gregorio IX o, probabilmente, già dal papa Innocenzo III, il cosiddetto Privilegium Paupertatis (cfr FF, 3279). In base ad esso, Chiara e le sue compagne di san Damiano non potevano possedere nessuna proprietà materiale. Si trattava di un’eccezione veramente straordinaria rispetto al diritto canonico vigente e le autorità ecclesiastiche di quel tempo lo concessero apprezzando i frutti di santità evangelica che riconoscevano nel modo di vivere di Chiara e delle sue sorelle. Ciò mostra come anche nei secoli del Medioevo, il ruolo delle donne non era secondario, ma considerevole. A questo proposito, giova ricordare che Chiara è stata la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta, sottoposta all’approvazione del Papa, perché il carisma di Francesco d’Assisi fosse conservato in tutte le comunità femminili che si andavano stabilendo numerose già ai suoi tempi e che desideravano ispirarsi all’esempio di Francesco e di Chiara.
Nel convento di san Damiano Chiara praticò in modo eroico le virtù che dovrebbero contraddistinguere ogni cristiano: l’umiltà, lo spirito di pietà e di penitenza, la carità. Pur essendo la superiora, ella voleva servire in prima persona le suore malate, assoggettandosi anche a compiti umilissimi: la carità, infatti, supera ogni resistenza e chi ama compie ogni sacrificio con letizia. La sua fede nella presenza reale dell’Eucaristia era talmente grande che, per due volte, si verificò un fatto prodigioso. Solo con l’ostensione del Santissimo Sacramento, allontanò i soldati mercenari saraceni, che erano sul punto di aggredire il convento di san Damiano e di devastare la città di Assisi.
Anche questi episodi, come altri miracoli, di cui si conservava la memoria, spinsero il Papa Alessandro IV a canonizzarla solo due anni dopo la morte, nel 1255, tracciandone un elogio nella Bolla di canonizzazione in cui leggiamo: “Quanto è vivida la potenza di questa luce e quanto forte è il chiarore di questa fonte luminosa. Invero, questa luce si teneva chiusa nel nascondimento della vita claustrale e fuori irradiava bagliori luminosi; si raccoglieva in un angusto monastero, e fuori si spandeva quanto è vasto il mondo. Si custodiva dentro e si diffondeva fuori. Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava” (FF, 3284). Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità!
La spiritualità di santa Chiara, la sintesi della sua proposta di santità è raccolta nella quarta lettera a Sant’Agnese da Praga. Santa Chiara adopera un’immagine molto diffusa nel Medioevo, di ascendenze patristiche, lo specchio. Ed invita la sua amica di Praga a riflettersi in quello specchio di perfezione di ogni virtù che è il Signore stesso. Ella scrive: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro connubio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quarta: FF, 2901-2903).
Grati a Dio che ci dona i Santi che parlano al nostro cuore e ci offrono un esempio di vita cristiana da imitare, vorrei concludere con le stesse parole di benedizione che santa Chiara compose per le sue consorelle e che ancora oggi le Clarisse, che svolgono un prezioso ruolo nella Chiesa con la loro preghiera e con la loro opera, custodiscono con grande devozione. Sono espressioni in cui emerge tutta la tenerezza della sua maternità spirituale: “Vi benedico nella mia vita e dopo la mia morte, come posso e più di quanto posso, con tutte le benedizioni con le quali il Padre delle misericordie benedisse e benedirà in cielo e in terra i figli e le figlie, e con le quali un padre e una madre spirituale benedisse e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen” (FF, 2856).

BENEDETTO XVI – SAN BENEDETTO DA NORCIA – 11 LUGLIO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080409.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 9 aprile 2008

SAN BENEDETTO DA NORCIA – 11 LUGLIO

Cari fratelli e sorelle,

vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, S Benedetto, Santi |on 9 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

I SANTI CONIUGI AQUILA E PRISCILLA – TESTIMONI DI TENEREZZA

http://www.aquilaepriscillasicilia.it/catechesi/catechesi—0—i-santi-coniugi-aquila-e-priscilla

I SANTI CONIUGI AQUILA E PRISCILLA – TESTIMONI DI TENEREZZA

Fra i personaggi biblici forse poco conosciuti, troviamo proprio i Santi coniugi Aquila & Priscilla, una coppia giudeo-cristiana ferventi nello zelo per il Vangelo con le parole e con la testimonianza di vita.
Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all’apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo hanno più volte rischiato la testa (Rm 16,3).
Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è spesso chiamata, la loro storia, è una delle più moderne, attuali e stimolanti.
Peccato si sappia così poco di questi coniugi dalla vita così avventurosa, che viaggiò tra Roma, la Grecia e l’Asia minore, che visse persecuzioni, che mise a repentaglio la propria vita per salvare quella dell’Apostolo Paolo, e che svolse a sua volta un intenso apostolato.
Aquila & Priscilla, sono stati una coppia che ha dato tutto al Signore e che si è interamente consacrata alla diffusione del Vangelo, pur mantenendo attive le loro responsabilità coniugali e professionali.
Essi hanno aperto la loro casa a tutte le persone desiderose di conoscere il Signore Gesù.
Furono di esempio pratico per molti fratelli in Cristo e di grande testimonianza a molti non credenti ed attraverso loro il Signore Dio ha permesso che contribuissero (se non alla fondazione) alla crescita di tre comunità : Corinto, Efeso e Roma.
Cosa può fare il Signore con una coppia così unita spiritualmente, completamente consacrata e senza riserve ?
In che modo Aquila e Priscilla ci sono di incoraggiamento ?
E che cosa possiamo fare per seguire il loro esempio ?
Ciò che è importante è l’unione di Priscilla con suo marito Aquila in tutti gli aspetti della vita. Infatti la fede nel Signore Risorto è stato il loro punto di forza, che dopo averli salvati li ha sempre aiutati e protetti in ogni situazione, persecuzione, bisogno e nelle malattie.
Hanno praticato l’ospitalità aprendo la loro casa verso tutti credenti e non, soprattutto a coloro che annunciavano la Parola di Dio; ospitarono Paolo (At 18,3) che era solo, malato e perseguitato, e che era bisognoso di cure particolari.
L’ospitalità è un vero servizio al Vangelo, e il loro non era un semplice sentimento passeggero, ma un vero dono, esternando una vera amicizia frequentando persone moralmente sane e di sani principi, sempre mirate all’annuncio del Vangelo: Paolo, Apollo e i fratelli.
Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell’apostolo, nell’istruire « nella via del Signore », cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l’eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi dall’amore per Gesù, si presero cura di lui e con tenerezza completarono la sua istruzione e probabilmente lo battezzarono prima che egli partisse per Corinto.
Ma oltre a questi sani principi di cui erano in possesso, corre l’obbligo mettere in luce i tre punti fondamentali di questi coniugi della Chiesa nascente, punti che dovrebbero essere al centro della vita di ogni coppia cristiana, infatti : l’importanza della Parola di Dio, fu il centro di tutta la vita coniugale e familiare, il servizio alla Parola, la sua diffusione, sono stati per loro l’impegno principale.
L’importanza del servizio: Paolo stesso li chiama più volte “collaboratori” nel senso riferita alla prima lettera ai Corinzi (3,9) quindi nel senso profondo del termine, cioè di coloro che collaborano nella stessa opera come “non-lavoratori”, alle dipendenze dello stesso padrone, con ambiti e funzioni differenti, ma pur sempre preziosi, senza mai snaturare la vita coniugale e familiare;
La dedizione alla famiglia: non abbiamo notizie che Priscilla si sia mai lamentata con Aquila: prima di tutto per i continui spostamenti a causa di persecuzioni, poi per il duro lavoro (pulizia della casa, fabbricare tende, occuparsi del marito e di Paolo o dei credenti che frequentavano la loro casa). Il loro cammino di fede rese sempre più saldo il loro matrimonio!
Ancora oggi il Signore Gesù sta chiamando le famiglie, fidanzati e sposi, per iniziare un cammino di conversione permanente, per crescere nella fede e vivere pienamente il Sacramento del matrimonio, per essere annunciatori con la vita dell’Infinita Tenerezza di Dio.
Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca. venerata nella chiesa omonima sull’Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria li fanno martiri, anzi, determinano il genere di martirio:
la decapitazione.
Un ultima considerazione da non trascurare. Abbiamo sin qui parlato di Aquila e Priscilla mettendo nell’ordine prima il marito Aquila, poi Priscilla la moglie.
Nei testi biblici considerati : (At 18,1-4; 18-20; 24-26; Rm 16,3-5; 1 Cor 16,9; 2 Tm 4,19) spesso è il nome di Priscilla che precede quello del marito, evidenziando forse come le qualità e i doni di Priscilla, fossero equivalenti a quelli di Aquila.
E’ bello pensare che in questo caso che non è vero quello che spesso si dice, cioè che dietro un “grande uomo, c’è sempre una grande donna”! In questo caso la Parola di Dio ce li presenta accanto ! Che meravigliosa benedizione per un uomo credente avere non “dietro” ma accanto una “grande donna”!

Publié dans:Santi, Santi: memorie facoltative |on 8 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

LA SPERANZA DELLA VITA NUOVA IN CRISTO – DAI « DISCORSI » DI SANT’EFREM, DIACONO

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010424_sant-efrem_it.html

LA SPERANZA DELLA VITA NUOVA IN CRISTO

DAI « DISCORSI » DI SANT’EFREM, DIACONO (SERMO 3, DE FINE ET ADMONITIONE 2. 4-5: OPERA, EDIZIONE LAMY 3, 216-222)

« Fa’ risplendere, o Signore, il lume del tuo sapere e caccia le tenebre della nostra mente, perché ne sia illuminata e ti serva con rinnovata purezza. Il sorgere del sole dà principio all’attività dei mortali; fa’, Signore, che perduri nelle nostre menti un giorno che non conosca fine. Concedi di scorgere in noi la vita della risurrezione, e nulla distolga il nostro spirito dalle tue gioie. Imprimi in noi, o Signore, il segno di questo giorno che non trae inizio dal sole, infondendoci una costante ricerca di te.
Ogni giorno ti accogliamo nei tuoi sacramenti e ti riceviamo nel nostro corpo; facci degni di sperimentare nella nostra persona la risurrezione che speriamo. Con la grazia del Battesimo abbiamo nascosto nel nostro corpo il tuo tesoro, quel tesoro che si accresce alla mensa dei tuoi sacramenti; dacci di gioire nella tua grazia. Noi possediamo in noi stessi, perché lo attingiamo alla tua mensa spirituale, il tuo memoriale; fa’ che lo possediamo pienamente nella rinascita eterna.
Quanto sia grande la nostra bellezza, ce lo faccia comprendere quella bellezza spirituale che, pur nella nostra condizione di mortali, la tua volontà immortale suscita. La tua crocifissione, nostro Salvatore, pose fine alla vita dei corpo; concedici di crocifiggere spiritualmente la nostra anima. La tua risurrezione, o Gesù, faccia crescere in noi l’uomo spirituale; il contatto con i tuoi misteri sia per noi come uno specchio che ce lo fa conoscere. La tua economia divina, Salvatore nostro, è simbolo del mondo spirituale; concedici di percorrerlo come uomini spirituali.
Non privare, Signore, la nostra mente della tua rivelazione spirituale, e non sottrarre alle nostre membra il calore della tua dolcezza. La natura mortale del nostro corpo ci conduce alla morte; riversa su di noi il tuo amore spirituale e purifica il nostro cuore dalle conseguenze della nostra condizione mortale. Dacci, o Signore, di affrettarci verso la nostra città e -come Mosè sul Sinai- fa’ che la possediamo attraverso la tua manifestazione. »

Preghiera
O Dio, che nell’evento pasquale hai ristabilito l’uomo nella dignità perduta e gli hai dato la nuova speranza della risurrezione: concedi che il mistero celebrato nella fede si attui per sempre nell’amore. Per Cristo nostro Signore.Amen.

« a cura del Dipartimento di Teologia Spirituale
della Pontificia Università della Santa Croce »

Publié dans:meditazioni, Santi |on 8 juin, 2015 |Pas de commentaires »

26 MAGGIO: FILIPPO NERI, TESTIMONE DELLA GIOIA E DELLA SANTITÀ CRISTIANA

http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=560

26 MAGGIO: FILIPPO NERI, TESTIMONE DELLA GIOIA E DELLA SANTITÀ CRISTIANA

Tratto da: G.P. PACINI, Filippo Neri: Testimone della Gioia e della Santità Cristiana, in Attualità del messaggio di Filippo Neri, Éditions du Signe, Strasbourg 1995, 6-17. Le finalità di questa pubblicazione sono esclusivamente quelle dell’insegnamento e della discussione: ogni proprietà circa gli scritti appartiene alla Casa editrice Èditions du Signe (Strasbourg). Cfr. Legge 22/04/1941, n. 663, art. 70 (Gazz. Uff. 16/07/1941, n. 166).

Trascorsi ormai quattrocento anni dalla sua morte, Filippo rimane di straordinaria attualità con il suo invito, ch’egli amava ripetere a tutti, ma in particolare ai giovani: « State buoni! ». E’ un uomo di grande e profonda interiorità: vive gran parte della sua vita, prima di farsi prete a 36 anni, in mezzo alla gente ma come fosse un eremita tanto è capace di difendere la sua intimità e trascorre il suo tempo nella frequenza alle funzioni religiose nelle varie chiese di Roma e, nella notte, passa lunghe ore in preghiera nelle catacombe di S. Sebastiano.
In quegli anni, infatti, si recava spesso in questo luogo per trascorrervi la notte in contemplazione, finché nella Pentecoste del 1544, mentre era in preghiera estatica, un globo di fuoco gli penetrò il petto spezzando le due costole vaghe dal lato del cuore, che s’ingrossò talmente da creare una protuberanza nel torace.
In realtà, qualcosa di straordinario constatarono i medici in quel cuore dopo la morte, scoprendo che era insolitamente grande e che, effettivamente, due costole si erano rotte per permetterne l’espansione.
Filippo nasce a Firenze il 21 luglio 1515. La madre, Lucrezia da Mosciano, era figlia di un semplice falegname, mentre il padre Francesco apparteneva a gente di modesta nobiltà provinciale. Entrambe le loro famiglie si erano trapiantate .a Firenze da un paio di generazioni, provenienti da Castelfranco di sopra nel Valdarno.
Per questo Filippo vede la luce nel rione di S. Pier Gattolino, in Oltrarno, dove la famiglia rimarrà pochi anni, trasferendosi in diverse abitazioni prima di sistemarsi sulla Costa di S. Giorgio.
Francesco Neri è notaio ma non ha molto lavoro anche se, con il suo mestiere, potrebbe mantenere con decoro la sua famiglia, preso com’è dal pallino per l’alchimia dietro la quale si perde quasi fosse la sua principale occupazione.
Lucrezia poteva contare su una piccola proprietà terriera a Montespertoli e su una dote di 50 fiorini d’oro ricevuta dalla madre Lena.
Oltre queste, si hanno poche notizie sulla infanzia e l’adolescenza di Filippo a Firenze. Si sa che conobbe appena la madre, morta probabilmente di parto del quarto figliolo, Antonio, 1’8 settembre del 1520, nemmeno lui sopravvissuto. Delle due sorelle, Caterina ha due anni più di Filippo (è nata il 25 gennaio del 1513), Lisabetta è più piccola di tre, essendo nata infatti il 7 febbraio del 1518, gli sopravviverà e deporrà al primo processo d’indagine sulla vita e le opere del fratello. Francesco Neri si risposa presto, forse proprio preoccupato di dover crescere i tre figli ancora piccoli e, fortuna volle, che la matrigna, stando alla scarna testimonianza di Lisabetta, fosse donna dal carattere gioviale e abbia saputo compensare, in qualche modo, quello berbero e originale del marito, nonché il vuoto lasciato dalla madre.
Anzi, quando a diciotto anni Filippo lascerà Firenze, sarà proprio lei a sentirne più forte il distacco e qualche anno più tardi, sul letto di morte, lo chiamerà più volte e spererà di vederlo arrivare per poterlo riabbracciare e salutare per l’ultima volta.
Filippo era ancora fanciullo quando cominciò a frequentare il convento fiorentino dei domenicani di S. Marco, dove era stata introdotta da tempo l’osservanza e gran parte della comunità viveva ancora nel culto del grande Savonarola.
Probabilmente proprio qui, nella confraternita della Purificazione o, meglio ancora, in quella schola cantorum composta da ragazzi che la Congregazione della Vergine educava e formava a sue spese per il canto della laude, il Neri ebbe la sua educazione non solo religiosa e la sua prima formazione.
Sta di fatto che la lauda sarà una delle caratteristiche dell’oratorio di Filippo ed egli, volendo esprimere la sua riconoscenza ai domenicani della Minerva (Roma), dirà : « Tutto quello che ho di buono, lo devo ai vostri padri di S. Marco ».
Intorno ai primi anni trenta del Cinquecento (certamente dopo l’assedio del 1529-30), Filippo lascia Firenze, e lo farà per sempre (solo ormai molto anziano la ricorderà con l’appellativo di patria), per recarsi a S. Germano (l’attuale Montecassino), presso uno zio che faceva il mercante.
La decisione doveva nascere non tanto per imparare un mestiere quanto perché in casa ci fosse una bocca in meno da sfamare.
Ma il suo soggiorno nella piccola cittadina vicino alla grande abbazia benedettina durò non più di due o tre anni; verso il 1535 si trasferisce a Roma dalla quale non si allontanerà più nemmeno per brevi periodi. Non si conoscono le ragioni di questa decisione: probabilmente fu lo spirito d’indipendenza del suo carattere a suggerirgli che, nella grande città, sarebbe riuscito a trovare di che vivere potendo tuttavia impostare la propria vita come meglio avrebbe voluto. Questo è almeno quanto si può logicamente dedurre dai fatti della vita di Filippo fino al tempo della sua decisione di farsi prete.
A Roma, egli riesce ad inserirsi presto nella numerosa « nazione » dei fiorentini, che occupa un posto notevole nella città per la presenza di numerosi prelati, di professionisti, di commercianti e banchieri. La sua indole aperta e gioviale, la sua onestà, gli permettono di attirarsi le simpatie di tutti.
Così le prime notizie sul Neri lo dicono ospite presso Galeotto Caccia, un fiorentino appunto, gestore della dogana pontificia, il quale, in compenso per l’educazione dei figli, dà al giovane compatriota vitto e alloggio. Filippo si accontentava di poco: una stanzetta sopra la dogana era tutta la sua abitazione, una corda tesa fra due pareti gli serviva come armadio e per stendere i suoi panni ad asciugare.
I suoi pasti si riducevano a « pane e olive, olive e pane », come dirà la serva del Caccia, ch’egli consumava quasi sempre nel cortile vicino al pozzo. Ma era libero d’impostare, come voleva, la sua giornata senza orari né programmi stabiliti.
Dovette frequentare in questo periodo, come uditore, alcuni corsi di teologia e di filosofia alla Sapienza, ma forse, dopo un paio d’anni, abbandonò anche questi per darsi ad un apostolato di strada, accompagnando un gioviale saluto con una buona esortazione a chi gli capitava d’incontrare, specialmente coloro che lavoravano presso i « banchi », andando ad assistere e servire gli ammalati negli ospedali, dedicando molto tempo alla preghiera.
A Filippo procurano gioia dello spirito le funzioni liturgiche, specialmente se si svolgono presso chiese di regolari, perché più curate e devote, e ne è assiduo frequentatore, spesso accompagnato da chi è riuscito a trascinarsi dietro.
Ma la frequenza ai sacramenti e la meditazione personale restano la fonte cui attinge forza e insegnamenti per il suo progredire nella vita spirituale.
Per una di quelle circostanze che nella vita di Filippo segnano non un episodio contingente, ma un mutamento, egli incontra, probabilmente proprio all’ospedale di S. Giacomo, uno zelante sacerdote, Persiano Rosa, che dimora presso l’ex convento dei minori osservanti di S. Girolamo della Carità.
Convento e chiesa erano stati assegnati alla confraternita della Carità (dopo la partenza dei frati), con l’impegno per il sodalizio di far continuare il servizio religioso: ma i sacerdoti non dovevano appartenere a ordini o congregazioni di regolari!
In breve, si era formato così un gruppo qualificato e scelto di preti, ma senza un superiore gerarchico: non dovevano recitare l’ufficio in comune, né consumare i pasti insieme. Ognuno di loro, in cambio del servizio religioso alla chiesa, riceveva dalla confraternita un modesto compenso mensile e due stanze come abitazione.
Era libero di organizzare il suo impegno d’apostolato come meglio riteneva.
Una esperienza questa da tenere presente e che, almeno in parte, spiega la diffidenza verso lo stato religioso dei primi preti filippini.
Filippo sceglie dunque Persiano Rosa come suo confessore ed entra nella cerchia dei dodici laici che danno vita con lo stesso Rosa (come prete questi è un po’ il leader del gruppo), alla confraternita della Trinità dei Pellegrini (16 agosto 1548).
Come le antiche compagnie medievali (ne ripete la forma anche nella scelta dei dodici soci – duodenario – in ricordo dei XII apostoli), il sodalizio si proponeva lo scopo di alloggiare e assistere coloro che venivano in pellegrinaggio a Roma ed erano di disagiate condizioni economiche.
Nello stesso tempo, Filippo continua a visitare ed assistere i malati a S. Giacomo affidato alle cure dei confratelli del Divino Amore. Era questo un gruppo formato da laici devoti e chierici ferventi che si proponeva, sulla scia di Ettore Vernazza e di Caterina Fieschi Adorno, di condurre una vita quasi da « religiosi » pur rimanendo nel mondo, con l’obbligo assoluto della segretezza perché gli aderenti non venissero riconosciuti, né alcuno di loro cadesse in superbia per il bene che personalmente e dal sodalizio viene compiuto.
Al gruppo romano aderisce, fra gli altri, anche Gaetano Thiene, fondatore dei Chierici Regolari, indicati presto come modello esemplare di preti post-tridentini, che giocheranno un ruolo importante nella formazione di un nuovo clero e nella diffusione della Riforma Cattolica.
A questo periodo risale anche l’incontro del giovane Neri con Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, e Francesco Xavier, una delle sue prime più belle conquiste, il grande missionario delle Indie.
Sembra ci sia stata qualche indecisione di Filippo di unirsi al loro gruppo: è certo ch’egli manterrà non solo ottimi rapporti coi padri della Compagnia, ma le lettere che i suoi missionari invieranno a Roma, diventeranno materia di devota lettura fra i discepoli di Filippo.
Tuttavia, pur avvertendo già un forte impulso di maggiore e più completa donazione, rimane in lui un certo spirito d’indipendenza, una « perseverante ripugnanza a far parte di qualsiasi ordine religioso », come afferma uno dei suoi biografi.
Tutto il suo comportamento, tra i 18 e i 35 anni, dall’adolescenza cioè alla maturità, è caratterizzato da questa gioia della solitudine, dalla libertà senza obblighi, dalla indipendenza che gli viene dalla povertà.
La frequenza di gruppi in cui ormai si vive il clima fervente della riforma cattolica, di comunità religiose tutte volte ad una più scrupolosa osservanza, il suo amore verso il prossimo, la discreta direzione del Rosa, portano lentamente il Neri a maturare la decisione di farsi prete. Siamo nel 1550. Finalmente il confessore riesce a vincere le ultime resistenze di Filippo.
Nei primi mesi dell’anno successivo egli intensifica la sua preparazione e, nel mese di marzo, Giovanni Lunel, Vescovo di Sebaste, gli conferisce la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato. Il 28 dello stesso mese, riceve il diaconato in S. Giovanni in Laterano e il 23 maggio è consacrato prete nella chiesa di S. Tomaso in Parione. E’ ancora il Rosa a far accogliere il neo sacerdote nella casa di S. Girolamo, dove del resto il Neri è già conosciuto, e qui egli trascorrerà ben 32 anni, per passare alla Vallicella (sede della sua congregazione) solo nel 1583 (12 novembre), e dopo l’invito pressante del Papa.
La mancanza di vita comune fra i cappellani di S. Girolamo, molto diversi fra loro per indole e per doti, risponde proprio a quanto cerca Filippo: gli permette tempo a disposizione, libertà di apostolato e, tuttavia, il vivere sotto lo stesso tetto accomuna questi preti nell’azione di riforma che, pur in diversi modi, tutti indistintamente perseguono.
Comincia per il Neri quella che sarà la caratteristica del suo ministero : la sua disponibilità ad ogni ora della giornata per ricevere le confessioni dei suoi penitenti e di quanti vogliono avvicinarlo per avere consigli e la sua direzione spirituale.
Mentre, nello stesso periodo, preti zelanti si sforzano per inculcare la pratica della comunione frequente, come faceva Bonsignore Cacciaguerra (altra figura importante di prete nel collegio di S. Girolamo), Filippo privilegia il sacramento della confessione, come mezzo principale della conversione personale, della direzione spirituale per la formazione delle coscienze.
Giovanni Francesco Bordini (uno dei primi seguaci del Neri, prete dell’Oratorio, poi vescovo di Cavaillon), scriverà in proposito: « Gli bastò quella sola stanza ignuda et quivi si diede all’esercizio del confessare, nel quale poi consumò il restante della vita sua, talmente che ancora nell’ultima vecchiezza giammai il tralasciò… Et era così assiduo nell’udire le confessioni, che la mattina avanti il giorno molti, che erano occupati, andavano a trovarlo e confessavansi. Da poi levatosi, andava in chiesa et quivi sino all’ultima messa, la quale per lo più egli soleva celebrare, stava sempre fermo, non partendo mai se non per qualche urgente necessità o carità del prossimo, sì che chiunque lo vedeva, sempre lo trovava apparecchiato ».
E Cesare Baronio (successore di Filippo, per sua volontaria insistente rinuncia alla carica di Preposito della giovane congregazione, cardinale prefetto della Biblioteca apostolica, iniziatore, coi suoi Annali, della Storia della Chiesa), dà quasi identica testimonianza, riferendosi al mezzo più importante di cui si serve il Neri nel suo apostolato: « … non avrebbe generato così numerosi figli in Cristo, se non li avesse circondati con un abbraccio di stima e di affetto e, avendo nutrito ciascuno con la parola di Dio, non avesse condotto ognuno di loro ad essere uomo perfetto ».
Certamente nell’avvicinare gli altri Filippo era naturalmente aiutato dal suo carattere estroverso e gioviale accompagnato da una costante serenità, dalla battuta pronta e adatta a ciascuno. Il colloquio, iniziato nel confessionale, proseguiva poi passeggiando nel piccolo cortile che separava la chiesa dalle stanze di Filippo e continuava in camera sua, nella quale accoglieva quei pochi che lo spazio, permetteva.
Questo incontro semplice, informale, del Neri con pochi giovani che, con il tempo, diventa più frequente e si allarga fino. a formare un gruppo, costituisce l’inizio dell’Oratorio. Un incontro nel quale si parla « del disprezzo del mondo, della bellezza della virtù, del premio dei buoni » si fanno spontanei interventi su letture spirituali.
Ma anche per questa sua « intuizione », l’Oratorio, Filippo non vuole delle regole: tutto deve essere improntato alla spontaneità e alla semplicità, perché ognuno che partecipa si senta a suo agio, circondato d’amicizia e d’affetto, nello sforzo comune di essere sempre più « buoni ». Egli non prepara i suoi fervorini, ma lascia che il suo animo si apra liberamente, come pure quello dei suoi giovani.
E’ importante sottolineare che Filippo non si occupa di ragazzi: oggetto particolare delle sue cure sono giovani la cui età oscilla dai sedici-diciotto anni in su, hanno una certa preparazione, appartengono a ceti che, tutto sommato, non hanno preoccupazioni economiche. E quando, per la notevole affluenza di partecipanti, si vedrà costretto a trasferire gli incontri – prima nella soffitta sopra la chiesa, adibita a deposito di granaglie, e infine in chiesa -, e a dare un certo ordine allo svolgimento dell’Oratorio (lettura devota, in attesa di chi non può abbandonare il proprio lavoro, discorsi esortatori, canto della lauda ecc.), anche allora c’è lo sforzo costante perché dall’eminente cardinale, al mercante, dal giovane al vecchio, dal letterato all’ignorante ognuno si senta a suo agio, senza soggezione alcuna: sono laici e giovani gli animatori dell’adunanza!
Gli interventi di Filippo saranno sempre brevi e misurati: mai parlerà dalla cattedra! Certo, un simile apostolato è tutto legato al carisma della sua persona, anche se ormai i suoi primi sacerdoti sono tutti impegnati nell’oratorio e a fare esperienza per continuarlo nel tempo.
E’ stato giustamente osservato dal Cistellini (al quale si deve la fondamentale biografia sul Neri) che « lo stile affettivo e familiare del ragionamento spirituale nell’Oratorio, solo in apparenza può sembrare di facile applicazione. Richiede una buona dizione, un parlare sciolto, e una continua attenzione a non cadere nel banale o addirittura nel grottesco », E queste non sono certo qualità da tutti.
Tanto che, ancora vivo Filippo, la pratica si affievolì per mancanza di soggetti capaci.
Poté essere ripresa, saltuariamente, per iniziativa dei padri quando, nella cerchia di chi frequentava questi incontri si ritrovò chi ne era idoneo.
Filippo aveva anche inventato un originale pellegrinaggio per Roma: la visita alle Sette Chiese che si svolgeva ogni anno al giovedì grasso in contrapposizione al carnevale. Si cominciava al mercoledì sera, con la visita a S. Pietro, per continuare poi il giorno seguente, dopo la pausa notturna, riprendendo l’itinerario da S. Paolo fuori le mura e terminando, dopo un lungo giro che giungeva fino a S. Sebastiano sulla via Appia, a S. Maria Maggiore. A mezza strada ci si fermava a Villa Celimontana per far merenda, conversare e riposarsi della camminata.
Proprio durante questo pellegrinaggio del 1563 avviene un altro incontro, importante per ambedue, quello fra Filippo Neri e il giovane cardinale nipote Carlo Borromeo. Ne nasceranno una forte amicizia e stima reciproca: sarà proprio Padre Filippo a convincere l’amico ad accettare il peso della grande diocesi ambrosiana, convinto com’è della necessità di un vescovo santo, in grado davvero di attuare la riforma ; ma causa anche di qualche cruccio per il Neri, quando le richieste dell’arcivescovo di Milano si faranno sempre più pressanti (e dureranno anni, con trattative e nuovi rinvii di Filippo) perché trasferisca l’Oratorio a Milano.
Intanto, nel 1564, dietro forti insistenze dei governatori della potente Nazione dei fiorentini – alle quali dovettero aggiungersi anche quelle di qualche ambiente di curia – Filippo era stato nominato responsabile della loro, chiesa di S. Giovanni (detta appunto dei fiorentini), che, fin dal 1519 per una disposizione di Leone X (Giovanni de’ Medici), fungeva da loro chiesa parrocchiale.
I tentennamenti e le resistenze. del Neri ad accettare, nascevano dal fatto che, proprio all’interno di questa Nazione, in anni non lontani, si erano originati intrighi e beghe legati alla situazione politica di Firenze dopo il ritorno dei Medici alla guida della città, inoltre, Filippo che aveva sempre rifiutato la dipendenza da altri, ancor più ora rifuggiva quella da un gruppo così potente in Roma.
Alla fine dovette cedere perché, contrariamente a quanto forse si aspettava, vennero accolte tutte le sue condizioni che, in realtà, andavano contro gli statuti della Nazione fiorentina. Prima di tutto richiese l’esonero della residenza (ch’egli continuò a mantenere a S. Girolamo), l’allontanamento del clero prima in servizio a S. Giovanni, l’affidamento, della cura parrocchiale ai suoi primi preti e chierici.
Mandarono Cesare Baronio, Giovanni Francesco Bordini e Alessandro Fedeli che furono, per una speciale dispensa papale, tutti ordinati fra il maggio e il settembre dello stesso 1564. Già tre anni dopo la comunità di S. Giovanni contava ben 18 soggetti che mantengono forti legami con S. Girolamo; al mattino vi si recano tutti per la confessione quotidiana a Filippo, e 4 vi tornano al pomeriggio per l’Oratorio. Si dovette presto cercare una casa in affitto vicina all’alloggio loro destinato, perché non più sufficiente ad ospitare tutti.
Già dal 1568 è presente nella comunità Francesco Maria Tarugi (futuro arcivescovo di Avignone e cardinale) che,- in breve, diventa per gli altri punto di riferimento, dato che è il più anziano del gruppo e del quale ha grande stima il Neri. Il genere di vita ch’essi conducono (a parte la naturale, spontanea soggezione a Filippo) non si discosta molto da quello che regnava a S. Girolamo. I cappellani contribuiscono, secondo le loro entrate, alle spese; qui però consumano i -pasti in comune e nessuno disdegna di compiere anche umili mansioni come pulire la casa e attendere alla cucina: anzi, il Baronio si fregerà del titolo di coquus perpetuus, cuoco stabile! e lo scriverà col carbone sulla cappa del focolare.
Nel 1574 intanto, i fiorentini, orgogliosi dei loro preti che con il loro zelo hanno reso S. Giovanni un punto di riferimento nella vita religiosa di Roma, costruiscono un edificio per ospitare l’aumentata, notevole affluenza di persone alle pratiche dell’Oratorio.
Filippo però, desidera una chiesa finalmente tutta sua. Così, con una discreta e silenziosa preparazione (alla quale contribuì non poco il Tarugi che consegna materialmente al papa la supplica del Neri perché gli venga assegnata), fu superata ogni aspettativa. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), il 15 luglio dell’anno santo 1575, indirizza a Filippo la bolla Copiosus in misericordia Dominus, con la quale non solo gli assegna la chiesa parrocchiale di S. Maria in Vallicella, ma riconosce canonicamente la comunità di chierici secolari, formatasi attorno a lui, e della quale il Neri è stabilito Preposito.
Una Congregazione che si distingue fra le contemporanee approvate dopo il Concilio di Trento e che porta tutta l’impronta di padre Filippo, come ormai tutti lo chiamano. Riflette più il vivere in comunità dei chierici addetti alle canoniche dell’alto medioevo (canonici), che quello di una congregazione religiosa come ormai la si intende secondo i canoni.
Il Neri non aveva mai pensato di dar vita ad una nuova congregazione: esisteva già una varietà di forme di vita consacrata (antichi ordini monastici, ordini mendicanti – minori, predicatori, carmelitani, agostiniani, servi di Maria), le nuove famiglie religiose e, per chi voleva seguire i consigli evangelici, lo ripeteva spesso, non c’era che l’imbarazzo della scelta.
Ma, dimostrando ancora una volta una piena fiducia e obbedienza alla volontà del papa (che sa essere strumento di un volere ben superiore), ne accetta le disposizioni: forse intende che solo coti possa tramandarsi nel tempo la sua esperienza, anche se certamente essa non potrà ricreare lo stesso clima che si respira attorno a lui.
E’ il travaglio del passaggio da una felice intuizione alla istituzione. Eppure la Curia ha colto l’essenza della comunità oratoriana: i chierici verranno ordinati con il titolo della mensa comune (per loro cioè risponde Filippo come superiore), ma non pronunciano voti come gli altri religiosi: il fine del loro vivere in comunità è di essere al servizio dell’Oratorio.
Solo nel 1588 la comunità di Filippo stenderà delle costituzioni (spinta forse anche dai problemi di rapporti con la case filiali di S. Severino e di Napoli) e, dopo una riflessione interna durata un trentennio, con conseguenti correzioni e modificazioni, nel febbraio del 1612, ad opera ormai di una maggioranza della seconda generazione di oratoriani (sono scomparsi, oltre Filippo, anche figure eminenti come il Baronio e il Tarugi) e con la mediazione del cardinale Bellarmino, vengono definitivamente approvate le costituzioni con il Breve solenne Christifidelium quorumlibet di papa Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621).
Ma a Filippo mancarono prove e tribolazioni, bagaglio immancabile nella vita di ciascuno?
No di certo, anche se, come s’è visto, fino all’età in cui si fa prete, di lui non si sa poi molto (lo si conosce solo dalle testimonianze dei pochi superstiti interrogati al primo processo), e la cosa si spiega visto che il Neri era ben lontano dal parlare di sé, né lasciò scritti autobiografici.
Anzi, egli rifuggiva dallo scrivere, e si servi sempre di altri anche per la stesura Però non occorrono voli di fantasia per capire che una vita alla giornata, come s’era, imposto, non doveva poi essere tanto facile.
Certamente quando sappiamo delle persecuzioni che ad opera del cardinale Virginio Rosari, Vicario di Roma, nella primavera del 1559 si abbatterono sul Neri allora non fatichiamo a comprenderne la sofferenza. Il potente prelato arriva, per motivi politici – siamo durante il difficile pontificato di Paolo IV (Giampero Caraffa, 1555-1559) – a proibirgli il pellegrinaggio alle basiliche, l’Oratorio e il confessionale; inoltre Filippo è citato a comparire davanti alle autorità imputato di alimentare una setta e di tenere conventicole.
In pratica, si sospettava della sua fede… allora, non si andava tanto per il sottile! Altre amarezze e difficoltà si abbatterono su Filippo dieci anni dopo, nel 1569, in seguito ad una serie di lutti e al rarefarsi dei collaboratori. Inoltre, negli ultimi trent’anni della sua vita, fu spesso tormentato da malattie (sbocchi di sangue, debilitazione generale) tanto che, più volte, la sua ripresa parve dovuta ad un miracolo.
Senza contare le amarezze interiori che dovevano procurargli gli atteggiamenti d’indipendenza, se non di ribellione del Talpa, responsabile della fondazione di Napoli, che, morto Filippo, portò alla rottura dell’unità coi confratelli della Vallicella. E le costituzioni non prevederanno più una gerarchia unitaria degli oratoriani: ogni fondazione, pur adottandone le consuetudini, sarà autonoma.
Nella primavera del 1595 le crisi di salute di Filippo si fanno più frequenti.
Non può far nemmeno un cenno di saluto al cardinale Agostino Valier (che dalla sua esperienza con il Neri aveva scritto il bel dialogo Philippus sive de laetitia christiana), venuto a trovarlo e salutarlo per l’ultima volta.
La mattina del 12 maggio gli venne amministrata l’estrema unzione dal fedele Baronio, ma il Neri è così stremato che non dà reazione.
E’ presente il cardinale Borromeo che trepida per le condizioni del caro amico. C’è un lieve miglioramento e il porporato ne approfitta per amministrargli il Viatico.
I testimoni narrano di una scena commovente: Filippo, alla vista dell’ostia, parve riacquistare le forze; con un tono di voce che meravigliò i presenti egli invocò: « Questo è l’amor mio! Questo è l’amor mio, dammelo subito! ».
Trascorrono ancora altri giorni fra riprese e ricadute, speranze di un ristabilimento che Filippo invece dice chiaramente non ci sarà.
Sono le 23 del 26 maggio 1595, festa del Corpus Domini. Il Gallonio (autore di una preziosa Vita sul fondatore), uno dei padri che dorme sopra la stanza del Neri, lo sente battere con la mazza sul pavimento.
Al suo arrivo, padre Filippo, con un fil di voce gli dice: « Aiutatemi, Antonio, me ne vado ». Accorre, in breve avvertita, tutta la comunità.
Il Baronio, a nome di tutti, chiede al Padre che dia loro l’ultima benedizione; ma Filippo, aperti gli occhi per qualche istante e rivoltili al cielo, piegò la testa emettendo un sospiro più forte, si addormentò nel Signore, perché, più che un trapasso dovuto alla morte, il suo sembrò davvero l’inizio di un lungo sonno. Erano, circa, le tre del mattino.
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Publié dans:Santi, santi: biografia |on 26 mai, 2015 |Pas de commentaires »
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