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LA SPIRITUALITÀ DEL DESERTO – PER DIVENTARE UOMINI DI PROFONDA INTERIORITÀ

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LA SPIRITUALITÀ DEL DESERTO – PER DIVENTARE UOMINI DI PROFONDA INTERIORITÀ

APPROFONDIMENTI

Nella spiritualità cristiana il deserto è il simbolo del rapporto intimo e particolare con Dio, il luogo dove Dio conduce per tessere un nuovo inizio, caratterizzato da un legame interiore, forte, come un segno indelebile che determina una vita rinnovata perché alla Sua presenza, in Sua compagnia. Nella sua spiritualità Giaquinta ha messo a fuoco, nell’alveo della spiritualità del deserto, l’esperienza dell’alleanza, riletta come il punto della storia della salvezza nel quale prende forma concreta la relazione tra Dio e l’uomo come legame d’amore. Un legame interiore i cui frutti si irradiano nella Chiesa e nel mondo.
Alle origini del deserto
Quando penso al deserto, la prima immagine che mi viene in mente è una distesa di sabbia infuocata, i cui confini si perdono all’orizzonte.
Nel deserto è facile perdersi, non ci sono strade, non ci sono punti di riferimento.
Solo sabbia, sole, calore, silenzio.
Chi si avventura nel deserto si inoltra in un percorso difficile, pericoloso, rischia di perdersi o di mettere a repentaglio la sua vita.
Nella Bibbia il deserto evoca un luogo da evitare, perché abitato da bestie feroci, da briganti, un luogo dove non ci sono punti di riferimento fissi, ma sempre in movimento; è il luogo senza parola, come dice il significato del termine in ebraico. E Dio, nella sua sapienza fantasiosa e geniale, ha saputo trasformare questo luogo terribile in un simbolo di salvezza, anzi nell’esperienza intima, mistica, profonda dell’amore, della provvidenza, della tenerezza di Dio per l’uomo.
Solo Dio poteva compiere questo miracolo, necessario per far capire che veramente Lui è più forte della morte e dove arriva la sua Parola accade l’impossibile, il deserto fiorisce come un giardino, il silenzio lascia il posto alla voce dello Spirito che porta vita nuova lì dove c’era solo vuoto, buio, desolazione.
La storia della vita comincia nel deserto. Il libro della Genesi si apre descrivendo così cosa c’è prima della creazione: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. E Dio disse…” (Gen 1, 2).
All’inizio della storia del mondo, Dio fissa quasi un imprinting nella creazione stessa: c’è la realtà, oscura, vuota e tenebrosa, di un deserto informe, ma quando Dio pronuncia la sua parola ogni cosa prende vita, forma, colore, è la presenza di Dio che fa la differenza trasformando un luogo ostile in esperienza di grazia, di incontro con la vita.
Nel deserto si rifugiano i profeti, in fuga da chi li perseguita, stanchi della loro missione; così succede al profeta Elia, in fuga dalla furia della regina Gezabele, che si inoltra nel deserto desideroso di morire. E in quel deserto è straordinariamente raggiunto da Dio che lo nutre, gli ridà vigore e lo conduce fino all’Oreb, dove si rivela nel sussurro di una brezza leggera, per consegnargli rinnovata la sua missione profetica.
Nel deserto l’alleanza: il segno della speranza
Ma il deserto è il luogo del grande cammino del popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa. Per Israele il deserto è più che un luogo di transito, è il simbolo di un cammino speciale, del cammino che determina e caratterizza il rapporto con il suo Signore. Israele si inoltra nel deserto non di sua iniziativa, ma per uno specifico invito di Dio, dietro una promessa precisa: “Ti condurrò in una terra dove scorre latte e miele, dove sarai libero ed io sarò il tuo dio e tu sarai il mio popolo”. La promessa è quella di un legame intimo e indissolubile che prendere il nome di alleanza, un legame che dà una nuova prospettiva e un nuovo orientamento.
La spiritualità del deserto è spiritualità dell’alleanza. I segni più profondi e incisivi che il Signore compie nell’Esodo avvengono all’inizio del percorso, non a conclusione. Prima di partire dall’Egitto, il Signore fa celebrare la Pasqua, anticipazione del passaggio, della liberazione che presto il popolo sperimenterà. Anche l’alleanza sul Sinai avviene durante il cammino, non è il termine, e ne segna il ritmo: da quel momento il popolo ha nella Legge scritta da Dio lo spartito sul quale modulare la vita.
Ma non basta, non è ancora sufficiente, il popolo tradisce quel patto, rivela tutta la sua fragilità. Il seme gettato nel deserto da Dio stesso non rimane senza frutto, è un seme di speranza, è una promessa di un compimento che giungerà al momento opportuno.
“Il popolo di Israele non riesce a seguire il ritmo dell’amore. Dopo i tanti fallimenti Dio stabilisce allora una economia e una alleanza differenti: scende dentro l’uomo, fa in modo che l’uomo non veda più l’alleanza come una realtà esterna, ma come un qualcosa che sta in lui, al di dentro. Non si tratta di osservare semplicemente una legge, ma di fare una esperienza; l’alleanza diventa esperienza di vita”(G. Giaquinta, L’alleanza, 61).
Nel cuore del deserto nasce la speranza, attraverso una parola nuova che Dio dice all’uomo: “Scriverò la mia legge nel tuo cuore, anzi ti darò un cuore nuovo, un cuore di carne al posto del cuore di pietra, un cuore capace di contenere il mio spirito”.
Una speranza per l’umanità
Per Giaquinta ogni uomo è chiamato a realizzare la sua alleanza con Dio, a dire il suo sì pieno, totale, definitivo. E sebbene questo patto sia personale, interiore, è destinato a irradiarsi sul resto dell’umanità, perché è l’alleanza portata a compimento da Cristo, il quale “spalanca le porte, apre a tutta l’umanità, con una universalità che crea nell’umanità uno stato di speranza…
Cristo presente nella storia, nella storia personale di ciascuno, nella mia storia, nella mia vita, Lui che mi inserisce nella sua vita. Ciascuno deve poter dire: io sono un trasformato, un chiamato da Cristo, io devo stringere, o rinnovare, con Cristo la mia alleanza, assumere nella mia vita la legge che Lui mi detta, cioè quello che Egli vuole io viva. È un problema personale, certamente, ma anche comunitario.
[…] Accettare e vivere veramente una simile impostazione significa diventare capaci di rivoluzionare la propria vita personale e comunitaria. Non è possibile rimanere nel quieto vivere. Il Signore ha chiamato ogni battezzato a vivere in lui, alla sua presenza. Egli, che è presente in noi, ci ha dato la sua legge, e la rinnova continuamente come rinnova il nostro patto con lui” (G. Giaquinta, L’alleanza, 121).
L’alleanza è il sigillo che Dio pone sul cuore dell’uomo, è la chiamata alla sua santità, a vivere in profonda relazione con Lui e trarre da questo legame interiore, anzi da questa presenza intima la capacità di guardare con occhi nuovi il deserto e scoprire in esso semi di speranza da raccogliere, custodire, coltivare, affinché germoglino frutti buoni per tutti. Così come l’alleanza ha sempre questa duplice dimensione personale e comunitaria, il santo ha lo sguardo penetrante, reso tale dallo Spirito. Così Giaquinta sintetizza la missione del santo di oggi: “Quale dunque il santo di oggi? In primo luogo un uomo aperto, che abbia la capacità di cogliere il pullulare di bene, di ansie, di attese, di speranze, che sappia cogliere nei movimenti che attorno nascono, fioriscono e forse muoiono, la voce implorante dello Spirito, una creatura, cioè, aperta a tutte le suggestioni dello Spirito. Non è possibile rinchiudersi nei vari schematismi, ma è necessario avere l’ampiezza del cuore di Cristo e di Paolo nella piena fedeltà alla Chiesa, ma con l’ampiezza della chiesa stessa. Il santo moderno, quindi, deve avere un senso di ampiezza e di percezione dei valori positivi anche tra le realtà negative con il senso di ottimismo che nasce appunto dalla certezza che è lo Spirito che agisce, non dimenticando che anche la maturazione del mondo verso alcuni ideali, cui si è già accennato prima, è opera dello Spirito: è lo Spirito che agisce nel mondo, senza che questo ne abbia la percezione, spingendolo verso Cristo. Di qui la necessità di saper valorizzare gli aspetti positivi di un mondo che resiste allo Spirito”. (G. Giaquinta, La santità, 51)
Queste parole sono state dette quasi quaranta anni fa: eppure conservano intatta la loro carica programmatica. Oggi viviamo immersi in tanti deserti, nei quali i semi di speranza sono ben nascosti; eppure non occorre essere santi per aguzzare la vista e accorgersi di quel pullulare di bene, di ansie, di attese… sarebbe già un primo passo, un ottimo esercizio per trasformare qualche angolo di deserto da luogo inospitale e ostile a giardino di vita.
Ma Giaquinta ci ricorda che il santo, colui che ha accolto nella sua vita l’alleanza con il Signore quale legame intimo d’amore con Lui, sa riconoscere Colui che ha messo il seme della speranza nel deserto, vede il bene come seme gettato dallo Spirito nel cuore dell’uomo, nel cuore del mondo, nel cuore della società. E questo fa la differenza. Perché se il seme della speranza è un frutto spontaneo dura quanto la volubilità umana.
Ma se è dono dello Spirito, allora la sua opera sarà certamente portata a compimento. E, cosa ancora più straordinaria, il mondo ha degli aspetti positivi che vengono da una presenza e da un’azione dello Spirito, sebbene ci sia nel mondo stesso una resistenza allo Spirito; motivo in più per cui è necessaria una azione di animazione e di mediazione da parte del santo che agisce all’interno del mondo per aiutarne il cammino e lo sviluppo seguendo l’azione dello Spirito.
Fame e sete
Uno dei paradossi del nostro tempo è la mancanza di equilibrio tra vita interiore e vita esteriore: sembra che esista solo la seconda e la prima è diventata sempre più sottile, povera, vuota. È questo il vuoto da riempire con l’amorevole compagnia di chi ripete l’annuncio del profeta: “Ecco, germoglia qualcosa di nuovo… non te ne accorgi?”.
Alcuni giorni fa ho letto questo passo del libro del profeta Amos: “Ecco verranno giorni, oracolo del Signore, in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (Am 8, 11). Mi sono sembrate parole molto adatte per il nostro tempo, in cui c’è tanta fame e sete di affetti, di relazioni sincere, di persone dedite al servizio del bene comune in maniera disinteressata; c’è fame di rispetto, di accoglienza, di compagnia. E in tutto questo deserto, occorre far risuonare la Parola, farla risuonare con una testimonianza di vita. Non occorre una testimonianza ineccepibile, perfetta e impeccabile, ma il sorriso, la parola, lo sguardo, i gesti di chi dice, anche senza parlare, di aver incontrato Cristo e di essersi accorto che la vita da quell’incontro è stata trasformata.
Cristina Parasiliti Oblata Apostolica, Associata del Movimento Pro Sanctitate

LO PSEUDO-MACARIO – CONSIGLI SPIRITUALI

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LO PSEUDO-MACARIO – CONSIGLI SPIRITUALI

Breve nota biografica

Il monachesimo egiziano ha conosciuto non meno di sei o sette asceti sotto il nome di Macario, Macario d’Egitto, Macario d’Alessandria, Macario di Pispir, ecc… menzionati nella Historia Lausiaca (Cfr. Butler II p. 193). A Macario di Egitto sono attribuiti numerosi scritti. Essi sono numerose lettere, cinquanta omelie spirituali, sette opuscoli ascetici, la Grande Lettera ad Filios Dei.

CONSIGLI SPIRITUALI 1. Quando l’Apostolo ci dice: « Spogliatevi del vecchio uomo » (Efes. 4, 22), intende l’uomo totale, quello che aderisce ai nostri occhi, alle nostre mani e ai nostri sensi. Il maligno inquinò e fece deviare tutto l’uomo, anima e corpo, e lo ricoprì con la realtà dell’uomo vecchio, cioè con quella dell’uomo profanato, contaminato, ostile a Dio e ribelle alla sua legge; in questo consiste il primo peccato. Cosicchè l’uomo non vede più in modo conforme alla sua natura, ma il suo vedere, udire, camminare, agire e sentire sono legati al male. Preghiamo Dio che ci renda nudi dell’uomo vecchio; Lui solo può liberarci dal peccato. Le forze del male che ci tengono schiavi nel regno del maligno sono più forti di noi; ma il Signore ci ha promesso di liberarci da questa schiavitù  (Migne 34, 464 C). 2. L’anima si volge dalle maligne divagazioni conservando la vigilanza del cuore; ciò impedisce ai sensi ed ai pensieri di vagare nel mondo esteriore (Migne 34, 473 D). 3. Il fondamento vero della preghiera è questo: vigilare sui pensieri, e abbandonarsi all’orazione in grande quiete e pace così da non turbare gli altri. Sicuramente chi porta avanti al suo pieno sviluppo la grazia di Dio ricevuta, con un modo silenzioso di ascesa orante, è di maggior aiuto agli altri, perchè il nostro Dio, non è un Dio di confusione ma di pace (1 Cor. 14, 33).

Chi è solito pregare ad alta voce è simile ai banditori, e non può pregare ovunque, certo non nelle adunanze e nei luoghi abitati, ma solo nei posti solitari a sua scelta. Chi prega in silenziosa compostezza, lo può fare ovunque con edificazione di tutti. Costui deve portare tutto il suo sforzo sui pensieri, spezzare la turma dei pensieri maligni che l’attorniano, mettersi davanti a Dio; non eseguire le velleità di essi (pensieri), cercare invece di raccoglierli dalla dispersione separando i pensieri conformi alla natura da quelli malvagi (Migne 34, 520 B). 4. Alle volte basta che uno pieghi le ginocchia per pregare e subito il suo corpo si trova inondato dalla divina energia e gioisce l’anima della presenza del Signore come di quella dello Sposo. Altre volte invece, dopo un giorno intero di impegni laboriosi e dissipatori, uno, in una breve ora di preghiera, trova il suo io interiore rapito nell’orazione e immerso nello sconfinato mare dell’eterno; con dolcezza grande la sua mente, assorta e sospesa, dimora in quella regione ineffabile. In quel momento tacciono tutte le preoccupazioni esteriori, le forze mentali attratte dalle incommensurabili e inesprimibili realtà celesti, ricolme di stupore indicibile, riescono solo a formulare questa preghiera: Possa l’anima mia insieme alla preghiera emigrare all’altra sponda! (Migne 34, 528c). 5. L’anima, quando vien ritenuta degna di aver parte alla chiarità luminosa dello Spirito, venendo illuminata da questo splendore ineffabile si trasforma nella dimora adatta a riceverlo. Essa è allora tutta luce e nessuna parte in lei è priva dello spirituale occhio della luce. Niente è tenebroso in lei, essa è luce, spirito e capacità visiva. Tutto in lei è chiaro e semplice, essendo accesa dalla luce di Cristo che in lei ha stabilito la sua dimora. (Migne 34, 451 a). 6. Se uno, dopo aver rinunciato alle realtà esteriori, non ha sostituito, in tutta la sua pienezza, la comunione carnale propria degli esseri terreni con la comunione delle realtà celesti, e non ha avvicendato la gioia illusoria del mondo con quella interiore dello Spirito, conforto derivante dalla grazia celeste e placazione interiore che nasce dalla contemplazione della chiarità luminosa del Signore… Costui è un sale che ha perduto il sapore. (Migne 812 d). 7. Segno della presenza del Cristianesimo è questo: dopo aver affrontato ogni sorta di travagli e aver compiuto opere di verità, il riconoscersi incapace di alcunchè di bene.  Ed anche se uno è giusto davanti a Dio la sua coscienza deve dirgli: « ogni giorno incomincio di nuovo ». Ogni giorno sia accompagnato dalla speranza, dalla gioia, dalla fiducia di giungere al regno futuro della salvezza. Ripetersi spesso: « Se oggi non ho raggiunto la liberazione, vi riuscirò domani ! ». Chi ha intenzione di piantare una vigna, avanti di accingersi al lavoro è nutrito dalla speranza e dalla gioia, e nella sua mente sogna la vendemmia e calcola i guadagni prima che il vino sia fatto; con questo animo può affrontare la fatica. (Migne 34, 681 b). 8. Il Cristianesimo è cibo e bevanda; quanto più uno se ne nutre, tanto più dalla sua dolcezza la mente è attratta trovandosene sempre insaziabilmente bisognosa.  in verità lo Spirito è cibo e bevanda che mai dà sazietà. (Migne 34, 682 c). 9. Una cosa è parlare del cibo e della tavola imbandita, altra cosa è prendere e mangiare il pane saporoso e dar vigore a tutte le membra del corpo. Una cosa è discorrere della più soave bevanda, altra è andare ad attingere alla fonte e saziarsi col bere il soave liquore… Una cosa è rimuginare discorsi nella mente con una certa conoscenza, altra è portare la grazia, il sapore e la forza dello Spirito Santo in una partecipazione personale viva e fattiva, così da mostrare di possedere il tesoro delle realtà spirituali con pienezza nella mente e in tutto l’uomo interiore. (Migne, 34, 701 b). 10. Quando il pittore è intento a fare il ritratto del re ne deve avere davanti Il volto, cosicchè quando il re posa davanti a lui con abilità e grazia lo ritrae: ma se il re è girato dalla parte opposta, il pittore non può compiere l’opera sua, perchè il suo occhio non ne vede il volto. Così Cristo, pittore perfetto, dipinge i lineamenti del suo volto di uomo celeste su quei fedeli che sono verso di Lui costantemente orientati.  Se qualcuno non lo fissa di continuo, disprezzando ogni cosa a Lui contraria, non avrà in se stesso l’immagine del Signore disegnata dalla sua luce. Il nostro volto sia sempre in Lui fisso, con fede e amore, trascurando tutto per essere solo in  Lui intenti, affinchè nel nostro intimo si imprima la sua immagine, e così portando in noi Cristo possiamo giungere alla vita senza fine (Migne 34 724a).

 

Publié dans:Padri del deserto |on 27 avril, 2016 |Pas de commentaires »

FRAMMENTI DI CIELO: DETTI SULLA PREGHIERA DEI PADRI DELLA CHIESA, DEI DOTTORI DELLA CHIESA E DEI PADRI DEL DESERTO

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FRAMMENTI DI CIELO: DETTI SULLA PREGHIERA DEI PADRI DELLA CHIESA, DEI DOTTORI DELLA CHIESA E DEI PADRI DEL DESERTO

S.  Agostino ha detto:
« Nutri la tua anima con la lettura biblica: essa ti preparerà un banchetto spirituale ».
« La preghiera muore, quando il desiderio si raffredda ».

S. Tommaso d’Aquino ha detto:
« La preghiera non viene presentata a Dio per fargli conoscere qualcosa che Egli non sa, ma per spingere verso Dio l’animo di chi prega. »

S. Girolamo ha detto:
« Chi è assiduo nella lettura della Parola di Dio, quando legge si affatica, ma in seguito è felice perché gli amari semi della lettura producono in lui i dolci frutti.
« Studiamo ora che siamo sulla terra quella Realtà la cui conoscenza resterà anche quando saremo in cielo ».
« Preghi? Sei tu che parli allo Sposo. Leggi? E’ lo Sposo che parla a te ».

S. Ignazio di Loyola ha detto:
« Pregare è seguire Cristo che va tra gli uomini, quasi accompagnandolo ».

S. Caterina da Bologna ha detto:
 La preghiera è l’estatica contemplazione dell’ Altissimo, nella sua infinita bellezza e bontà: uno sguardo semplice e amoroso su Dio ».

S. Giovanni Crisostomo ha detto:
« L’uomo che prega ha le mani sul timone della storia ».

S. Giovanni Damasceno ha detto:
« La preghiera è un’elevazione della mente a Dio ».

S. Ignazio d’Antiochia ha detto:
Procurate di riunirvi più frequentemente per il rendimento di grazie e per la lode a Dio. Quando vi radunate spesso le forze di satana sono annientate ed il male da lui prodotto viene distrutto nella concordia della vostra fede. 

S. Bernardo di Chiaravalle ha detto:
  »I tuoi desideri gridino a Dio. la preghiera è una pia tensione del cuore verso Dio. »

Tertulliano ha detto: 
L’unico compito della preghiera è richiamare le anime dei defunti dallo stesso cammino della morte, sostenere i deboli, curare i malati, liberare gli indemoniati, aprire le porte del carcere, sciogliere le catene degli innocenti. Essa lava i peccati, respinge le tentazioni, spegne le persecuzioni, conforta i pusillanimi, incoraggia i generosi, guida i pellegrini, calma le tempeste, arresta i malfattori, sostenta i poveri, ammorbidisce il cuore dei ricchi, rialza i caduti, sostiene i deboli, sorregge i forti. (L’orazione, cap. 29)

Charles de Focauld ha detto:
« Bisogna lodare Dio. Lodare è esprimere la propria ammirazione e nello stesso tempo il proprio amore, perchè l’amore è inseparabilmente unito ad un’ammirazione senza riserve.
Dunque, lodare significa struggersi ai suoi piedi in parole di ammirazione e d’amore. Significa ripe-tergli che Egli è infinitamente perfetto, infinitamente amabile, infinitamente amato.
Significa dirgli che Egli è buono e che l’amiamo ».

Maestro Eckhart ha detto:
« Perchè preghiamo?.. Perchè Dio nasca nell’anima e l’anima rinasca in Dio…Un essere tutto intimo, tutto raccolto ed uno in Dio: questa è la Grazia, questo significa « Iddio con te ».

S.Teresa di Gesù ha detto:
 L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente tratteni-mento, da solo a solo, con Colui da cui sappiamo d’essere amati. (Vita 8,5)
… la porta per cui mi vennero tante grazie fu soltanto l’orazione. Se Dio vuole entrare in un’anima per prendervi le sue delizie e ricolmarla di beni, non ha altra via che questa, perché Egli la vuole sola, pura e desiderosa di riceverlo. (Vita 8,9)
Certo bisogna imparare a pregare. E a pregare si impara pregando, come si impara a camminare camminando.
…nel cominciare il cammino dell’orazione si deve prendere una risoluzione ferma e decisa di non fermarsi mai, né mai abbandonarla. Avvenga quel che vuole avvenire, succeda quel che vuole succede-re, mormori chi vuole mormorare, si fatichi quanto bisogna faticare, ma piuttosto di morire a mezza strada, scoraggiati per i molti ostacoli che si presen-tano, si tenda sempre alla méta, ne vada il mondo intero. (Cammino di perfezione 21,4)
Pensate di trovarvi innanzi a Gesù Cristo, conversate con Lui e cercate di innamorarvi di Lui, tenendolo sempre presente. (Vita 12,2)
La continua conversazione con Cristo aumenta l’amore e la fiducia. (Vita 37,5)
Buon mezzo per mantenersi alla presenza di Dio è di procurarvi una sua immagine o pittura che vi faccia devozione, non già per portarla sul petto senza mai guardarla, ma per servirsene ad intrattenervi spesso con Lui ed Egli vi suggerirà quello che gli dovete dire.
Se parlando con le creature le parole non vi mancano mai, perché vi devono esse mancare parlando con il Creatore? Non temetene: io almeno non lo credo! (Cammino di perfezione 26,9)
Non siate così semplici da non domandargli nulla! (Cammino di perfezione 28,3)
Chiedetegli aiuto nel bisogno, sfogatevi con Lui e non lo dimenticate quando siete nella gioia, parlandogli non con formule complicate ma con spontaneità e secondo il bisogno. (Vita 12,2)
Cercate di comprendere quali siano le risposte di Dio alle vostre domande.Credete forse che Egli non parli perché non ne udiamo la voce? Quando è il cuore che prega, Egli risponde. (Cammino di perfezione 24,5)
 A chi batte il cammino della preghiera giova molto un buon libro.
Per me bastava anche la vista dei campi, dell’acqua, dei fiori: cose che mi ricordavano il Creatore, mi scuotevano, mi raccoglievano, mi servivano da libri. (Vita 9,5)
Per molti anni, a meno che non fosse dopo la Comunione, io non osavo cominciare a pregare senza libro. (Vita 4,9)
 E’ troppo bella la compagnia del buon Gesù per dovercene separare! E’ altrettanto si dica di quella della sua Santissima Madre. (Seste Mansioni 7,13)
 … fate il possibile di stargli sempre accanto. Se vi abituerete a tenervelo vicino ed Egli vedrà che lo fate con amore e che cercate ogni mezzo per contentarlo, non solo non vi mancherà mai, ma, come suol dirsi, non ve lo potrete togliere d’attorno.
L’avrete con voi dappertutto e vi aiuterà in ogni vostro travaglio. Credete forse che sia poca cosa aver sempre vicino un così buon amico? (Cammino di perfezione 26,1)
 Poiché Gesù vi ha dato un Padre così buono, procurate di essere tali da gettarvi fra le sue braccia e godere della sua compagnia.
E chi non farebbe di tutto per non perdere un tal Padre? Quanti motivi di consolazione! Li lascio alla vostra intuizione! In effetti, se la vostra mente si mantiene sempre tra il Padre e il Figlio, interverrà lo Spirito Santo ad innamorare la vostra volontà col suo ardentissimo amore. (Cammino di perfezione 27, 6-7)
Quelli che sanno rinchiudersi nel piccolo cielo della loro anima, ove abita Colui che la creò e che creò pure tutto il mondo, e si abituano a togliere lo sguardo e a fuggire da quanto distrae i loro sensi, vanno per buona strada e non mancheranno di arrivare all’acqua della fonte.
Essendo vicinissimi al focolare, basta un minimo soffio dell’intelletto perché si infiammino d’amore, già disposti come sono a ciò, trovandosi soli con il Signore, lontani da ogni oggetto esteriore. (Cammino di perfezione 28,5.8)
 Per cominciare a raccogliersi e perseverare nel raccoglimento, si deve agire non a forza di braccia ma con dolcezza. Quando il raccoglimento è sincero, l’anima sembra che d’improvviso s’innalzi sopra tutto e se ne vada, simile a colui che per sottrarsi ai colpi di un nemico, si rifugia in una fortezza.
Dovete saper che questo raccoglimento non è una cosa soprannaturale, ma un fatto dipendente dalla nostra volontà e che noi possiamo realizzare con l’aiuto di Dio. (Cammino di perfezione 28,6; 29,4)
Sapevo benissimo di avere un’anima, ma non ne capivo il valore, né chi l’abitava, perché le vanità della vita mi avevano bendati gli occhi per non lasciarmi vedere.
Se avessi inteso, come ora, che nel piccolo albergo dell’anima mia abita un Re così grande, mi sembra che non l’avrei lasciato tanto solo…e sarei stata più diligente per conservami senza macchia. (Cammino di perfezione 28,11)
Non si creda che nuoccia al raccoglimento il disbrigo delle occupazioni necessarie.
Dobbiamo ritirarci in noi stessi, anche in mezzo al nostro lavoro, e ricordarci di tanto in tanto, sia pure di sfuggita, dell’Ospite che abbiamo in noi, per-suadendoci che per parlare con Lui non occorre alzare la voce. (Cammino di perfezione 29,5)
 Il Signore ci conceda di non perdere mai di vista la sua divina presenza! (Cammino di perfezione 29,8)
 Quando un’anima… non esce dall’orazione fermamente decisa a sopportare ogni cosa, tema che la sua orazione non venga da Dio. (Cammino di perfezione 36,11)
 Quando un’anima si unisce così intimamente alla stessa misericordia, alla cui luce si riconosce il suo nulla e vede quanto ne sia stata perdonata, non posso credere che non sappia anch’essa perdonare a chi l’ha offesa.
Siccome le grazie ed i favori di cui si vede inon-data le appariscono come pegni dell’amore di Dio per lei, è felicissima di avere almeno qualche cosa per testimoniare l’amore che anch’ella nutre per lui. (Cammino di perfezione 36,12)
 La preghiera non è qualcosa di statico, è un’amicizia che implica uno sviluppo e spinge a una trasformazione, a una somiglianza sempre più forte con l’amico. (da L’amicizia con Cristo, cap VII)

DETTI DEI PADRI DEL DESERTO:

L’importanza della preghiera del mattino
Non appena ti levi dopo il sonno, subito, in primo luogo, la tua bocca renda gloria a Dio e intoni cantici e salmi, poiché la prima preoccupazione, alla quale lo Spirito si apprende fin dall’aurora, esso continua a macinarla, come una mola, per tutto il giorno, sia grano sia zizzania. Perciò sii sempre il primo a gettar grano, prima che il nemico getti la zizzania.
Pregare prima di ogni cosa
Un anziano diceva: « Non far nulla senza pregare e non avrai rimpianti »

Detti di S. Isidoro
« Chi vuole essere sempre unito a Dio, deve pregare spesso e leggere spesso, perché nella preghiera siamo noi che parliamo a Dio, ma nella lettura della Bibbia è Dio che parla a noi ».
« Tutto il progresso spirituale si basa sulla lettura e sulla meditazione: ciò che ignoriamo, lo impariamo con la lettura; ciò che abbiamo imparato, lo conser-viamo con la meditazione. »
« La lettura della Bibbia ci procura un duplice vantaggio: istruisce la nostra intelligenza e ci introdu-ce all’amore per Iddio distogliendoci dalle cose vane. »
« Nessuno può capire il senso della Bibbia, se non acquista consuetudine e familiarità con essa mediante la lettura ».

 Detti di S. Pacomio
Mettiamo freno all’effervescenza dei pensieri che ci angosciano e che salgono dal nostro cuore come acqua in ebollizione, leggendo le Scritture e ruminandole incessantemente…e ne sarete liberati .

Detti di Arisitide l’Apologeta
« E’ per la preghiera dei cristiani che il mondo sta in piedi ». 

Detti di Evagrio Pontico
« La preghiera è sorgente di gioia e di grazia ».
« Quando, dedicandoti alla preghiera, sei giunto al di sopra di ogni altra gioia, allora veramente hai trovato la preghiera.

Detti di Giovanni Climaco 
« La preghiera è sostegno del mondo, riconciliazione con Dio, misura del progresso spirituale, giudizio del Signore prima del futuro giudizio ».

Publié dans:Padri del deserto, preghiere |on 19 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

PADRI DEL DESERTO: I PASSI DELL’EREMITA

http://www.villaggiodellapace.it/Preghiere%20Opuscolo/I_passi_dell’eremita.htm

PADRI DEL DESERTO

I PASSI DELL’EREMITA

Al tempo dei padri del deserto c’era un santo monaco eremita. Aveva vissuto a lungo con altri monaci e un maestro. Poi si era addentrato nel più profondo deserto per vivere una vita di maggiore penitenza. Tutte le mattine, dopo il risveglio e la preghiera, si recava ad attingere acqua per le necessità della giornata. Ma il pozzo era lontano e lui sempre più vecchio. Così meditava di trasferirsi in una grotta più vicina alla sorgente. Un giorno, tornando a casa con il pesante orcio pieno d’acqua, più affaticato del solito, pensava: « Domani raccoglierò le mie poche cose e andrò a vivere più vicino al pozzo ». Mentre pensava così, fu sorpreso di udire un fruscio dietro di sé. Si voltò e vide un Angelo con un libro aperto, che contava i suoi passi e scriveva: duemilacento…. duemilacentouno… duemilacentodue…
Il santo vecchio trasalì di stupore, ma l’Angelo lo rassicurò: « Continua a camminare, non avere paura, Sto annotando i tuoi dolorosi passi sul Libro della Vita. Ricordati, niente va perduto davanti al Signore! »
Il giorno dopo il santo eremita trasferì la sua residenza… ma per andare un po’ più lontano dal pozzo.

Dalle tradizioni dei padri del deserto

Publié dans:Padri del deserto |on 19 juillet, 2012 |Pas de commentaires »

SANT’ANTONIO ABATE: UNA TRADIZIONE MILLENARIA

http://www.zenit.org/article-29273?l=italian

SANT’ANTONIO ABATE: UNA TRADIZIONE MILLENARIA

La festa che ricorre oggi è in assoluto la più studiata sul piano etno-antropologico

di Pietro Barbini
ROMA, martedì, 17 gennaio 2012 (ZENIT.org) – Il 17 gennaio, come da tradizione, in moltissimi paesi, comuni e province d’Italia si festeggia Sant’Antonio Abate. Eremita egiziano, conosciuto anche come Sant’Antonio l’Anacoreta o Sant’Antonio del Deserto, fondatore del monachesimo, è considerato il primo degli abati.
Sant’Antonio Abate, da non confondere con il Santo di Padova, è uno dei Santi più autorevoli della storia, talmente importante da essere celebrato non solo dalla Chiesa Cattolica, ma anche dalla Chiesa Luterana e da quella Copta. La sua vita ci è stata tramandata da Sant’Atanasio d’Alessandria, che fu suo fedele discepolo e compagno di lotta contro l’arianesimo.
Funzioni, veglie, processioni, benedizioni speciali, parate e giganteschi falò; prodotti gastronomici tipici del posto consumati all’aperto, canti, balli, musiche e rievocazioni storiche che narrano la vita e i miracoli del santo: tutto questo si svolge normalmente tra il 16 e il 17 gennaio. I festeggiamenti sono soliti aprirsi con la tradizionale veglia contadina la sera precedente, a cui fa seguito l’apertura degli stand gastronomici. La mattina seguente, dopo la funzione religiosa, vengono accesi i giganteschi falò, preparati precedentemente, naturalmente dopo esser stati benedetti dal parroco; mentre la catasta brucia, si balla, si canta e si degustano i piatti tipici del posto fino a tarda notte, accompagnati da musiche folkloristiche e spettacoli di vario genere, come ad esempio la lettura di poesie che parlano del Santo, ma anche l’esposizione di racconti popolari e contadini.
Questa singolare festa è considerata una delle più interessanti, ed è sicuramente la più studiata, dal punto di vista etno-antropologico; ricca di folklore e religiosità popolare, di antiche tradizioni, affascina non poco chi vi prende parte. Dopotutto la vita stessa del Santo, che morì all’età di ben 106 anni, come la sua figura, ha da sempre affascinato fedeli e miscredenti.
Oltre ai falò e al fuoco, la tradizione vuole che, dopo la messa, il parroco imponga la benedizione ai campi, al bestiame e al raccolto. L’Abate, infatti, è Patrono dei macellai, dei contadini, degli allevatori e degli animali domestici. È interessante come in alcune località questa festa venga associata alla smettitura del maiale. Il maiale, infatti, è l’animale che nell’iconografia tradizionale accompagna, da sempre, l’Abate. Ciò deriva dal fatto che all’ordine degli Antoniani fu dato il permesso di allevare maiali all’interno dei centri abitati, i quali scorazzavano liberamente con attaccato al collo un campanello; dal grasso di questi animali i monaci ricavavano un unguento che veniva usato sulle persone colpite da varie malattie della pelle, in particolare da ergotismo ed herpes zoster, non a caso malattie conosciute meglio con il nome di “fuoco di Sant’Antonio”.
Al Santo sono inoltre riconosciute grandi capacità taumaturgiche e molti si affidano alla sua grazia, chiedendo guarigioni da qualsiasi male, soprattutto chi è stato “colpito dal fuoco”, ma anche per chiedere liberazioni dal demonio. Sant’Antonio nell’arte sacra è conosciuto come “il santo delle tentazioni demoniache”; nella sua vita, infatti, venne continuamente attaccato, tentato e tormentato dal demonio, addirittura percosso fisicamente fino a ridurlo allo stremo. Insomma l’Abate era continuamente in lotta con il diavolo. Ecco perché la sua associazione al fuoco; a riguardo poi, si narra che il Santo per strappare più anime possibili al demonio si sia recato addirittura all’inferno.
È interessante osservare che in mezzo ai molti simbolismi e rituali che richiamano alla memoria il Santo Abate, persistono alcune usanze tra la popolazione che si è soliti identificare con antiche tradizioni pagane, in uso presso gli antichi romani. Taluni studiosi sostengono anche che la festa del Santo abbia preso origine da culti pagani, come spesso viene asserito riferendosi al Santo Natale, sostenendo, erroneamente, che non esistono documenti e prove sulla data di nascita di Gesù Cristo, ma che sia stata solamente un’invenzione della Chiesa per estirpare il culto pagano del Sol Invivtus. Teoria erronea, se si va alle fonti della storia e si esaminano seriamente i documenti pervenutici (come ad esempio il Libro dei Giubilei, un testo del II secolo a.C., rinvenuto nel 1947 in una grotta del deserto di Qumran). Come per il Natale, oggi, dai documenti e dagli ultimi studi effettuati, si può ben affermare che le tradizioni contadine, parte importante del folklore popolare e molto interessanti dal punto di vista etno-antropologico, non hanno nulla a che vedere con i rituali dedicati al Santo Abate, il 17 gennaio.

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17 gennaio : sant’Antonio abate, fondatore del monachesimo

http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2011/1/17/SANTO-DEL-GIORNO-17-gennaio-2011-sant-Antonio-abate-fondatore-del-monachesimo/2/142271/

17 gennaio : sant’Antonio abate, fondatore del monachesimo

Un grande santo della storia della Chiesa viene celebrato oggi: si tratta di sant’Antonio abate, uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni bene terreno per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso. Sant’Antonio Abate viene considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati.

La vita di Antonio abate ci è nota in particolare grazie alla Vita Antonii pubblicata nel 357, opera agiografica attribuita ad Atanasio, vescovo di Alessandria, che conobbe Antonio e fu aiutato da lui nella lotta contro l’Arianesimo. L’opera fu tradotta in varie lingue, divenne popolare tanto in Oriente che in Occidente e svolse un ruolo importante per l’affermazione degli ideali della vita monastica. Grande rilievo assume, nella Vita Antonii la descrizione della lotta di Antonio contro le tentazioni del demonio.
Tali tentazioni si fecero sempre più forti quanto più sant’Antonio scelse di vivere lontano dal mondo. Si narra infatti che ebbe una visione in cui un eremita come lui riempiva la giornata dividendo il tempo tra preghiera e l’intreccio di una corda. Lesse in questa visione un’indicazione di vita: oltre alla preghiera iniziò a dedicarsi ad attività per procurarsi il cibo per vivere e fare della carità agli altri. Nei momenti di dubbio e di tentazione che attraversarono questi anni, si confrontò con altri eremiti e venne da questi esortato a perseverare.
Decise di vivere per un certo tempo coperto da un rude panno e chiuso in una tomba scavata nella rocca nei pressi del villaggio di Coma. In questo luogo sarebbe stato aggredito e percosso dal demonio.
In seguito Antonio si spostò verso il Mar Rosso sul monte Pispir dove esisteva una fortezza romana abbandonata, con una fonte di acqua. Per 20 anni visse con il pane che la gente del villaggio vicino gli calava, continuando ad essere tormentato dal demonio. Con il tempo molte persone vollero stare vicino a lui e, abbattute le mura del fortino, liberarono Antonio dal suo rifugio. Antonio iniziò a curare i sofferenti guarendo i malati e liberando dal demonio.
Il gruppo dei seguaci di Antonio si divise in due comunità, una a oriente e l’altra a occidente del fiume Nilo. Vivano in grotte e anfratti ma sempre sotto la guida di Antonio. Questi morì, ultracentenario, il 17 gennaio 357. Venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto.

Publié dans:Padri del deserto |on 16 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

17 gennaio : Sant’ Antonio abate (m)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22300

Sant’ Antonio Abate

17 gennaio
 
Coma, Egitto, 250 ca. – Tebaide (Alto Egitto), 17 gennaio 356

Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. (Avvenire)

Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco
Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T

Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci.
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.

Autore: Antonio Borrelli 

Publié dans:Padri del deserto |on 17 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

San Macario: La vita comunitaria : « Voi siete tutti fratelli »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090310

Meditazione del giorno
San Macario ( ? – 405), monaco in Egitto
Discorsi, 3, 1-3 ; PG 34, 467-470

La vita comunitaria : « Voi siete tutti fratelli »

Qualunque cosa facciano i fratelli, devono mostrarsi caritevoli e gioiosi gli uni con gli altri. Chi lavora parlerà così di chi prega: «Il tesoro che possiede mio fratello, ce l’ho anch’io, poiché ci è comune». Da parte sua, chi prega dirà di chi legge: «Il beneficio che egli trae dalla sua lettura arricchisce anche me». E chi lavora dirà ancora: «Per il bene della comunità io compio questo servizio».

Le molte membra del corpo formano un solo corpo e si sostengono a vicenda compiendo ognuno il suo incarico. L’occhio vede per il corpo intero; la mano lavora per le altre membra; il piede, camminando, le porta tutte. Un membro soffre quando un altro soffre. In questo modo i fratelli devono comportarsi gli uni con gli altri (cfr Rm 12,4-5). Chi prega non giudicherà chi lavora perché questi non prega. Chi lavora non giudicherà chi prega… Chi serve non giudicherà gli altri. Al contrario, ognuno, qualunque cosa faccia, agirà per la gloria di Dio (cfr 1 Cor 10,31; 2 Cor 4,15).

In questo modo una grande concordia e una soave armonia formeranno il «vincolo della pace» (Ef 4,3), che li unirà gli uni con gli altri e li farà vivere con trasparenza e semplicità sotto lo sguardo benevolo di Dio. L’essenziale, ovviamente, e il perseverare nella preghiera. D’altronde una sola cosa è chiesta: ognuno deve possedere nel suo cuore questo tesoro che è la presenza vivente e spirituale del Signore. Sia che lavori, sia che preghi, sia che legga, ognuno deve poter dire di se stesso di essere in possesso di quel bene imperituro che è lo Spirito Santo.

Publié dans:Padri del deserto |on 10 mars, 2009 |Pas de commentaires »

Sant’Antonio abate , 17 gennaio (m)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22300

Sant’ Antonio Abate

17 gennaio
 
Coma, Egitto, 250 ca. – Tebaide (Alto Egitto), 17 gennaio 356

Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. (Avvenire)

Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco

Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T

Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci.
 

Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.

Autore: Antonio Borrelli 

Publié dans:Padri del deserto |on 17 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

meditazione dai Padri del deserto: I passi dell’eremita

dal sito: 

http://www.villaggiodellapace.it/Preghiere%20Opuscolo/I_passi_dell’eremita.htm

I PASSI DELL’EREMITA

Al tempo dei padri del deserto c’era un santo monaco eremita. Aveva vissuto a lungo con altri monaci e un maestro. Poi si era addentrato nel più profondo deserto per vivere una vita di maggiore penitenza. Tutte le mattine, dopo il risveglio e la preghiera, si recava ad attingere acqua per le necessità della giornata. Ma il pozzo era lontano e lui sempre più vecchio. Così meditava di trasferirsi in una grotta più vicina alla sorgente. Un giorno, tornando a casa con il pesante orcio pieno d’acqua, più affaticato del solito, pensava: « Domani raccoglierò le mie poche cose e andrò a vivere più vicino al pozzo ». Mentre pensava così, fu sorpreso di udire un fruscio dietro di sé. Si voltò e vide un Angelo con un libro aperto, che contava i suoi passi e scriveva: duemilacento…. duemilacentouno… duemilacentodue…

Il santo vecchio trasalì di stupore, ma l’Angelo lo rassicurò: « Continua a camminare, non avere paura, Sto annotando i tuoi dolorosi passi sul Libro della Vita. Ricordati, niente va perduto davanti al Signore! »

Il giorno dopo il santo eremita trasferì la sua residenza… ma per andare un po’ più lontano dal pozzo.

Dalle tradizioni dei padri del deserto

Publié dans:Padri del deserto |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »
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