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PADRE CANTALAMESSA- PREDICA DI QUARESIMA 2012, LO SPIRITO SANTO

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PADRE CANTALAMESSA- PREDICA DI QUARESIMA 2012, LO SPIRITO SANTO

«Lo Spirito Santo è colui che continuamente fa passare dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità». San Basilio e la fede nello Spirito Santo. Terza predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa

Scritto da Redazione de Gli scritti: 25 /03 /2012

Riprendiamo sul nostro sito la terza predica della Quaresima 2012 tenuta da p. Raniero Cantalamessa nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano alla presenza di Papa Benedetto XVI il 23/3/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per la prima e la seconda predica vai ai link Sant’Atanasio e la divinità di Cristo e San Gregorio di Nazianzo e la Trinità.I

Indice
1. La fede termina alle cose
2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
4. L’anima e lo Spirito
5. Una mortificazione “spirituale”
Note al testo
1. La fede termina alle cose

Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà, prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose[1].
San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli enunciati, ma alla realtà[2]. I Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del formalismo”[3]. Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di esprimere.
Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios, consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad accogliere termini per lui equivalenti, purché fosse chiaro che si intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.
Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui termini che a quello sui contenuti della fede. In anni recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi, diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione di fede vissuta.

2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.
Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure colui che lo conclude. Chi aprì il discorso sullo statuto ontologico dello Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.
Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza, ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.
Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella piena divinità dello Spirito usando espressioni equivalenti, come l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto ad essi. Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi nel credo.
Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”[4].
Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione dello Spirito Santo.
Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi oggi. A causa della nota questione del Filioque, la pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e alla vita contemplativa.
Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo, per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium[5]. Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua forza”[6]. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.

3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce più chiaramente della prima l’uguaglianza delle tre persone, coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo, la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.
Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia dall’opera dello Spirito nella creazione.
“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”[7].
Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”) egli osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”[8].
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos. Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia della terra” (cf. Sal 104,30).
Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli esseri alla perfezione mediante lo Spirito.
Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:
“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo ad opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie per mezzo della grazia dello Spirito?”[9]
A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo di recente si è cominciato a riprendere in considerazione[10]. Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli (cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.

Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:

“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito? Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito”[11].
Nell’Anafora che porta il nome di san Basilio – che l’attuale nostra Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo ha un posto centrale.
L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio – non sarà assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati, il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra l’anima e lo Spirito[12].

4. L’anima e lo Spirito
San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito, egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”[13].
Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:
“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l’a­nima, non è un avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare all’incorporeo corporal­mente? — ma piuttosto consiste nell’esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro attrazio­ne per la carne, giungono all’anima e la separano dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era impastati attra­verso il peccato e tornati alla bellezza naturale, come avendo restituito a una immagine regale l’antica forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostar­si al Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l’oc­chio purificato, ti mostrerà in se stesso l’immagine dell’Invisibile. Nella beata contemplazione dell’immagi­ne, vedrai la indicibile bellezza dell’archetipo. Per mez­zo di lui si elevano i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo Spirito; esse stesse diven­gono pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose future; la com­prensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”[14].
Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso, in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo – la contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo.
Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita. L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:
“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive. Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo”[15].
Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri della carne, per avanzare nella vita nuova:
“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito. Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace; infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo; e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è all’origine di una delle metafore più universali della vita spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:
“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”[16].
Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Miche­langelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: « In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori! ». E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all’angelo che aveva intravisto. Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grez­za, con addosso tanta « terra » e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: « In questo pezzo di pietra è nascosta l’immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo! » E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci pota (cf. Gv. 15,2)
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall’esterno, ma collaborano anch’essi, per quanto è lo­ro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre deserto:
« Se vogliamo es­sere completamente liberati, impariamo a spezzare la nostra volontà, e così, poco a poco, con l’aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: ‘Guarda là!’, ma lui ri­sponde al suo pensiero: ‘No, non guardo!’, e spezza la sua vo­lontà »[17].
Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica. Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: « Partecipa anche tu; di’ quello che sai. Ma tu rispondi: « No! ». E mortifichi l’uomo vecchio … Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si ricopre.
Finché si vive assecondando i desideri della carne noi somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano all’impresa.

5. Una mortificazione “spirituale”
C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita. San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.
I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo. Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”[18].
Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio Nisseno. “È da questo punto – nota il Bouyer – che il pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia, prenderà il suo avvio”[19]. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.
Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa. Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.
Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa: in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola); nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta contro il male e guida nel discernimento del bene.
Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo, dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza della grazia.

Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.

O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.

Note al testo sul sito

LA TUNICA ERA SENZA CUCITURE DI P. RANIERO CANTALAMESSA

http://www.amicidigesu.it/la-fede/la-tunica-era-senza-cuciture-di-p-raniero-cantalamessa

P. RANIERO CANTALAMESSA

2008-03-21- PREDICA DEL VENERDÌ SANTO NELLA BASILICA DI SAN PIETRO

LA TUNICA ERA SENZA CUCITURE DI P. RANIERO CANTALAMESSA

“I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte” (Gv 19, 23-24).

Ci si è chiesti sempre che cosa abbia voluto dire l’evangelista con l’importanza che da a questo particolare della Passione. Una spiegazione recente è che la tunica ricorda il paramento del sommo sacerdote e che Giovanni, perciò, abbia voluto affermare che Gesú morì non soltanto come re, ma anche come sacerdote. Della tunica del sommo sacerdote non si dice, però, nella Bibbia, che doveva essere senza cuciture (cf. Es 28, 4; Lev 16,4); per questo i più autorevoli esegeti preferiscono attenersi alla spiegazione tradizionale secondo cui la tunica inconsutile simboleggia l’unità della Chiesa[1].
Qualunque sia la spiegazione che si da del testo, una cosa è certa: l’unità dei discepoli e, attraverso di essi, di tutto il genere umano, è, per Giovanni, lo scopo per cui Cristo muore: “Gesù doveva morire… per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11, 51-52). Nell’ultima cena lui stesso aveva detto: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21).

La lieta notizia da proclamare il Venerdì Santo è che l’unità, prima che un traguardo da raggiungere, è un dono da accogliere. Che la tunica fosse tessuta “dall’alto in basso”, scrive san Cipriano, significa che “l’unità recata da Cristo proviene dall’alto, dal Padre celeste, e non può perciò essere scissa da chi la riceve, ma deve essere accolta integralmente” [2].

I soldati fecero in quattro pezzi “la veste”, o “il mantello” (ta imatia), cioè l’indumento esteriore di Gesú, non la tunica, il chiton, che era l’indumento intimo, portato a diretto contatto con il corpo. Un simbolo anche questo. Noi uomini possiamo dividere la Chiesa nel suo elemento umano e visibile, ma non la sua unità profonda che si identifica con lo Spirito Santo. La tunica di Cristo non è stata e non potrà mai essere divisa. È la fede che professiamo con le parole: “Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica”.
* * *
Ma se l’unità deve servire da segno “perché il mondo creda”, essa deve essere una unità anche visibile, comunitaria. È questa unità che è andata perduta e che dobbiamo ritrovare. Essa è ben più che dei rapporti di buon vicinato; è la stessa unità mistica interiore, in quanto accolta, vissuta e manifestata, di fatto, dai credenti: “Un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti” (Ef 4, 4-6). Una unità che non è compromessa dalla pluriformità, ma anzi si esprime in essa.

Dopo la Pasqua gli apostoli chiesero a Gesú: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Oggi rivolgiamo spesso a Dio la stessa domanda: È questo il tempo in cui ricostituirai l’unità visibile della tua Chiesa? Anche la risposta è la stessa di allora: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1, 6-8).

Lo ricordava il Santo Padre nell’omelia tenuta, il 25 Gennaio scorso, nella Basilica di san Paolo fuori le Mura, a conclusione della settimana per l’unità dei cristiani: “L’unità con Dio e con i nostri fratelli e sorelle, diceva, è un dono che viene dall’Alto, che scaturisce dalla comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo e che in essa si accresce e si perfeziona. Non è in nostro potere decidere quando o come questa unità si realizzerà pienamente. Solo Dio potrà farlo! Come san Paolo, anche noi riponiamo la nostra speranza e fiducia nella grazia di Dio che è con noi ». Anche oggi, sarà lo Spirito Santo, se ci lasciamo guidare, a condurci all’unità.
Come fece lo Spirito Santo a realizzare la prima fondamentale unità della Chiesa: quella tra giudei e pagani? Venne su Cornelio e la sua casa nello stesso modo con cui a Pentecoste era venuto sugli apostoli. Sicché a Pietro non rimase che tirare la conclusione: « Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio? » (At 11,17).

Ora, da un secolo a questa parte, noi abbiamo visto ripetersi sotto i nostri occhi questo stesso prodigio, su scala mondiale. Dio ha effuso il suo Spirito Santo, in modo nuovo e inconsueto, su milioni di credenti, appartenenti a quasi tutte le denominazioni cristiane e, affinché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni, lo ha effuso con le stesse identiche manifestazioni. Non è questo un segno che lo Spirito ci spinge a riconoscerci a vicenda come discepoli di Cristo e a tendere insieme all’unità?
Questa unità spirituale e carismatica da sola, è vero, non basta. Lo vediamo già all’inizio della Chiesa. L’unità tra giudei e gentili è appena fatta che è già minacciata dallo scisma. Nel cosiddetto concilio di Gerusalemme vi fu una « lunga discussione » e alla fine fu raggiunto un accordo, annunciato alle Chiesa con la formula: « Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi… »(Atti 15, 28). Lo Spirito Santo opera, dunque, anche attraverso un’altra via che è il confronto paziente, il dialogo e perfino il compromesso tra le parti, quando non è in gioco l’essenziale della fede. Opera attraverso le « strutture » umane e i « ministeri » posti in atto da Gesú, soprattutto il ministero apostolico e petrino. È quello che chiamiamo oggi ecumenismo dottrinale e istituzionale.
* * *
Anche questo ecumenismo dottrinale, o di vertice, non è però sufficiente e non avanza, se non è accompagnato da un ecumenismo spirituale, di base. Ce lo ripetono con sempre maggiore insistenza proprio i massimi promotori dell’ecumenismo istituzionale. Nel centenario dell’istituzione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (1908-2008), ai piedi della croce, vogliamo meditare su questo ecumenismo spirituale: in che consiste e come possiamo avanzare in esso.L’ecumenismo spirituale nasce dal pentimento e dal perdono e si alimenta con la preghiera. Nel 1977 partecipai a un congresso ecumenico carismatico a Kansas City, nel Missouri. C’erano quarantamila presenti, metà cattolici (tra cui il cardinal Suenens) e metà di altre denominazioni cristiane. Una sera, al microfono, uno degli animatori cominciò a parlare in un modo, per me, a quel tempo, strano: “Voi sacerdoti e pastori, piangete e fate lamento, perché il corpo del mio Figlio è spezzato… Voi laici, uomini e donne, piangete e fare lamento perché il corpo del mio Figlio è spezzato”.

Cominciai a vedere le persone cadere una dopo l’altra in ginocchio intorno a me e molte di esse singhiozzare di pentimento per le divisioni nel corpo di Cristo. E tutto questo mentre una scritta campeggiava da una parte all’altra dello stadio: “Jesus is Lord, Gesú è il Signore”. Io ero lì come un osservatore ancora assai critico e distaccato, ma ricordo che pensai tra me: Se un giorno tutti i credenti saranno riuniti a formare una sola Chiesa, sarà così: mentre saremo tutti in ginocchio, con il cuore contrito e umiliato, sotto la grande signoria di Cristo.

Se l’unità dei discepoli deve essere un riflesso dell’unità tra il Padre e il Figlio, essa deve essere anzitutto una unità d’amore, perché tale è l’unità che regna nella Trinità. La Scrittura ci esorta a « fare la verità nella carità » (veritatem facientes in caritate) (Ef 4, 15). E sant’Agostino afferma che « non si entra nella verità se non attraverso la carità »: non intratur in veritatem nisi per caritatem [3]. La cosa straordinaria, circa questa via all’unità basata sull’amore, è che essa è già ora spalancata davanti a noi. Non possiamo « bruciare le tappe » circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza nelle sedi appropriate. Possiamo invece bruciare le tappe nella carità, ed essere uniti, fin d’ora. Il vero, sicuro segno della venuta dello Spirito non è, scrive sant’Agostino, il parlare in lingue, ma è l’amore per l’unità: “Sappiate che avete lo Spirito Santo quando acconsentite a che il vostro cuore aderisca all’unità attraverso una sincera carità” [4].
Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:
« La carità è paziente….La carità non è invidiosa…Non cerca solo il suo interesse (o solo l’interesse della propria Chiesa). Non tiene conto del male ricevuto (semmai, del male arrecato agli altri!). Non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità (non gode delle difficoltà delle altre Chiese, ma si rallegra dei loro successi spirituali). Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » ( l Cor 13,4 ss).
Questa settimana abbiamo accompagnato alla sua dimora eterna una donna, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolari. Ella è stata una pioniera e un modello di questo ecumenismo spirituale dell’amore. Ha dimostrato che la ricerca dell’unità tra i cristiani non porta alla chiusura verso il resto del mondo; è anzi il primo passo e la condizione per un dialogo più vasto con i credenti di altre religioni e con tutti gli uomini che hanno a cuore le sorti dell’umanità e della pace
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“Amarsi, è stato detto, non significa guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Anche tra cristiani, amarsi significa guardare insieme nella stessa direzione che è Cristo. “Egli è la nostra pace” (Ef 2,14). Se ci convertiremo a Cristo e andremo insieme verso di lui, noi cristiani ci avvicineremo anche tra di noi, fino a essere, come lui ha chiesto, “una cosa sola con lui e con il Padre”. Succede come per i raggi di una ruota. Essi partono da punti distanti della circonferenza, ma a mano a mano che si avvicinano al centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a formare un punto solo. Ciò che potrà riunire i cristiani divisi sarà solo il diffondersi tra di essi, per opera dello Spirito Santo, di un’ondata nuova di amore per Cristo. È ciò che sta avvenendo nella cristianità e che ci riempie di stupore e di speranza. “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è molto per tutti” (2 Cor 5,14). Il fratello di un’altra Chiesa –anzi, ogni essere umano – è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,16), come è morto per me.
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Un motivo deve soprattutto spingerci avanti in questo cammino. La posta in gioco all’inizio del terzo millennio, non è più la stessa che all’inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente; neppure è la stessa che a metà dello stesso millennio, quando si produsse la separazione tra cattolici e protestanti. Possiamo dire che la maniera esatta di procedere dello Spirito Santo dal Padre o il modo in cui avviene la giustificazione dell’empio siano i problemi che appassionano gli uomini di oggi e con cui sta o cade la fede cristiana? Il mondo è andato avanti e noi e siamo rimasti inchiodati a problemi e formule di cui il mondo non conosce più neppure il significato. Nelle battaglie medievali c’era un momento in cui, superati i fanti, gli arcieri e la cavalleria, la mischia si concentrava intorno al re. Lì si decideva l’esito finale dello scontro. Anche per noi la battaglia oggi è intorno al re. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto nevralgico, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Nell’edificio della fede cristiana questa pietra angolare è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e, prima di ogni altra cosa, la fede nella Trinità.
Da ciò si vede come ci siano oggi sono due ecumenismi possibili: un ecumenismo della fede e un ecumenismo dell’incredulità; uno che riunisce tutti quelli che credono che Gesù è il Figlio di Dio, che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo, e che Cristo è morto per salvare tutti gli uomini, e uno che riunisce tutti quelli che, in ossequio al simbolo di Nicea, continuano a proclamare queste formule, ma svuotandole del loro vero contenuto. Un ecumenismo in cui, al limite, tutti credono le stesse cose, perché nessuno crede più a niente, nel senso che la parola “credere“ ha nel Nuovo Testamento.“Chi è che vince il mondo, scrive Giovanni nella Prima Lettera, se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”, (1 Gv 5,5). Stando a questo criterio, la fondamentale distinzione tra i cristiani non è tra cattolici, ortodossi e protestanti, ma tra coloro che credono che Cristo è il Figlio di Dio e coloro che non lo credono.
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“L’anno secondo del re Dario, il primo giorno del sesto mese, questa parola del Signore fu rivolta per mezzo del profeta Aggeo a Zorobabele figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, e a Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote…: Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre la mia casa è ancora in rovina?” (Ag 1, 1-4). Questa parola del profeta Aggeo è rivolta oggi a noi. È questo il tempo di continuare a preoccuparci solo di quello che riguarda il nostro ordine religioso, il nostro movimento, o la nostra Chiesa? Non sarà proprio questa la ragione per cui anche noi “seminiamo molto, ma raccogliamo poco” (Ag 1, 6)? Predichiamo e ci diamo da fare in tutti i modi, ma il mondo si allontana, anziché convertirsi a Cristo.
Il popolo d’Israele ascoltò il richiamo del profeta; smisero di abbellire ognuno la propria casa per ricostruire insieme il tempio di Dio. Dio allora inviò di nuovo il suo profeta con un messaggio di consolazione e di incoraggiamento che è anche per noi: “Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore – coraggio, Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese, dice il Signore, e al lavoro, perché io sono con voi” (Ag 2,4). Coraggio, voi tutti che avete a cuore la causa dell’unità dei cristiani, e al lavoro, perché io sono con voi, dice il Signore!

Publié dans:Padre Cantalamessa |on 7 mai, 2015 |Pas de commentaires »

PADRE RANIERO CANTALAMESSA – LA BELLEZZA – 13 GENNAIO 2000

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PADRE RANIERO CANTALAMESSA – LA BELLEZZA –  13 GENNAIO 2000

Della bellezza si deve dire ciò che Agostino diceva del tempo: “Cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me ne domanda ragione, non lo so più” . Io però non intendo affrontare il tema della bellezza (non sarei competente a farlo) da un punto di vista essenziale (cos’è il bello in sé, in che rapporto è con il vero e il buono), ma da un punto di vista esistenziale. Vorrei, in altre parole, riflettere con voi sulla esperienza che noi facciamo a riguardo della bellezza, a livello sia individuale che collettivo.
E anche di questa esperienza vorrei mettere in luce un aspetto ben preciso e limitato, quello che ci tocca più da vicino e che non riguarda solo la sfera estetica, ma anche quella morale. Non la bellezza, dunque, dei mari e dei tramonti, ma quella del corpo umano e specialmente del corpo della donna. È questa bellezza infatti che genera l’eros, una delle grandi forze che muovono il mondo, se non la più potente di tutte. Quella dei mari e dei tramonti non è una bellezza erotica, l’altra lo è, con tutto quello che ciò, sappiamo, comporta.
Nella misura in cui la pubblicità e lo spettacolo riflettono lo spirito, i gusti e le attese di un’epoca (e in larga misura li riflettono), questo tipo di bellezza sembra essere il valore più ricercato in questo passaggio di millennio, il grande “oggetto di culto” nelle società del benessere. L’esempio più plateale, di cui si è parlato di recente, sono i calendari di nudi. “Nudi alla meta del millennio” era intitolato l’articolo comparso negli ultimi giorni dell’anno sulla prima pagina di grande quotidiano, in cui si ironizzava su questo fenomeno che si tenta di far passare come evento artistico e culturale .
È una nuova sfida che viene posta ai credenti. Ha, il cristianesimo, qualcosa da dire sul problema della bellezza, o è condannato a ripetere le sterili messe in guardia di una certa predicazione moralistica del passato? Recentemente, su questo problema si sono udite alcune voci autorevoli. Nella sua recente “Lettera agli artisti” il papa ha detto cose profonde sulla bellezza, considerandola nel suo rapporto con l’arte e con il sacro; lo ha seguito il cardinale Martini con la lettera pastorale per l’anno 1999-2000, intitolata “Quale bellezza salverà il mondo?”.
Ma non si tratta di un problema solo pastorale, che riguarda la possibilità di annunciare il vangelo in una certa cultura ossessionata dal problema della bellezza; è un problema umano universale, dalla cui giusta soluzione dipende l’avvenire stesso della cultura e della vita sul nostro pianeta.
Sono ben note e spesso ripetute le parole che Dostoevskij pone in bocca a uno dei suoi personaggi prediletti, l’Idiota: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Ma a quella affermazione egli fa seguire subito una domanda: “Quale salvezza salverà il mondo?” . Perché, è chiaro, non ogni bellezza salverà il mondo; c’è una bellezza che può salvare il mondo e una bellezza che può perderlo. Il dramma è tutto qui.
1. Ambiguità della bellezza
Un chiaro segno della ambiguità della bellezza nella nostra esperienza umana è che, accanto alla sua esaltazione, scopriamo, nella cultura moderna, un esplicito rifiuto di essa, un vero “insulto alla bellezza”, tanto da poter parlare della morte della bellezza, come si è parlato della morte di Dio.
Siccome a esprimersi sulla bellezza, sono stati, in passato, quasi esclusivamente gli uomini, il disprezzo della bellezza si è tradotto in disprezzo della donna:
“Ma tu, o Donna, mucchio di viscere…” .
“Tu, infame alla quale son legato
come il forzato alla catena,
come il testardo giocatore al gioco,
come il beone alla bottiglia,
come la carogna ai vermi!
Maledetta, maledetta!” .
In pittura un artista, Bernard Buffet, mostra degli uccelli mostruosi che si avventano su un corpo femminile nudo, come su una carogna. Qualcuno ha definito alcune donne celebri della pittura astratta “i cadaveri della bellezza” .
È la bellezza in se stessa (non solo della donna) che viene in tal modo “demistificata” e oltraggiata. È noto l’inizio della raccolta di poesie di Rimbaud Una stagione all’inferno: “Una sera mi misi in grembo la Bellezza. E l’ho sentita amara. E l’ho ingiuriata” .
Questo insulto porta, in arte, alla provocatoria rappresentazione di oggetti quali orinatoi e cose simili, e si estende al linguaggio quando, alla parola bella, si preferisce sistematicamente, anche in opere che si pretendono letterarie, la “parolaccia”.
“Dio, scrive Evdokimov, non è il solo a rivestirsi di Bellezza, il male lo imita e rende la bellezza profondamente ambigua”. La Scrittura attribuisce la caduta di Lucifero proprio alla sua bellezza di cui si è compiaciuto, senza più riferirla al creatore (cf. Is 14, 12; Ez 28, 2 s.). “La bellezza esercita il suo fascino, converte l’anima umana al suo culto idolatra, usurpa il posto dell’Assoluto, con una strana e totale indifferenza verso il Bene e la Verità”. “Se la verità è sempre bella, la bellezza non sempre è vera”. Il carattere ambiguo della bellezza è messo in luce dalla Bibbia nella descrizione stessa del primo peccato: Eva vide che il frutto “era gradito agli occhi e desiderabile” (Gen 3,5). Era esteticamente bello .
2. La causa
Qual è la causa di questa ambiguità? Come mai siamo portati fuori strada, proprio da quella luce che dovrebbe guidarci nel nostro cammino verso la felicità? La risposta tradizionale è: il peccato. Ma stando al racconto biblico, l’ambiguità della bellezza non fu solo l’effetto del peccato, ma anche la sua causa. Eva fu sedotta proprio dalla bellezza del frutto proibito, qualunque cosa esso significhi fuori metafora. L’uomo non si staccherebbe da Dio, se non fosse attratto dalle creature. Dei due elementi costitutivi del peccato – aversio a Deo et conversio ad creaturas -, il secondo precede psicologicamente il primo.
Dunque esiste una causa più profonda, anteriore al peccato stesso. Infatti l’ambiguità della bellezza affonda le sue radici nella natura stessa composita dell’uomo, fatto di un elemento materiale e di uno immateriale, di qualcosa che lo porta verso la molteplicità e di qualcosa che tende invece all’unità. Non c’è alcun bisogno di pensare (come hanno fatto gnostici, manichei e tanti altri) che i due elementi risalgano a due “creatori” rivali, uno buono che ha creato l’anima e uno cattivo che ha creato la materia e il corpo. È lo stesso Dio che ha creato l’uno e l’altro insieme, in unità profonda, “sostanziale”. Non però in una situazione statica, cioè perché l’uomo rimanesse tranquillo in questa sua posizione intermedia, con le due forze che si controbilanciano, o si neutralizzano a vicenda. Al contrario, perché, con l’esercizio concreto della sua libertà guidata dalla parola di Dio, decidesse lui stesso in che direzione svilupparsi: se “in alto”, verso ciò che sta “sopra” di lui, o “in basso”, verso ciò che sta “sotto” di lui, se verso l’unità, o verso la molteplicità.
È proprio in questa possibilità di autodeterminazione che risiede la dignità dell’uomo ed è in essa che trova il campo di esercizio privilegiato la sua libertà. Creando l’uomo libero, scrive un filosofo del Rinascimento, è come se Dio gli dicesse:
“Ti ho posto nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi ciò che vi è in esso. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” .
Questo spiega la lotta tra la carne e lo Spirito e quindi il carattere drammatico che caratterizza l’esistenza dell’uomo nel mondo e il suo rapporto con la bellezza. Siamo davanti a una scelta.
Nel terremoto di Assisi di due anni fa, ci fu un affresco di Cimabue nella volta della basilica superiore che andò distrutto, riducendosi in migliaia di minuscoli frammenti colorati. Ora si sta pazientemente cercando di ricomporli per ricostruire l’affresco originale. È l’immagine di quello che è avvenuto nel passaggio dalla Bellezza increata di Dio alla molteplicità delle cose belle che ci sono nel mondo e, nello stesso tempo, del compito dell’uomo che è di risalire dal frammento all’intero. La prevaricazione nei confronti della bellezza comincia quando si dimentica l’intero e ci si attacca al frammento. Quando chi ha trovato un frammento, per ritornare all’esempio di prima, anziché farlo servire per ricomporre l’affresco originale, lo trafuga, lo privatizza, o lo distrugge, danneggiando così l’intero progetto.
Quand’è che, nei confronti della bellezza, l’essere umano, secondo la terminologia di Pico della Mirandola, “degenera” e si avvilisce? Non certo quando ammira, gode, o crea cose belle, ma quando lo fa abbandonandosi ad esse; quando non fa di esse un trampolino di lancio per elevarsi, con la lode e il desiderio, alla Bellezza incorruttibile, ma si getta a capofitto in esse facendo del loro godimento momentaneo un fine a se stesso. Sant’Agostino ha descritto, a questo riguardo, la sua esperienza in cui non stentiamo a riconoscere anche la nostra:
“Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me e io stavo fuori e ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue…le quali neppure esisterebbero se non fossi tu a farle esistere” .
La bellezza creata diviene allora, per l’essere umano, la tomba, anziché il campo di esercizio, della sua libertà, perché essa, si sa, rende schiavi. È come la droga: nessuna dose appaga, una volta per tutte, il bisogno; occorrono dosi sempre nuove e sempre maggiori per produrre lo stesso effetto. Per impossessarsi e godere di questa bellezza, si fa esattamente quello che si fa per procurarsi la droga: si ruba e si uccide, o ci si uccide. Ai delitti passionali si concedono attenuanti proprio perché si riconosce che in essi il soggetto opera con una libertà assai ridotta. È vero dunque che un certo amore disordinato della bellezza “abbrutisce”, perché priva l’uomo di quello per cui è “uomo”, la ragione e la libertà.
La letteratura ci offre dei simboli famosi di queste due specie di bellezza femminile, quella che eleva e quella che porta alla rovina: la Beatrice di Dante e l’Elena di Omero. Il caso moderno più noto è quello di Marylin Monroe, che i sondaggi indicano come il mito moderno di fascino femminile più resistente nel tempo (guardandosi bene, però, dal ricordare come è finito tale mito). Anche nella Bibbia l’ambiguità della bellezza ha trovato espressioni memorabili. Da una parte, la bellezza che, nel Cantico dei cantici, due innamorati fanno a gara nel celebrare l’uno nell’altro (assunta poi come simbolo di realtà spirituali altissime); dall’altra, la bellezza di una donna che trascina David all’adulterio e al delitto (2 Sam 11,2). “La bellezza ti ha sedotto!”, dice Daniele a uno dei due anziani che volevano far morire la casta Susanna (Dan 13,56).
Dal punto di vista religioso, questo arrestarsi alla bellezza creata, è visto dalla Bibbia come l’essenza stessa dell’ idolatria in quanto con esso si mette la creatura al posto del creatore:
“Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio. e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere… Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza” (Sap 13, 1-3; cf. Rom 1, 20-23).
Questa caduta di livello dalla bellezza spirituale a quella materiale tende a ripetersi poi all’interno della stessa creatura e in particolare della donna. La rappresentazione della bellezza femminile non si concentra di solito sul volto, dove più chiaramente si manifesta l’interiorità, i sentimenti, i pensieri, in una parola l’anima della donna, ma su altre parti, sempre le solite, del corpo. È stato detto che nell’icona sacra il corpo serve da supporto al volto e il volto fa da cornice allo sguardo. Qui, esattamente il contrario: il volto è spesso un pretesto per rappresentare ciò che sta sotto di esso. Non ci sono più “Gioconde” in arte e, di questo passo, si perderà perfino la possibilità di averne in futuro.
Anche quelle “solite parti” del corpo di cui parlavo vengono rappresentate avulse dalla loro finalità naturale. Chi, guardando questo modo di rappresentare la donna, si ricorda ancora, per esempio, che le sue mammelle sono così fatte per allattare un bambino ed che è da questa loro attinenza strettissima con la vita, non da altro, che traggono la loro bellezza e il loro fascino? Cosa sa del suo corpo e dei suoi seni una top-model che non hai sentito su di essi le labbra di un bambino, ma solo flash di fotografi? Nulla di vero e di naturale; tutto diventa artificiale e venale La bellezza femminile è ridotta a sex appeal, con grave avvilimento della donna stessa che così viene ridotta a oggetto e concepita puramente in funzione dell’uomo.
3. Come Cristo ha redento la bellezza
San Paolo ha scritto:
“La creazione è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8, 19-21).
Al posto di “creazione” possiamo mettere, in questo testo, la parola “bellezza” senza alterare in alcun modo il senso dell’affermazione. “La bellezza è stata sottomessa alla caducità e attende di essere liberata”. Anche la bellezza, come tutte le cose, ha bisogno di essere redenta. Per salvare il mondo, la bellezza ha bisogno, prima, di essere essa stessa salvata. La redenzione di Cristo si estende infatti anche alla bellezza e vediamo come ciò è avvenuto.
A riguardo di Cristo colpisce il contrasto tra due affermazioni. Da una parte egli è visto come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal ), come “l’irradiazione della gloria divina” (Eb 1, 3), dall’altra a lui, nella passione, vengono applicate le parole dei carmi del Servo di Jahvé: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto…, come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53, 2).
Come si concilia tutto ciò? Risponde la lettera agli Ebrei: “Quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto” (Eb 2,9). Gesù ha redento la bellezza, privandosene per amore.
Per capire questo paradosso bisogna rifarsi a un principio fondamentale che Paolo formula all’inizio della prima lettera ai Corinzi:
“Poiché, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1 Cor 1,21).
È quello che Lutero chiamava il redimere le cose “mediante il loro contrario” (“sub contraria specie”). Applicato alla bellezza, esso significa: poiché mediante la bellezza delle creature l’uomo non è stato capace di elevarsi alla Bellezza del creatore, Dio ha cambiato per così dire metodo e ha deciso di rivelare la sua Bellezza attraverso l’ignominia e la deformità della croce e della sofferenza. Il raggiungimento della bellezza passa anch’esso ormai attraverso il mistero pasquale di morte – risurrezione.
Il modello e la fonte di questa bellezza nuova, di redenzione, non è più la bellezza invisibile di Dio, ma quella “che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6); la bellezza non è più, come la definiva Platone, “lo splendore del vero”, ma è lo splendore di Cristo (anche se le due cose coincidono, essendo lui stesso la Verità).
È esistita fin dalle origini del cristianesimo una tradizione secondo cui il Dio, a immagine del quale fu creato l’uomo (Gen 1, 27), non era il Dio invisibile e incorporeo (come può l’uomo fatto di carne essere a immagine di Dio che è spirito?), ma era il Cristo Verbo incarnato e uomo futuro. Immagine vera e perfetta di Dio è Cristo (Col 1,15); noi siamo l’immagine dell’Immagine di Dio . Il grado della nostra bellezza e perfezione dipende dal grado di somiglianza con lui.
Questo è stata in ogni caso l’ideale di bellezza che ha animato per molti secoli l’arte e la spiritualità cristiana, sia dell’Oriente che dell’Occidente. La bellezza è stata sempre una componente talmente importante della visione cristiana che tutto un filone della spiritualità ortodossa ha preso il nome di “Filocalia”, amore del bello. Sant’Agostino dice che filosofia e filocalia sono più che due sorelle gemelle: sono la stessa cosa .
Dostoevskij aveva tentato di rappresentare in un suo personaggio, l’”Idiota”, l’ideale di una bellezza fatta di pura bontà e positività, senza tuttavia riuscirvi appieno e, a chi glielo faceva notare, rispose, quasi per scusarsi: “Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere infinitamente bello è di certo un infinito miracolo” .
Gli iconografi sapevano che la luce che dovevano fissare sulla tavola non era una luce qualsiasi, ma la luce taborica, la luce che rifulse sul Tabor come anticipo della risurrezione. Sul Tabor i discepoli furono sopraffatti da un senso di bellezza ed esclamarono: “Signore, è bello per noi stare qui!” (Mc 9,5).
Cos’è che differenzia questa bellezza da ogni altra, pur trattandosi anche qui di una bellezza corporale? È che questa è una bellezza che viene dall’interno, che ha nel corpo il suo mezzo di espressione, non la sua sorgente ultima. Tra questa bellezza e quella esteriore, fatta solo di belle forme e armonia di colori, c’è la stessa differenza che tra una vetrata di cattedrale vista dall’esterno, dalla pubblica via, e la stessa vetrata vista dall’interno, con la luce che l’attraversa e la accende. Il corpo umano diventa il “sacramento” della bellezza: cioè il suo segno, il suo tramite, la sua manifestazione, la sua trasparenza, non la sua sorgente ultima. Non è uno schermo sul quale cade la luce, ma la sorgente da cui promana.
Capita a volte di vedere dei volti di contemplative che richiamano da vicino questo mistero. Nient’altro che un volto e degli occhi, spesso chini a terra, eppure l’esclamazione che si ode più spesso dalla bocca di laici che per la prima volta escono da un tale incontro è: “Che volti! Che luce! Che bellezza!”. Di esse si può dire quello che in uno dei suoi drammi Claudel dice di una fanciulla: “Gli occhi di tutti ricevono la luce, ma i suoi la donano” . Ma è soprattutto sul volto dei bambini (almeno di quelli che hanno la fortuna di crescere in un ambiente sano) che è dato cogliere questa bellezza che promana dall’innocenza e dalla limpidezza del cuore.
4. E nel frattempo?
Cristo, nel mistero pasquale, ha dunque redento la bellezza mediante il suo contrario, cioè lasciandosi spogliare di ogni bellezza. Ha proclamato che superiore allo stesso amore della bellezza è la bellezza dell’amore. Cosa significa tutto questo per noi? Che dobbiamo rinunciare in questo mondo a cercare e a godere della bellezza creata, e in primo luogo della bellezza legata al corpo umano, in attesa della trasfigurazione del nostro corpo nella risurrezione finale? No, la bellezza creata è fatta per abbellire questa vita, non la futura che avrà la sua bellezza. Solo bisogna che questa ricerca accetti di passare attraverso la croce che la redime. La croce della bellezza non è altro che l’amore con quello che esso esige in fatto di fedeltà, di rispetto dell’altro, di sacrificio, di obbedienza a Dio e al senso stesso delle cose.
Parlando a dei giovani e dei fidanzati, vorrei citare una delicata poesia di Goethe, intitolata “Trovata” (Gefunden), il cui significato credo sia trasparente. (La traduco io stesso meglio che posso, non conoscendo alcuna traduzione italiana):
Andavo nel bosco,
solingo a passeggio,
senza nulla cercare,
così almeno pensavo.
Nell’ombra intravidi
un tenero fiore,
lucente qual stella,
o ridente pupilla.
Mi accinsi a strapparlo
ma disse tremante:
“Perché recidermi
e farmi appassire?”.
Allora lo presi
con ogni radice
portandolo a casa,
in mezzo al giardino.
Qui l’ho trapiantato
in luogo tranquillo
e ad ogni stagione
germoglia e fiorisce”.
Due modi diversi di manifestare l’amore e coltivare la bellezza tra giovani!
Per tutti, fidanzati, sposi e consacrati, la redenzione della bellezza passa attraverso la mortificazione e in particolare, in questo caso, la mortificazione degli occhi.
La scelta tra la bellezza che ci eleva e ci fa liberi quella che ci rende schiavi, comincia da ciò che guardiamo. Si legge di un santo monaco che “avendo visto un giorno la bellezza femminile in tutto il suo splendore, pianse di gioia e si mise a lodare il Creatore”. Riportando questo fatto nella sua Scala del paradiso, san Giovanni Climaco commenta: “Un uomo così è già risorto prima della risurrezione di tutti”. Ma questo è un traguardo che raggiungeremo, appunto, con la risurrezione. Nel frattempo, conviene forse ricordare il proposito di Giobbe: “Avevo stretto con gli occhi un patto di non fissare neppure una vergine” (Gb 31, 1) e più ancora l’ammonimento di Cristo: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha gia commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28).
Non possiamo continuare a far ricadere sulla donna il peso delle nostre lotte o addossare ad esse la responsabilità delle nostre cadute, come si è fatto spesso in passato predicando contro “l’immodestia delle donne”, o scrivendo trattati “contro l’ornamento femminile” . Sarebbe un continuare sulla linea di Adamo, facendo ricadere la colpa su Dio stesso: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato” (Gen 3, 12). Oltretutto, questa via si è rivelata sempre di poca efficacia, se non addirittura controproducente. Dobbiamo affrontare noi stessi la lotta come, suppongo, da parte , devono fare anche le nostre sorelle donne.
Sant’Agostino non si è vergognato di manifestare noto il combattimento che doveva sostenere a questo riguardo, e non da giovane, ma da vescovo. Egli ricorda le innumerevoli lusinghe che gli uomini seminano, per gli occhi, in quello che producono: vesti, oggetti, pitture, sculture; loda Dio, convinto che ogni immagine bella creata dall’artista, anche se distorte nel suo fine, proviene comunque da lui che è Bellezza infinita; quindi prosegue:
“Purtroppo anch’io che so tutto questo, incespico in queste cose belle…Mi lascio prendere miserevolmente e tu, mio Dio, mi tiri fuori misericordiosamente. Qualche volta senza ch’io ne risenta, poiché vi ero incappato non del tutto volontariamente, qualche altra volta con mio dolore, perché vi ero rimasto impigliato” .
Non so cosa direbbe Agostino se vivesse oggi, dopo l’invenzione del cinema e della televisione!
Più importante però che chiudere gli occhi alla falsa bellezza è aprirli alla Bellezza vera. Contemplare, nella Parola o nell’icona, Cristo crocifisso e risorto. In lui la bellezza è stata definitivamente “liberata dalla schiavitù della corruzione”. L’Eucaristia racchiude, in questo campo, uno straordinario potere di guarigione. Lo si scopre il giorno che uno comincia ad ascoltare come rivolte personalmente a lui (e a ripetersele nel momento della lotta), le parole della consacrazione: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”.
Il segreto è anche qui lo Spirito Santo; è lui irradia sulla Chiesa la bellezza di Cristo, come ne irradia il profumo. È lo “Spirito creatore, che aleggiando continua a far passare il mondo e le cose dal caos al cosmo, dall’informe al formato, dalla bellezza materiale a quella spirituale. “Chi si unisce al Signore forma un solo Spirito con lui” (1 Cor 6, 17). La vita eterna non consisterà solo nel contemplare la Bellezza increata, ma nell’essere uniti ad essa, con una unione di cui quella terrena dei corpi è, per dirla ancora con Goethe, solo un simbolo (nur ein Gleichnis):
“Quello che passa
non è che un simbolo;
quassù si compie
l’irraggiungibile.
Qui l’ineffabile
è realtà.
L’eterno femminino
ci eleverà” .
A proposito di “eterno femminino”, il pensiero va spontaneamente a Maria, la tota pulchra, la Tutta bella, come la chiama la liturgia. Lutero ha scritto di lei: “Nessuna immagine di donna suscita nell’uomo pensieri così puri come questa vergine” .
Un modo diverso, ma importantissimo, di partecipare al mistero pasquale di redenzione della bellezza è di chinarsi su quelli che, come Cristo nella sua passione, “non hanno splendore né bellezza per attirare i nostri sguardi”. Sui poveri, i crocifissi, i derelitti di oggi. Madre Teresa di Calcutta che stringe con infinita tenerezza tra le braccia un bambino malato o un moribondo abbandonato fa parte, con tutte le sue rughe, di questa bellezza redenta e che redime.
Non sarà infatti – per rispondere alla domanda di Dostoevskij – l’amore della bellezza che salverà il mondo, ma la bellezza dell’amore.

Publié dans:Padre Cantalamessa |on 21 avril, 2015 |Pas de commentaires »

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE CONTEMPLATO CON GLI OCCHI DI FRANCESCO D’ASSISI – PADRE CANTALAMESSA 2013

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IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE CONTEMPLATO CON GLI OCCHI DI FRANCESCO D’ASSISI

TERZA PREDICA DI AVVENTO 2013 DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA, OFMCAP

CITTA’ DEL VATICANO, 20 DICEMBRE 2013 (ZENIT.ORG)

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della terza e ultima Predica di Avvento 2013, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, ofmcap., predicatore della Casa Pontificia.

***

1. Greccio e l’istituzione del presepio
Conosciamo tutti la storia di Francesco che a Greccio, tre anni prima della morte, da inizio alla tradizione natalizia del presepio; ma è bello rievocarla, per sommi capi, in questa circostanza. Scrive dunque il Celano:
“Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco chiamò a sé un uomo di nome Giovanni e gli disse: ‘Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello’. […]. E giunge il giorno della letizia. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”[1].
L’importanza dell’episodio non sta tanto nel fatto in se stesso e neppure nel seguito spettacolare che ha avuto nella tradizione cristiana; sta nella novità che esso rivela a proposito della comprensione che il santo aveva del mistero dell’incarnazione. L’insistenza troppo unilaterale, e a volte addirittura ossessiva, sugli aspetti ontologici dell’incarnazione (natura, persona, unione ipostatica, comunicazione degli idiomi) aveva fatto perdere spesso di vista la vera natura del mistero cristiano, riducendolo a un mistero speculativo, da formulare con categorie sempre più rigorose, ma lontanissime dalla portata della gente
Francesco d’Assisi ci aiuta a integrare la visione ontologica dell’incarnazione, con quella più esistenziale e religiosa. Non importa, infatti, solo sapere che Dio si è fatto uomo; importa anche sapere che tipo di uomo si è fatto. È significativo il modo diverso e complementare in cui Giovanni e Paolo descrivono l’evento dell’incarnazione. Per Giovanni, essa consiste nel fatto che il Verbo che era Dio si è fatto carne (cf. Gv 1, 1-14); per Paolo, essa consiste nel fatto che “Cristo, essendo di natura divina, ha assunto la forma di servo e ha umiliato se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cf. Fil 2, 5 ss.). Per Giovanni, il Verbo, essendo Dio, si è fatto uomo; per Paolo “Cristo, da ricco che era, si è fatto povero” (cf. 2 Cor 8,9).
Francesco d’Assisi si situa nella linea di san Paolo. Più che sulla realtà ontologia dell’umanità di Cristo (nella quale crede fermamente con tutta la Chiesa), egli insiste, fino alla commozione, sull’umiltà e la povertà di essa. Due cose, dicono le fonti, avevano il potere di commuoverlo fino alle lacrime, ogni volta che ne sentiva parlare: “l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione”[2]. “Non poteva ripensare senza piangere in quanta penuria si era trovata in quel giorno la Vergine poverella. Una volta, mentre era seduto a pranzo, un frate gli ricordò la povertà della beata Vergine e l’indigenza di Cristo suo Figlio. Subito si alzò da mensa, scoppiò in singhiozzi di dolore, e col volto bagnato di lacrime mangiò il resto del pane sulla nuda terra”[3].
Francesco ha ridato così “carne e sangue” ai misteri del cristianesimo spesso “disincarnati” e ridotti a concetti e sillogismi nelle scuole teologiche e nei libri. Uno studioso tedesco ha visto in Francesco d’Assisi colui che ha creato le condizioni per la nascita dell’arte moderna rinascimentale, in quanto scioglie persone ed eventi sacri dalla rigidità stilizzata del passato e conferisce loro concretezza e vita[4].

2. Il Natale e i poveri
La distinzione tra il fatto dell’incarnazione e il modo di essa, tra la sua dimensione ontologica e quella esistenziale, ci interessa perché getta una luce singolare sul problema attuale della povertà e dell’atteggiamento dei cristiani verso di essa. Aiuta a dare un fondamento biblico e teologico alla scelta preferenziale dei poveri, proclamata nel concilio Vaticano II. Se infatti per il fatto dell’incarnazione, il Verbo ha, in certo senso, assunto ogni uomo, come dicevano certi Padri della Chiesa, per il modo in cui essa si è realizzata, egli ha assunto, a un titolo tutto particolare, il povero, l’umile, il sofferente, al punto da identificarsi con essi.
Nel povero non si ha, certo, lo stesso genere di presenza di Cristo che si ha nell’Eucaristia e negli altri sacramenti, ma si tratta di una presenza anch’essa vera, “reale”. Lui ha “istituito” questo segno, come ha istituito l’Eucaristia. Colui che pronunciò sul pane le parole: “Questo è il mio corpo”, ha detto queste stesse parole anche dei poveri. Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l’affamato, l’assetato, il prigioniero, l’ignudo e l’esule, ha dichiarato solennemente: “L’avete fatto a me” e “Non l’avete fatto a me”. Questo infatti equivale a dire: “Quella certa persona lacera, bisognosa di un po’ di pane, quell’anziano che moriva intirizzito dal freddo sul marciapiede, ero io!”. “I Padri conciliari -ha scritto Jean Guitton, osservatore laico al Vaticano II, hanno ritrovato il sacramento della povertà, la presenza di Cristo sotto le specie di coloro che soffrono”[5].
Non accoglie pienamente Cristo chi non è disposto ad accogliere il povero con cui egli si è identificato. Chi, al momento della comunione, si accosta pieno di fervore a ricevere Cristo, ma ha il cuore chiuso ai poveri, somiglia, direbbe sant’Agostino, a uno che vede venire da lontano un amico che non vede da anni. Pieno di gioia, gli corre incontro, si alza in punta dei piedi per baciargli la fronte, ma nel fare ciò non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I poveri infatti sono i piedi nudi che Cristo ha ancora posati su questa terra.
Il povero è anch’esso un “vicario di Cristo”, uno che tiene le veci di Cristo. Vicario, in senso passivo, non attivo. Non nel senso, cioè, che quello che fa il povero è come se lo facesse Cristo, ma nel senso che quello che si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo. È vero, come scrive san Leone Magno, che dopo l’ascensione, “tutto quello che c’era di visibile nel nostro Signore Gesù Cristo è passato nei segni sacramentali della Chiesa”[6], ma è altrettanto vero che, dal punto di vista esistenziale, esso è passato anche nei poveri e in tutti coloro di cui egli ha detto: “L’avete fatto a me”.
Traiamo la conseguenza che deriva da tutto ciò sul piano dell’ecclesiologia. Giovanni XXIII, in occasione del Concilio, ha coniato l’espressione “Chiesa dei poveri”[7]. Essa riveste un significato che va forse al di là di quello che si intende a prima vista. La Chiesa dei poveri non è costituita solo dai poveri della Chiesa! In un certo senso, tutti i poveri del mondo, siano essi battezzati o meno, le appartengono. La loro povertà e sofferenza è il loro battesimo di sangue. Se i cristiani sono coloro che sono stati “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,3), chi è, di fatto, più battezzato nella morte di Cristo di loro?
Come non considerarli, in qualche modo, Chiesa di Cristo, se Cristo stesso li ha dichiarati il suo corpo? Essi sono “cristiani”, non perché si dichiarano appartenenti a Cristo, ma perché Cristo li ha dichiarati appartenenti a sé: “L’avete fatto a me!”. Se c’è un caso in cui la controversa espressione “cristiani anonimi” può avere un’applicazione plausibile, esso è proprio questo dei poveri.
La Chiesa di Cristo è dunque immensamente più vasta di quello che dicono le statistiche correnti. Non per semplice modo di dire, ma veramente, realmente. Nessuno dei fondatori di religioni si è identificato con i poveri come ha fatto Gesù. Nessuno ha proclamato: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40), dove il “fratello più piccolo” non indica solo il credente in Cristo, ma, come è ammesso da tutti, ogni uomo.
Ne deriva che il papa, vicario di Cristo, è davvero il “padre dei poveri”, il pastore di questo immenso gregge, ed è una gioia e uno stimolo per tutto il popolo cristiano vedere quanto questo ruolo è stato preso a cuore dagli ultimi Sommi Pontefici e in modo tutto particolare dal pastore che siede oggi sulla cattedra di Pietro. Egli è la voce più autorevole che si leva in loro difesa. La voce di chi non ha voce. Non si è davvero “dimenticato dei poveri”!
Noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri. L’effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato nell’edilizia, è che impedisce il passaggio del freddo, del caldo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra al cuore. Lo dico a mia stessa confusione e vergogna. La parola: “i poveri!” “gli extracomunitari!” provoca, nei paesi ricchi, quello che provocava nei romani antichi il grido “i barbari!”: lo sconcerto, il panico. Essi si affannavano a costruire muraglie e a inviare eserciti alle frontiere per tenerli a bada, ma la storia dice che è tutto inutile.
Noi piangiamo e protestiamo -e giustamente! – per i bambini a cui si impedisce di nascere, ma non dovremmo fare altrettanto per i milioni di bambini nati e fatti morire per fame, malattie, bambini costretti a fare la guerra e uccidersi tra loro per interessi a cui non siamo estranei noi dei paesi ricchi? Non sarà perché i primi appartengono al nostro continente e hanno il nostro stesso colore, mentre i secondi appartengono a un altro continente e hanno un diverso colore? Protestiamo – e più che giustamente! – per gli anziani, i malati, i malformati aiutati (a volte spinti) a morire con l’eutanasia; ma non dovremmo fare altrettanto per gli anziani che muoiono assiderati di freddo o abbandonati soli al loro destino? La legge liberista del “vivere e lasciar vivere” non dovrebbe mai trasformarsi nella legge del “vivere e lasciar morire”, come invece sta avvenendo nel mondo intero.
Certo, la legge naturale è santa, ma è proprio per avere la forza di applicarla che abbiamo bisogno di ripartire dalla fede in Gesú Cristo. San Paolo ha scritto: “Ciò che era impossibile alla legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio” (Rom 8, 3). I primi cristiani, con i loro costumi, aiutarono lo stato a cambiare le proprie leggi; noi cristiani di oggi non possiamo fare il contrario e pensare che sia lo stato con le sue leggi a dover cambiare i costumi della gente.

3. Amare, soccorrere, evangelizzare i poveri
La prima cosa da fare, nei confronti dei poveri, è dunque rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza e l’insensibilità. Dobbiamo, come ci esorta appunto il papa, “accorgerci” dei poveri, lasciarci prendere da una sana inquietudine per la loro presenza in mezzo a noi, spesso a due passi da casa nostra. Quello che dobbiamo fare in concreto per essi, lo si può riassumere in tre parole: amarli, soccorrerli, evangelizzarli.
Amare i poveri. L’amore per i poveri è uno dei tratti più comuni della santità cattolica. In san Francesco stesso, l’abbiamo visto nella prima meditazione, l’amore per i poveri, a partire da Cristo povero, viene prima dell’amore della povertà e fu esso che lo portò a sposare la povertà. Per alcuni santi, come san Vincenzo de’ Paoli, Madre Teresa di Calcutta e innumerevoli altri, l’amore per i poveri è stato addirittura la loro via alla santità, il loro carisma.
Amare i poveri significa anzitutto rispettarli e riconoscere la loro dignità. In essi, proprio per la mancanza di altri titoli e distinzioni secondarie, brilla di luce più viva la radicale dignità dell’essere umano. In una omelia di Natale tenuta a Milano, il cardinal Montini diceva: “La visione completa della vita umana sotto la luce di Cristo vede in un povero qualche cosa di più di un bisognoso; vi vede un fratello misteriosamente rivestito di una dignità, che obbliga a tributargli riverenza, ad accoglierlo con premura, a compatirlo oltre il merito”[8].
Ma i poveri non meritano soltanto la nostra commiserazione; meritano anche la nostra ammirazione. Essi sono i veri campioni dell’umanità. Si distribuiscono ogni anno coppe, medaglie d’oro, d’argento, di bronzo; al merito, alla memoria o ai vincitori di gare. E magari solo perché sono stati capaci di correre in una frazione di secondo meno degli altri i cento, i duecento o quattrocento metri a ostacoli, o di saltare un centimetro più alto degli altri, o di vincere una maratona o una gara di slalom.
Eppure se uno osservasse di quali salti mortali, di quale resistenza, di quali slalom, sono capaci a volte i poveri, e non una volta, ma per tutta la vita, le prestazioni dei più famosi atleti ci sembrerebbero giochetti da fanciulli. Cos’è una maratona in confronto, per esempio, a quello che fa un uomo-risciò di Calcutta, il quale alla fine della vita ha fatto a piedi l’equivalente di diversi giri della terra, nel caldo più snervante, trainando uno o due passeggeri, per strade dissestate, tra buche e pozzanghere, sgusciando tra un auto e l’altra per non farsi travolgere?
Francesco d’Assisi ci aiuta a scoprire un motivo ancora più forte per amare i poveri: il fatto che essi non sono semplicemente i nostri “simili” o il nostro “prossimo”: sono nostri fratelli! Fratelli sono coloro che hanno uno stesso padre e gli uomini sono fratelli perché hanno un unico padre nei cieli! Gesú aveva detto: “Uno solo è il vostro Padre celeste e voi siete tutti fratelli” (cf. Mt 23,8-9), ma questa parola era stata intesa finora come rivolta ai soli discepoli. Nella tradizione cristiana, fratello in senso stretto è solo colui che condivide la stessa fede e ha ricevuto lo stesso battesimo.
Francesco riprende la parola di Cristo e le da una portata universale che è quella che certamente aveva in mente Gesù. Francesco ha messo davvero ”tutto il mondo in stato di fraternità”[9]. Chiama fratelli non solo i suoi frati e i compagni di fede, ma anche i lebbrosi, i briganti, i saraceni, cioè credenti e non credenti, buoni e cattivi, soprattutto i poveri. Novità, questa, assoluta, estende il concetto di fratello e sorella anche alle creature inanimate: il sole, la luna, la terra, l’acqua e perfino la morte. Questa, evidentemente, è poesia, più che teologia. Il santo sa bene che tra esse e le creature umane, fatte a immagine di Dio, c’è la stessa differenza che tra il figlio di un artista e le opere da lui create. Ma è che il senso di fraternità universale del Poverello non ha confini.
Questo della fraternità è il contributo specifico che la fede cristiana può dare per rafforzare nel mondo la pace e la lotta alla povertà, come suggerisce il tema della prossima Giornata mondiale della pace “Fraternità, fondamento e via per la pace”. A pensarci bene, esso è l’unico fondamento vero e non velleitario. Che senso ha infatti parlare di fraternità e di solidarietà umana, se si parte da una certa visione scientifica del mondo che conosce, come uniche forze in azione nel mondo, “il caso e la necessità”? Se si parte, in altre parole, da una visione filosofica come quella di Nietzsche, secondo cui il mondo non è che volontà di potenza e ogni tentativo di opporsi a ciò è solo segno del risentimento dei deboli contro i forti”? Ha ragione chi dice che “se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento”[10]. Manca, in questo caso, una ragione sufficiente per opporsi al liberismo sfrenato e all’”inequità” denunciata con forza dal papa nell’esortazione Evangelii gaudium.
Al dovere di amare e rispettare i poveri, segue quello di soccorrerli. Qui ci viene in aiuto san Giacomo. A che serve, egli dice, impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro : “Poveretto, come soffri! Vai, riscàldati, sàziati!”, se tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi? La compassione, come la fede, senza le opere è morta (cf. Gc 2, 15-17). Gesù nel giudizio non dirà: “Ero nudo e mi avete compatito”; ma “Ero nudo e mi avete vestito”. Non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi. Un giorno vedendo una bambina tremante di freddo e che piangeva per la fame, un uomo fu preso da un moto di ribellione e gridò: “O Dio, dove sei? Perché non fai qualcosa per quella creatura innocente?”. Ma una voce interiore gli rispose: “Certo che ho fatto qualche cosa. Ho fatto te!”. E capì immediatamente.
Oggi però non basta più la semplice elemosina. Il problema della povertà è divenuto planetario. Quando i Padri della Chiesa parlavano dei poveri pensavano ai poveri della loro città, o al massimo a quelli della città vicina. Non conoscevano quasi altro, se non molto vagamente e, del resto, anche se l’avessero conosciuto, far pervenire gli aiuti sarebbe stato ancora più difficile, in una società come la loro. Oggi sappiamo che questo non basta, anche se nulla ci dispensa dal fare quello che possiamo anche a questo livello individuale.
L’esempio di tanti uomini e donne del nostro tempo ci mostra che ci sono tante cose che si possono fare per soccorrere, ognuno secondo i propri mezzi e possibilità, i poveri e promuoverne l’elevazione. Parlando del “grido dei poveri”, nella Evangelica testificatio, Paolo VI diceva in particolare a noi religiosi: “Esso induce certuni tra voi a raggiungere i poveri nella loro condizione, a condividere le loro ansie lancinanti. Invita, d’altra parte, non pochi vostri istituti a riconvertire in favore dei poveri certe loro opere”[11].
Eliminare o ridurre l’ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra ricchi e poveri nel mondo è il compito più urgente e più ingente che il millennio da poco conclusosi ha consegnato al nuovo millennio in cui siamo entrati. Speriamo che non sia ancora il problema numero uno che il presente millennio lascia in eredità a quello successivo.
Infine, evangelizzare i poveri. Questa fu la missione che Gesù riconobbe come la sua per eccellenza: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha unto per evangelizzare i poveri” (Lc 4, 18) e che indicò come segno della presenza del Regno agli inviati del Battista: “Ai poveri è annunciata la lieta novella” (Mt 11, 15). Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l’enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari. Magari, adducendo, a nostra scusa, il proverbio che “ventre affamato non ha orecchi”. L’azione sociale deve accompagnare l’evangelizzazione, mai sostituirla.
Gesù moltiplicava i pani e insieme anche la parola, anzi prima amministrava, a volte per tre giorni di seguito, la Parola poi si preoccupava anche dei pani. Non di solo pane vive il povero, ma anche di speranza e di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. I poveri hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta o polemica; il vangelo che parla di amore ai poveri, ma non di odio ai ricchi.

4. Gioia nei cieli e gioia sulla terra
Terminiamo su un altro tono. Per Francesco d’Assisi, Natale non era solo l’occasione per piangere sulla povertà di Cristo; era anche la festa che aveva il potere di fare esplodere tutta la capacità di gioia che c’era nel suo cuore, ed era immensa. A Natale egli faceva letteralmente pazzie.
“Voleva che in questo giorno i poveri edi mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito. Se potrò parlare all’imperatore – diceva – lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”[12].
Diventava come uno di quei bambini che stanno con gli occhi pieni di stupore davanti al presepio. Durante la funzione natalizia a Greccio, racconta il biografo, quando pronunciava il nome ‘Betlemme’ si riempiva la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesú’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”.
C’è un canto natalizio che esprime alla perfezione i sentimenti di San Francesco davanti al presepio e la cosa non stupisce se pensiamo che esso è stato scritto, parole e musica, da un santo come lui, sant’Alfonso Maria de Liguori. Ascoltandolo nel tempo natalizio, lasciamoci commuovere dal suo messaggio semplice ma essenziale:

Tu scendi dalle stelle o Re del cielo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo…
A te che sei del mondo il Creatore,
mancano i panni e il fuoco, o mio Signore.
Caro eletto pargoletto, quanta questa povertà
più mi innamora, giacché ti fece amor povero ancora.

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, Buon Natale!

NOTE
[1] Celano, Vita Prima, 84-86 (Fonti Francescane, 468-470)
[2] Ib. 30, (FF 467).
[3] Celano, Vita Seconda, 151 (FF 788).
[4] H. Thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst des Renaissance in Italien, Berlin 1885.
[5] J. Guitton, cit. da R. Gil, Presencia de los pobres en el concilio, in “Proyección” 48, 1966, p.30.
[6] S. Leone Magno, Discorso 2 sull’Ascensione, 2 (PL 54, 398).
[7] In AAS 54, 1962, p. 682.
[8] Cf. Il Gesú di Paolo VI, a cura di V. Levi, Milano 1985, p. 61.
[9] P. Damien Vorreux, Saint François d’Assise, Documents, Parigi 1968, p. 36.
[10] V. Mancuso, in La Repubblica, Venerdì 4 Ottobre 2013.
[11] Paolo VI, Evangelica testificatio, 18 (Ench. Vatic., 4, p.651).
[12] Celano, Vita Seconda, 151 (FF 787-788).

LA TUNICA ERA SENZA CUCITURE DI P.RANIERO CANTALAMESSA

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LA TUNICA ERA SENZA CUCITURE DI P.RANIERO CANTALAMESSA

2008-03-21- Predica del Venerdì Santo nella Basilica di San Pietro

“I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte” (Gv 19, 23-24).
Ci si è chiesti sempre che cosa abbia voluto dire l’evangelista con l’importanza che da a questo particolare della Passione. Una spiegazione recente è che la tunica ricorda il paramento del sommo sacerdote e che Giovanni, perciò, abbia voluto affermare che Gesú morì non soltanto come re, ma anche come sacerdote. Della tunica del sommo sacerdote non si dice, però, nella Bibbia, che doveva essere senza cuciture (cf. Es 28, 4; Lev 16,4); per questo i più autorevoli esegeti preferiscono attenersi alla spiegazione tradizionale secondo cui la tunica inconsutile simboleggia l’unità della Chiesa[1].
Qualunque sia la spiegazione che si da del testo, una cosa è certa: l’unità dei discepoli e, attraverso di essi, di tutto il genere umano, è, per Giovanni, lo scopo per cui Cristo muore: “Gesù doveva morire… per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11, 51-52). Nell’ultima cena lui stesso aveva detto: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21).
La lieta notizia da proclamare il Venerdì Santo è che l’unità, prima che un traguardo da raggiungere, è un dono da accogliere. Che la tunica fosse tessuta “dall’alto in basso”, scrive san Cipriano, significa che “l’unità recata da Cristo proviene dall’alto, dal Padre celeste, e non può perciò essere scissa da chi la riceve, ma deve essere accolta integralmente” [2].
I soldati fecero in quattro pezzi “la veste”, o “il mantello” (ta imatia), cioè l’indumento esteriore di Gesú, non la tunica, il chiton, che era l’indumento intimo, portato a diretto contatto con il corpo. Un simbolo anche questo. Noi uomini possiamo dividere la Chiesa nel suo elemento umano e visibile, ma non la sua unità profonda che si identifica con lo Spirito Santo. La tunica di Cristo non è stata e non potrà mai essere divisa. È la fede che professiamo con le parole: “Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica”.
* * *Ma se l’unità deve servire da segno “perché il mondo creda”, essa deve essere una unità anche visibile, comunitaria. È questa unità che è andata perduta e che dobbiamo ritrovare. Essa è ben più che dei rapporti di buon vicinato; è la stessa unità mistica interiore, in quanto accolta, vissuta e manifestata, di fatto, dai credenti: “Un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti” (Ef 4, 4-6). Una unità che non è compromessa dalla pluriformità, ma anzi si esprime in essa.
Dopo la Pasqua gli apostoli chiesero a Gesú: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Oggi rivolgiamo spesso a Dio la stessa domanda: È questo il tempo in cui ricostituirai l’unità visibile della tua Chiesa? Anche la risposta è la stessa di allora: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1, 6-8).
Lo ricordava il Santo Padre nell’omelia tenuta, il 25 Gennaio scorso, nella Basilica di san Paolo fuori le Mura, a conclusione della settimana per l’unità dei cristiani: “L’unità con Dio e con i nostri fratelli e sorelle, diceva, è un dono che viene dall’Alto, che scaturisce dalla comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo e che in essa si accresce e si perfeziona. Non è in nostro potere decidere quando o come questa unità si realizzerà pienamente. Solo Dio potrà farlo! Come san Paolo, anche noi riponiamo la nostra speranza e fiducia nella grazia di Dio che è con noi ». Anche oggi, sarà lo Spirito Santo, se ci lasciamo guidare, a condurci all’unità.
Come fece lo Spirito Santo a realizzare la prima fondamentale unità della Chiesa: quella tra giudei e pagani? Venne su Cornelio e la sua casa nello stesso modo con cui a Pentecoste era venuto sugli apostoli. Sicché a Pietro non rimase che tirare la conclusione: « Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio? » (At 11,17).
Ora, da un secolo a questa parte, noi abbiamo visto ripetersi sotto i nostri occhi questo stesso prodigio, su scala mondiale. Dio ha effuso il suo Spirito Santo, in modo nuovo e inconsueto, su milioni di credenti, appartenenti a quasi tutte le denominazioni cristiane e, affinché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni, lo ha effuso con le stesse identiche manifestazioni. Non è questo un segno che lo Spirito ci spinge a riconoscerci a vicenda come discepoli di Cristo e a tendere insieme all’unità?
Questa unità spirituale e carismatica da sola, è vero, non basta. Lo vediamo già all’inizio della Chiesa. L’unità tra giudei e gentili è appena fatta che è già minacciata dallo scisma. Nel cosiddetto concilio di Gerusalemme vi fu una « lunga discussione » e alla fine fu raggiunto un accordo, annunciato alle Chiesa con la formula: « Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi… »(Atti 15, 28). Lo Spirito Santo opera, dunque, anche attraverso un’altra via che è il confronto paziente, il dialogo e perfino il compromesso tra le parti, quando non è in gioco l’essenziale della fede. Opera attraverso le « strutture » umane e i « ministeri » posti in atto da Gesú, soprattutto il ministero apostolico e petrino. È quello che chiamiamo oggi ecumenismo dottrinale e istituzionale.
* * *Anche questo ecumenismo dottrinale, o di vertice, non è però sufficiente e non avanza, se non è accompagnato da un ecumenismo spirituale, di base. Ce lo ripetono con sempre maggiore insistenza proprio i massimi promotori dell’ecumenismo istituzionale. Nel centenario dell’istituzione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (1908-2008), ai piedi della croce, vogliamo meditare su questo ecumenismo spirituale: in che consiste e come possiamo avanzare in esso.L’ecumenismo spirituale nasce dal pentimento e dal perdono e si alimenta con la preghiera. Nel 1977 partecipai a un congresso ecumenico carismatico a Kansas City, nel Missouri. C’erano quarantamila presenti, metà cattolici (tra cui il cardinal Suenens) e metà di altre denominazioni cristiane. Una sera, al microfono, uno degli animatori cominciò a parlare in un modo, per me, a quel tempo, strano: “Voi sacerdoti e pastori, piangete e fate lamento, perché il corpo del mio Figlio è spezzato… Voi laici, uomini e donne, piangete e fare lamento perché il corpo del mio Figlio è spezzato”.
Cominciai a vedere le persone cadere una dopo l’altra in ginocchio intorno a me e molte di esse singhiozzare di pentimento per le divisioni nel corpo di Cristo. E tutto questo mentre una scritta campeggiava da una parte all’altra dello stadio: “Jesus is Lord, Gesú è il Signore”. Io ero lì come un osservatore ancora assai critico e distaccato, ma ricordo che pensai tra me: Se un giorno tutti i credenti saranno riuniti a formare una sola Chiesa, sarà così: mentre saremo tutti in ginocchio, con il cuore contrito e umiliato, sotto la grande signoria di Cristo.
Se l’unità dei discepoli deve essere un riflesso dell’unità tra il Padre e il Figlio, essa deve essere anzitutto una unità d’amore, perché tale è l’unità che regna nella Trinità. La Scrittura ci esorta a « fare la verità nella carità » (veritatem facientes in caritate) (Ef 4, 15). E sant’Agostino afferma che « non si entra nella verità se non attraverso la carità »: non intratur in veritatem nisi per caritatem [3]. La cosa straordinaria, circa questa via all’unità basata sull’amore, è che essa è già ora spalancata davanti a noi. Non possiamo « bruciare le tappe » circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza nelle sedi appropriate. Possiamo invece bruciare le tappe nella carità, ed essere uniti, fin d’ora. Il vero, sicuro segno della venuta dello Spirito non è, scrive sant’Agostino, il parlare in lingue, ma è l’amore per l’unità: “Sappiate che avete lo Spirito Santo quando acconsentite a che il vostro cuore aderisca all’unità attraverso una sincera carità” [4].Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:
« La carità è paziente….La carità non è invidiosa…Non cerca solo il suo interesse (o solo l’interesse della propria Chiesa). Non tiene conto del male ricevuto (semmai, del male arrecato agli altri!). Non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità (non gode delle difficoltà delle altre Chiese, ma si rallegra dei loro successi spirituali). Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » ( l Cor 13,4 ss).
Questa settimana abbiamo accompagnato alla sua dimora eterna una donna, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolari. Ella è stata una pioniera e un modello di questo ecumenismo spirituale dell’amore. Ha dimostrato che la ricerca dell’unità tra i cristiani non porta alla chiusura verso il resto del mondo; è anzi il primo passo e la condizione per un dialogo più vasto con i credenti di altre religioni e con tutti gli uomini che hanno a cuore le sorti dell’umanità e della pace
* * *
“Amarsi, è stato detto, non significa guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Anche tra cristiani, amarsi significa guardare insieme nella stessa direzione che è Cristo. “Egli è la nostra pace” (Ef 2,14). Se ci convertiremo a Cristo e andremo insieme verso di lui, noi cristiani ci avvicineremo anche tra di noi, fino a essere, come lui ha chiesto, “una cosa sola con lui e con il Padre”. Succede come per i raggi di una ruota. Essi partono da punti distanti della circonferenza, ma a mano a mano che si avvicinano al centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a formare un punto solo. Ciò che potrà riunire i cristiani divisi sarà solo il diffondersi tra di essi, per opera dello Spirito Santo, di un’ondata nuova di amore per Cristo. È ciò che sta avvenendo nella cristianità e che ci riempie di stupore e di speranza. “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è molto per tutti” (2 Cor 5,14). Il fratello di un’altra Chiesa –anzi, ogni essere umano – è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,16), come è morto per me.
* * *Un motivo deve soprattutto spingerci avanti in questo cammino. La posta in gioco all’inizio del terzo millennio, non è più la stessa che all’inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente; neppure è la stessa che a metà dello stesso millennio, quando si produsse la separazione tra cattolici e protestanti. Possiamo dire che la maniera esatta di procedere dello Spirito Santo dal Padre o il modo in cui avviene la giustificazione dell’empio siano i problemi che appassionano gli uomini di oggi e con cui sta o cade la fede cristiana? Il mondo è andato avanti e noi e siamo rimasti inchiodati a problemi e formule di cui il mondo non conosce più neppure il significato. Nelle battaglie medievali c’era un momento in cui, superati i fanti, gli arcieri e la cavalleria, la mischia si concentrava intorno al re. Lì si decideva l’esito finale dello scontro. Anche per noi la battaglia oggi è intorno al re. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto nevralgico, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Nell’edificio della fede cristiana questa pietra angolare è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e, prima di ogni altra cosa, la fede nella Trinità.
Da ciò si vede come ci siano oggi sono due ecumenismi possibili: un ecumenismo della fede e un ecumenismo dell’incredulità; uno che riunisce tutti quelli che credono che Gesù è il Figlio di Dio, che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo, e che Cristo è morto per salvare tutti gli uomini, e uno che riunisce tutti quelli che, in ossequio al simbolo di Nicea, continuano a proclamare queste formule, ma svuotandole del loro vero contenuto. Un ecumenismo in cui, al limite, tutti credono le stesse cose, perché nessuno crede più a niente, nel senso che la parola “credere“ ha nel Nuovo Testamento.“Chi è che vince il mondo, scrive Giovanni nella Prima Lettera, se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”, (1 Gv 5,5). Stando a questo criterio, la fondamentale distinzione tra i cristiani non è tra cattolici, ortodossi e protestanti, ma tra coloro che credono che Cristo è il Figlio di Dio e coloro che non lo credono.
* * *“L’anno secondo del re Dario, il primo giorno del sesto mese, questa parola del Signore fu rivolta per mezzo del profeta Aggeo a Zorobabele figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, e a Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote…: Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre la mia casa è ancora in rovina?” (Ag 1, 1-4). Questa parola del profeta Aggeo è rivolta oggi a noi. È questo il tempo di continuare a preoccuparci solo di quello che riguarda il nostro ordine religioso, il nostro movimento, o la nostra Chiesa? Non sarà proprio questa la ragione per cui anche noi “seminiamo molto, ma raccogliamo poco” (Ag 1, 6)? Predichiamo e ci diamo da fare in tutti i modi, ma il mondo si allontana, anziché convertirsi a Cristo.
Il popolo d’Israele ascoltò il richiamo del profeta; smisero di abbellire ognuno la propria casa per ricostruire insieme il tempio di Dio. Dio allora inviò di nuovo il suo profeta con un messaggio di consolazione e di incoraggiamento che è anche per noi: “Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore – coraggio, Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese, dice il Signore, e al lavoro, perché io sono con voi” (Ag 2,4). Coraggio, voi tutti che avete a cuore la causa dell’unità dei cristiani, e al lavoro, perché io sono con voi, dice il Signore!

 

GIOVEDÌ SANTO (MESSA IN CENA DOMINI) (2002) -PADRE RANIERO CANTALAMESSA

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PADRE RANIERO CANTALAMESSA

GIOVEDÌ SANTO (MESSA IN CENA DOMINI) (28/03/2002)

Vangelo: Gv 13,1-15

La liturgia della parola di questa Messa è essenziale per la comprensione di tutto il mistero pasquale. Non possiamo da qui saltare direttamente alla domenica di risurrezione, senza precluderci la possibilità di capire in che consista la nostra Pasqua, cioè la Pasqua della Chiesa. Perché la Pasqua della Chiesa è essenzialmente l’Eucaristia e questa sera noi celebriamo, appunto, l’istituzione dell’Eucaristia.
Paolo, nella prima lettura, ci ha trasmesso quello che lui stesso ha ricevuto dal Signore, cioè l’istituzione della Cena come nuova alleanza e come memoriale della sua morte. Giovanni, nel Vangelo, ci riporta allo stesso momento della vita di Cristo e ci parla anche lui, a modo suo, dell’Eucarístia. Là dove i sinottici e Paolo pongono il segno – l’Eucaristia -, egli ha posto il significato: l’amore fino alla fine di Cristo per i suoi; l’unità e il servizio dei fratelli. Le parole di Gesú che chiudono il brano evangelico:  » Come ho fatto io fate anche voi », sono un altro modo per dire:  » Fate questo in memoria di me « .
Quando la famiglia ebraica si metteva a tavola per la cena pasquale, il 14 Nisan, era prescritto che il figlio piú giovane rivolgesse questa domanda al padre:  » Che significa questo rito che stiamo per compiere questa notte?  » (Es. 12, 26). Nel Cenacolo, fu forse Giovanni a rivolgere questa domanda e Gesú a rispondere. Dobbiamo porci anche noi questa stessa domanda: che significa il rito di questa sera e che significano i riti che ci apprestiamo a ripetere anche quest’anno, in occasione della Pasqua?  » Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione  » (Rom. 4, 25); ma una volta sola (semel); egli non muore piú, la morte non ha píú potere su di lui (Rom. 6, 9). Che cos’è dunque ciò che noi facciamo ogni anno a Pasqua? Forse qualcosa di fallace, una finzione collettiva per cui ci immaginiamo che egli debba ancora morire e risorgere? Quello che noi stiamo per fare è l’anamnesi, o la liturgia, della storia; è il sacramento che attualizza l’evento (Agostino, Sermo 220).
Questa anamnesi non è invenzione dell’uomo, ma istituzione di Cristo:  » Fate questo in memoria di me « ;  » annunciate la morte del Signore finché egli torni « . E’ un memoriale che attraversa la storia, fin dalla notte dell’esodo rievocata nella prima lettura, e che ha raccolto, strada facendo, tutti gli interventi di Dio (i  » magnalia Dei « ), fino al supremo e definitivo, avvenuto all’altezza degli anni trenta della nostra era, con la morte e risurrezione di Cristo. E’ una specie di asse intorno a cui ruotano non solo gli anni, ma anche le settimane e i giorni. Il memoriale della Pasqua scorre infatti nella storia verso il compimento della parusia con tre ritmi:
a) un ritmo quotidiano, ed è l’Eucaristia che si celebra ogni giorno nella Chiesa:  » la Pasqua quotidiana », la chiamava sant’Agostino;
b) un ritmo settimanale, ed è il ricordo della risurrezione che si celebra ogni domenica:  » la piccola Pasqua », come la chiamano i nostri fratelli orientali;
c) un ritmo annuale, ed è la solennità di Pasqua che ci apprestiamo a vivere con tutta la Chiesa.
Questa Pasqua della Chiesa ha una sua struttura, i cui elementi essenziali sono: i tempi, i riti e i misteri. Originariamente, tutto era concentrato in una veglia notturna, preceduta da qualche giorno di digiuno e seguita da un lungo periodo di gioia, la Pentecoste. La Pasqua aveva allora una straordinaria carica evocativa. Non esistevano altre feste, sicché tutta la storia della salvezza, compresa la nascita di Cristo, riviveva in essa e si díspiegava davanti alla mente dei cristiani trascinandoli all’entusiasmo.  » 0 grande e santa Pasqua, io ti parlo come a un essere vivente  » (san Gregorio Nazianzeno). I cristiani riconoscevano nella Pasqua la culla in cui era nata la Chiesa, una culla preparata fin dalla lontana notte dell’esodo, rievocata nella prima lettura.
Piú tardi, nel quarto secolo, nel nuovo clima di libertà, i pellegrini che si recavano a Gerusalemme per la Pasqua cominciarono a distribuire gli eventi della passione e a celebrarli nei giorni e nei luoghi precisi in cui erano accaduti: la cattura nell’orto; la cena nel Cenacolo, il gíovedí santo; l’adorazione della Croce sul Golgota, il venerdí; la veglia di Pasqua nella chiesa dell’Anastasis, e cosí di seguito, fino all’ascensione celebrata, appunto sul monte da cui Gesú ascese al cielo. Ben presto, questa nuova prassi si diffuse in tutta la cristianità e diede origine alla struttura cosí ricca e articolata della Pasqua che è rimasta fino ad oggi, pur con tutte le riforme e i cambiamenti di dettaglio.
Quando, però, ci si interroga quale sia, tra tanti riti, quello essenziale; quale sia il culmine della Pasqua liturgica della Chiesa, si finisce per identificarlo sempre in un momento preciso: la celebrazione dell’Eucaristia. Fin dalle origini, l’Eucaristia che si celebrava al canto del gallo, nella veglia pasquale, segnava il momento di passaggio dalla tristezza alla gioia, dal digiuno alla festa. Era il grande  » scioglimento  » dell’attesa (díalysis), come veniva chiamato allora. L’Eucaristia, celebrata a cavallo tra il tempo in cui Gesú era ancora nella tomba e il momento in cui ne era uscito, era davvero il memoriale vivente della sua morte e della sua risurrezione. Era la Pasqua stessa di Cristo – il suo passaggio dalla morte alla vita che dalle profondità del passato emergeva all’oggí della liturgia. Tutto, cosí appariva compreso tra un  » ieri  » e un  » oggi « :  » Ieri, l’agnello veniva ucciso…; oggi, abbiamo lasciato l’Egitto. Ieri, ero crocifisso con Cristo; oggi, sono glorificato con lui. Ieri, ero sepolto con lui; oggi, sono risuscitato con lui  » (san Gregorio Naz.).
Abbiamo detto che l’Eucaristia è l’attualizzazíone della Pasqua di Cristo. E’ vero; ma è anche un’altra cosa importantissima: è la consacrazione della nostra Pasqua. Chi dice, nella Messa di Pasqua,  » Prendete e mangiate: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi », non è píú solo il Cristo-capo, cioè il Gesú storico che le disse la prima volta nel Cenacolo; è il Cristo totale. capo e corpo; siamo anche noi. E’ l’ »io » della Chiesa fuso con l’ »io » di Cristo che offre se stesso in sacrificio. Nell’Eucaristia, noi offriamo un pane che abbiamo ricevuto dalla bontà di Dio, ma che è anche frutto del nostro lavoro. E’ quell’insieme di sforzo, di conversione, di fedeltà alla parola di Dio e di sofferenza che costituisce la pasqua dell’uomo, il suo lento e faticoso  » passaggio da questo mondo al Padre » (Gv. 13, 1).
Se lo vogliamo, in quelle parole c’è posto anche per il nostro  » io  » indeciso; solo che abbiamo il coraggio di dire, insieme con Cristo, ai fratelli che ci circondano nella vita e nel lavoro:  » Prendete, mangiate, questo è il mio corpo offerto per voi « . Prendete, cioè, il mio tempo, la mia amicizia, la mia attenzione, la mia competenza, la mia gioia: metto tutto a vostra disposizione; voglio impiegarli non solo per me, ma anche per voi. « Fate questo in memoria di me » significa: fate anche voi come ho fatto io. Giovanni lo dice apertamente: « da questo abbiamo conosciuto il suo amore: egli ha dato la vita per noi. Anche noi,, perciò, dobbiamo spendere la vita per i fratelli  » (1 Gv. 3, 16).
E’ questa l’Eucaristia che crea la comunità e fa la Chiesa, come spiga cresciuta da quel chicco di grano caduto in terra e morto e che ha portato molto frutto. E’ questa la Pasqua della Chiesa, con la quale ci apprestiamo a celebrare la Pasqua di Cristo e la nostra pasqua.

L’UMILTA’ – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

http://digilander.libero.it/rinnovamento/documenti/cate_063.html

L’UMILTA’

 PADRE RANIERO CANTALAMESSA

 Insegnamento tenuto a Chiaravalle Milanese, durante l’Incontro regionale dei Rinnovamento lombardo, Pentecoste 1979. Inizio questo insegnamento richiamando un brano della Parola di Dio che si trova in Luca, cap. 14; si tratta della parabola sulla scelta dell’ultimo posto a tavola, che termina con la frase: « Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato  » (Le 14,7-11). Noi siamo convenuti qui, oggi, pieni di gioiosa attesa, perché vogliamo fare la nostra Pentecoste. La Pentecoste è un evento grande per la Chiesa. Ma che cosa possiamo mettere noi, di nostro, per fare la Pentecoste? Assolutamente niente! La Pentecoste la decide solo Dio; la Potenza che scende dall’alto, scende dall’alto e basta; non la si può strappare a forza dalla terra. Tutto ciò che c’è di positivo, di dono, nella Pentecoste, ci viene da Dio; è il Padre che stabilisce il modo, il tempo e la misura per ognuno. Che cosa possiamo fare noi, allora, per avere la nostra Pentecoste, se non possiamo fare nulla di « positivo »? Possiamo fare il vuoto, che permetta allo Spirito Santo di venire! Creare il vuoto significa metterci in atteggiamento di profonda, sincera umiltà davanti a Dio. In questo, Maria preparò gli apostoli a ricevere la prima Pentecoste: li aiutò a farsi piccoli, umili e docili. Basta saper leggere tra le righe. Quando gli apostoli si erano trovati insieme l’ultima volta, in quello stesso cenacolo, prima della passione del Signore, sappiamo che discutevano ancora tra loro chi fosse il più grande (cfr. Le 22,24ss). Ora che Maria, « l’umile ancella », ha fatto loro scuola di umiltà, durante quella memorabile « novena », ritroviamo gli stessi uomini nello stesso posto, nel cenacolo, ma non discutono più su chi è il più grande; sono invece « assidui e concordi nella preghiera ». Parliamo dunque dell’umiltà poiché essa appare la migliore preparazione a ricevere lo Spirito Santo. Con questo insegnamento intendo anche completare il discorso fatto a Rimini sulla « sobria ebbrezza dello Spirito », sviluppando un punto che in quell’occasione fu appena accennato. e precisamente il significato dell’aggettivo « sobria ». Che ci sia una « ebbrezza » dello Spirito, come ci fu il giorno stesso di Pentecoste, questo dipende da Dio; ma da noi dipende l’essere sobri »,e oggi vediamo che questo vuol dire anche essere « umili ».

L’umiltà di Gesù Gesù terminava la sua parabola degli invitati al banchetto dicendo che chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Ma cosa significa « umiliarsi »? Sono sicuro che se domandassi a varie persone cos’è per loro l’umiltà, otterrei tante risposte diverse, ognuna contenente una parte di verità, ma incomplete. Se lo domandassi a un uomo che è portato per temperamento alla violenza, a far valere il proprio punto di vista con forza, forse mi risponderebbe: « l’umiltà è non alzare la voce, non fare il prepotente in casa, essere più mite e arrendevole Se lo domandassi a una ragazza, forse mi risponderebbe: « l’umiltà è non essere vanitosa, non volere attirare lo sguardo degli altri, non vivere solo per se stessi o per la facciata… » Un sacerdote mi risponderebbe: « Essere umili significa riconoscersi peccatore, avere un sentimento basso di se stesso Ma è facile capire che così non si è toccata ancora la radice dell’umiltà. Per scoprire la vera radice dell’umiltà bisogna, come sempre, rivolgersi all’unico Maestro che è Gesù. Egli ha detto: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mt 11,29). Per un po’ di tempo, confesso che questa frase di Gesù mi ha molto stupito. Infatti: dov’è che Gesù si mostra umile? Leggendo il vangelo non si incontra mai la benché minima ammissione di colpa da parte di Gesù. Questa è anzi una delle prove più convincenti dell’unicità e della divinità di Cristo: Gesù è l’uníco uomo che è passato sulla faccia della terra, ha incontrato amici e nemici senza dover mai dire: « Ho sbagliato! », senza chiedere mai perdono a nessuno, neppure al Padre. La sua coscienza ci appare un cristallo: nessun senso di colpa la sfiora. Di nessun altro uomo, di nessun fondatore di religione, si legge una cosa simile. Dunque Gesù non è stato umile, se per umiltà intendiamo parlare o sentire bassamente di sé, ammettere di avere sbagliato. « Chi di voi – egli può dire con sicurezza – può convincermi di peccato? » (Gv 8,46). Eppure questo stesso Gesù dice con altrettanta sicurezza: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore  » (Mt 11,29). Allora vuol dire che l’umiltà non è proprio quella cosa che il più delle volte noi pensiamo, ma qualcos’altro che dobbiamo scoprire dai vangeli. Che cosa ha fatto Gesù per essere e dirsi « umile »? Una cosa semplicissima: si è abbassato, è sceso. Ma non con i pensieri o con le parole. No, no; con i fatti! Con i fatti Gesù è sceso, si è umiliato. Trovandosi nella condizione di Dio, nella gloria, cioè in quella condizione in cui non si può né desiderare né avere niente di meglio, è sceso; ha preso la condizione di servo, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte (cfr. Fil 2,6ss). Una volta iniziata questa discesa vertiginosa da Dio a schiavo, non si è fermato ancora; ha continuato a scendere, tutta la vita. Si mette in ginocchio per lavare i piedi ai suoi apostoli; dice: « Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27). Non si arresta finché non tocca il punto oltre il quale nessuna creatura può andare, che è la morte, Ma proprio là, nel punto estremo del suo abbassamento, lo raggiunge la potenza del Padre, cioè lo Spirito Santo, afferra il corpo di Gesù nella tomba, lo vivifica, lo risuscita e lo innalza alla sommità dei cieli, gli dà il Nome che è al di sopra di ogni altro nome e ordina che ogni ginocchio si pieghi davanti a lui. Ecco un esempio concreto, la realizzazione massima della parola: « Chi si umilia sarà esaltato ». Vista in questo specchio, che è Gesù, l’umiltà ci appare dunque non una questione di sentimenti, cioè un sentire se stessi in modo basso, ma una questione di fatti. di gesti concreti; non una questione di parole, ma di realtà, di azioni. L’umiltà è la disponibilità a scendere, a farsi piccoli e a servire i fratelli; è la volontà di servizio. E tutto questo, fatto per amore, non per altri scopi. Ci può essere un’attitudine al servizio dei fratelli anche in persone non credenti; dobbiamo ammettere onestamente che ci sono intorno a noi persone che non si dicono cristiane e tuttavia, in certi casi, ci danno l’esempio nel collocarsi accanto ai poveri, agli emarginati. La differenza sta nel fatto che, in un cristiano, tale disponibilità al servizio deve essere ispirata e come sostanziata di amore.

In un certo senso, possiamo dire che l’umiltà è gratuità, è abbassarsi senza alcun interesse proprio o calcolo. La parabola degli invitati al banchetto prosegue con queste parole di Gesù: « Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti » (Le 14,13ss). Questo è un servizio gratuito, perché non ci si aspetta nulla in cambio. In questo l’umiltà si rivela come la sorella gemella della carità, come un aspetto di quella agape, di cui S. Paolo tesse l’elogio nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Quando l’Apostolo dice che la carità « non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto … », intende dire che la carità è umile e l’umiltà è caritatevole. Essere umile secondo il modello di Gesù significa dunque spendersi gratuitamente, non vivere solo per se stessi (cfr. 2 Cor 5,15). Quando noi cerchiamo il plauso, i riconoscimenti, manchiamo di umiltà perché rompiamo la gratuità. In quel momento stiamo ricercando la nostra ricompensa. lo posso andare in un posto a parlare e tornare a casa con una duplice ricompensa: o in soldi, o in compiacenza di me stesso. In tutti e due i casi Gesù mi dice: Hai ricevuto la tua ricompensa.

Umiltà e sobrietà In noi, quasi mai l’umiltà è questa cosa così limpida e pura, cioè abbassarsi a servire per amore. Essa comporta sempre anche qualcosa di negativo, cioè un rinnegarsi, uno sconfessare ciò che c’è di distorto nelle nostre intenzioni e nelle nostre azioni. Un discendere da noi stessi, prima che andare verso gli altri. Quando è Gesù che « scende », lo fa da un’altezza reale, oggettiva, perché è il Santo di Dio (cfr. Gv 6,69). Quando invece siamo noi uomini a « scendere », non ci abbassiamo da un’altezza reale, vera, ma da una pseudo-altezza, da una altezza falsa; ci abbassiamo da un’altezza alla quale ci siamo indebitamente innalzati con l’orgoglio, con la vanità, con l’ira… In noi perciò l’umiltà è sempre anche una virtù « negativa », che serve a rinnegare qualcosa di cattivo che c’è in noi per cui tendiamo a elevarci al di sopra del prossimo. n questo senso si dice giustamente che l’umiltà è verità. E’ ripristinare la verità circa noi stessi, è riconoscere che il nostro posto non è stare sopra gli altri, ma sotto. S. Teresa d’Avila ha scritto: « Mi chiedevo una volta perché il Signore ama tanto l’umiltà, e mi venne in mente d’improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere perché egli è somma Verità e l’umiltà è verità ». Anche S. Paolo parla in questi termini dell’umiltà quando dice: « Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso » (Gal 6,3). Per l’Apostolo, si potrebbe dire che l’umiltà è soprattutto sobrietà spirituale, cioè un sentire in modo sobrio, sano, non eccessivo, non esaltato, di se stessi. Dice: « Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione » (Rm 12,3). Nell’originale greco, la frase suona: « Valutatevi in modo sobrio ». Poco dopo insiste dicendo: « Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi » (Rm 12,16). Quest’umiltà-sobrietà consiste dunque in un sano realismo che ci permette di essere nella verità dinanzi a Dio. Noi non perseguiamo una verità astratta, non vogliamo essere come lo psicanalista che cerca di portare l’uomo alla verità su di sé, in modo che egli si liberi dai suoi complessi. Noi perseguiamo un’altra verità; la verità che cerchiamo è quella che permette di essere veri davanti a Dio, prima ancora che davanti a se stessi e agli altri, anche se queste cose ne derivano di conseguenza. t scritto di Dio che egli è buono e generoso con l’uomo sincero, ma diventa l’astuto » con il perverso, cioè con chi ha il cuore menzognero (cfr. Sal 18,27). Una cosa Dio esige sopra tutte da chi si accosta a lui: 1a sincerità del cuore » (cfr. Sal 5 1,8)

L’umiltà di Dio Dicevo che l’umiltà presenta in noi degli aspetti negativi, di rinnegamento, di sacrificio, di croce, proprio perché noi siamo peccatori e abbiamo bisogno di togliere il male che c’è in ogni nostra azione. Ma se è cosi, dove trovare quell’umiltà allo stato puro che non finirà neppure con la morte e che non dice alcuna relazione con il peccato? La prima risposta che viene spontanea alle labbra è: in Gesù di Nazareth! Ma, a pensarci bene, dobbiamo dire che neppure in lui si trova quell’umiltà allo stato puro, senza alcuna relazione con il peccato. E’ vero infatti che Gesù è l’uomo senza peccato, innocente e santo; è vero che non aveva peccati propri, tuttavia aveva preso su di sé i peccati degli altri uomini e davanti a Dio figurava come « il peccato ». Anche in Gesù, dunque, il suo umiliarsi facendosi obbediente fino alla morte presenta un aspetto di espiazione, cioè di riferimento al peccato. Solo nella seconda venuta, alla fine dei tempi – dice l’epistola agli Ebrei – egli verrà senza più alcuna relazione con il peccato (cfr. Eb 9,28). Allora – insisto – dove troviamo l’umiltà allo stato puro, quel puro e gratuito abbassarsi a servire per amore? Abbiamo bisogno di arrivare a toccare questo fondamento perché da esso la virtù dell’umiltà trae tutta la sua forza e il suo fascino. La troviamo in Dio, nella Trinità! C’è una preghiera di S. Francesco d’Assisi, sicuramente autentica (si conserva in Assisi, nella basilica del Santo, scritta di suo pugno); in questa preghiera intitolata « Laudi di Dio Altissimo », il Poverello intreccia una lode magnifica del Dio Uno e Trino, dicendo tra l’altro: « Tu sei carità, tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei sicurezza, tu sei giustizia, tu sei temperanza Quando lessi la prima volta quell’espressione: « Tu sei umiltà », dissi fra me: « Padre mio S. Francesco, qui non ti capisco più! Forse ti sei lasciato prendere la mano; stavi facendo un elenco delle virtù che si trovano in Dio e vi hai messo dentro anche l’umiltà, senza pensare che l’umiltà è una virtù che non può trovarsi nella Trinità che è tutta gloria, santità, splendore ». Ma sbagliavo io! Il Santo aveva ragione. Anzi egli ci ha dato, con quelle parole, una delle definizioni più delicate e più sublimi di Dio: Dio è umiltà! Se umiltà significa scendere da se stessi per amore, Dio è umiltà perché, dalla posizione in cui si trova, non può far altro che scendere; sopra di lui non c’è nulla, perciò egli non può salire, innalzarsi. Quando fa qualcosa « fuori di sé » (ad extra), Dio non può che « abbassarsi », umiliarsi. Ed è quello che ha sempre fatto dalla creazione del mondo. La storia della salvezza non è che la storia delle successive « umiliazioni » di Dio. Così la vede infatti S. Francesco: « Ecco – scrive – ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare » (FF n. 144); e parlando dell’eucaristia esclama: « Guardate, frati, l’umiltà di Dio! » (FF n. 221). In seguito, mi sono accorto che questa era stata già un’idea familiare ai Padri della Chiesa. Essi parlavano della synkatábasis di Dio, parola che, tradotta, vuol dire « condiscendenza », cioè farsi piccolo per potersi accostare all’uomo e scendere al suo livello. S. Giovanni Crisostomo – a cui tale termine era particolarmente caro – dice che già la creazione è un atto della condiscendenza di Dio; che la rivelazione biblica – il fatto che Dio si adatti a balbettare il linguaggio umano – è un atto della condiscendenza di Dio; tale è pure e soprattutto l’Incarnazione. Ma anche la Pentecoste che stiamo celebrando è un atto di umiltà di Dio. Perché parliamo di « discesa » dello Spirito Santo, se non per lo stesso motivo, e cioè che ogni intervento di Dio a favore dell’uomo è una condiscendenza, un umiliarsi? Nel caso della Pentecoste, lo Spirito Santo si abbassa, assumendo dei poveri segni come sono il fuoco, il vento, le lingue. Si abbassa ad abitare in povere creature di carne facendone il suo tempio. (Soffermiamoci un istante in preghiera su questa scoperta; ringraziamo il Signore perché ha voluto « uscire » da se stesso per amore nostro, dandoci un meraviglioso esempio di umiltà). Dopo ciò ho capito perché S. Francesco, nel « Cantico delle creature », scrive: « Laudato si’, mi’ Signore, per sora aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta ». Uacqua è umile perché, come Dio, dalla posizione in cui si trova non sale mai, ma sempre scende, scende, fino a raggiungere il punto più basso; tende sempre ad occupare l’ultimo posto. Dio è umiltà: che cosa abbiamo scoperto con ciò? Solo un’idea teologica in più? No, abbiamo scoperto il vero motivo per cui dobbiamo essere umili. Noi dobbiamo essere umili per essere figli del Padre nostro, per « riprendere » dal nostro legittimo Padre. Perché se non siamo umili, noi non riprendiamo dal Padre nostro che è nei cieli, ma da un altro padre ben diverso. Chi è, nell’universo, colui che ha come suo movimento proprio il salire, il dare la scalata? Chi è colui che dice: « Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il mio trono… mi farò uguale all’Altissimo? » (Is 14,13-14). Non lo nominiamo neppure, per non fargli questo onore nel giorno di Pentecoste, tanto sappiamo bene di chi si tratta. Bisogna dunque essere umili per riprendere dal Padre nostro, altrimenti Gesù deve dire anche a noi quello che diceva ai farisei che si credevano figli di Abramo: ‘ »Voi fate le opere di un padre che non è Abramo… » (cfr. Gv 8,38ss).

Umili con chi? L’esercizio dell’umiltà Adesso possiamo porci la domanda iniziale: « Che cos’è l’umiltà », ma da un altro punto di vista, molto più profondo. L’umiltà è un atteggiamento verso noi stessi, verso gli altri, o verso Dio? Anni addietro, feci una meditazione sull’umiltà in cui sostenevo che essa non è un atteggiamento verso se stessi o verso gli altri, ma solo verso Dio. Adesso devo correggermi: l’umiltà è tutto questo insieme: è un modo di stare davanti a sé, davanti agli altri e davanti a Dio, pur rimanendo qualcosa di profondamente unitario. Ho detto sopra che l’umiltà è sorella gemella della carità; come la carità si esprime in due atteggiamenti legati intimamente tra di loro: « Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso », così è dell’umiltà. L’umiltà vera consiste nell’essere umili con Dio e umili con il prossimo: le due cose insieme. Non si può essere umili dinanzi a Dio, nella preghiera, se non lo si è con i fratelli. Essere umili davanti a Dio significa essere bambini, essere gli anawin biblici, cioè i poveri che non hanno nessuno su cui appoggiarsi se non Dio solo; significa non confidare né nei carri né nei cavalli, né sulla propria intelligenza, né sulla propria giustizia. E tutto questo va benissimo. Ma se tu non sei umile con il fratello che vedi, come puoi dire di essere umile con Dio che non vedi? Se tu non lavi i piedi al fratello che vedi, cosa significa il tuo voler lavare i piedi a Dio che non vedi? I piedi di Dio sono i tuoi fratelli! Come si vede, si possono dire dell’umiltà le medesime cose che Giovanni dice della carità (cfr. I Gv 4,20). Ci sono persone (io sono certamente tra queste), le quali sono capaci di dire di se stesse tutto il male possibile e immaginabile; che, in preghiera, fanno delle autoaccuse di una schiettezza e di un coraggio ammirevoli. Dunque, sono umili davanti a Dio e verso se stessi. Ma appena un fratello accenna a prendere sul serio le loro confessioni, o si azzarda a dire, di essi, una piccola parte di quello che si son detti da soli, sono scintille! Non era vera umiltà la loro. Il vero umile è colui che si guarda in Dio, in lui scopre ciò che è, e poi trasfonde questa verità nel rapporto con i fratelli. L’umiltà che stiamo scoprendo è un bene che scende dal cielo; essa è quel « dono perfetto che viene dall’alto e discende dal Padre della luce » (cfr. Ge 1, l 7). Non è una pianta che spunta naturalmente sulla nostra terra; il mondo non la conosce. Questa è la sapienza dei Vangelo che confonde la sapienza del mondo. Su questo terreno le due sapienze si scontrano frontalmente, tanto che S. Paolo può dire: « Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio » (1Cor 3,18ss). Lo vediamo chiaramente intorno a noi: il mondo, invece di coltivare l’umiltà, esalta l’orgoglio; quando si vuol fare un comiplimento a qualcuno, si dice che « ha dell’orgoglio ». Il mondo è strutturato sul valore dell’arrivismo, del fare carriera, cioè salire più in alto nella scala sociale. Dalla scuola in su, che cosa si inculca ai giovani se non di fare carriera, di affermarsi al di sopra degli altri, di primeggiare? Il modo di pensare di Gesù è semplicemente diverso di novanta gradi. E tuttavia bisogna non cadere in errore. A che cosa mira l’umiltà evangelica? Forse a creare una comunità di rassegnati, di gente inerte, priva di slancio, che non traffica i talenti? Assolutamente no! Il filosofo che affermava questo (Nietzsche), non aveva capito niente del Vangelo. L’umiltà evangelica non significa che tu non devi trafficare i talenti ricevuti; al contrario. La differenza rispetto al mondo è che questi tuoi talenti tu non li impieghi solamente per te stesso, per porti al di sopra degli altri e dominarli, ma li impieghi per il servizio degli altri; non per essere servito, ma per servire,

Umiltà nel matrimonio Vorrei ora accennare ad alcuni ambiti particolari in cui l’umiltà si rivela particolarmente necessaria. Anzitutto quello della famiglia: come e perché essere umili nel matrimonio. lo dico che l’urniltà è stata inventata da Dio anche per salvare i matrimoni. Il matrimonio, inteso come l’amore tra l’uomo e la donna, nasce dall’umiltà. Innamorarsi di un’altra persona – quando si tratta di un vero fatto di innamoramento – è il più radicale atto di umiltà che si possa immaginare. Significa andare da un altro e dirgli: lo non mi basto, io non sono sufficiente a me stesso; ho bisogno del tuo essere. E’ come stendere la mano e chiedere in elemosina a un’altra creatura un po’ del suo essere. Ripeto: è l’atto di umiltà più radicale. Dio ha creato l’uomo bisognoso, mendicante; ha inscritto l’umiltà nella sua stessa carne, quando li ha creati maschio e femmina, cioè incompleti. Ne ha fatto, fin dall’origine, due esseri in movimento, in ricerca l’uno dell’altro, « insoddisfatti » ognuno di se stesso. Ha posto così la creatura umana come su un piano inclinato verso l’alto, non verso il basso, perché l’unione doveva elevarlo dall’altro sesso, all’Altro per eccellenza che è Dio stesso. Dunque, il matrimonio nasce dall’umiltà, e se nasce dall’umiltà della condizione umana non può sopravvivere che nell’umiltà. S. Paolo diceva ai coniugi cristiani: « Rivestitevi… di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri » (Col 3,12ss). L’umiltà e il perdono sono come il lubrificante che permette, giorno per giorno, di sciogliere ogni principio di ruggine, di abbattere i piccoli muri di incomprensione e di risentimento, prima che diventino grandi muri che non si possono più abbattere. Gli sposi devono vigilare a che 1`altro padre », quello spurio, non instauri tra di loro la logica della ripicca, della rivincita… Non bisogna dare ascolto alla voce che grida dentro: Perché devo essere sempre io a cedere, a umiliarmi? Cedere non è perdere, ma vincere, vincere il vero nemico dell’amore che è il nostro egoismo, il nostro « io ».

Umiltà nel Rinnovamento Il Rinnovamento ha bisogno di famiglie rinnovate e le famiglie, abbiamo visto, si rinnovano anche con l’umiltà. à l’amore, certo, che rinnova le famiglie, ma è l’umiltà che rende possibile l’amore. Ma in questa circostanza, devo dire una parola anche a proposito dell’umiltà nel « Rinnovamento ». Se il Rinnovamento, come è stato detto molto giustamente, è « restituire il potere a Dio », allora Si capisce quanto l’umiltà sia urgente nel Rinnovamento nello spirito. L’umiltà è ciò che preserva il Rinnovamento dallo sciuparsi in cosa umana. Bisogna che periodicamente noi rimettiamo il, potere nelle mani di Dio, e questo si fa con l’umiltà. Bisogna che impariamo a dire, con l’Apocalisse e con la liturgia della Chiesa: « Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli! ». Ogni volta che dimentichiamo questo e facciamo centro sulle persone, sono disastri, come a Corinto. I nostri incontri di preghiera talvolta soffrono di questo: non c’è abbastanza pulizia di tutto l’elemento umano. L’umiltà nel Rinnovamento è importante quanto è importante l’isolante nell’elettricità. Più alta è la tensione della corrente che passa in un filo, più deve essere spesso ed efficiente l’isolante; altrimenti: corto circuito! Ricordo vagamente le nozioni che ci inculcava, a questo proposito, il mio vecchio professore di fisica al liceo: « L’isolante – diceva – è una materia inerte e vile, ma è assolutamente indispensabile, come lo sono i fili di rame che trasportano la corrente. Questi servono a trasportare la corrente, quello a non disperderla. I progressi che si fanno nella tecnica della conduzione dell’elettricità devono sempre essere accompagnati da un proporzionato progresso nella tecnica dell’isolamento. Altrimenti, corto circuito! ». In particolare, l’umiltà deve risplendere negli animatori e in chi svolge qualche ministero, come me in questo momento. Bisogna che ci lasciamo contestare senza reagire subito come chi si sente offeso, bisogna che ci lasciamo ammonire e correggere dai fratelli; bisogna che ci lasciamo sostituire e, anzi, che preveniamo in ciò i responsabili, senza che debbano dircelo più volte prima che capiamo. Una tentazione possibile nel Rinnovamento è quella di volersi sempre trovare in quel punto preciso dove, secondo noi, « passa » la corrente dello Spirito, essere sempre nell’occhio del ciclone, cioè, fuori metafora, là dove c’è la persona più famosa, il gruppo più dotato… Se il Signore ci fa capire queste cose è perché ci vuole liberare da esse. E’ bene voler essere nel punto dove agisce lo Spirito di Dio; solo che il punto dove agisce lo Spirito non è dove c’è la persona più in vista, perché lo Spirito di Dio è di preferenza nel nascondimento. Se dunque noi vogliamo essere veramente nell’occhio del ciclone dello Spirito, corriamo a occupare l’ultimo posto. Lì, lo Spirito trovò Maria e la riempì della sua potenza. Il Rinnovamento ha bisogno di vocazioni al nascondimento. Chi oggi sente per sé questa vocazione, dica subito il suo « si », insieme con Maria. Bisogna che ci lasciamo tutti strappare a fatica dall’ultimo posto; i fratelli devono incontrare resistenza a tirarci via dal l’ultimo posto, non dal primo. Occorre poi umiltà anche nei rapporti tra noi del Rinnovamento e i fratelli che servono il Signore in altri gruppi e realtà ecclesiali. Mai una mentalità da « eletti », che sciupa tutto. Non sentiamoci « carismatici », nel senso di persone dotate di particolari poteri, di trascinatori, ma solo nel senso di servitori dello Spirito. Abbiamo ricercato la radice dell’umiltà e l’abbiamo scoperta in Dio; abbiamo considerato il suo tronco, i rami; adesso cerchiamo di coglierne i frutti. I frutti dell’umiltà sono tantissimi, e uno più squisito dell’altro, ma a me piace soffermarmi su questi due soli frutti: l’umiltà attira la compiacenza di Dio, l’umiltà ci riconcilia con i fratelli. L’umile è guardato da Dio con occhio di padre, con tenerezza e simpatia. Il profeta Isaia ci fa seguire lo sguardo di Dio che si volge qua e là per l’universo in cerca di un posto dove posarsi, e non lo trova perché tutto è suo, tutto è uscito dalle sue mani; finché trova un « cuore contrito e umiliato » e in esso si riposa (cfr. Is 66.2). E’ scritto: »Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano » (Sal 138,6). Come il Signore, dalla posizione in cui è, non può salire sopra di sé, così, si direbbe, non può guardare sopra di sé; come non può che scendere, così non può che guardare in basso. « Se tu ti innalzi, egli si allontana da te, se invece ti abbassi, egli si inchina verso di te » (S. Agostino, Ser. 21,2). Per questo Maria dice: « Ha guardato l’umiltà della sua serva  » (Lc 1,48). L’altro frutto, dicevo, riguarda i fratelli. L’umiltà conquista gli uomini. à una cosa curiosa: il mondo non coltiva l’umiltà, gli uomini in genere non sono umili; tuttavia sanno riconoscere a prima vista chi è umile e non sanno resistere all’umile. Non c’è difesa, né del Rinnovamento, né della Chiesa, che valga tanto quanto un atto di vera umiltà.

Termino recitando con voi il Salmo 131 che canta proprio i frutti dell’ umiltà: « Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze (la sobrietà!), lo sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia « .

Raniero Cantalamessa – La sobria ebbrezza dello Spirito – Edizioni RnS – Roma

P. CANATALAMESSA QUARESIMA 2011: 1. LE DUE FACCE DELL’AMORE

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PADRE CANTALAMESSA

PRIMA PREDICA DI QUARESIMA – 25 MARZO 2011

1. LE DUE FACCE DELL’AMORE

Con le prediche di questa Quaresima vorrei continuare nello sforzo, iniziato in Avvento, di portare un piccolo contributo in vista della rievangelizzazione dell’occidente secolarizzato che costituisce in questo momento la preoccupazione principale di tutta la Chiesa e in particolare del Santo Padre Benedetto XVI.
C’è un ambito in cui la secolarizzazione agisce in modo particolarmente diffuso e nefasto, ed è l’ambito dell’amore. La secolarizzazione dell’amore consiste nello staccare l’amore umano, in tutte le sue forme, da Dio, riducendolo a qualcosa di puramente “profano”, in cui Dio è “di troppo” e anzi da fastidio.
Ma il tema dell’amore non è importante solo per l’evangelizzazione, cioè nei rapporti con il mondo; lo è anche, e prima di tutto, per la vita interna della Chiesa, per la santificazione dei suoi membri. È la prospettiva in cui si colloca l’enciclica “Deus caritas est” del Santo Padre Benedetto XVI e in cui ci collochiamo anche noi in queste riflessioni.
L’amore soffre di una nefasta separazione non solo nella mentalità del mondo secolarizzato, ma anche, dal versante opposto, tra i credenti e in particolare tra le anime consacrate. Semplificando al massimo, potremmo formulare così la situazione: nel mondo troviamo un eros senza agape; tra i credenti troviamo spesso una agape senza eros.
L’eros senza agape è un amore romantico, più spesso passionale, fino alla violenza. Un amore di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé. Non occorre insistere nella descrizione di questo amore perché si tratta di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, propagandata com’è in maniera martellante da romanzi, film, fiction televisive, internet, riviste cosiddette “rosa”. È quello che il linguaggio comune intende, ormai, con la parola “amore”.
Più utile per noi è capire cosa si intende per agape senza eros. In musica esiste una distinzione che ci può aiutare a farci un’idea: quella tra il jazz caldo e il jazz freddo. Ho letto da qualche parte questa caratterizzazione dei due generi, anche se so che non è l’unica possibile. Il jazz caldo (hot) è il jazz appassionato, ardente, espressivo, fatto di slanci, di sentimenti e quindi di impennate e di improvvisazioni originali. Il jazz freddo (cool) è quello che si ha quando si passa al professionismo: i sentimenti diventano ripetitivi, all’estro si sostituisce la tecnica, alla spontaneità il virtuosismo, si lavora più di testa che di cuore.
Stando a questa distinzione, l’agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore; un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Gli atti di amore rivolti a Dio somigliano, in questo caso, a quelli di certi innamorati sprovveduti che scrivono all’amata lettere d’amore copiate da un apposito prontuario.
Se l’amore mondano è un corpo senz’anima, l’amore religioso così praticato è un’anima senza corpo. L’essere umano non è un angelo, cioè un puro spirito; è anima e corpo sostanzialmente uniti. Tutto quello che fa, compreso amare, deve riflettere questa sua struttura. Se la componente legata all’affettività e al cuore, viene sistematicamente negata o repressa, l’esito sarà duplice: o si tira avanti stancamente, per senso del dovere e per difesa della propria immagine, oppure si cercano compensazioni più o meno lecite, fino ai dolorosissimi casi che ben conosciamo. Al fondo di molte deviazioni morali di anime consacrate, non lo si può ignorare, c’è una distorta e contorta concezione dell’amore.
Abbiamo dunque un duplice motivo e una duplice urgenza di riscoprire l’amore nella sua originaria unità. L’amore vero e integrale è una perla racchiusa dentro due valve che sono l’eros e l’agape. Non si possono separare queste due dimensioni dell’amore senza distruggerlo, come non si possono separare tra loro idrogeno e ossigeno senza privarsi con ciò stesso dell’acqua.
2. La tesi dell’incompatibilità tra i due amori
La riconciliazione più importante tra le due dimensioni dell’amore è quella pratica che avviene nella vita delle persone, ma proprio perché essa sia resa possibile è necessario cominciare con il riconciliare tra loro eros e agape anche teoricamente, nella dottrina. Questo ci consentirà tra l’altro di conoscere finalmente cosa si intende con questi due termini tanto spesso usati e fraintesi.
L’importanza della questione nasce dal fatto che esiste un’opera che ha reso popolare in tutto il mondo cristiano la tesi opposta, quella cioè della inconciliabilità delle due forme di amore. Si tratta del libro del teologo luterano svedese Anders Nygren, intitolato “Eros e Agape[1]. Possiamo riassumere il suo pensiero in questi termini. Eros e agape designano due movimenti opposti: il primo, ascensione e salita dell’uomo a Dio, come al proprio bene e alla propria origine; la seconda, discesa di Dio verso l’uomo nell’incarnazione e nella croce di Cristo: quindi, la salvezza offerta all’uomo senza merito e senza risposta da parte sua, che non sia la sola fede. Il Nuovo Testamento ha fatto una scelta precisa, usando, per esprimere l’amore, il termine agape e rifiutando sistematicamente il termine eros.
San Paolo è quello che con più purezza ha raccolto e formulato questa dottrina dell’amore. Dopo di lui, sempre secondo la tesi di Nygren, tale antitesi radicale è andata persa quasi subito per dar luogo a tentativi di sintesi. Appena il cristianesimo entra in contatto culturale con il mondo greco e la visione platonica, già con Origene, c’è una rivalutazione dell’eros, come movimento ascensionale dell’anima verso il bene, come attrazione universale esercitata dalla bellezza e dal divino. In questa linea, lo Pseudo Dionigi Areopagita scriverà che “Dio è eros[2]” , sostituendo questo termine a quello di agape nella celebre frase di Giovanni (1 Gv 4,10).
In occidente una sintesi analoga è operata da Agostino con la sua dottrina della caritas intesa sì come dottrina dell’amore discendente e gratuito di Dio per l’uomo (nessuno ha parlato della “grazia” in modo più deciso di lui!), ma anche come anelito dell’uomo al bene e a Dio. Sua è l’affermazione: “Ci hai fatto per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]; sua è anche l’immagine dell’amore come di un peso che l’attira l’anima, come per forza di gravità, verso Dio, come al luogo del proprio riposo e del proprio piacere[4]. Tutto questo, per Nygren, inserisce un elemento di amore di sé, del proprio bene, quindi di egoismo, che distrugge la pura gratuità della grazia; è una ricaduta nell’illusione pagana di far consistere la salvezza in una ascesa a Dio, anziché nella gratuita e immotivata discesa di Dio verso di noi.
Prigionieri di questa impossibile sintesi tra eros e agape, tra amore di Dio e amore di sé, restano, per Nygren, san Bernardo quando definisce il grado supremo dell’amore di Dio come un “amare Dio per se stesso” e un “amare se stesso per Dio”[5] , san Bonaventura con il suo ascensionale “Itinerario della mente a Dio”, come pure san Tommaso d’Aquino che definisce l’amore di Dio effuso nel cuore del battezzato (cf. Rom 5,5) come “l’amore con cui Dio ci ama e con cui fa sì che noi amiamo lui” (amor quo ipse nos diligit et quo ipse nos dilectores sui facit”)[6] . Questo infatti verrebbe a dire che l’uomo, amato da Dio, può a sua volta, amare Dio, dargli qualcosa di suo, ciò che distruggerebbe l’assoluta gratuità dell’amore di Dio. La stessa deviazione, secondo Nygren, si ha con la mistica cattolica. L’amore dei mistici, con la sua fortissima carica di eros, altro non è, per lui, che un amore sensuale sublimato, un tentativo di stabilire con Dio un rapporto di presuntuosa reciprocità in amore.
Chi ha rotto l’ambiguità e riportato alla luce la netta antitesi paolina è stato, secondo l’autore, Lutero. Fondando la giustificazione sulla sola fede egli non ha escluso la carità dal momento fondante della vita cristiana, come gli rimprovera la teologia cattolica; ha piuttosto liberato la carità, l’agape, dall’elemento spurio dell’eros. Alla formula della “sola fede”, con esclusione delle opere, corrisponderebbe, in Lutero, la formula della “sola agape”, con esclusione dell’eros.
Non sta a me qui stabilire se l’autore ha interpretato correttamente su questo punto il pensiero di Lutero. Questi – va detto – non ha mai posto il problema in termini di contrasto tra eros e agape, come ha fatto invece tra fede e opere. È significativo, tuttavia, il fatto che anche Karl Barth, in un capitolo della sua “Dommatica ecclesiale”, arriva allo stesso risultato di Nygren di un contrasto insanabile tra eros e agape: “Dove entra in scena l’amore cristiano – egli scrive –, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore e questo conflitto non ha più fine”[7]. Siamo in piena teologia dialettica, la teologia dell’aut-aut, dell’antitesi a tutti i costi.
Il contraccolpo di questa operazione è la radicale mondanizzazione e secolarizzazione dell’eros. Mentre infatti una certa teologia estrometteva l’eros dall’agape, la cultura secolare, da parte sua, era ben felice di fare l’operazione contraria, estromettendo l’agape dall’eros, cioè ogni riferimento a Dio e alla grazia dall’amore umano. Freud è andato fino in fondo in questa linea, riducendo l’amore a eros e l’eros a libido, a pura pulsione sessuale. È lo stadio a cui è ridotto oggi l’amore in molte manifestazioni della vita e della cultura, soprattutto nel mondo dello spettacolo.
Due anni fa mi trovavo a Madrid. Nei giornali non si faceva che parlare di una certa mostra d’arte in atto nella città, intitolata “Le lacrime dell’eros”. Era una mostra di opere artistiche a sfondo erotico – quadri, disegni, sculture – che intendeva mettere in luce l’inscindibile legame che c’è, nell’esperienza dell’uomo moderno, tra eros e thanatos, tra amore e morte. Alla stessa costatazione si arriva, leggendo la raccolta di poesie “I fiori del male di Baudelaire” o “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. L’amore che per sua natura dovrebbe portare alla vita, porta invece ormai alla morte.
3. Ritorno alla sintesi
Se non possiamo cambiare di colpo l’idea d’amore che ha il mondo, possiamo però correggere la visione teologica che –certo senza volerlo – la favorisce e la legittima. È quello che ha fatto in maniera esemplare il Santo Padre Benedetto XVI con l’enciclica “Deus caritas est”. Egli riafferma la sintesi cattolica tradizionale esprimendola in termini moderni. “Eros e agape, vi si legge, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro [...]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni” (nr. 7-8). eros e agape sono uniti alla fonte stessa dell’amore che è Dio: “Egli ama – continua il testo dell’enciclica – e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape” (nr. 9).
Si capisce, così, l’accoglienza insolitamente favorevole che questo documento pontificio ha incontrato anche negli ambienti laici più aperti e responsabili. Essa da una speranza al mondo. Corregge l’immagine di una fede che tocca il mondo in tangente, senza penetrarvi dentro, con l’immagine evangelica del lievito che fa fermentare la massa; sostituisce all’idea di un regno di Dio venuto a “giudicare” il mondo, quella di un regno di Dio venuto a “salvare” il mondo, a cominciare dall’eros che ne è la forza dominante.
Alla visione cattolica, che su questo punto coincide con quella ortodossa, si può apportare, credo, una conferma anche dal punto di vista dell’esegesi. Quelli che sostengono la tesi dell’incompatibilità tra eros e agape si basano sul fatto che il Nuovo Testamento evita accuratamente – e, a quanto pare, volutamente – il termine eros, usando al suo posto sempre e solo agape (a parte qualche raro uso del termine philia, che indica l’amore di amicizia).
Il fatto è vero, ma non sono vere le conclusioni che si traggono da esso. Si suppone che gli autori del NT siano al corrente sia del senso che il termine eros aveva nel linguaggio comune – l’eros cosiddetto “volgare” – sia il senso elevato e filosofico che aveva, per esempio, in Platone, il cosiddetto eros “nobile”. Nell’accezione popolare, eros indicava più o meno quello che indica anche oggi, quando si parla di erotismo o di film erotici, cioè il soddisfacimento dell’istinto sessuale, un degradarsi piuttosto che innalzarsi. Nell’accezione nobile, esso indicava l’amore per la bellezza, la forza che tiene insieme il mondo e spinge tutti gli esseri all’unità, cioè quel movimento di ascesa verso il divino che i teologi dialettici ritengono incompatibile con il movimento di discesa del divino verso l’uomo.
È difficile sostenere che gli autori del Nuovo Testamento, rivolgendosi a persone semplici e di nessuna cultura, intendessero metterli in guardia dall’eros di Platone. Essi evitarono il termine eros per lo stesso motivo per cui un predicatore evita oggi il termine erotico o, se lo usa, lo fa solo in senso negativo. Il motivo è che, allora come adesso, la parola evoca l’amore nella sua espressione più egoistica e sensuale[8]. Il sospetto dei primi cristiani nei confronti dell’eros era ulteriormente aggravato dal ruolo che esso svolgeva negli sfrenati culti dionisiaci.
Appena il cristianesimo entra in contatto e in dialogo con la cultura greca del tempo, cade immediatamente, abbiamo già visto, ogni preclusione nei confronti dell’eros. Esso viene usato spesso, negli autori greci, come sinonimo di agape ed è impiegato per indicare l’amore di Dio per l’uomo, come pure l’amore dell’uomo per Dio, l’amore per le virtù e per ogni cosa bella. Basta ormai, per convincersene, un semplice sguardo al “Lessico Patristico Greco” del Lampe[9]. Quello di Nygren e di Barth è dunque un sistema costruito su una falsa applicazione dell’argomento cosiddetto “ex silentio”.
4. Un eros per i consacrati
Il riscatto dell’eros aiuta anzitutto gli innamorati umani e gli sposi cristiani, mostrando la bellezza e la dignità dell’amore che li unisce. Aiuta i giovani a sperimentare il fascino dell’altro sesso non come qualcosa di torbido, da vivere al riparo da Dio, ma al contrario come un dono del Creatore per la loro gioia, se vissuto nell’ordine da lui voluto. A questa funzione positiva dell’eros sull’amore umano accenna anche il papa nella sua enciclica, quando parla del cammino di purificazione dell’eros che porta dall’attrazione momentanea al “per sempre” del matrimonio (nr. 4-5).
Ma il riscatto dell’eros deve aiutare anche noi consacrati, uomini e donne. Ho accennato all’inizio al pericolo che corrono le anime religiose, che è quello di un amore freddo, che non scende mai dalla mente al cuore. Un sole invernale che illumina ma non riscalda. Se eros significa slancio, desiderio, attrazione, non dobbiamo avere paura dei sentimenti, né tanto meno disprezzarli e reprimerli. Quando si tratta dell’amore di Dio –ha scritto Guglielmo di St. Thierry – il sentimento di affetto (affectio) è anch’esso grazia; non è infatti la natura che ci può infondere un tale sentimento[10].
I salmi sono pieni di questo anelito del cuore a Dio: “A te, Signore, innalzo l’anima mia…”, “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”.”: “Presta dunque attenzione -dice l’autore della “Nube della non conoscenza – a questo meraviglioso lavoro della grazia nella tua anima. Esso non è altro che un impulso improvviso che sorge senza alcun preavviso e punta direttamente a Dio, come una scintilla che si sprigiona dal fuoco…Colpisci questa fitta nube della non conoscenza con la freccia acuminata del desiderio d’amore e non muoverti di lì, qualunque cosa capiti”[11]. È sufficiente, per fare ciò, un pensiero, un moto del cuore, una giaculatoria.
Ma tutto ciò non ci basta, e Dio lo sa meglio di noi. Noi siamo creature, viviamo nel tempo e in un corpo; abbiamo bisogno di uno schermo su cui proiettare il nostro amore che non sia soltanto “la nube della non conoscenza”, cioè il velo di oscurità dietro cui si nasconde il Dio che nessuno ha mai visto e che abita in una luce inaccessibile…
La risposta che si da a questa domanda, la conosciamo bene: proprio per questo Dio ci ha dato il prossimo da amare! “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi…Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 12 20). Ma dobbiamo stare attenti a non saltare un anello decisivo. Prima del fratello che si vede c’è un altro che pure si vede e si tocca: c’è il Dio fatto carne, c’è Gesù Cristo! Tra Dio e il prossimo c’è ormai il Verbo fatto carne che ha riunito i due estremi in una sola persona. È in lui ormai che trova il suo fondamento lo stesso amore del prossimo: “L’avete fatto a me”.
Cosa significa tutto questo per l’amore di Dio? Che l’oggetto primario del nostro eros, della nostra ricerca, desiderio, attrazione, passione, deve essere il Cristo. “Al Salvatore è preordinato l’amore umano fin dal principio, come a suo modello e fine, quasi uno scrigno così grande e così largo da poter accogliere Dio [...]. Il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità e tutto ciò che ispira amore”[12]. Alta risuona in tutta la spiritualità monastica la massima di san Benedetto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo”.
Questo non significa restringere l’orizzonte dell’amore cristiano da Dio a Cristo; significa amare Dio nella maniera in cui egli vuole essere amato. “Il Padre vi ama perché voi mi amate” (Gv 16, 27). Non si tratta di un amore mediato, quasi per procura, per cui chi ama Gesù “è come se” amasse il Padre. No, Gesù è un mediatore immediato; amando lui si ama, ipso facto, anche il Padre. “Chi vede me, vede il Padre”, chi ama me ama il Padre.
È vero che neppure Cristo si vede, ma c’è; è risorto, è vivo, ci è accanto, più realmente di quanto lo sposo più innamorato sia accanto alla sposa. È qui il punto cruciale: pensare a Cristo non come a una persona del passato, ma come il Signore risorto e vivente, con cui posso parlare, che posso anche baciare se lo voglio, sicuro che il mio bacio non termina sulla carta o sul legno di un crocifisso, ma su un volto e su delle labbra di carne viva (anche se spiritualizzata), felici di raccogliere il mio bacio.
La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipende dalla qualità del nostro amore per Cristo. Solo esso è capace di difendere dagli sbandamenti del cuore. Gesù è l’uomo perfetto; in lui si trovano, a un grado infinitamente superiore, tutte quelle qualità e attenzioni che un uomo cerca in una donna e una donna nell’uomo. Il suo amore non ci sottrae necessariamente al richiamo delle creature e in particolare all’attrazione dell’altro sesso (questa fa parte della nostra natura che Dio stesso ha creato e che non vuole distruggere); ci da però la forza di vincere queste attrazioni con una attrazione più forte. “Casto –scrive san Giovanni Climaco – è colui che scaccia l’eros con l’Eros”[13].
Distrugge forse, tutto questo, la gratuità dell’agape, pretendendo di dare a Dio qualcosa in cambio del suo cuore? Annulla la grazia, come pensa Nygren? Nient’affatto, anzi la esalta. Che cosa infatti, in questo modo, diamo a Dio se non quello che abbiamo ricevuto da lui? “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1 Gv 4, 19). L’amore che diamo a Cristo è il suo stesso amore per noi che gli rimandiamo, come fa l’eco con la voce.
Dov’è allora la novità e la bellezza di questo amore che chiamiamo eros? L’eco rimanda a Dio il suo stesso amore, ma arricchito, colorato o profumato della nostra libertà. Ed è tutto quello che lui vuole. La nostra libertà lo ripaga di tutto. Non solo, ma cosa inaudita, scrive il Cabasilas, “ricevendo da noi il dono dell’amore in cambio di tutto quello che ci ha dato, si ritiene nostro debitore”[14]. La tesi che contrappone eros e agape si basa su un’altra ben nota contrapposizione, quella tra grazia e libertà, e anzi sulla negazione stessa della libertà nell’uomo decaduto (sul “servo arbitrio”).
Io ho provato a immaginare, Venerabili Padri e fratelli, cosa direbbe Gesù risorto, se, come faceva nella vita terrena quando entrava di sabato in una sinagoga, adesso venisse a sedersi qui al posto mio e ci spiegasse di persona qual è l’amore che egli desidera da noi. Voglio condividere con voi, con semplicità, quello che penso ci direbbe; ci servirà per fare il nostro esame di coscienza sull’amore:
L’amore ardente:
E’ mettere me sempre al primo posto.
E’ cercare di piacermi in ogni momento.
E’ confrontare i tuoi desideri con il mio desiderio.
E’ vivere davanti a me come amico, confidente, sposo, ed esserne felice.
E’ essere inquieto se pensi di stare un po’ lontano da me.
E’ essere pieno di felicità quando sono con te.
E’ essere disposto a grandi sacrifici pur di non perdermi.
E’ preferire di vivere povero e sconosciuto con me, piuttosto che ricco e famoso senza di me.
E’ parlarmi come all’amico più caro in ogni momento.
E’ affidarti a me guardando al tuo futuro.
E’ desiderare perderti in me come meta della tua esistenza.
Se sembra anche voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, come sembra a me, di essere ancora lontabi da questo traguardo, non ci scoraggiamo. Abbiamo uno che può aiutarci a raggiungerlo se glielo chiediamo. Ripetiamo con fede allo Spirito Santo: Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium et tui amoris in eis ignem accende: Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore.
NOTE
[1] Edizione originale svedese, Stoccolma 1930, trad. ital. Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971
[2] Pseudo- Dionigi Areopagita, I nomi divini, IV,12 (PG, 3, 709 ss.)
[3] S. Agostino, Confessioni I, 1.
[4] Commento al vangelo di Giovanni, 26, 4-5.
[5] Cf. S. Bernardo, De diligendo Deo, IX,26 –X,27.
[6] S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Lettera ai Romani, cap. V, lez.1, n. 392-293; cf. S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 9, 9.
[7] K. Barth, Dommatica ecclesiale, IV, 2, 832-852; trad. ital. K. Barth, Dommatica ecclesiale, antologia a cura di H. Gollwitzer, Bologna, Il Mulino 1968, pp. 199-225.
[8] Il senso che i primi cristiani alla parola eros si deduce chiaramente dal noto testo di S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, 7,2: “Il mio amore (eros) è stato crocifisso e non c’è in me fuoco di passione…non mi attirano il nutrimento di corruzione e i piaceri di questa vita”. “Il mio eros” non indica qui Gesù crocifisso, ma “l’amore di me stesso” , l’attaccamento ai piaceri terreni, nella linea del paolino “Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io” (Gal 2, 19 s.).
[9] Cf. G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, pp.550.
[10] Guglielmo di St. Thierry, Meditazioni, XII, 29 (SCh 324, p. 210).
[11] Anonimo, La nube della non conoscenza, Ed. Áncora, Milano, 1981, pp. 136.140.
[12] N. Cabasilas, Vita in Cristo, II,9 (PG 88, 560-561)
[13] S. Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XV,98 (PG 88,880).
[14] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 4.
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MARIA MADRE E MODELLO DEL SACERDOTE

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MARIA MADRE E MODELLO DEL SACERDOTE

(Padre Cantalamessa, 18 dicembre 2009, Terza Predica di Avvento)

Nella lettera a tutti i sacerdoti in occasione del Giovedì Santo del 1979, la prima della serie del suo pontificato, Giovanni Paolo II scriveva: “C’è, nel nostro sacerdozio, ministeriale la dimensione stupenda e penetrante della vicinanza della madre di Cristo”. In quest’ultima meditazione di Avvento, vorremmo riflettere proprio su questa vicinanza tra Maria e il sacerdote.
Di Maria non si parla molto spesso nel Nuovo Testamento. Tuttavia, se ci facciamo caso, notiamo che ella non è assente in nessuno dei tre momenti costitutivi del mistero cristiano che sono: l’Incarnazione, il Mistero pasquale, e la Pentecoste. Maria fu presente nell’Incarnazione perché essa è avvenuta in lei; fu presente nel Mistero pasquale, perché è scritto che: “ presso la croce di Gesù stava Maria sua madre” (cf Gv 19, 25); fu presente nella Pentecoste, perché è scritto che gli apostoli erano “ assidui e concordi nella preghiera con Maria, la madre di Gesù “ (cf At 1, 14).
Ognuna di queste tre presenze ci rivela qualcosa della misteriosa vicinanza tra Maria e il sacerdote, ma trovandoci nell’imminenza del Natale, vorrei limitarmi alla prima di esse, a quello che Maria dice del sacerdote e al sacerdote nel mistero dell’incarnazione.
1. Quale rapporto tra Maria e il sacerdote?
Vorrei anzitutto accennare alla questione del titolo di sacerdote attribuito alla Vergine nella tradizione. Uno scrittore della fine del V secolo chiama Maria “Vergine e allo stesso tempo sacerdote e altare che ci ha dato Cristo pane del cielo per la remissione dei peccati”[1]. Dopo di lui, sono frequenti i riferimenti al tema di Maria sacerdote che però divenne oggetto di sviluppi teologici solo nel secolo XVII, nella scuola francese di San Sulpizio. In essa il sacerdozio di Maria non viene messo tanto in rapporto con il sacerdozio ministeriale quanto con quello di Cristo.
Alla fine del secolo XIX si diffuse una vera e propria devozione alla Vergine – sacerdote e san Pio X accordò anche una indulgenza alla relativa pratica. Quando però si intravide il pericolo di confondere il sacerdozio di Maria con quello ministeriale, il magistero della Chiesa divenne reticente e due interventi del Santo Ufficio posero praticamente fine a tale devozione[2].
Dopo il concilio si continua a parlare del sacerdozio di Maria, collegandolo però non al sacerdozio ministeriale, e neppure a quello supremo di Cristo, ma al sacerdozio universale dei fedeli: ella possederebbe a titolo personale, come figura e primizia della Chiesa, quel “sacerdozio regale” (1 Pt 2,9) che tutti i battezzati posseggono a titolo collettivo.
Che possiamo ritenere di questa lunga tradizione che associa Maria al sacerdote e che senso dare alla “vicinanza” tra essi di cui parlava Giovanni Paolo II? Resta, a me pare, la analogia o la corrispondenza dei piani, all’interno del mistero della salvezza. Quello che Maria è stata sul piano fisico e della realtà storica, una volta per tutte, il sacerdote lo è ogni volta di nuovo sul piano della realtà sacramentale.
In questo senso si possono intendere le parole di Paolo VI: “Quali relazioni e quali distinzioni vi sono fra la maternità di Maria, resa universale dalla dignità e dalla carità della posizione assegnatale da Dio nel piano della Redenzione, e il sacerdozio apostolico, costituito dal Signore per essere strumento di comunicazione salvifica fra Dio e gli uomini? Maria dà Cristo all’umanità; e anche il Sacerdozio dà Cristo all’umanità, ma in modo diverso, com’è chiaro; Maria mediante l’Incarnazione e mediante l’effusione della grazia, di cui Dio l’ha riempita; il Sacerdozio mediante i poteri dell’ordine sacro”[3].
L’analogia tra Maria e il sacerdote si può esprimere così. Maria, per opera dello Spirito Santo, ha concepito Cristo e, dopo averlo nutrito e portato nel suo seno, lo ha dato alla luce a Betlemme; il sacerdote, unto e consacrato di Spirito Santo nell’ordinazione, è chiamato anche lui a riempirsi di Cristo per poi darlo alla luce e farlo nascere nelle anime mediante l’annuncio della parola, l’amministrazione dei sacramenti.
In questo senso il rapporto tra Maria e il sacerdote ha una lunga tradizione dietro di sé, molto più autorevole di quella di Maria – sacerdote. Riprendendo un pensiero di Agostino[4] il Con cilio Vaticano II scrive: “ La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio“ [5].
Il battistero, dicevano i Padri, è il seno in cui la Chiesa dà alla luce i suoi figli e la parola di Dio è il latte puro con cui li nutre: “O prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti, uno anche il Verbo di tutti, uno e identico dappertutto è anche lo Spirito Santo e una sola è la Vergine Madre: così io amo chiamare la Chiesa. Pura come vergine, amabile come madre, chiamando a raccolta i suoi figli, li nutre con quel sacro latte che è la parola destinata ai bambini appena nati (cf 1 Pt 2, 2)”[6].
Il beato Isacco della Stella, in una pagina che abbiamo letto nell’ufficio delle letture di sabato scorso, ha fatto una sintesi di questa tradizione: “ Maria e la Chiesa, scrive, sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L’una e l’altra madre, l’una e l’altra vergine. L’una e l’al tra concepisce senza concupiscenza dallo stesso Spirito; l’una e l’altra dà a Dio Padre una prole senza peccato. Quella, senza al cun peccato, partorì al corpo il Capo; questa, nella remissione di tutti i peccati, partorisce il corpo al Capo”[7].
Quello che in questi testi si dice della Chiesa nel suo insieme, come sacramento di salvezza, va applicato in modo speciale ai sacerdoti, perché, ministerialmente, sono essi che, in concreto, generano Cristo nelle anime mediante la parola e i sacramenti.
2. Maria credette
Fin qui l’analogia tra Maria e il sacerdote sul piano, per così dire, oggettivo o della grazia. Esiste però un’analogia anche sul piano soggettivo, cioè tra il contributo personale che la Vergine ha dato alla grazia dell’elezione e il contributo che il sacerdote è chiamato a dare alla grazia dell’ordinazione. Nessuno dei due è un canale inerte che lascia passare la grazia senza nulla apportarvi di proprio.
Tertulliano parla di una versione del docetismo gnostico, secondo cui Gesù era nato, sì, da Maria, ma non concepito in lei e da lei; il corpo di Cristo, venuto dal cielo, sarebbe passato attraverso la Vergine, ma non generato in lei e da lei; Maria sarebbe stata per Gesù una via, non una madre, e Gesù per Maria un ospite, non un figlio[8]. Per non ripetere questa forma di docetismo nella sua vita, il sacerdote non può limitarsi a trasmette agli altri un Cristo imparato dai libri che non è diventato prima carne della sua carne e sangue del suo sangue. Come Maria (l’immagine è di San Bernardo) egli deve essere un serbatoio che fa traboccare al di fuori ciò di cui è pieno dentro, non un canale che si limita a far passare l’acqua senza nulla trattenerne.
L’apporto personale, comune a Maria e al sacerdote, si riassume nella fede. Maria, scrive Agostino, “per fede concepì e per fede partorì” (fide concepit, fide peperit)[9]; anche il sacerdote per fede porta Cristo nel suo cuore e mediante la fede lo comunica agli altri. Sarà il centro della meditazione di oggi: cosa il sacerdote può imparare dalla fede di Maria.
Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, “piena di Spirito Santo “, esclamò: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc l, 45). Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferi sce alla risposta di Maria all’angelo: “Eccomi, sono la serva del Si gnore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38).
A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e per fino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quel lo che ogni fanciulla ebrea sognava di essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e carnale. Maria viene a tro varsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò che è av venuto in lei? Chi la crederà quando dirà che il bimbo che por ta nel grembo è “opera dello Spirito Santo “? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.
Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingres so della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s). Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò, il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio reale!
Carlo Carretto, nel suo li bretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragaz za. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: “E stata sgozzata “. Si era scoperta incin ta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazareth, agli ammiccamenti, capì la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede [10].
Dio non strappa mai alle creature dei consensi, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro. Lo vediamo in tutte le grandi chia mate di Dio. A Geremia preannuncia: “Ti muoveranno guerra” (Ger l, 19) e di Saulo, dice ad Anania: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome2 (At 9, 16). Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, el la ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sa rebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.
Uno scrittore moderno, Erri De Luca, ha descritto in modo poetico questo presentimento di Maria al momento della nascita di Gesù. Ella è sola nella grotta, Giuseppe veglia all’esterno (per legge nessun uomo può assistere al parto); ha appena dato alla luce il figlio, quando delle strane associazioni le balenano nella mente: “Perché, figlio mio, nasci proprio qui a Bet-Lehem, Casa del Pane? E perché dobbiamo chiamarti Ieshu?… Fa’ che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui”. La madre presagisce che quel figlio le sarà tolto, allora ripete tra sé: “Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio. Voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lehem è solamente mio”. E, così dicendo, se lo porta al seno per allattarlo[11].
Maria è l’unica ad aver creduto “in situazione di contemporaneità”, cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia 8. Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con “fiat “ o con “si faccia “, nell’originale, è all’ottativo (génoito), un modo verbale che in greco si usa per esprimere desiderio e perfino gioiosa impazienza che una certa cosa avvenga. Come se la Vergine dicesse: “Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole “. Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse “fiat” perché non parlava latino e non disse neppure “génoito “ che è parola greca. Che cosa disse allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più ‘ da vicino a questa espressione? Quando voleva dire a Dio “sì, così sia “, un ebreo diceva “amen! “ Se è lecito cer care di risalire, con pia riflessione, alla ipsissima vox, alla parola esatta, uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que sta deve essere stata proprio la parola “amen”. Ricordiamo i salmi che nella Volgata latina terminavano con l’espressione: “fiat, fiat”?; nel testo greco dei LXX, a quel punto, c’è “genoito, genoito” e nell’originale ebraico conosciuto da Maria c’è “amen, amen”.
Amen è parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza; era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Con l’“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è questa: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro “amen “ di fede pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). Anche Maria, dopo il Figlio, è l’ amen a Dio fatto persona.
La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libe ro anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà. E questa la vera gran dezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cri sto stesso. “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte” (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo. La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Eli sabetta la proclama beata perché ha creduto; la donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: “Beati piuttosto – risponde Gesù – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”. Egli aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la grandezza personale di sua Madre. Chi è infatti che “custodiva“ le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che “custodiva tutte le parole nel suo cuore “? (cf Lc 2, 19.51).
Non dovremmo concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna. Quante volte, in seguito all’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia! Il Concilio Vaticano II ci ha fatto un grande dono, afferman do che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha “progredito” nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa [12].
3. Crediamo anche noi!
Passiamo ora da Maria al sacerdote. Sant’Agostino ha scritto: “Maria credette e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi”[13]. Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono a Dio.
Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo tutto speciale deve farlo il sacerdote. “Il mio giusto – dice Dio – vivrà di fede “ (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote. Egli è l’uomo della fede. La fede è ciò che determina, per così dire, il suo “peso specifico” e l’efficacia del suo ministero.
Ciò che i fedeli colgono immedia tamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci crede “, se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cer ca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al pas so coi tempi, mentre, in realtà, è un “bronzo che tintinna e un cembalo squillante”.
Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subi to la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma trovarsi davanti a uno che crede veramente con tutto se stesso. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.
A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un pove ro ragazzo, ma senza riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in di sparte e gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?” E Gesù rispose: “Per la vostra poca fede” (Mi 17, 19-20).
San Bonaventura racconta co me un giorno, mentre era sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l’anima devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell’Al­tissimo, può spiritualmente concepire per fede il benedetto Verbo del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa dre nel suo tempio. Scrisse allora un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù bambino”, per mostrare come il cristiano può rivivere in sé ognuno di questi cinque momenti della vita di Gesù. Mi limito a ciò che san Bonaventura dice delle due prime feste, la concezione e la nascita, applicandolo in particolare al sacerdote.
Il sacerdote conce pisce Gesù quando, scontento della vita che conduce, stimolato da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondato spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova.
Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore del sacerdote, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen to, chiesto opportuno consiglio, invocato l’aiuto di Dio, mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.
Questo proposito di vi ta nuova deve, però, tradursi subito, senza rinvii, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. Sarà uno dei tanti aborti spirituali di cui è pieno purtroppo il mondo delle anime.
Ci sono due brevissime parole che Maria pronunciò al momento dell’Annunciazione e il sacerdote pronuncia nel momento della sua ordinazione: “Eccomi!” e “Amen”, o “Sì”. Ricordo il momento in cui ero davanti all’altare per l’ordinazione con una decina di miei compagni. A un certo punto venne pronunciato il mio nome e io risposi emozionatissimo: “Eccomi!”
Nel corso del rito, ci furono rivolte alcune domande: “Vuoi esercitare il ministero sacerdotale per tutta la vita?”, “Vuoi adempiere degnamente e fedelmente il ministero della parola nella predicazione?”, “Vuoi celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo?”. Ad ogni domanda rispondemmo: “Sì, lo voglio!”
Il rinnovamento spirituale del sacerdozio cattolico, auspicato dal Santo Padre, sarà proporzionato allo slancio con cui ognuno di noi, sacerdoti o vescovi della Chiesa, saremo capaci di pronunciare di nuovo un gioioso: “Eccomi!” e “Sì, lo voglio!”, facendo rivivere l’unzione ricevuta nell’ordinazione. Gesù entrò nel mondo dicendo: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà!” (Eb 10,7). Noi lo accogliamo, in questo Natale, con le stesse parole: “Ecco, io vengo, Signore Gesù, a fare la tua volontà!”.
[1] Ps. Epifanio, Omelia in lode della Vergine (PG 43, 497)
[2] Cf. su tutta la questione, R. Laurentin, Maria – ecclesia – sacerdotium, Parigini 1952; art. “Sacerdoti” in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline 1985, 1231-1242.
[3] Paolo VI, Udienza generale del 7, Ott. 1964.
[4] S. Agostino, Discorsi 72 A, 8 (Misc. Agost. I, p.164).
[5] Lumen gentium, 64.
[6] Clemente Alessandrino, Pedagogo, I, 6.
[7] B. Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863).
[8] Tertulliano, De carne Christi, 20-21 (CCL 2, 910 ss.).
[9] S. Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38,1074).
[10] C. Carretto, Beata te che hai creduto, Ed. Paoline 1986, pp. 9 ss.
[11] E. De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 66 ss.
[12] Lumen gentium, 58.
[13] S. Agostino, Discorsi, 215,4 (PL 38, 1074).

Publié dans:Maria Vergine, Padre Cantalamessa |on 25 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

LO SPIRITO SANTO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA (P. Cantalamessa)

http://www.zammerumaskil.com/catechesi/spirito-santo/lo-spirito-santo-nella-storia-della-salvezza.html

LO SPIRITO SANTO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 

riflessione omiletica di P. Raniero Cantalamessa per l’anno B (2007)

Letture:

Atti 2, 1-11

1 Corinti 12, 3b-7.12-13         

Giovanni 20, 19-23 

Gli Atti degli apostoli narrano un curioso episodio: giungendo a Efeso, Paolo trovò alcuni discepoli e disse loro: Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede? Gli risposero: Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo (Atti, 19, 1s.).
Se rivolgessimo oggi la stessa domanda a tanti cri­stiani, riceveremmo forse una risposta del genere: sanno, sì, che c’è uno Spirito Santo, ma è tutto quello che sanno di lui; per il resto, ignorano chi è, in realtà, lo Spirito Santo, e che cosa rappresenta per la loro vita.
Oggi ci si offre un’occasione unica, nel corso dell’anno liturgico, per fare questa scoperta essenziale per la no­stra fede. Ci proponiamo perciò, con l’aiuto dello stesso Spirito Santo, di ripercorrere da capo l’intera storia della salvezza alla ricerca della sua presenza dolce e silenziosa.
 E stato detto, con parola terribile ma vera, che la violenza è la levatrice della storia umana, perché non c’è cambiamento profondo che, di fatto, non sia stato se­gnato da guerre, rivoluzioni e sangue. Non così nell’altra storia, quella della salvezza, che ha per protagonista Dio:
la sua levatrice è lo Spirito Santo, cioè la forza e la dol­cezza dell’amore.
Ogni nuovo inizio, ogni salto di qualità, nello svol­gersi del piano divino della salvezza, rivela uno speciale intervento dello Spirito di Dio. I Padri della Chiesa (spe­cialmente i greci) avevano colto perfettamente questi punti luminosi che attraversano la Bibbia, come una specie di filo rosso, fino a diventare luce di meriggio nel giorno di Pentecoste. Pensi alla creazione?, esclama san Basilio; essa fu operata nello Spirito Santo che consolidava e ornava i cieli. Pensi alla venuta di Cristo? Lo Spirito l’ha prepa­rata e poi, nella pienezza dei tempi, l’ha realizzata discen­dendo su Maria. Pensi alla formazione della Chiesa? Essa è opera dello Spirito Santo. Pensi alla parusia? Lo Spirito non sarà assente neppure allora, quando i morti sorgeranno dalla terra e si rivelerà dal cielo il nostro Salvatore (san Basilio, De Spiritu Sancto, 16 e 19).
Cerchiamo di approfondire questa grandiosa visione, facendola scorrere lentamente davanti ai nostri occhi. Ge­sù, l’indomani della Pasqua, ripercorreva la Scrittura per spiegare ai discepoli tutto ciò che si riferiva a lui (Lc. 24, 27); noi, nel giorno di Pentecoste, ripercorriamo la stessa Scrittura per scoprire in essa tutto ciò che si riferisce allo Spirito Santo.
 In principio – narra la Bibbia – Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso (Gen. 1, 1s.). Era il caos. Ma ecco che « lo spirito di Dio » (qualunque cosa esso designi in que­sto punto) venne sopra di esso e fu la luce, la separazione, l’ordine, l’armonia; ogni cosa assunse il suo vero aspetto e il suo posto: le acque si raccolsero nel mare, le erbe e i semi germogliarono sulla terra, gli astri cominciarono a brillare nel cielo e Dio si compiacque della sua creazione (cf. Gen. 1, 25).
Quando questo mondo fu pronto per accogliere la vita (« sei giorni » dopo, nel linguaggio figurato della Bib­bia; milioni o miliardi di anni dopo, secondo il calcolo della scienza), Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine­  (Gen. 1, 26). Egli plasmò l’uomo con il fango della terra: un modo di esprimersi che vuol dire: Dio preparò, con le leggi  dell’evoluzione che egli stesso aveva racchiuso nella materia, un vivente animale diverso da tutti gli altri, l’uomo. Diverso dagli altri, ma ancora animale, cioè crea­tura guidata da istinti e non illuminata dentro dalla luce della ragione. Ma ecco che interviene di nuovo quella mi­steriosa realtà che aveva aleggiato sulle acque primordiali – lo spirito di Dio – e l’ominide diventa uomo, la crea­tura animale diventa essere spirituale, dotato – anche se all’inizio solo embrionalmente – di ragione e di libertà. Dio soffiò nelle sue narici uno spirito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Gen. 2, 7). Un essere capace di dialogare con il suo Creatore, di essere suo amico, ma anche di ribellarsi a lui.
 La scelta dell’uomo si portò, sciaguratamente, su questa seconda possibilità: peccò. Si produsse allora una frattura profonda, come una dissonanza che creò incomunicabilità tra Dio e l’uomo; un inquinamento che, col volgere dei secoli, cambiò il volto dell’umanità e della terra; da oggetto di compiacenza essa divenne motivo di disgusto per Dio (cf. Gen. 6, 7: Sono pentito di averli fatti).
Dio però non si arrese al male; nella sua misericor­dia, egli decise, a questo punto (ma in lui non c’è un pri­ma e un dopo!), di riplasmare la sua creazione, come si rifonde una statua di bronzo, corrosa e deformata dal tempo, per ritrarne una nuova dai lineamenti originali ri­portati alla luce. Per questa creazione e umanità nuova, egli stabili un capostipite nuovo, un « nuovo Adamo », cioè lo stesso Figlio suo Gesù Cristo. Lo trasse dalla carne della Vergine Maria – come all’inizio aveva tratto Adamo dalla vergine terra – per opera dello Spirito Santo (Mt. 1, 18). Lo Spirito Santo segna anche qui l’inizio d’una fase nuova nella storia della salvezza (cf. Lc. 1, 35).
Tutta la vita di Gesù – non soltanto ‘il suo inizio -, si svolge sotto il segno dello Spirito Santo; questi è colui
che guida tutte le sue scelte e opera i prodigi che egli compie sui malati, sugli oppressi dal demonio, sui pecca­tori. Nel battesimo del Giordano egli fu consacrato in Spirito Santo e potenza (Atti, 10, 38), per portare la buona novella ai poveri. Gesù « è condotto » dallo Spirito Santo e, nello stesso tempo, rivela lo Spirito Santo. Sulla sua bocca, lo Spirito comincia ad acquistare tratti pre­cisi; non è solo una forza di Dio, ma anche una « per­sona » in Dio; di lui infatti dice che sarà inviato ai disce­poli, che condannerà il mondo, che condurrà i discepoli alla verità integrale, che renderà testimonianza a lui, che parlerà in loro (cf. Gv. 14-16); e Paolo aggiunge che pre­gherà in loro con gemiti ineffabili (cf. Rom. 8, 26).
 Terminata la sua opera terrena, Gesù è glorificato alla destra del Padre. Sulla terra ha lasciato la sua Chiesa; sono undici apostoli e alcune decine di discepoli; vivono nascosti e impauriti, senza sapere cosa devono fare e cosa significhi il comando di andare in tutto il mondo a predi­care il Vangelo. E ancora, per così’ dire, un corpo inani­mato e inerte, come quello del primo uomo, quando Dio non aveva ancora insufflato in esso lo spirito di vita.
Ma ecco che, improvvisamente, nel giorno di Pente­coste, si rinnova il prodigio che ha segnato tutti i grandi inizi della storia e cioè la nascita del mondo, quella del­l’uomo e quella di Cristo (l’analogia con la creazione del primo uomo è visibile nel racconto di Giovanni: Alitò su di loro e disse: « Ricevete lo Spirito Santo »: Gv. 20, 22). Mentre erano riuniti con Maria nel Cenacolo, fece ir­ruzione su di essi lo Spirito Santo e il « piccolo gregge »divenne la Chiesa, cioè corpo di Cristo, animato dalla stessa realtà che, nell’Incarnazione, aveva animato il suo Capo. La Pentecoste è il natale della Chiesa, come il Natale era stato la pentecoste di Gesù! La presenza di Maria nel Cena­colo serve proprio a richiamare questo legame tra la na­scita di Gesù e quella della Chiesa; colei che era stata la madre di Gesù, ora diventa anche « madre della Chiesa ».
Era finalmente compiuta quella «cosa nuova » che da tanto tempo Dio andava annunziando agli uomini (cf. Is 43, 19). Per questo la liturgia odierna, nel Salmo responsoriale, applica all’evento della Pentecoste quelle vibranti parole che erano servite a cantare il prodigio della creazione: Mandi il tuo Spirito, sono creati e rinnovi la faccia  della terra.
 Il segno più visibile che qualcosa di nuovo è avvenuto sulla terra è la riunificazione del linguaggio umano: gli apostoli, usciti fuori, parlano una misteriosa lingua nuova; meglio, parlano con una potenza nuova la loro lingua  abituale, cosicché chiunque li ascolta – parti, elamiti, greci o romani – li comprende come se parlassero la sua lingua e si stupisce. E il segno della ritrovata unità del genere umano. La Pentecoste è l’antibabele; ribellandosi a Dio gli uomini avevano finito per non comprendersi più nem­meno tra di loro; la terra era diventata « l’aiuola che ci fa tanto feroci » (Dante Alighieri). Ora la dissonanza è ricomposta; le genti – dice sant’Ireneo – formano un mirabile coro per celebrare nelle varie lingue la lode di Dio, mentre lo Spirito riconduce all’unità le disperse tribù’ e offre al Padre le primizie di tutti i popoli (Adv. Haer.III, 17, 2).
Nella Chiesa, gli uomini devono riscoprirsi fratelli, devono di nuovo poter comunicare tra di loro con una stessa lingua che è la lingua dell’amore insegnata dallo Spi­rito Santo; meglio: « impressa nei cuori » dallo Spirito Santo (Rom. 5, 5): « Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo; egli che tutto unisce conosce ogni linguaggio »(Antif. di inizio).
Il prodigio operatosi nel giorno di Pentecoste continua anche oggi. « Se qualcuno – scriveva un antico autore – ti dirà: Hai ricevuto lo Spirito Santo, per qual motivo al­lora non parli in tutte le lingue?, devi rispondere: Certo che parlo in tutte le lingue, sono infatti inserito in quel corpo di Cristo che è la Chiesa che parla tutte le lingue » (Autore del VI sec. in PL 65, 743s.). Anche oggi, la Chiesa parla (e comprende) le lingue di tutti i popoli; essa capisce e valorizza la cultura e il patrimonio di ogni razza e di ogni popolo e ogni popolo capisce il suo annun­cio come proprio, come destinato a sé.
Nulla però è irreversibile e definitivo finché siamo in questa vita; di irreversibile c’è solo la promessa di Dio, mentre la libertà dell’uomo non fa che zoppicare. L’anti­ca tentazione di Babele è sempre in agguato; riappare ogni volta che c’è un rigurgito di orgoglio (« Facciamo qualcosa che arrivi fino al cielo », cioè che sostituisca e renda inutile Dio); ogni volta che l’odio intorbida il linguaggio umano e affida il suo freddo messaggio di morte al linguaggio ter­rificante delle bombe e delle rivoltelle. Noi ne siamo i testimoni giustamente atterriti in questi anni di violenza; abbiamo fatto, a nostre spese, l’esperienza di quanto siano vere quelle parole del Salmo responsoriale di oggi: Se togli il tuo Spirito muoiono e ritornano nella loro polvere.
 Tanto più, perciò, ci stringeremo oggi intorno alla Chiesa per invocare, coralmente, su di noi e sul mondo intero lo Spirito Santo che è Spirito di riconciliazione, di unità e di pace; Spirito che, nel Battesimo, ha segnato l’inizio della nostra personale storia di salvezza e che ora può segnare, se lo vogliamo veramente, l’inizio di una vita nuova in Cristo e nella Chiesa; diciamo con fervore:
«Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore » (Acclamazione al Vangelo).

Publié dans:Padre Cantalamessa |on 26 mai, 2012 |Pas de commentaires »
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