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Le antiche chiese orientali
Filippo Carcione
1. Oriente cristiano: limiti della definizione tradizionale
Con la mobilità dei gruppi umani e la globalizzazione contemporanea dare una definizione aggiornata di Oriente cristiano è operazione alquanto difficile. Ancora non passano riformulazioni esaustive e la pubblica opinione continua a intendersi, pensando unicamente al complesso delle cristianità, il cui centro amministrativo o spirituale ab antiquo si trova generalmente nei territori che costituirono la pars orientalis dell’impero romano, e in qualche caso anche oltre i confini di quest’area (Mesopotamia persiana, Armenia, Georgia, Etiopia, Malabar indiano).
Il concetto tradizionale resta, dunque, agevole punto di partenza, benché sia meramente storico-geografico ed evochi una visione etnocentrica del mondo latino avente la ripartizione dioclezianea della struttura imperiale come quadro diacronico di riferimento (293) e l’area mediterranea come osservatorio privilegiato. Trattasi di uno schema che, precisatosi dopo l’evoluzione istituzionale prodotta da Costantino con il trasferimento della capitale sulle rive del Bosforo (324-330), non si è mai affrancato dai due pilastri ideologici su cui poggiava l’impianto classico: 1) il centralismo politico di Roma; 2) la leadership culturale dell’ellenismo. La mentalità del mondo antico rimbalzò nelle comunità paleocristiane e fu determinante nell’architettura dell’universo medievale.
Il primato petrino, genuino servizio del vescovo romano alla trasmissione della fede e all’unità delle chiese, fu spesso strumentalizzato dalle potenze occidentali come garante di un’egemonia planetaria segnata dal progetto divino e adattata con funambolismi ermeneutici ai più crudi interessi; l’Oriente venne relegato a gregario subalterno, cui spettava un mero ruolo esecutivo in un rigido assetto gerarchico offuscante lo spirito di comunione. La dialettica teologica e il pluralismo liturgico furono soffocati d’autorità, anche quando il patrimonio comune della stessa tradizione veniva squisitamente tutelato benché nella diversità delle forme espressive: si determinarono due realtà, che, invece di reagire compatte alla crescente islamizzazione del bacino mediterraneo, divennero sempre più incapaci di dialogo, tanto che nel gergo latino corrente il termine ortodosso, usato per distinguere genericamente il cristiano d’Oriente, finì per significare il senso diametralmente opposto alla sua ragione filologica (orthé = retta; doxa = fede), e cioè eretico. Su questa linea, la ricomposizione degli scismi con Roma fu intesa secondo gli schemi inflessibili dell’uniatismo, che richiedeva un preventivo riconoscimento della giurisdizione pontificia sulla chiesa universale, prima di accordare un qualsiasi carattere o statuto canonico ecclesiale alle comunità non cattoliche, peraltro spesso refrattarie soltanto ai modi storici dell’esercizio primaziale.
Altresì, la riverenza latina per la cultura ellenistica, alimentata dall’uso internazionale del greco e dalla fortuna politica di Bisanzio, provocò un’accezione riduttiva di Oriente cristiano, concentrando l’attenzione sulle realtà riconducibili all’influsso della chiesa costantinopolitana, che, dal canto suo, soggiogata da un’asfissiante controllo cesaropapista, escogitò ogni mezzo per assorbire tutte le esperienze orientali, misurando le adesioni come tasso di lealismo all’unica corona ritenuta autentica nell’ecumene cristiana dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente (476). Emerse così una tacita convergenza tra latini e greci, che, sebbene in continua diatriba, si legittimarono reciprocamente come unici interlocutori, calando un sipario impressionante sulla specificità delle cristianità orientali non allineate a Costantinopoli: Oriente cristiano restò per secoli sinonimo di chiese bizantine senza ulteriori considerazioni.
Il concilio fiorentino (Basilea-Ferrara-Firenze-Roma), che celebra trattative chiarificatrici e decreti differenziati per le singole chiese non latine (1438-1445), pur liquidato negli effetti pratici dal sopravvento della turcocrazia, può essere ritenuto una pietra miliare nel cammino verso il recupero di tante identità sommerse.
2. Le chiese orientali non bizantine: genesi e classificazione
È ormai scontato che, dovendo fornire una mappa completa dell’Oriente cristiano, le realtà bizantine sono rappresentazione parziale – benché consistente per statistica – delle ramificazioni e censimento dei fedeli. I pregiudizi atavici fondati sul modello greco-latino appaiono, però, indelebili nello spartiacque: tuttora, Costantinopoli s’impone come baricentro della classificazione e il primo approccio alla problematica rinvia comunemente a un’immediata distinzione tra le chiese rientranti nei canoni bizantini e le altre.
In verità, la sintesi non rende giustizia alle sequenze della storia, poiché valicati i confini della Palestina, il cristianesimo orientale manifestò le sue prime tipologie intorno al tessuto semitico della Siria e al substrato giudaico-ellenistico dell’Egitto. Quand’ancora Bisanzio doveva conoscere la promozione a «nuova Roma» ed era soltanto una piccola comunità dipendente dal metropolita di Eraclea, i capoluoghi di queste regioni, Antiochia e Alessandria, andavano da tempo mutuando la fisionomia patriarcale definita de facto sin dal concilio niceno (325) e perfezionata poi dall’assetto pentarchico iscritto nel Canone 28 del calcedonese (451). L’ascendente politico-amministrativo, che induceva le chiese vicine ad accoglierne usi, costumi e tradizioni (rito), veniva corroborato attraverso il magistero delle rispettive scuole esegetiche padroneggianti, dal lato antiocheno, il metodo storico-letterale e, da quello alessandrino, la finezza dell’allegoria.
Pure il dibattito teologico sui dogmi essenziali della fede cristiana era monopolizzato dai due centri, anche se non sempre tramite proposte equilibrate. L’ambiente antiocheno, più legato all’eredità vetero-testamentaria, insisteva sul dato monoteista, rischiando di sponsorizzare impalcature trinitarie più marcanti l’unità di natura che la distinzione ipostatica (modalismo); parimenti approdava a soluzioni cristologiche, che, smorzando l’unione teandrica, scioglievano talora la figliolanza divina in connotato etico meritato dal figlio di Maria per virtù proprie (adozionismo). L’ambiente alessandrino, più aperto alla filosofia greca, inclinava al dualismo platonico, riducendo non di rado la distanza Dio-mondo con una concezione emanazionista del dato trinitario letto attraverso accentuate distinzioni gerarchiche mortificanti l’unità di natura (subordinazionismo); parimenti risolveva spesso il mistero dell’incarnazione (ritenuto ontologicamente assurdo coincidendo la materia con il male in sé) in un’assunzione apparente o comunque menomata della natura umana (docetismo), giacché la sofferenza, esclusa come esperienza reale del Cristo (aftartodocetismo), aveva puro valore pedagogico, cioè di insegnare all’uomo che la via della salvezza passa attraverso la propria croce quotidiana.
Se la speculazione trinitaria del IV secolo, espungendo l’arianesimo, trovò l’accordo ecumenico grazie al simbolo niceno-costantinopolitano (381), più drammatiche furono senz’altro le successive controversie cristologiche. Gli attriti provocati determinarono una frammentazione irreversibile dell’Oriente cristiano, ponendo le basi della mappa ecclesiastica conservatasi, sia pure con qualche adattamento, fino ai nostri giorni.
La tensione dialettica tra Antiochia e Alessandria degenerò con il braccio di ferro tra Nestorio, monaco antiocheno assunto alla cattedra di Costantinopoli (429-431), e Cirillo, vescovo di Alessandria (412-444), le cui posizioni riflettevano l’ambiente di formazione: il primo, per salvaguardare la perfetta integrità dell’umanità assunta, esasperava la distinzione tra le due nature (logos-anthropos), attirandosi l’accusa di aver coltivato un autentico dualismo ipostatico; il secondo, per tutelare l’unità ipostatica, calcava l’unione delle due nature (logos-sarx), producendo nell’avversario il sospetto di professare una fusione teandrica con la conseguente sublimazione dei limiti umani. Ad esasperare la discussione, interveniva, peraltro, il pluralismo lessicale allora vigente soprattutto intorno al termine physis, che ad Antiochia era equivalente di ousia (= natura, sostanza, essenza, ovvero il motivo ontologico per cui Dio è Uno); viceversa, lo stesso ad Alessandria coincideva piuttosto con hypostasis (= persona, individuo, ovvero il motivo ontologico per cui Dio è Trino), per la qual cosa anche i teologi più temperati parlavano qui di mia physis del Verbo incarnato.
Il concilio di Efeso (431) censurò Nestorio, interpretando il suo scetticismo verso il titolo mariano Theotokos (Madre di Dio) proposto da Cirillo come volontà di affermare la dimensione meramente antropologica del figlio partorito dalla Vergine; con le decisioni efesine si consuma il primo scisma. Nell’ambiente antiocheno molti protestarono e, riparati in Persia, si mescolarono alle preesistenti comunità cristiane, contribuendo notevolmente allo sviluppo della chiesa siro-orientale: questa realtà (detta pure più genericamente chiesa d’Oriente, perché situata al di là dell’Eufrate, ovvero oltre i confini orientali dell’impero bizantino) era destinata a conoscere nel continente asiatico una forte espansione missionaria, i cui frutti migliori si colgono nel Malabar (India meridionale) a sostegno dei fedeli locali convinti delle proprie origini apostoliche e perciò detti cristiani di san Tommaso (dal nome dell’apostolo individuato come fondatore). D’altra parte, quanti accolsero l’ortodossia efesina e seguirono il vescovo Giovanni di Antiochia nell’accordo con Cirillo (433), vennero indicati da questo momento come chiesa siro-occidentale (perché rimasti nella regione a ovest della frontiera eufratica, e cioè all’interno dei confini imperiali).
Se il concilio di Efeso rappresentò la prima scossa, il concilio di Calcedonia (451) fu l’epicentro del terremoto, che portò all’assestamento storico di una doppia gerarchia antagonista: qui vennero bandite le dottrine di Eutiche, che, strumentalizzando il linguaggio di Cirillo, sconfinava effettivamente nella mescolanza teandrica paventata dagli antiocheni. Il simbolo calcedonese insegnò genuinamente l’unione ipostatica delle due nature senza mescolanza né separazione, ricavando il meglio delle intuizioni elaborate dalle antiche scuole in lotta: tuttavia, si espresse secondo il vocabolario antiocheno, postulando il duofisismo (duo physeis = due nature) del Verbo incarnato e generando nell’immaginario alessandrino, nonostante il richiamo all’unità di persona (mia hypostasis), una riabilitazione del nestorianesimo. L’Egitto divenne il cuore della rivolta, che, mischiandosi con la nostalgia dell’antica libertà repressa dalla spada romana, alimentò ben presto un’organizzazione separatista determinatasi come chiesa copta (dall’arabo qubt, storpiatura del termine greco aigyptios, ovvero egiziano, rimbalzato come coptus in Occidente, dove matura nel senso di egiziano praticante la fede cristiana in antitesi all’egiziano islamizzato). Sorte analoga seguì la chiesa armena, fiorita nell’omonima regione estesa per l’altopiano intorno all’Ararat e fondata, secondo la tradizione, dallo stesso nucleo apostolico (Tommaso, Taddeo, Bartolomeo) cui solitamente si attribuisce l’evangelizzazione delle regioni a est dell’impero. Infine, anche la chiesa siro-occidentale, pur orientata per mentalità al duofisismo, ricusò il concilio di Calcedonia: per quanto i raffinati prodotti della teologia più ellenizzata fossero potuti penetrare da queste parti, non si può che leggere nella scelta complessiva il grido d’indignazione contro la tirannia politica e fiscale della corte bizantina.
Queste chiese (copta, armena, siro-occidentale) nella cristianità greco-latina sono state a lungo definite con tono polemico monofisite o anti-calcedonesi, quasi che avessero abbracciato la dottrina della fusione teandrica in Cristo, il cui risultato sarebbe un’unica natura divino-umana mescolata. In realtà, se esse respinsero Calcedonia e rimasero attaccate al formulario cirilliano (monofisismo verbale), parimenti emarginarono fino a disperdere del tutto i veri eredi dell’eutichianismo (monofisismo reale): è più giusto, dunque, definirle non-calcedonesi, nel senso che non riconobbero il IV concilio ecumenico come lo strumento migliore per illustrare l’ortodossia, sulla quale sostanzialmente convergevano.
Disprezzo opposto grava, invece, sulla definizione di chiese melkite (dal siriaco malka = re, sovrano, quindi serve dell’imperialismo bizantino) resa dalle proprie comunità d’origine alle minoranze copte, armene e siro-occidentali che accolsero il simbolo calcedonese. Tali minoranze finirono gradualmente per smarrire il loro rito primordiale, assumendo totalmente quello bizantino: esse non rientrano, dunque, nella nostra classificazione, come non vi rientra – ma merita ugualmente un cenno per l’eccezionalità del caso – la chiesa georgiana, che, sorta fuori dal territorio bizantino, dopo un primo tentennamento dovuto all’influsso della vicina cristianità armena, abbracciò l’ortodossia della chiesa costantinopolitana e ne adottò il rito, esprimendolo comunque non più in greco, la lingua ufficiale dell’impero, bensì nella lingua locale al pari di tutte le chiese non-calcedonesi.
Rientra, invece, nella nostra mappa la chiesa maronita, sorta nel V secolo tra Apamea e Aleppo sulla tomba del santo monaco Marone. Costola della chiesa siro-occidentale, rappresentò in Oriente l’unico caso di un’opzione calcedonese non fagocitata dal rito bizantino. Il connotato distintivo, intorno al quale essa confezionerà il distacco dalla chiesa imperiale, diverrà la professione monotelita alternativa al simbolo proclamato con decisione ecumenica nel costantinopolitano III (680-681): di nuovo, la differenza sarà di mero vocabolario, intendendo i maroniti l’en thelema del Cristo non a livello ontologico (e cioè l’unica volontà del Cristo sul modello della mescolanza teandrica insegnata dal monofisismo reale), bensì sul piano etico (e cioè la convergenza pratica delle due nature sullo stesso oggetto voluto). La scelta assicurerà, comunque, la plurisecolare tolleranza nei confronti di questa chiesa da parte del potere islamico, convincendolo dell’autonomia maronita da Costantinopoli.
3. Precisazione delle identità e movimenti verso Roma
La chiesa siro-orientale, organizzatasi solidamente in Persia al tempo dei sassanidi intorno a una catholicos (= patriarca) recante il titolo di Seleucia-Ctesifonte, raggiunse il suo apogeo sotto il califatto degli Abbasidi (750-1258) prima della grave decimazione patita con l’arrivo dei mongoli nel XIII secolo. In questo periodo di profonda crisi maturano i primi contatti con Roma, che porteranno alla genesi di una colonia cattolica a Cipro (1340) e alla successiva accoglienza della bolla pontificia Benedictus sit Deus (1445) nel contesto del concilio fiorentino. Un forte movimento cattolico destinato a durare inziò, tuttavia, soltanto alla metà del XVI secolo, quantunque tradizioni locali come il natar cursya (trasferimento della successione patriarcale da zio a nipote) o chiusure latine in materia di liturgia (uso obbligatorio della formula battesimale in prima persona e con verbo attivo) e disciplina (celibato del clero) ne avrebbero complicato il cammino. Nel corso dei secoli è invalso l’uso di chiamare la realtà siro-orientale obbediente al papa come chiesa caldea, per distinguerla dalla componente separata e individuata come chiesa assira. Al giorno d’oggi, ambedue le chiese hanno la loro sede patriarcale a Baghdad. Dal 1964 la chiesa assira versa in uno scisma tra quanti hanno accolto il calendario gregoriano e quanti restano fermi all’antica osservanza.
La chiesa siro-occidentale, strutturata stabilmente durante il regno giustianianeo dal vescovo Giacomo Baradeo (e perciò impostasi pure con il nome di chiesa giacobita), conobbe una certa tolleranza durante i governi islamici per le sue benemerenze antibizantine. I contatti con Roma furono praticamente nulli fino al tempo delle crociate, quando si registrano buoni uffici con i missionari francescani e domenicani. L’accoglienza della bolla pontificia Multa et mirabilia (1444) all’epoca del concilio fiorentino fu resa sterile di lì a poco dalla conquista ottomana della Siria (1517). Un movimento cattolico duraturo prenderà avvio verso la metà del XVII secolo, per tradursi, tuttavia, in organizzazione patriarcale ininterrotta soltanto nel 1782. Al giorno d’oggi, il patriarca cattolico dimora a Beirut, mentre quello separato da Roma ha sede in Damasco.
Legati al catholicos di Seleucia-Ctesifonte, ma poco noti nel mondo occidentale per tutto il Medioevo, i cristiani di san Tommaso entrarono in contatto stabile con la chiesa latina all’inizio del XVI secolo, allorché arrivarono in India i portoghesi, trasferendo agli ospiti l’accusa di nestorianesimo gravante da sempre sulla chiesa siro-orientale. L’alibi dottrinale fornì ai dominatori lo strumento per portare a compimento il progetto coloniale: i libri liturgici della chiesa locale furono bruciati e la parola d’ordine divenne la latinizzazione coatta. A ciò, tuttavia, si ribellò nel 1653 l’arcidiano Tommaso Parampil, dando vita alla cosiddetta chiesa malankarese, che si porrà più tardi sotto il patriarcato giacobita di Antiochia separato da Roma e assumerà, di conseguenza, il rito siro-occidentale. Solo la paziente opera dei carmelitani riuscì a trattenere dall’esodo totale i cristiani di san Tommaso, assicurando in India la permanenza di una struttura cattolica autoctona, libera di osservare il rito tradizionale e identificata tuttora come chiesa malabarese. Le vicende intercorse tra XIX e XX secolo hanno frantumato ulteriormente lo scenario indiano: tanto la chiesa malabarese che quella malankarese hanno, a loro volta, subito scismi. L’una, toccata dall’antico fascino, ha registrato una fuga, sia pure esigua, verso la chiesa assira (chiesa mellusiana), mentre l’altra si è spaccata tra una componente fedele alla dipendenza dal patriarcato giacobita di Antiochia e una componente rivendicante l’autocefalia con sede primaziale a Kottayam (Kerala). Dal 1932, per effetto di alcuni movimenti locali verso Roma, s’è stabilizzata solidamente anche una gerarchia cattolico-malankarese guidata dal metropolita di Trivandrum. Qualche problema di assestamento istituzionale ha patito, invece, nella seconda metà del secolo scorso la chiesa malabarese: nel 1992, dopo lunghe vertenze, Giovanni Paolo II ha chiarito la preminenza di Ernakulam quale arcivescovado maggiore recante il titolo cardinalizio di Angamale.
Nell’ambito della cristianità siro-occidentale, la chiesa maronita, consolidatasi come realtà calcedonese ma avente patriarcato proprio, si concentrò con lo scorrere dei secoli altomedievali sulle montagne boscose del Libano. Qui, dopo un’abiura ufficiale del monotelismo registrata dallo storico Guglielmo di Tiro (1182) e la successiva ratifica della bolla pontificia Benedictus sit Deus nel contesto del concilio fiorentino (1445), ha sempre mantenuto la comunione con Roma, senza mai accusare dissensi in grado di affermare stabili gerarchie alternative. Essa rappresenta l’unico caso di chiesa orientale interamente cattolica. La sede patriarcale, sin dal 1790, è stata fissata a Bkerké.
Sul versante egiziano, la chiesa copta, dopo aver covato un risentimento antibizantino tale da salutare gli arabi come liberatori, visse alterne vicende sotto i governi islamici, tra periodi di relativa tranquillità e altri di forte recrudescenza integralista. Fugaci contatti con la chiesa d’Occidente si ebbero nel periodo delle crociate, ma occorrerà attendere il clima del concilio fiorentino per registrare il segno di aneliti unionisti, allorché il patriarcato alessandrino accetterà la bolla pontificia Cantate Domino (1442). Purtroppo, l’ascesa ottomana (1517) recise i contatti con Roma, anche se, di lì a poco, l’ondata missionaria schiusa dal concilio tridentino e sostenuta dal nuovo ordine dei gesuiti avrebbe favorito ulteriori occasioni d’incontro. I tempi, tuttavia, non erano ancora maturi, e il disegno ecumenico abortì per certo arroccamento latino sul lessico cristologico tradizionale. Solo nella prima metà del XVIII secolo s’avvierà tra i copti un duraturo movimento di ricerca di unità con la sede romana, maturato più tardi nell’erezione del patriarcato cattolico di Alessandria (1899). Al giorno d’oggi, tanto il patriarca unito a Roma che quello separato, pur recando l’antico titolo, hanno sede al Cairo.
Medesimo destino della chiesa copta è stato seguito fino al secolo scorso dalla chiesa etiopica, che, da tempi remoti, riceveva tramite l’Egitto il suo primate (abuna), osservando il rito alessandrino sia pur espresso nella locale lingua ge’ez. Il legame giuridico cominciò a incrinarsi durante l’occupazione fascista, per recidersi del tutto nel 1959, allorché la chiesa ortodossa etiopica vedeva riconoscersi un patriarcato proprio. Dalla chiesa ortodossa etiopica, dopo il conseguimento dell’indipendenza nazionale (1993), s’è staccata la chiesa eritrea, sistemandosi in organizzazione autocefala sotto l’arcivescovo di Asmara. Attualmente esiste una convenzione tra le chiese ortodosse d’Africa (copta, etiopica, eritrea), le quali, memori dell’antico vincolo, riconoscono un primato d’onore al patriarca di Alessandria. Movimenti cattolici, iniziati in Etiopia sin dal XVI secolo, furono fortemente incentivati dalla dominazione italiana, sempre e comunque nell’ottica latinizzatrice. Solo nel 1961 papa Giovanni XXIII autorizzava la formazione strutturale di una chiesa etiopica unita a Roma, assicurandole la conservazione del rito tradizionale. Il primate cattolico, al pari del collega ortodosso, risiede ad Addis Abeba, dove reca il titolo di metropolita con porpora cardinalizia; da lui dipende pure la piccola comunità eritrea obbediente alla Santa Sede.
Nell’area caucasica, l’opzione alternativa all’ortodossia bizantina assicurò anche alla chiesa armena margini di azione durante l’occupazione araba (VII-XI secolo). Il consolidamento dell’organizzazione si verificò durante il governo della locale dinastia rupenide (1080-1395), l’unica parentesi di libertà goduta fino ai nostri giorni. Nei secoli successivi il popolo armeno subirà costantemente il giogo di varie potenze straniere (mongoli, mamelucchi, turchi, Russia zarista, URSS). C’è stato bisogno dello sgretolamento sovietico per assistere all’esaurimento della plurisecolare frustrazione. Nelle continue calamità del popolo armeno proprio la chiesa è rimasta la più solida garanzia del sentimento nazionale. Le vicende, tuttavia, hanno determinato la fioritura di una duplice gerarchia non-calcedonese: l’una, meno consistente per numero di seguaci ma più blasonata per retaggio storico, obbedisce al catholicos di Sis, mentre l’altra si riferisce al catholicos di Etchmiadzin. Dai tempi delle crociate si registrano contatti interessanti con la Santa Sede. All’epoca del concilio fiorentino si approdò pure a una temporanea unione, allorché il catholicos di Sis sottoscrisse la bolla pontificia Exultate Deo (1439). Il primo momento davvero significativo per il cammino armeno-cattolico rimonta, comunque, al papato di Benedetto XIV, quando venne a costituirsi un patriarcato di Cilicia (1742), che, tra tante vicissitudini, ha dovuto sopravvivere all’estero (Beirut) senza mai poter esercitare praticamente la sua giurisdizione in terra armena fino alla crisi del comunismo. Solo la recente costituzione di una Repubblica indipendente (1991), affrancando la chiesa cattolica dalla clandestinità, ha permesso i collegamenti internazionali e la libera organizzazione locale nell’ordinariato di Gyumri.
4. La diaspora
Le conquiste geografiche d’epoca moderna hanno comportato esodi continui dalla tradizionale area mediorientale. Tutte le chiese hanno vissuto l’esperienza della diaspora, mantenendo salda l’osservanza degli antichi riti, ma adattandoli nelle forme della comunicazione, come si evince, in special modo, dall’uso delle lingue correnti. Le mete più ambite della migrazione, che ha coinvolto in egual misura tanto le componenti separate che quelle in comunione con Roma, sono state il Nordamerica e l’Australia.
Soprattutto negli USA si colgono manifestazioni rappresentative dell’intero panorama. Qui, peraltro, le presenze non cattoliche hanno dato talora vita a fenomeni originali, che si sono tradotti in organismi sganciati dall’istituzione centrale della madre patria. L’esempio più significativo riguarda la chiesa assira, al cui interno s’è formata nel 1976 una doppia gerarchia con un catholicos iracheno (Baghdad), a cui rispondono i fedeli residenti nelle zone d’origine e più attaccati alle antiche tradizioni (vetero-calendaristi), e un catholicos statunitense (Morton Grove, Chicago, Illinois), a cui aderiscono le comunità sparse nel mondo occidentale (Australia, Francia, Gran Bretagna) e più integrate nei costumi planetari (neo-calendaristi). Analogo moto scismatico s’è verificato nella chiesa ortodossa etiopica, allorché la diaspora statunitense non ha riconosciuto il nuovo patriarca di Addis Abeba eletto dopo il crollo della dittatura comunista (1991-1992).
Un cenno d’obbligo merita, infine, la chiesa armena per aver prodotto, durante i secoli, una diaspora ramificata negli angoli più remoti della terra. Le colonie, che s’impiantarono sull’onda delle fughe causate dalle lunghe dominazioni, realizzarono vivaci istituzioni ecclesiastiche, le più importanti delle quali sono i patriarcati armeni di Gerusalemme e Costantinopoli, ancora adesso in salute ma sottoposti al primato di Etchmiadzin. Anche la diaspora armeno-cattolica ha una sua storia prestigiosa, ove spicca la Congregazione mechitarista sorta sul finire del XVII secolo e tutt’oggi celebre per l’intensa attività culturale svolta tra Venezia e Vienna.
Filippo Carcione
docente di Civiltà bizantina e Storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università di Cassino – Frosinone
NOTA BIBLIOGRAFICA
Non si prendono in considerazione le singole chiese, per le quali si rinvia alle note bibliografiche degli articoli monografici contenuti in questo volume. Altresì ci si limita alla citazione di testi generali sull’Oriente cristiano in lingua italiana, i quali possono risultare utile iniziazione allo studio della materia e strumenti validi per illustrare la genesi, l’identità e il patrimonio delle molteplici esperienze, nonché le ricche diversità (soprattutto tra le chiese di rito bizantino e le altre).
Per la storia religiosa, le istituzioni canoniche, la fisionomia dei riti, gli orientamenti dottrinali, i movimenti cattolici, la diaspora si vedano complessivamente: G. Fedalto, Le chiese d’Oriente, 3 voll., Jaca Book, Milano 1984-1995; N. Zernov, Il cristianesimo orientale, Mondadori, Milano 1990; V. Peri, Orientalis varietas. Roma e le chiese d’Oriente, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1994; F. Carcione, Le chiese d’Oriente, San Paolo, Cinisello B. 1998; E.G. Farrugia (ed.), Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano, Pontificio Istituto Orientale, Roma 2000; E. Morini, Gli ortodossi, Il Mulino, Bologna 2002; H.-D. Döpmann, Le chiese ortodosse. Nascita, storia e diffusione delle chiese ortodosse nel mondo, ECIG, Genova 2003.
Più specificamente, per la teologia, la spiritualità e la liturgia restano utili panoramiche: Th. Spidlîk, La spiritualità dell’Oriente cristiano, San Paolo, Cinisello B. 1995; C. Giraudo (ed.), Liturgia e spiritualità dell’Oriente cristiano, San Paolo, Cinisello B. 1997; E.-G. Farrugia, Introduzione alla teologia orientale, Pisani, Roma 1997.
Andando oltre il carattere introduttivo: per le controversie cristologiche, che condizionarono l’assetto istituzionale delle antiche chiese d’Oriente (pre-calcedonesi, calcedonesi, non-calcedonesi), per un’analisi comparativa degli sviluppi successivi e per le prospettive contemporanee del dibattito ecumenico, sembra opportuno chiudere la presente rassegna con la segnalazione della recente pubblicazione a cura di A. Ducay, Il concilio di Calcedonia 1550 anni dopo, LEV, Città del Vaticano 2003, che raccoglie gli atti del Simposio internazionale tenutosi a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce, nei giorni 8 e 9 marzo del 2001.