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Commento alla XII Domenica del Tempo Ordinario 25 giugno 2006 (XII del T.O. come domani)

dal sito:

http://www.passionisti.org/sito/it/comm-lit-dom-fest/2006/06-06-25.htm

Commenti alla liturgia domenicale e festiva – Ciclo B   
 
Commento alla XII Domenica del Tempo Ordinario 25 giugno 2006
“Con Cristo ogni tempesta è superata”
di Antonio Rungi

 
Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che calma la furia del mare e dà sicurezza ai suoi discepoli che erano con lui sulla barca, mentre passavano all’altra riva con Gesù a bordo. Oltre al significato prettamente naturale e fisico dell’evento dietro a questo breve racconto del Vangelo di Marco che ascoltiamo in questa XII Domenica del Tempo Ordinario c’è un messaggio religioso che va colto nella sua essenza e nel suo significato più vero: vicini a Cristo non si può avere paura ed anche le più grandi tempeste della nostra vita vengono superate se ci aggrappiamo a Colui che è la vera forza dell’uomo ed è il Signore del Creato. La paura dei discepoli così ben risaltata nel testo del Vangelo è la sintesi di tutte le paure che ci prendono soprattutto oggi davanti a tanti problemi di salute, di relazioni umane, di rapporti sociali. Viviamo in un mondo di paure e fobie che si superano facilmente con la fiducia in Dio ed abbandonandoci completamente al suo volere. Questo Dio potente che governa il mondo e domina le forze della natura e che Gesù ci ha rivelato è un Dio che ama e protegge l’uomo e lo rasserena nel suo cammino della storia, come pregheremo oggi nella Messa: “Rendi salda, o Signore, la fede del popolo cristiano, perché non ci esaltiamo nel successo, non ci abbattiamo nelle tempeste, ma in ogni evento riconosciamo che tu sei presente e ci accompagni nel cammino della storia”.
Gesù è Colui al quale il Creato obbedisce e si allinea secondo i disegni di Dio impressi in esso attraverso le leggi cosmiche e naturali che spetta all’uomo saper discernere ed osservare: “In quel giorno, verso sera, disse Gesù ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”. E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”.
Anche la prima lettura odierna, tratta dal Libro di Giobbe, ci presenta l’immagine di un Dio che regola il corso degli eventi naturali e domina le cose da lui stesso create, in modo che la potenza che esprimono in determinati momenti particolari non sia qualcosa di autonomo dal potere vero che appartiene al Signore. Qui è detto chiaramente che la Natura non è Dio, ma la Natura è stata creata da Dio e su di essa vigila attenta l’occhio di questo Essere superiore che gli ha dato l’avvio nel tempo, nell’attesa della ricapitolazione di tutto in Cristo nella trasformazione finale delle cose e delle creato al termine dei giorni del creato: “Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: “Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno, quando lo circondavo di nubi per veste e di densa caligine per fasce? Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e porte e ho detto: Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”.
Ai due testi della Parola di Dio già presentati e brevemente commentati, fa da riscontro teologico ai dati insiti in esso il testo della seconda lettura odierna, desunta dalla seconda Lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi: “Fratelli, l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”. La centralità di Cristo per la comprensione della storia, del creato e della nostra vita viene qui messa in evidenza con tutti i risvolti di carattere etico che essa comporta. In Cristo siamo creature nuove e le cose vecchie non hanno senso, in quanto Cristo novità perenne, rende nuova ogni cosa, non c’è antichità, né vecchiaia, né passato, ma tutto è attualità, giovinezza, presente in Colui che è la vita eterna.
Anche noi vogliamo rivolgerci al Signore con le stesse preghiere che al Salmista suggerirono parole come quelle del Salmo 106 che oggi proclamiamo nella liturgia della Parola: “Coloro che solcavano il mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque, videro le opere del Signore, i suoi prodigi nel mare profondo. Egli parlò e fece levare
un vento burrascoso che sollevò i suoi flutti. Salivano fino al cielo, scendevano negli abissi; la loro anima languiva nell’affanno. Nell’angoscia gridarono al Signore
ed egli li liberò dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed egli li condusse al porto sospirato. Ringrazino il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi a favore degli uomini”.
Questo ringraziamento al Signore nasce dal profondo del nostro cuore, che, nonostante le tante ansie e paure, le tante sofferenze, le tante prove della vita, le tante sconfitte e risalite, noi lo sentiamo particolarmente vicino alla nostra vita. Quella vita che è bella perché è chiamata nell’oggi a sedare le tante tempeste di ogni genere che nascono nel cuore dell’uomo e spesso uccidono proprio dentro l’uomo i sentimenti e i pensieri più nobili e belli.
  

Omelia per domani: Commento su Marco 14,12-16.22-26

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/654.html

Omelia (22-06-2003) 
padre Lino Pedron

Commento su Marco 14,12-16.22-26

Tutto il vangelo di Marco è una lunga introduzione al racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, agnello della nostra Pasqua.

Bisogna conoscere bene la Pasqua ebraica, perché solo alla sua luce è comprensibile l’eucaristia cristiana, compimento di cui l’Esodo è promessa.

La Pasqua ebraica è la liberazione dagli idoli che schiavizzano, la fine dell’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo, perché Dio non tollera l’ingiustizia e, infine, è rottura con il peccato e con la morte e attesa di cieli nuovi e terra nuova. Tutti questi vari elementi delle Pasqua ebraica sono la promessa che trova compimento nella croce di Gesù e servono per capirne pienamente la portata.

La Pasqua di Gesù è martirio, ossia testimonianza di un amore più forte di ogni male e della stessa morte, capace di farsi solidale coi fratelli fino alla debolezza estrema: « Fu crocifisso per la sua debolezza » (2Cor 13,4).

Mangiare la Pasqua con lui significa essere associati alla sua stessa passione per il mondo, disposti a pagarne i costi, che assumiamo liberamente, nonostante le paure e le resistenze contrarie.

Gesù pronuncia le parole che trasformano la Pasqua ebraica in celebrazione cristiana su una comunità di peccatori e di traditori. Ad essi dà da mangiare il suo corpo e da bere il suo sangue che sono l’oggetto del loro tradimento: all’eccesso di ingratitudine degli uomini, risponde con l’eccesso del suo amore. Notiamo il duplice sottofondo anticotestamentario: il richiamo all’alleanza del Sinai (Es 24,8) e al Servo di Dio che dona la propria vita per tutti (Is 53). Inoltre vi è un chiaro riferimento alla croce: in questa direzione ci conduce il simbolo del corpo donato e del sangue sparso.

Gesù sta svelando l’intenzione fondamentale che ha guidato la sua vita, ci sta manifestando la sua verità ultima: egli ha vissuto una vita in dono per tutti. E’ questo « per » che indica il significato ultimo di Gesù: un’esistenza donata. E’ un donarsi per tutti, non solo per alcuni, è un donarsi consapevole del rifiuto: rifiutato da tutti, muore per tutti. E’ un donarsi universale e ostinato, una solidarietà che non si lascia vincere dall’incomprensione e dal rifiuto. Anche il tradimento mette in luce l’amore ostinato di Gesù.

Ricordando il tradimento, la comunità è invitata a non scandalizzarsi quando scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato: è un’esperienza che Gesù stesso ha vissuto e che ha previsto per la sua Chiesa. La comunità cristiana è invitata a non cullarsi in una falsa sicurezza e presunzione di sé, come ha fatto Pietro: il peccato è sempre possibile ed è vano fidarsi delle proprie forze. Ma il vangelo ci insegna che l’incomprensione e il tradimento del discepolo sono superati e vinti dall’amore del Maestro.

Ogni religione prevede il sacrificio dell’uomo a Dio. Il cristianesimo invece si fonda sul sacrificio di Dio all’uomo. L’Eucaristia « culmine e fonte di tutta la vita cristiana » (LG 11) è veramente tutto e ci dà tutto: è tutta la creazione che si fa corpo e sangue di Cristo; è l’umanità intera assunta nella sua carne; è Dio che si dona all’uomo. Nell’Eucaristia l’amore di Dio raggiunge il suo fine: unirsi a noi e farsi nostra vita.

L’Eucaristia divinizza realmente l’uomo, ma senza alcuna confusione. Distinto da Dio, l’uomo è realmente unito a lui in un unico amore e in un’unica vita. Questa unione viene chiamata alleanza. Il sangue della nuova alleanza è quello uscito dalla persona di Gesù. Questo sangue, come quello che Mosè asperse sull’altare e sul popolo (Es 24,6.8), unisce l’uomo a Dio, rendendoli consanguinei. Questa alleanza è eterna perché non possiamo più infrangerla. Qualunque cosa facciamo, anche se lo mettiamo in croce, Dio rimane sempre fedele al suo amore per noi « perché non può rinnegare se stesso » (2Tim 2,13). Paolo apostolo ha scritto: « A stento si trova chi sia disposto a morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,7-8).

Ora, « se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi accuserà gli eletti di Dio, se Dio giustifica? » (Rm 8,31.33). Per questo san Paolo dice di essere convinto che « né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore » (Rm 8,31ss).

Il vino è bevanda della terra promessa. Gesù sarà pellegrino nel mondo, digiuno e abbeverato di morte, fino al giorno in cui l’ultimo fratello non si sarà arreso alla conoscenza dell’amore del Padre. Quando la sua casa sarà piena di tutti i suoi figli, sarà il regno di Dio in pienezza. Fino ad allora Gesù continuerà a bere il calice di morte per dare a tutti noi il calice di vita. Quanti ne bevono sono spinti a loro volta dal suo stesso amore di Figlio versi i fratelli che ancora non conoscono il Padre (2Cor 4,12).

Alla fine della cena pasquale tutti cantano l’inno. E’ il grande Hallel (Sal 136). E’ un salmo che, passando in rassegna i doni della creazione e della storia, ripete ad ogni riga il ritornello « perché eterna è la sua misericordia ». Queste parole dicono il perché profondo di tutta la creazione e di tutta la storia.

Dopo l’Eucaristia anche noi comprendiamo che la sua misericordia eterna è il perché ultimo di tutto quanto c’è e accade: è il trionfo del suo amore su tutto il male del mondo. A noi, che abbiamo compiuto il massimo male uccidendo suo Figlio, il Padre concede il massimo bene, donandoci la vita del Figlio. La sua misericordia è eterna e onnipotente, capace di capovolgere in bene ogni male e di salvare tutto e tutti. 

San Barnaba, Omelia a cura dei carmelitani

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12876.html

SAN BARNABA

Omelia (11-06-2009) 
a cura dei Carmelitani
Commento Matteo 10,7-13

1) Preghiera

O Padre, che hai scelto san Barnaba,
pieno di fede e di Spirito Santo,
per convertire i popoli pagani,
fa’ che sia sempre annunziato fedelmente,
con la parola e con le opere,
il Vangelo di Cristo,
che egli testimoniò con coraggio apostolico.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Matteo 10,7-13
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi ».

3) Riflessione

• Oggi è la festa di san Barnaba. Il vangelo parla degli insegnamenti di Gesù ai discepoli su come annunciare la Buona Novella del Regno alle « pecore perdute di Israele » (Mt 10,6). Loro devono: a) guarire i malati, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni (v.8); b) annunciare gratuitamente ciò che gratuitamente ricevono (v.8); c) non procurarsi oro, né sandali, né bastone, né bisaccia, né due tuniche (v.9); d) cercarsi una casa dove poter esser accolti fino al termine di una missione (v.11); e) essere portatori di pace (v.13).
• Al tempo di Gesù c’erano vari movimenti che, come lui, erano alla ricerca di una nuova maniera di vivere e convivere, per esempio, Giovanni Battista, i farisei, esseni ed altri. Molti di loro formavano comunità di discepoli (Gv 1,35; Lc 11,1; At 19,3) ed avevano i loro missionari (Mt 23,15). Però c’era una grande differenza! I farisei, per esempio, quando andavano in missione, erano prevenuti. Pensavano che non potevano fidarsi degli alimenti della gente, perché non sempre erano ritualmente « puri ». Per questo, portavano bisaccia e denaro per poter occuparsi loro stessi di ciò che mangiavano. Cosi, le osservanze della Legge della purezza, invece di aiutare a superare le divisioni, indebolivano ancora di più il vissuto dei valori comunitari. La proposta di Gesù è diversa. Il suo metodo traspare nei consigli che lui dà agli apostoli quando li manda in missione. Per mezzo delle istruzioni, cerca di rinnovare e riorganizzare le comunità di Galilea in modo che fossero di nuovo un’espressione dell’Alleanza, una mostra del Regno di Dio.
• Matteo 10,7: L’annuncio della vicinanza del Regno. Gesù invita i discepoli ad annunciare la Buona Novella. Loro devono dire: « Il Regno dei cieli è vicino! » Cosa vuol dire che il Regno è vicino? Non significa una vicinanza nel tempo, nel senso che basta aspettare un poco di tempo e dopo il Regno verrà. « Il Regno è vicino » significa che già è alla portata della gente, già « è in mezzo a voi » (Lc 17,21). E’ bene acquisire uno sguardo nuovo, per poter percepire la sua presenza o prossimità. La venuta del Regno non è frutto della nostra osservanza, come volevano i farisei, ma si rende presente, gratuitamente, nelle azioni che Gesù raccomanda agli apostoli: guarire i malati, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni.
• Matteo 10,8: Guarire, risuscitare, purificare, scacciare. Malati, morti, lebbrosi, posseduti erano gli esclusi dalla convivenza, ed erano esclusi in nome di Dio. Non potevano partecipare alla vita comunitaria. Gesù ordina di accogliere queste persone, di includerle. Il Regno di Dio si rende presente in questi gesti di accoglienza e di inclusione. In questi gesti di gratuità umana si nota l’amore gratuito di Dio che ricostruisce la convivenza umana e ricuce i rapporti interpersonali.
• Matteo 10,9-10: Non portare nulla. Al contrario degli altri missionari, gli apostoli non possono portare nulla: « Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento ». L’unica cosa che potete e dovete portare è la Pace (Mt 10,13). Ciò significa che devono fidarsi dell’ospitalità e della condivisione della gente. Perché il discepolo che non porta nulla con sé e porta la pace, indica che ha fiducia nella gente. Crede che sarà ricevuto, e la gente si sente valorizzata, apprezzata e confermata. L’operaio ha diritto al suo alimento. Facendo questo, il discepolo critica le leggi di esclusione e riscatta gli antichi valori della condivisione e della convivenza comunitaria.
• Matteo 10,11-13: Vivere insieme ed integrarsi in comunità. Giungendo a un luogo, i discepoli devono scegliere una casa di pace e lì devono rimanere fino alla fine. Non devono passare da una casa all’altra, bensì vivere lì stabilmente. Devono divenire membri della comunità e lavorare per la pace, cioè per ricostruire i rapporti umani che favoriscono la Pace. Per mezzo di questa pratica, loro riscattano un’antica tradizione della gente, criticano la cultura di accumulazione, tipica della politica dell’impero romano ed annunciano un nuovo modello di convivenza.
• Riassunto: le azioni raccomandate da Gesù per l’annuncio del Regno sono queste: accogliere gli esclusi, fidarsi dell’ospitalità, spingere alla condivisione, vivere stabilmente e in modo pacifico. Se questo avviene, allora possiamo e dobbiamo gridare ai quattro venti: Il Regno è tra di noi! Annunciare il Regno non consiste in primo luogo nell’insegnare verità e dottrine, catechismo o diritto canonico, ma portare le persone ad una nuova maniera di vivere e convivere, una nuova maniera di pensare e di agire partendo dalla Buona Novella, portata da Gesù: Dio è Padre e Madre, e quindi tutti siamo fratelli e sorelle.

4) Per un confronto personale

• Perché tutti questi atteggiamenti raccomandati da Gesù sono segni del Regno di Dio in mezzo a noi?
• Come fare oggi ciò che Gesù ci chiede: « Non portare bisaccia », « Non passare di casa in casa »?

5) Preghiera finale
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo. (Sal 97) 

Omelia Santissima Trinità 2009 : Al Ministero delle infrastrutture (celesti) e delle (divine) comunicazioni!

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15419.html

DOMENICA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ 2009

Omelia (07-06-2009)  – padre Mimmo Castiglione

Al Ministero delle infrastrutture (celesti) e delle (divine) comunicazioni!

Che dire di questo grande mistero?
Inaccessibile, non conoscibile, imprendibile, indicibile!
Solo qualche parola per descrivere qualcosa d’inafferrabile!
Ma è necessario rinascere! E di giorno, pure!
Evitando di sapere ciò che già si crede di conoscere.
Convinti della buona e bella notizia:
che il Padre ci ha inviato Gesù per accoglierci e salvarci.
Innalzato, il Crocifisso
poi Risorto ed Asceso,
regala nuove possibilità d’amare.
E non per condannarci alla tristezza ed all’abbandono
e lasciarci andare alle cose brutte.
Conoscere l’amore di Dio, questo è vivere!
S’autocondanna chi rifiuta di partecipare alla Sua Comunione.
Ora! E non soltanto al compimento del futuro. E questa annunciare!
O Dio dammi fiducia! Signore aumenta la mia fede!
Rifiutando la solitudine, hai voluto esistere con Altri!
Hai scelto di essere famiglia, comunità!
Sei diventato Padre generando un Figlio d’amare.
Sei diventato Padre dando origine a tante altre creature da servire!
Hai voluto donarti nello Spirito:
Affetto da far circolare, Presenza da condividere,
Passione che unisce, Compagnia!

Grazie Dio perché sei così! Insieme ad Altri!
E c’inviti ad amare e ad essere uniti ed a vivere come Te, come Voi!
Benedetta Santissima Trinità per come v’appartenete
per come ciascuno gradisce l’Altro senza diminuire.
Grazie Santissima Trinità perché in Te battezzati, immersi
ci rendi partecipi a condividere fiumi di grazia e d’amore.
Misericordia per la tua Chiesa che nasce dal Tuo Seno.
Grazie o Santissima Trinità per come t’effondi felice, senza rimpicciolire.
Contento dell’opera di Gesù, che tutto il male carica per sollevarci,
o Padre, esplodi d’Amore del tuo Spirito nei nostri cuori
permettendoci così d’ascoltare, comprendere e seguirti.

PREGHIERA

Pietà o Dio Papà buono del mio senso d’abbandono.
Sono incapace di vivere a tua immagine e somiglianza.
Rifiuto la relazione, rinnego la condivisione.
Difficile per me collaborare, troppa fatica.
Tanta rivalità nel cuore e competizione.
Tanto desiderio di perfezione per vincere la mia inferiorità!
Visita o Padre la mia orfanezza con la tua paternità.

Pietà Signore Gesù della mia solitudine.
Ostile ai tuoi sentimenti, offendo la tua sensibilità.
Ti ascolto poco non osservando la tua parola,
non ti amo abbastanza!
Visita o Gesù il mio isolamento con la tua fratellanza.

Pietà Spirito Santo, amo solo quando mi conviene:
nel bisogno e secondo il mio tornaconto,
per esercitare potere, sottomettendo gli altri,
creando dipendenza ed oppressione!
Visita o Soffio di Dio la mia emarginazione con la tua amicizia. 

di Don Bruno Maggioni (biblista): Quella fine che apre il cammino

dal sito:

http://www.pastoralespiritualita.it/articoli-rubriche/omelie-domenicali/ascensione-del-signore-anno-b-24-maggio-2009.html

di Don Bruno Maggioni (biblista)

Quella fine che apre il cammino

Nel brano di questa domenica (16,15-20) Marco conclude l’intero suo racconto evangelico. Una conclusione che non chiude, però, il discorso, bensì lo apre. Inizia un cammino nuovo, non più del solo Gesù, ma di Gesù e della sua Chiesa. Ma quale cammino? In che direzione? Con quale modalità?

Si tratta anzitutto di un cammino universale: in tutto il mondo, a ogni creatura, dappertutto (v. 20). Ciascun uomo, dovunque sia e a qualsiasi razza appartenga, ha il diritto di sentire l’annuncio del Vangelo. Per Gesù – e per i suoi missionari – non esistono i vicini e i lontani, i primi e gli ultimi. Gesù non dice ai discepoli di iniziare la missione da Gerusalemme: li invia subito in tutto il mondo.

Il compito è quello di «predicare», un termine questo che merita una spiegazione. Non significa semplicemente tenere una istruzione o una esortazione o un sermone edificante. Il verbo «predicare» indica l’annuncio di un evento, di una notizia, non di una dottrina. Si tratta di una notizia decisiva: non è solo un’informazione, ma un appello. Tanto è vero che proprio nella sua accoglienza o nel suo rifiuto l’uomo gioca il suo destino: «sarà salvato», «sarà condannato» (v. 16). È questa un’affermazione dura, e certamente da intendere con le dovute precisazioni. Ma è pur sempre un’affermazione che non si può cancellare dal Vangelo.


Il Vangelo predicato diventa credibile e visibile dai segni che il discepolo compie. Ma deve trattarsi di segni che lasciano trasparire la potenza di Dio, non quella dell’uomo. E deve trattarsi di segni che riproducono quelli compiuti da Gesù: le stesse modalità, lo stesso stile, gli stessi scopi. Non si dimentichi, poi, che il grande segno compiuto da Gesù è stata la sua vita e la sua morte: il miracolo di una incondizionata dedizione a Dio e agli uomini.


Gesù ha terminato il suo cammino e si siede, i discepoli invece iniziano il loro cammino e partono. Gesù sale in cielo e i discepoli vanno nel mondo. Ma la partenza di Gesù non è una vera assenza, bensì un’altra modalità di presenza: «Il Signore operava insieme con loro e dava fondamento alla Parola» (16,20).


Un’ultima osservazione: Gesù (16,14) «rimproverò i discepoli per la loro incredulità e durezza di cuore». Rimprovera i suoi discepoli per la loro incredulità e tuttavia li invia a predicare nel mondo intero. Un contrasto sorprendente. Il discepolo viene meno ma non viene meno la fedeltà di Gesù nei suoi confronti. È per questo che il cammino della Chiesa rimane, nonostante tutto, un cammino aperto e ricco di possibilità.

ho scelto un’omelia per domani, domenica IV di Pasqua, di Mons Vincenzo Paglia…

dal sito:

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=15223

OMELIA PER LA IV DOMENICA DI PASQUA

 (Anno B) (03/05/2009)

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

mons. Vincenzo Paglia 

Vangelo: Gv 10,11-18  
La Chiesa dedica questa domenica, chiamata del Buon Pastore, alla preghiera e alla riflessione per le vocazioni sacerdotali e religiose. Al centro della liturgia della Parola c’è l’appassionato discorso ove Gesù, in piena polemica con la classe dirigente d’Israele, si presenta come il « buon pastore », ossia come colui che raccoglie e guida le pecore sino ad offrire la sua stessa vita per la loro salvezza. E aggiunge: « Chi non offre la vita per le pecore non è pastore bensì mercenario ». In effetti, l’opposizione tra il pastore e il mercenario nasce proprio da questa motivazione: il pastore svolge la sua opera per amore, rinunciando al proprio interesse anche a costo della vita, mentre il mercenario agisce per interesse personale e per denaro, ed è quindi logico che nel momento del pericolo abbandoni le pecore al loro destino. L’evangelista, per indicare il pericolo, usa l’immagine del lupo che « rapisce e disperde » le pecore. È una sferzata durissima ai farisei, accusati di « pascere se stessi… e non il gregge » (Ez 34,2), mentre egli è venuto per « raccogliere in unità i figli dispersi » (Gv 11,52).
A guardare bene, l’opera del lupo è congeniale all’atteggiamento del mercenario. Ad ambedue, infatti, interessa solo il proprio tornaconto, la propria soddisfazione, il proprio guadagno e non quello delle pecore; si realizza così una alleanza di fatto tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Ne viene fuori una sorta di diabolica congiura degli indifferenti e degli egoisti contro i più deboli e gli indifesi. Se pensiamo all’enorme numero di persone che hanno smarrito il senso della vita e vagano senza mèta alcuna, se guardiamo i milioni di profughi che abbandonano le loro terre e i loro affetti in cerca di una vita migliore senza che nessuno se ne preoccupi, se osserviamo lo sbandamento dei giovani in cerca della felicità senza che ci sia chi gliela indichi, dobbiamo purtroppo constatare la triste e crudele alleanza tra i lupi e i mercenari, tra gli indifferenti e coloro che cercano solo di trarre vantaggi personali da tali sbandamenti. Scrive il profeta Ezechiele: « Le pecore del Signore si erano disperse su tutta la faccia della terra e nessuno andava in cerca di loro e se ne curava » (Ez 34,6).
Viene il Signore Gesù e con autorità grande afferma: « Io sono il buon pastore, o offro la vita per le mie pecore ». Non solo lo ha detto. Lo ha anche mostrato con i fatti, particolarmente nei giorni della Settimana Santa, quando ha amato i suoi fino alla fine, sino all’effusione del sangue. Sì, finalmente è arrivato in mezzo agli uomini chi spezza la triste e amara alleanza tra il lupo e il mercenario, tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Chi ha bisogno di conforto e di aiuto ora sa dove rivolgersi, sa dove bussare, sa dove muovere i suoi occhi e il suo cuore. Gesù stesso lo aveva detto: « Quando sarò elevato da terra, attrarrò tutti a me » (Gv 12,32). Tutto il Vangelo, in fondo, non parla d’altro che di questo legame tra folle disperate, abbandonate, sfinite, senza pastore e Gesù che si commuove per loro. « Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? » (Lc 15,4), dice il Signore. Si attribuisce a san Carlo Borromeo la frase: « Per salvare un’anima, anche una sola, andrei sino all’inferno ». Questo è l’animo del pastore: andare sino all’inferno, ossia sino al limite più basso per salvare una persona. Si può comprendere anche in questa prospettiva la « discesa agli inferi » di Gesù nel Sabato Santo. Neppure da morto, potremmo dire, Gesù si è fermato a pensare a se stesso; come buon pastore è andato a cercare chi era perduto, chi era ed è dimenticato, chi era ed è negli inferni di questo mondo che il male e gli uomini hanno creato.
Il Vangelo sembra dire che o si è pastori in questo modo o altrimenti non si può che essere mercenari. È vero, solo Gesù è « buon pastore »: o si somiglia a lui o si tradisce la sua stessa missione. Sappiamo bene di essere inadeguati, ed è il suo Spirito effuso nei nostri cuori che ci trasforma perché possiamo avere « in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù » (Fil 2,5). La odierna pagina evangelica – come questa domenica suggerisce – si applica anzitutto a coloro che hanno responsabilità « pastorali » nella Chiesa, in particolare ai vescovi e ai sacerdoti. Ed è opportuno, anzi doveroso pregare, e non solo oggi, perché i « pastori » somiglino sempre più a Gesù vero ed unico « buon pastore ». Ed è anche urgente intensificare la nostra preghiera perché il Signore doni alla sua Chiesa giovani che ascoltino l’invito ad essere « pastori » secondo il suo cuore, secondo la sua stessa passione d’amore.
Ogni comunità cristiana è chiamata tuttavia a guardare l’abbondanza della « messe » e la scarsità degli « operai ». Potremmo dire che c’è una responsabilità « pastorale » che appartiene a tutti i credenti, non solo ai sacerdoti. Ogni discepolo, infatti, è nello stesso tempo membro del gregge del Signore ma, a suo modo, anche « pastore », ossia responsabile dei fratelli, delle sorelle e del prossimo. In tante altre pagine della Scrittura emerge questa responsabilità « pastorale » di ogni credente. A partire dalle origini dell’umanità quando Dio chiese conto a Caino di suo fratello. E non fu certo esemplare la risposta di Caino: « Sono forse io custode di mio fratello? ». Sì, Caino era il custode (in questo senso si può dire che ne era il « pastore ») di Abele. E ogni credente deve esserlo per il suo prossimo. La preghiera perché nella comunità cristiana ci siano coloro che ascoltino la chiamata del Signore a servire la Chiesa nel ministero ordinato è parte della spiritualità di ogni credente e di ogni comunità cristiana. Ma è da un terreno pieno di « pastoralità », ossia di credenti che sanno preoccuparsi degli altri, che possono nascere « pastori » per l’oggi. Una comunità appassionata genera pastori. Il buon pastore, infatti, non è un eroe; è uno che ama; e l’amore porta là dove neppure sogneremmo di arrivare.
L’amore inserisce nelle preoccupazioni stesse del Signore: « Ho altre pecore che non appartengono a quest’ovile: anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e si farà un solo gregge e un solo pastore ». L’amore di Dio intenerisce il cuore: ci fa commuovere su coloro che vagano nelle nostre città in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ove trovare conforto, sui milioni di disperati che coprono la faccia della terra, su quell’uomo o quella donna vicina o lontana che aspetta consolazione e non la trova. Scrive Matteo: « Gesù vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore ». E aggiunge subito l’evangelista: « Allora disse ai suoi discepoli: pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe » (Mt 9,36-37). Tutta la comunità cristiana è unita al Signore Gesù che si commuove ancora sulle folle di questo mondo. E con lui prega perché non manchino gli operai per la vigna del Signore. Ma nello stesso tempo, ogni credente, davanti a Dio e davanti « ai campi che già biondeggiano per la mietitura » (Gv 4,35) deve dire con il profeta: « Ecco, Signore, manda me! » (Is 6,8).

Pasqua: “Ho saputo che c’eri!”

ne ho messe due di omelie perché prima ne ho scelta una, poi ho trovato questa sul sito ZENITH ed anche questa mi è piaciuta, così sono due…dal sito:

http://www.zenit.org/article-18003?l=italian

Pasqua: “Ho saputo che c’eri!”


di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 24 aprile 2009 (ZENIT.org).- “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: ‘Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che io ho’. Dicendo questo mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore disse: ‘Avete qui qualcosa da mangiare?’. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: ‘ Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi’” (Lc 24,36-44).

Questo Vangelo è la continuazione di quello che descrive il cammino del Signore risorto con i due discepoli diretti da Gerusalemme ad Emmaus in un clima di disillusione e profonda tristezza. Appena giunti alla meta essi avevano pregato Gesù di restare perché ormai il giorno era al tramonto, ed Egli li aveva accontentati entrando in casa “per rimanere con loro” (Lc 24,29). Gesù era però rimasto solamente per lo spazio di una cena, essendo sparito “dalla loro vista” (Lc 24,31) subito dopo avere spezzato il pane. In quell’istante tuttavia, anziché rimanere delusi, il loro cuore aveva ritrovato la gioia smarrita sul Calvario, e senza indugio erano ritornati a Gerusalemme.

Il fatto incredibile da annunciare era questo: il Signore morto, è vivo! Proviamo a immaginare l’impossibile: un nostro familiare amatissimo, sepolto in mattinata in cimitero, si presenta vivo, dopo cena, alla porta di casa…: uno shock! In effetti, sapere con certezza che è viva quella persona che, morendo, si è portata via anche la luce della nostra vita, sul cuore ha l’effetto di una defibrillazione: lo fa ripartire dopo l’arresto. Accertata una simile notizia non importerebbe più se il risuscitato sparisse ancora alla vista degli occhi: niente e nessuno può ormai toglierci la gioia di saperlo vivo. Infatti l’organo della “presenza” della persona amata è il cuore, non la vista.

Altrimenti che senso avrebbe, nel racconto di Emmaus, la precisazione che Gesù entrò in casa “per rimanere con loro” (24,29)? In effetti, il Signore, intendeva rimanere nel cuore dei due discepoli, poiché sapeva bene che sarebbe sparito poco dopo l’inizio della cena. In linea con questa osservazione sta il senso della domanda che Gesù, apparso inaspettatamente circa un’ora dopo al gruppo dei discepoli riuniti a Gerusalemme, rivolge loro: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” (Lc 24,38). La domanda è chiaramente retorica: se c’è stato il terremoto e la casa è crollata, chiedere “perché siete turbati?” significa: non temete, sarà ricostruita più bella di prima. E sulla bocca di Gesù l’implicita promessa riguarda una “ricostruzione” istantanea: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa, come vedete che io ho” (Lc 24,39).

Quello che sembrava il crollo di ogni speranza si è rivelato essere il compimento di tutte le promesse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, ne profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Perché Gesù dice: “Quando ero ancora con voi” come se adesso non fosse lì con i discepoli? Perché quel Gesù che i discepoli vedono ora, pur essendo la stessa persona di prima, non è più rivestito di carne come prima. E tuttavia, la sua non è una presenza inconsistente come quella di un fantasma. Un fantasma non ha ossa, muscoli ed articolazioni.., però, con altrettanta certezza, nemmeno il corpo risorto potrebbe essere visitato da un ortopedico!

Il significato, spiegherebbe il Signore, è questo: “un fantasma non è una persona viva, Io invece lo sono! Sono proprio io, sono il Gesù di prima! Il mio corpo terreno era il tramite della mia presenza, ma ora, senza dover passare per i vostri sensi esterni, entro “a porte chiuse” nel vostro cuore per mezzo dello Spirito, e rimarrò sempre con voi!”. Comprendiamo così anche il senso della domanda: “Avete qui qualcosa da mangiare?” (Lc 24,41). Il fatto che il Corpo di Gesù risorto mangi e beva è un segno e un messaggio per noi che risorgeremo in Lui: significa che d’ora in poi la nostra fame e la nostra sete sarà saziata mediante un pasto, un cibo che è il Corpo glorioso del Signore: fame e sete di Lui, fame e sete di Vita, fame e sete della sua Presenza!

Questa fame esistenziale di profonda felicità è saziata realmente da Gesù fin da questa vita, perchè tutto il vuoto scavato dentro di noi dal dolore e dalla morte può essere stracolmato oggi stesso dalla persona viva di Gesù, fonte di ogni bene. Ciò può accadere indipendentemente dai limiti della nostra corporeità fisica, dei sensi biologici e persino della sfera psichica, le cui ferite non sono certo inguaribili per lo Spirito creatore del Medico divino, effuso come balsamo il giorno di Pasqua.

Ecco, come per antonomasia di ogni esperienza di baratro interiore, l’angoscia di una donna che si scopre incinta: “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. (…) in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. (…) Mi si è fermato il cuore. (…) mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. (…) E’ paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre”(O. Fallaci, Lettera ad un bambino mai nato).

Il caso è cieco e fa paura come il terremoto, ma le sue scosse, in verità, sono al servizio della divina Provvidenza. Perciò svanisce la paura se la mamma comprende che non il caso e nemmeno la necessità governano il mondo, bensì quell’Amore di Dio che ha chiamato all’esistenza, così, il suo bambino. Per chi crede nella vittoria pasquale di questo Amore sull’odio e sulla morte, tutto concorre a realizzare il vero bene, anche un terremoto, ed egli ha continue prove di tale consolante certezza.

Per questa fede, la luce sfolgorante della notte di Pasqua trasforma le parole dell’angoscia nel canto della speranza: “Stanotte ho saputo che c’eri!..in quel buio s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri! Esistevi! Mi si è fermato il cuore…” (O. Fallaci). Altro genere di arresto per il cuore: fermato perchè la gioia lo fa trasalire al punto da venir quasi meno.

Ho saputo che c’eri! Potrà mai una madre che ha abortito ritrovare questa gioia a causa del suo bambino? Potrà mai sentirlo muovere nel suo grembo? E’ la domanda di Nicodemo a Gesù: “Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Gv 3,4). Cosa occorre fare? Gesù invita Nicodemo ad avere fede: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16), e Pietro oggi indica la via pratica: “Ora fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza – (uccidendo ‘l’autore della vita’, come in ogni aborto) – convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,19).

Avere fede in Gesù significa incontrarLo, anzitutto accostandosi con fiducia al trono della sua Misericordia, che è il sacramento della confessione. La confessione, infatti, aumenta ogni volta la fede, come una trasfusione di sangue aumenta l’energia vitale del corpo gravemente anemico. Ma la confessione è il segno di un rapporto nuovo con il Signore risorto, un’amicizia che chiede molti altri incontri: l’incontro con Gesù Eucaristia, l’incontro con la sua Parola, l’incontro con il padre spirituale, l’incontro con ogni prossimo da accogliere, insomma: l’incontro con tutto ciò che giorno per giorno la sua volontà vuole che io faccia.

Man mano che la fede, frutto di questi numerosi incontri con Gesù, va prendendo possesso del mio cuore, della mia mente, della mia anima e delle mie forze, accade questo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Ecco come ne parla Benedetto XVI: “Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza.(…) La grande esplosione della Risurrezione ci ha afferrati nel battesimo per attrarci. Così siamo associati ad una nuova dimensione della vita nella quale, in mezzo alle tribolazioni del nostro tempo, siamo già in qualche modo introdotti. Vivere la propria vita come un continuo entrare in questo spazio aperto: è questo il significato dell’essere battezzato, dell’essere cristiano. E’ questa la gioia della Veglia pasquale. La Risurrezione non è passata, la Risurrezione ci ha raggiunti e afferrati. Ad essa, cioè al Signore risorto, ci aggrappiamo e sappiamo che Lui ci tiene saldamente anche quando le nostre mani si indeboliscono. Ci aggrappiamo alla sua mano, e così teniamo le mani anche gli uni degli altri, diventiamo un unico soggetto, non soltanto una cosa sola. IO, MA NON PIU’ IO: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della Risurrezione dentro il tempo” (Omelia durante la Veglia di Pasqua, 15 aprile 2006).

Ho saputo che c’eri, bambino mio! L’ho saputo nell’unico modo in cui è possibile saperlo, poiché corrisponde al Luogo vivo dove ora ti trovi. Come quando quel Gesù Risorto presso il quale stai ora si trovava nel grembo di Maria, e bisognava incontrare Lei per incontrare Lui. Così ora so che per incontrare te devo incontrare Lui; per incontrare Lui devo entrare in me, perché Cristo vive in me e tu sei dentro di Lui che vive in me. Ecco, mio Signore e mio Dio, io non sapevo realmente che Tu ci sei, che sei vivo in mezzo a noi e dentro di me. Lo sapevo per sentito dire, ma ora i miei occhi, quelli della fede, ti vedono più di quanto veda me stessa. E sono piena di gioia e di stupore, perché in Te vedo anche il mio bambino che non ho visto mai.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

III domenica di Pasqua: La promessa portata a compimento anche per noi (omelia)

dal sito:

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=15154

La promessa portata a compimento anche per noi

padre Gian Franco Scarpitta 

III Domenica di Pasqua (Anno B) (26/04/2009)

Vangelo: Lc 24,35-48  

Più che il racconto dell’apparizione ai discepoli, il vero culmine del brano evangelico di oggi è il commento finale di Gesù, che dopo aver dissipato ogni stupore e ogni dubbio insito nei suoi con la consumazione di una porzione di pesce arrostito, rammenta loro: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni.” Un’espressione che richiama immediatamente un insegnamento precedente, sempre riportato in Luca: “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse tutte queste sofferenze per entrare nella gloria?” (Lc 24, 25 – 26)
Anche se Gesù deve necessariamente mostrare le mani e il costato e consumare (pur non avendone bisogno, nel suo corpo glorificato) una porzione di pesce arrostito per togliere ogni timore e dissipare ogni dubbio, egli si rivolge ai discepoli soprattutto con le espressioni suddette, perché sono proprio quelle che danno spiegazione risolutiva a quanto essi stanno vedendo: che il figlio di Dio soffrisse, fosse torturato e fosse messo a morte era necessario. Una necessità non caratterizzata dall’uomo o dalla storia, ma determinata dal volere divino di salvezza, per la quale il padre aveva impostato che il Figlio subisse patemi e venisse sottomesso alla frustrazione e alla morte di croce ai fini di resuscitare. Il Cristo Salvatore doveva passare attraverso il patibolo, spirare di morte violenta ed essere consegnato alla terra (al sepolcro) perché Dio realizzasse sugli uomini il suo piano di salvezza perché quello e non altro era sempre stato, sin dall’inizio dei tempi, il progetto divino nei riguardi dell’uomo: tutti i particolari della morte e della resurrezione erano stati preordinati e preimpostati come descrivono le Scritture; poiché infatti Mosè, Davide, i profeti e le varie prefigurazioni bibliche parlavano già di qualcosa che era in germe, ossia la resurrezione di Gesù Cristo dai morti, e che adesso ha trovato compimento il mattino dopo il Sabato, nell’evento della tomba vuota.
Gesù Risorto è insomma l’adempimento delle antiche promesse messianiche, il culmine della rivelazione e il compimento di ogni profezie di cui parlava la Bibbia.
Perché allora si stupiscono i discepoli nel vedere il Signore Risorto e glorificato? Non dovrebbero piuttosto esultare e rendere gloria a Dio per un avvenimento che ci si aspettava e che ora si è definitivamente realizzato? Senza il rischio di esagerare, ci azzardiamo a dire che l’atteggiamento dei discepoli avrebbe dovuto avere le fattezze proprie dei tifosi allo stadio durante un match importantissimo, quando la squadra preferita messe a segno una rete importante e decisiva: tutti quanti si esulta di gioia incontenibile, perché ci si aspettava quel goal che finalmente è arrivato. O almeno lo si sperava con fervore.
Nei discepoli di Gesù c’è gioia, ma si tratta pur sempre di una letizia mista a stupore e a meraviglia, propria di chi crede di vedere un fantasma e il mostrare mani e piedi è la soluzione più conveniente perché finalmente si risvegli in tutti il vero sentire e sperare che è proprio della fede; la verità è che il torpore e la cecità degli apostoli avevano impedito di vedere nell’apparso maestro risorto l’adempimento delle promesse secondo quanto detto dai profeti e dalle Scritture.
Cristo dal canto suo, una volta risuscitato, appare deliberatamente e nella forma convincente e determinata ai discepoli e come dirà poi Paolo comparirà anche a più di 500 persone oltre che a lui medesimo, recando la pace, manifestando il suo innalzamento glorioso, comunicando (Giovanni) il dono dello Spirito Santo e invitando i suoi a “fare discepoli tutti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Le apparizioni, proprio perché molteplici e variegate, sono la riprova della realtà della resurrezione, l’affermazione effettiva di questo mistero indicibile di vita nel mondo degli apostoli, dei discepoli e di tutti gli uomini e hanno pertanto un valore incontrovertibile.
Ma la ragione del loro verificarsi fenomenologico è sempre la stessa: il compimento messianico di quanto descrivono le Scritture, da Abramo a Mosè fino ai profeti e quello che deve colpire nel segno è la centralità di Cristo Signore Messia Glorioso che appare non perché vuole rendere soddisfazione a uomini titubanti ed incerti, ma perché vuole affermare la propria grandezza da Risorto vincitore della morte, capace di superare la prova del supplizio con la vittoria sul sepolcro.
Infatti è proprio sui questo che fa leva il discorso aspro e recriminatorio di Pietro che rende testimonianza dell’evento: prima ancora di rendersi testimone della tomba vuota e delle apparizioni, egli esclama: “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato”, e più avanti (v. 22 e ss) aggiungerà: “Mosè infatti disse: Il Signore vostro Dio vi farà sorgere un profeta come me in mezzo ai vostri fratelli; voi lo ascolterete in tutto quello che egli vi dirà. E chiunque non ascolterà quel profeta, sarà estirpato di mezzo al popolo. Tutti i profeti, a cominciare da Samuele e da quanti parlarono in seguito, annunziarono questi giorni.”
e questo è sufficiente per rendere ragione sul motivo per cui Gesù non era sceso dalla croce ma aveva affrontato il patibolo: la necessità di attraversare il patimento per manifestare adesso il suo innalzamento vittorioso di Signoria vera e di gloria definitiva e pertanto è ora assodato che il vero Messia e Salvatore promesso è proprio lui.
Il tempo della Chiesa, che intercorre fra la Resurrezione – Ascensione del Signore fino alla sua venuta finale nel giorno del giudizio, è il nostro momento, caratterizzato dall’annuncio e dalla testimonianza del Signore risorto che vive immortale e che non conosce sconfitta umana se non la durezza e l’ostinazione del cuore; quello che impomne che noi davvero ci appropriamo, affascinandocene, del mistero del Risorto che sfolgora la sua gloria e che ci chiama sempre a testimoni della sua fiducia e della nostra speranza. Si tratta del tempo che deve connotare tutti i credenti come contrassegnati dalla gioia e dall’esultanza e dallo spirito fervente della missione che lo stesso Risorto ci ha affidato.

Omelia II Domenica di Pasqua (2006 Anno B) : Abbiamo visto il Signore!

dal sito:

http://www.vescovoriboldi.it/Omelie/2006/apr/230406.htm

Omelia del giorno 23 Aprile 2006

II Domenica di Pasqua (Anno B)

Abbiamo visto il Signore!
 

Ci sono momenti nella vita in cui verrebbe voglia di chiudersi in se stessi nel silenzio dell’anima, resa muta da fatti, sofferenze, tragedie che ci tolgano la stessa voglia di vivere…come se in noi ci fosse solo dolore e fallimento e la vita fosse giunta ad un insuperabile traguardo che sbarra ogni spiraglio di speranza.

Così deve essere stata, secondo il Vangelo, l’anima degli Apostoli dopo la morte del Signore. Quanta speranza avevano posto in Lui! Lo avevano seguito, abbandonando tutto, certi di avere trovato “il TUTTO”. Ma quella incredibile “resa del Maestro”, che si consegna a chi era venuto per arrestarLo, Lui, non solo l’Innocente, ma addirittura la speranza per tutti, che si lascia portare via, senza alcuna difesa!

Un andare incontro alla passione che la dice lunga sul significato dell’amore che si dona, perché l’amico, noi, diventassimo liberi, amati.

Vedere poi Gesù, depredato di tutto, dalla dignità, alla vita, fino a essere “meno che nulla sulla croce”, divenuto scherno di chi forse si meravigliava sua impotenza! Conoscevano la sua vita, fatta di miracoli, di eventi che solo Dio poteva compiere e Lo invitavano a mostrare questa sua origine divina, come un insulto. E Gesù taceva, si offriva al Padre come Agnello immolato, sapendo che questa è la legge dell’amore che si fa dono a chi ha necessità di essere liberato solo dall’amore.

Quelle mani di Gesù fermate dai chiodi e quindi impedite anche solo nel dare una carezza, di imporsi sui malati e guarirli, erano destinate a essere le nostre mani di vescovi, di sacerdoti, di fedeli, che si imporranno per farci liberi dal peccato nel Battesimo e nel sacramento della Penitenza: rivestiti della potenza di Gesù, si imporranno sul capo dei cresimati perché siano testimoni della Resurrezione e quindi, con la forza dello Spirito, vivere da risorti: sul capo di noi sacerdoti e vescovi per continuare con la Sua Potenza la missione di salvezza nel mondo.

Davvero benedette quelle mani e quei piedi fissi sulla croce e che nella Chiesa sono nei secoli mani sempre tese verso l’uomo, piedi sempre in cammino alla ricerca dell’uomo, per liberarlo dalla pericolosa solitudine senza Dio.

Gli Apostoli amavano tanto Gesù: avevano accettato senza esitazione di seguirLo, condividendo tutto con Lui, forse non sapendo inizialmente la grandezza della loro vocazione.

E per la paura di fare la stessa fine si erano nascosti.

“Ma la sera di quello stesso giorno – racconta Giovanni l’Apostolo – il primo giorno dopo il sabato (la domenica che per noi è il giorno del Signore), mentre eran chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. E Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. E dopo avere detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,19-31).

Deve essere stata immensa la gioia e lo stupore degli apostoli a quella improvvisa e forse incredibile apparizione. Allora, si saranno ricordati a vicenda quello che Gesù continuava a ripetere: “Il figlio dell’uomo sarà consegnato ai farisei che lo flagelleranno e lo crocifiggeranno…Ma il terzo giorno risusciterà”. Ed ora era lì circondato di una gloria immensa: una gloria che era uno schiaffo alla paura, alla stupidità degli uomini che credevano forse davvero che ci si potesse “liberare” da Dio, come se questo fosse un trionfo e non un affidarsi all’inferno senza di Lui. Aveva ragione ed ha ragione, oggi, Gesù, davanti a chi crede di oscurare o “uccidere Dio”: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Abbiamo bisogno anche noi, tante volte soggetti a prove che sembrano il nostro venerdì di spavento, in cui tutto si fa “nero”, di guardare, alzare gli occhi al cielo e vedere la gloria del Risorto, che è la sola speranza che dà respiro alla nostra vita.

Abbiamo bisogno anche noi di vedere Gesù risorto o guardare almeno a Lui, per non cadere nella trappola delle tante illusioni che il mondo offre. “Risorgerò” è in fondo la certezza che ci è compagna sempre ed è come il respiro dell’anima.

Purtroppo “Oggi, afferma Paolo VI, tanto si fa e si parla, per dare al mondo un volto “umano”, ma spesso si sottintende un volto privo di anima umana, un volto materializzato dalla fallace speranza di trarre dalla terra quanto basta a fare l’uomo felice e completo: si crede che la soluzione dei problemi economici, l’esplorazione scientifica della natura possano liberare e redimere l’uomo; che lo sforzo umano, da solo, valga a raggiungere col possesso del mondo sensibile, la sua vera fortuna” ( Pasqua 1969).

Basterebbe , se si è onesti nella ricerca della verità dell’uomo, dare un’occhiata a questo nostro tempo, pieno di contraddizioni, in cui sembra che trionfi l’egoismo che è la vera morte dell’amore.

E quando l’amore viene messo in croce, ad andare in croce siamo noi, senza però il respiro della resurrezione.

Lo descrive bene cosa voglia dire vivere da risorti il racconto che gli Atti degli apostoli fanno della vita delle prime comunità. Vale la pena di approfondirlo e specchiarsi in loro, confrontandolo con quanto crediamo e siamo noi oggi.

“La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra di loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra di loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 32-35).

E poco prima, sempre parlando delle prime comunità, raccontano gli Atti: “Ogni giorno frequentavano il tempio. Spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di cuore. Lodavano Dio ed erano ben visti da tutta la gente. Di giorno in giorno il Signore faceva crescere il numero di quelli che giungevano alla salvezza” (At 2, 46-49).

Vivevano, in altre parole, lo stupore della Resurrezione che gli apostoli con grande forza annunciavano. Come a dire che agli occhi di tutti quelli che sentivano, sembrava aprirsi la bellezza del ritorno a casa, di avere ritrovato il senso e la bellezza della vita nella fede.

Ancora oggi, tanti, ma tanti fratelli nella fede, vivono questo stupore e questa gioia. Come sempre non fanno cronaca: ma sono quei fratelli e quelle sorelle che quando li incontri ti restituiscono quel sorriso dell’anima che il mondo cerca di spegnere con il suo rumore.

Ricordo mia mamma, che viveva davvero la semplicità dei primi cristiani, con una fede fatta vita, con un amore che era il pane della vita.

La sua vita era un vero cammino verso la Pasqua. Un giorno le feci notare la sua semplicità di vita, che sembrava provvisorietà di una veglia che attende la festa. Alla mia domanda del perché questa semplicità mi rispose: “Che vuoi? Per arrivare in Paradiso e risorgere non occorre appesantirsi di cose di questo mondo. Bisogna fare crescere le ali dell’anima per il giorno in cui Dio mi chiamerà. E quel giorno sarà la vera Pasqua che attendo”.

Quando ero parroco a Santa Ninfa in Sicilia e il terremoto mi aveva costretto a vivere in una modesta baracca, la gente si stupiva che facessi nulla per costruirmi una casa, mentre mi battevo per la ricostruzione della loro, risposi: “La mia casa me la sto costruendo giorno per giorno con la fede e la carità, non qui, ma in Paradiso”.

Non è facile entrare in questa visione pasquale della vita. Lo dimostra il Vangelo di oggi con l’episodio di Tommaso, che non vuole credere agli altri apostoli: “Abbiamo visto il Signore!”. E lui, “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mano nel suo costato, non crederò”. Tornò Gesù, invitò Tommaso a fare quello che aveva chiesto. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” E Gesù: “Perché hai veduto, hai creduto: beati coloro che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 19-31).

E noi alle volte siamo come Tommaso. Ci è difficile, guardando quello che succede in noi e attorno a noi, che ci sia un evento che supera tutto e fa pulizia di paure ed errori, Cristo Risorto.

Bisogna che il Signore ci doni quella fede forte, coerente, che ci abitui a guardare verso il cielo per non farsi attirare dalla terra. A volte basterebbe incontrare chi è testimone di questa vita da risorti.

Chi di noi non ricorda il giorno della morte e resurrezione dell’amato Giovanni Paolo II? Lui era là, nella sua semplice bara, in mezzo alla Piazza, circondato dalla ammirazione dell’intera umanità. Ma si aveva l’impressione che lui non fosse morto, era risorto, e finalmente “ha visto faccia a faccia il Signore!” I solenni funerali più che una celebrazione della morte, sembrarono la celebrazione della Pasqua. Quella che vorremmo tutti ed auguro a tutti. 

Antonio Riboldi – Vescovo –

Dall’«Omelia sulla Pasqua» di un antico autore. – Ufficio delle Letture, mercoledì 15 aprile

MERCOLEDÌ 15 APRILE – OTTAVA DI PASQUA

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura

Dall’«Omelia sulla Pasqua» di un antico autore.
(Disc. 35, 6-9; PL 17, 696-697)

Cristo autore della risurrezione e della vita
L’apostolo Paolo ricordando la felicità per la riacquistata salvezza, dice: Come per Adamo la morte entrò in questo mondo, così per Cristo la salvezza viene nuovamente data al mondo (cfr. Rm 5, 12). E ancora: Il primo uomo tratto dalla terra, è terra; il secondo uomo viene dal cielo, ed è quindi celeste (1 Cor 15, 47). Dice ancora: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra», cioè dell’uomo vecchio nel peccato, «porteremo anche l’immagine dell’uomo celeste» (1 Cor 15, 49), cioè abbiamo la salvezza dell’uomo assunto, redento, rinnovato e purificato in Cristo. Secondo lo stesso apostolo, Cristo viene per primo perché è l’autore della sua risurrezione e della vita. Poi vengono quelli che sono di Cristo, cioè quelli che vivono seguendo l’esempio della sua santità. Questi hanno la sicurezza basata sulla sua risurrezione e possederanno con lui la gloria della celeste promessa, come dice il Signore stesso nel vangelo: Colui che mi seguirà, non perirà ma passerà dalla morte alla vita (cfr. Gv 5, 24).
Così la passione del Salvatore è la vita e la salvezza dell’uomo. Per questo infatti volle morire per noi, perché noi, credendo in lui, vivessimo per sempre. Volle diventare nel tempo quel che noi siamo, perché, attuata in noi la promessa della sua eternità, vivessimo con lui per sempre.
Questa, dico, è la grazia dei misteri celesti, questo il dono della Pasqua, questa è la festa dell’anno che più desideriamo, questi sono gli inizi delle realtà vivificanti.
Per questo mistero i figli generati nel vitale lavacro della santa Chiesa, rinati nella semplicità dei bambini, fanno risuonare il balbettio della loro innocenza. In virtù della Pasqua i genitori cristiani e santi continuano, per mezzo della fede, una nuova e innumerevole discendenza.
Per la Pasqua fiorisce l’albero della fede, il fonte battesimale diventa fecondo, la notte splende di nuova luce, scende il dono del cielo e il sacramento dà il suo nutrimento celeste.
Per la Pasqua la Chiesa accoglie nel suo seno tutti gli uomini e ne fa un unico popolo e un’unica  famiglia.
Gli adoratori dell’unica sostanza e onnipotenza divina e del nome delle tre Persone cantano con il Profeta il salmo della festa annuale: «Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso» (Sal 117, 24). Quale giorno? mi chiedo. Quello che ha dato il principio alla vita, l’inizio alla luce. Questo giorno è l’artefice dello splendore, cioè lo stesso Signore Gesù Cristo. Egli ha detto di se stesso: Io sono il giorno: chi cammina durante il giorno non inciampa (cfr. Gv 8, 12), cioè: Chi segue Cristo in tutto, ricalcando le sue orme arriverà fino alle soglie della luce eterna. E’ ciò che richiese al Padre quando si trovava ancora quaggiù con il corpo: Padre, voglio che dove sono io siano anche coloro che hanno creduto in me: perché come tu sei in me e io in te, così anche essi rimangano in noi (cfr. Gv 17, 20 ss.).

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